comunicati
2014 |
Le mani sulle banche popolari
Il governo Renzi vuole mettere le
mani sulle banche popolari. Lo fa con un intervento sul tuf testo unico di
finanza, cancellando il principio fondamentale del voto capitario e con la
trasformazione in SPA. Lo fa con motivazioni risibili come l'eccessivo numero
dei banchieri e la scarsa erogazione del credito. Lo fa in contraddizione con la
recente introduzione del voto plurimo che consente nelle societá quotate di
accrescere il peso degli azionisti
stabili, tutelando il capitalismo nostrano. La veritá è che si vogliono mettere
le mani sulle banche popolari che sono quelle che rappresentano un quarto del
sistema del credito e che hanno garantito in questi anni difficili lo stesso
credito ai territori con la loro presenza di prossimità, capillare.
Ė scandaloso il silenzio dei grandi organi di informazione, ma sappiamo bene a
chi appartengono e gli interessi che intendono tutelare. Il governo Renzi si
appresta dunque a compiere una manovra che i poteri forti in questi anni hanno
sempre tentato senza riuscirci, perchè l'abbiamo respinta e la respingiamo con
vigore.
Con il governo Renzi in un Parlamento distratto sará evidentemente la#voltabuona.
!!!
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Per un progetto
politico nel segno del popolarismo
Creare una alternativa allo stato attuale delle cose nella linea del popolarismo
che significa innanzitutto ascoltare la gente. Esistere con il popolo come
scriveva Maritain, perchè il popolo c'è. Non avere il timore di difendere i
valori fondamentali della vita, della famiglia che non devono risiedere solo
nelle coscienze, ma anche nei programmi e nella azione politica quotidiana.
Avere una visione progettuale chiara perchè la coerenza spinta fino in fondo può
portare successi, dunque presentarsi alternativi con una distinzione chiara.
Questa è una esigenza del Paese che richiede un progetto politico alternativo
con una vocazione al governo.
La ispirazione cristiana è fondamentale per rivendicare una cultura politica del
popolarismo che non si confonde con il socialismo.
In una fase come questa il primo passo è ripresentarci con una federazione ricca
di sensibilitá diverse. Anche il PPE si dimostra insufficiente rispetto ad una
rappresentanza dei valori più compiuti del popolarismo più autentico e della
solidarietá dei popoli europei.
Riscoprire la politica come alto atto di amore per il prossimo.
P.S
Sono alcune delle linee di azione emerse nell'incontro del convento di San Sisto
dedicato a San Domenico perchè lì operò. Mentre svolgevamo le nostre riflessioni
le suore domenicane nel silenzio mediatico distribuivano ai poveri il pane
quotidiano come missione di amore verso chi soffre.
Nella cappella della chiesa c'è una bellissima immagine dell'abbraccio tra San
Francesco insieme a San Domenico, simbolo di vera fraternitá, un tesoro
nascosto della Roma cristiana.
Roma, 10 gennaio 2015
Intervento di Mario Tassone
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Abbraccio tra San Francesco e San Domenico
la vera fraternitá |
On. Mario Tassone
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Intervento
al convento San Sisto con Filippo Peschiera
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Confronti...
In
un confronto televisivo su La7 il capogruppo del Pd Roberto Speranza
rivendicava di guidare il gruppo parlamentare più numeroso della Camera
dei Deputati dall'avvento della Repubblica, ben 307, superiore perfino a
quello della DC del 1948 che furono 305. Vi sono differenze sostanziali.
Quei 305 ottenuti da De Gasperi derivarono da 12.741.299 voti assoluti
su 26.854.203 votanti pari al 48,5 per cento del corpo elettorale. La
percentuale di partecipazione al voto fu del 92,2.
I 307 deputati attuali del gruppo Pd derivano da numeri elettorali
diversi e soprattutto dalla applicazione della legge Porcellum con
premio di maggioranza alla coalizione prevalente guidata dal PD. Il
Porcellum è profondamente differente dalla legge proporzionale pura in
vigore nel 1948. Il Porcellum sará dichiarato incostituzionale dalla
Consulta proprio sulla assenza di una soglia minima per l'applicazione
del premio che ora si vuole elevare al 40 per cento.
La consistenza del gruppo Pd è lievitata fino a 307 per le adesioni dei
deputati eletti nelle liste di sinistra ecologia e libertá e da quelli
eletti in Scelta Civica. Dunque sono stati ben 15 i deputati che sono
approdati al PD.
Il partito Democratico nelle elezioni del 2013 ha infatti ottenuto 292
seggi con 8.646.034 pari al 25,43 per cento. La partecipazione al voto è
stata del 75,20 per cento. La coalizione di centrosinistra ha prevalso
sulla coalizione di centrodestra per una differenza di 126.793 voti
assoluti e dello 0,37 per cento in valore relativo. A quasi paritá di
voti, la differenza in termini di seggi è stata di 216!
È evidente il tentativo di usare le armi della propaganda televisiva per
esaltare risultati che sono ben lontani da quelli della prima
repubblica, soprattutto dimenticando gli effetti del sistema elettorale.
Ed è grave che si voglia utilizzare quella legge elettorale dichiarata
incostituzionale per alterare gli equilibri costituzionali.
V'è una autoesaltazione del PD nel dimostrare una forza superiore a
quella di De Gasperi e di Fanfani. Non è così. Basta leggere i numeri.
La prossima esaltazione verrá dopo la introduzione della nuova legge
Acerbo?
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Fare
chiarezza sulle cooperative degenerate
Le vicende della inchiesta
romana su "Mafia Capitale" ha posto in luce una questione politica che
va oltre quella giudiziaria.
Si tratta della formula cooperativa al centro della inchiesta, che è
stata scelta per aggirare i controlli di qualsiasi genere.
Quando nel 2001, in
occasione della riforma del diritto societario tentammo di mettere
ordine nel sistema mutualistico, la sinistra definì quella operazione
"vendetta politica". Si voleva, al
contrario, mettere ordine, garantire le cooperative vere, quelle che
perseguono effettivi fini di mutualitá come disciplinati dalla Carta
costituzionale, evitando che alcuni soggetti, falsamente
cooperativistici possano utilizzare le agevolazioni sia fiscali che
finanziarie, di cui sono beneficiari. Non possono essere certo
considerati soggetti cooperativistici da garantire, quei soggetti quei
soggetti con un forte squilibri nel rapporto tra gli apporti dri soci e
quelli dei terzi sia lavoratori dipendenti che autonomi. Di qui la
battaglia per specificare il requisito della prevalenza del carattere
mutualistico quale condizione essenziale per caratterizzare la
cooperazione costituzionalmente riconosciuta.
Quando la cooperazione degenera diventando una holding finanziaria, con
pochi soci e migliaia di dipendenti, perde di vista i caratteri fondanti
della mutualitá e si arriva alla fotografia impressa dalla inchiesta
romana.
Quello che lascia sconcertati è anche il silenzio dei vertici del
movimento cooperativo rosso di fronte ad eventi che determina un danno
reputazionale di tutto il movimento anche di quello buono che lavora nel
silenzio e nel rispetto delle regole.
È evidente che sono mancati i controlli, soprattutto sui bilanci così
come sul procedimento di erogazione delle risorse pubbliche.
Sorprende che dopo la
pubblicazione della foto che ritrae Poletti, allora capo della coop,
con i protagonisti di inchiesta giudiziaria così delicata non abbia
ancora portato il PD ad una seria riflessione sulla cooperazione
degenerata che merita di essere affrontata senza indugi e con il
decisionismo utilizzato in altre situazioni.
E Poletti non pensa di
fare un passo indietro?
Roma, 14 dicembre 2014
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Dove va l'Italia
"Dove
va l'Italia" è stato il tema di un incontro promosso dalla Associazione ex
parlamentari, con il Prof. Giuseppe De Rita oggi a Roma nella sala delle Colonne
a Palazzo Marini.
Il
Presidente del CENSIS, con la consueta franchezza e chiarezza espositiva, non ha
nascosto la sua preoccupazione per la mancanza di attenzione sui soggetti della
societá: le famiglie e le imprese. Le famiglie in questi anni di crisi si sono
patrimonializzate. Sono diventate più ricche per la crescita dei depositi
bancari, delle polizze vita come modo di costruire il futuro, per maggiori fondi
investimento (nei ultimi 18 mesi + 30 miliardi al trimestre), per un crescente
risparmio in nero derivante dall'allargamento del sommerso.
Il
volume di risparmio incredibile numeri porta a parlare di boom del risparmio.
Per le famiglie va detto che dopo il can can di questi mesi, gli ottanta euro
non sono andati a sviluppo ma a risparmio. Che cosa è successo, che cosa
succedera allora? Il Paese è fermo rispetto alle pagelle della Unione Europea o
della pronuncia della agenzia di rating Standard & Poors. Perchè nessuno va a
vedere le truppe come stanno? Non investiamo, non compriamo e mettiamo da parte;
meglio stare liquidi. Ritornano le paure, dalla malattia alla vecchiaia. Si fa
la cosa più statica: si risparmia. Le imprese aumentano il patrimonio perchè non
hanno idee sul prodotto da lanciare e produrre, dall'abbigliamento alla casa e
alle macchine; si preferisce il taxi. Si preferisce investire sulla legge
Sabatini per le macchine utensili che significa stare al passo con i tempi nella
innovazione tecnologica, piuttosto che in nuovi capannoni. Dunque famiglie e
imprese sono due soggetti fermi e se ripartono lo fanno con mezzi propri perchè
hanno sofferto troppo. Le imprese non hanno prospettive di mercato.
Il
futuro dell'Italia è legato alla ripartenza, alla rimobilitazione i milioni di
famiglie e di imprese. Dove vogliono andare le famiglie e le imprese italiane?
Purtroppo si discute del nulla perchè non c'è alcuna capacitá di indagine. Dove
va l'Italia in termini organizzativi e di investimenti? V'è la solitudine dell'
impresa. Nessuno chiede nulla. Mancano i partiti, i sindacati, i corpi
intermedi. La finanza internazionale vive a sè, vivono tra loro, non scendono
sulla terra. Il primo presidente della Banca Mondiale nel 1944 seppe guardare
allo sviluppo e al planning. Sapeva fare cerchio con Menichella, Giordani,
Saraceno. Oggi non c'è nessun cerchio. Oggi vivono in se stessi. Sono gruppi
omogenei a se stessi. Quella che è stata rappresentata è la prima giara. Poi c'è
la seconda giara. Renzi fa politica della politica. Fai tutto ma non fai nulla.
Puoi fare tutto come riforme, leggi, se poi mancano i decreti attuativi. Il
mondo istituzionale vive di se stesso. Tutto gira verticosanente, ma rimane nel
social network. Poi c'è il sommerso che dicevano che era un fenomeno
transitorio, ma è ritornato. Oggi è tutto sommerso da Prato a Valenza. È un
mondo che si chiude, non si apre; mentre prima erano divertiti oggi sono
incupiti dentro. È un ambiente che non appare.
Che
societá è? Ci sono mondi asistemici che non comunicano. La cultura del comando
non può essere cultura della politica. Se la politica non smuove soggetti che
stanno fermi e i mondi non comunicano tra loro, se non smuove i tempi, corre tre
rischi: 1) slittare nel populismo e nel gentismo con interpreti diversi come
Berlusconi, Renzi, Salvini; 2) slittare nell'autoritarismo. In tutta Europa
cresce voglia di autoritá. La societá disarticolata ha bisogno di chi la regge;
non solo Putin, ma anche Merkel. In questo senso siamo vaccinati anche rispetto
a Tambroni. Populismo e autoritarismo smantellano la mediazione; è una critica
alla cultura moderna. 3) il secessionismo sommerso che è il terzo pericolo.
Girando l'Italia si vede un potere diverso rispetto al potere statuale. Ci sono
cacicchi locali, padroni delle tessere si muovono sulle primarie e fanno
secessionismo sommerso.
La
politica divrebbe rivolgersi in avanti interpretando aspettative di famiglia e
imprese per dividersi dai tre pericoli.
I
giovani italiani sono differenziati tra narcisi rappresentanti di un decadimento
antropologico e giovani seri e preparati, ma che vanno accompagnati. La politica
non è riuscita a capire le aspettative del tempo come fu con il piano casa di
Fanfani o con il progetto auto di Valletta. Oggi i giovani manager stanno
all'estero, non giocano dentro.
Oggi
c'è una crisi della democrazia perchè nessuno, oltre Moro e Berlinguer, ha
saputo dare orientamento. Oggi ci sono tanti soldi e poche idee. Il riassetto
dell'esistente vince. Non dobbiamo avere nostalgia di risettare. Vale per tutto
il paese anche per il nordest. I sistemi si stanno risettando.
Roma,
10 dicembre 2014 |
I cattolici
e la politica di
Domenico Rosati
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Logica della mediazione o della
presenza, valori componibili o non negoziabili, partito unico o «tensione
unitiva», alleanze omogenee o patti con il diavolo.
La partecipazione dei cattolici alla
vita politica italiana ha attraversato numerose fasi e ha collaudato schemi che
oggi risultano superati. Ripercorrere le strade già battute serve a capire dove
si è arrivati e a comprendere le glorie e le miserie delle imprese compiute. È
la condizione necessaria, non sufficiente, per intraprendere un nuovo corso.
Solo una ricognizione sincera e, dunque, impietosa consente di guardare avanti
liberi dall’incubo del già vissuto. La posta in gioco è il mutamento della
qualità dell’azione politica, il recupero della sua funzione di servizio
anziché di pratica del potere. Con un fine di umanizzazione della vita che
rigetta la cultura dello scarto insita nella logica mercantile che domina la
produzione e gli scambi.
Queste parole dell'editore per
richiamare i contenuti del libro di Domenico Rosati giá Presidente nazionale
delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) dal 1976 al 1987, poi
senatore della Repubblica dal 1987 al 1992. Rosati ha lungamente collaborato con
Caritas Italiana per i problemi delle politiche sociali, è commentatore per
quotidiani e periodici e autore di saggi, tra cui Biografia del centrosinistra.
1945-1995 (Sellerio 1995) e Il laico esperimento. Lavoratori cristiani tra
fedeltà e ricerca. 1976-1987 (Edup 2006).
Oggi sul libro di Rosati si sono
confrontati Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci, Giovanni
Bottalico, Presidente delle ACLI, Alessandro Plotti, vescovo emerito di Pisa e
Gerardo Bianco, presidente associazione ex parlamentari.
Ha introdotto i lavori Claudio Sardo
giá direttore dell'Unitá. Naturalmente non sono mancati i richiami alle parole
di Papa Francesco rispetto alle disuguaglianze, alla societá della
disintermediazione, alle sollecitazioni ai cristiani a non restare nelle
retrovie, ad avere più coraggio.
Da uno storico laico come Vacca v'è
il riconoscimento del magistero del Papa che parla a tutti anche ai non credenti
che possono trovare terreno di ricerca comune sulla globalizzazione, sulla
economia, sulle guerre. Riconosce l'errore della sinistra che ha preferito la
strada della contrapposizione sulla fecondazione assistita, che leader del
passato non avrebbero compiuto.
Botralico è rimasto sui temi
sociali, sottolineando come la crisi economica e sociale sta impoverendo ceti
sociali. Rivendica il metodo democratico come storicamente consolidato nelle
Acli ribadito sulla legge elettorale, sulla politica internazionale. Papa
Francesco ci sollecita a riacquistare il primato della speranza a riflettere su
povertá denaro e pace. La parola povertá tende a scomparire dal dibattito,
nonostante sia aumentata quella assoluta. Non se ne parla, invece va ma
acquisita come prioritá. Il progetto reddito inclusione sociale è un modo
concreto per dare sostanza alla politica della misericordia. Va spezzata la
idolatria del denaro. Promuovere un nuova cultura incentrata sulla solidarietá.
La solidarietá è lottare contro le cause strutturali della povertá. La pace
richiede saggezza e lungimiranza come la posizione contro la guerra in medio
oriente. C'è nei cattolici poca attenzione su questi temi mentre stiamo vivendo
la terza guerra mondiale ma a pezzi. Il libro ci dischiude coraggiose linee di
impegno.
Poi è intervento Alessandro Plotti
che ha portato la sua lunga esperienza dentro la CEI. Ha voluto porre
interrogativi seri a cominciare dalla verifica dello stato di salute del popolo
di Dio che si trova ad affrontare la novitá dei problemi posti da Papa
Francesco. La massa soffre di malattie, ma curabili. Si sofferma in particolare
su: 1) la natura del dissenso. È più sviluppato di quanto immaginiamo. Con il
timore che possa ledere la unitá della fede. Oggi è impossibile discutere, farsi
ascoltare avere il coraggio di manifestare il proprio dissenso. C'è degrado. Si
evita il confronto per paura che possa manifestarsi. Mancano i luoghi dove
confrontarsi. Questa paura di gestire il dissenso ha portato a un indebolimento
della partecipazione. Le cause sono tante. Oltre l'individualismo, manca lo
spazio per confrontarsi. Il Papa è tornato sul fondamentalismo cristiano. La
nostra relazione non deve essere immobile. Cercare la veritá è diverso dal
possederla o manipolarla. Troppi cristiani pensano di essere al sicuro dentro un
pensiero omogeneo. Camminare insieme per trovare risposte adeguate anche nel
dissenso, purchè pluralista. I cattolici non si mettono in posizione di difesa
per trovare nuove speranze e nuove prospettive. Camminare insieme con il passo
giusto. Troppe contrapposizione ci sono state in passato. Ricordano come nel
convegno del 1975 su Evangelizzazione e Promozione umana fu fatto tacere il
segretario della CEI. Dunque avere coraggio. Ci deve essere spazio. Liberarsi
dalla paura del dissenso. 2) i Valori non negoziabili. Troppo relativismo etico.
Ci sono valori naturali. v'è Fardello di esasperazione dottrinale che allontana
anzichè avvicinare le persone. Ricorda gli schiaffi delle leggi sul divorzio e
sull' aborto. La democrazia non è fondata su questo ma nella sovranitá del
popolo. Dobbiamo formare le coscienze e qui la chiesa è stata latitante anche da
questa malattia. La ricerca della veritá deve essere fatta insieme. Ritrovare
una linea portante di una antropologia evangelica. V'è stato il tentativo di
ceizzare tutto. Le CEI sono nate per dare collegialitá non per centralizzare. Si
creano miti e guasti. Ultimo punto richiamato da Plotti: 3) l'autonomia dei
laici ricordando il pensiero di Lazzati. Ci sono protagonisti o gregari, ma oggi
sembrano graditi i gregari quelli che si accodano. I laici hanno molto da dire
alle gerarchie. L'autonomia che nasce e porta ad assumersi responsabilitá. Manca
una classe di politici. Portare i valori dentro la societá con un'anima. È
arrivato il momento di non aspettarene di delegare.
Gerardo Bianco ha portato il suo
contributo di politico. Riconosce di avere trovato difficoltá a stare dentro la
impostazione di Rosati. Ritiene che la questione cruciale sia il rapporto tra
democrazia e cristianesimo. Bergoglio ha lanciato una sfida alla civiltá
contemporanea. Dovremmo uscire dal discorso politico. L'economicismo attuale,
quello dell'individualismo ha posto in evidenza i vizi anzichè le virtù.
L'interesse del fornaio è quello di fornire il pane, non la sua benevolenza. È
inevitabile che i cattolici si misurino con i problemi, ma combattere la povertá
è realizzabile senza un pensiero capace di produrre ricchezza? Il libro immagina
stagione di cattolici adulti. La storia della autonomia dei cattolici va
salvaguardata. Ricorda ad esempio la polemica tra Aldo Moro e il cardinale Siri.
Il pensiero di Papa Francesco va oltre l'Italia. Il referendum è stata svolta
culturale per contrastare il radicalismo. Le leggi possono essere neutrali o
avallo di comportamenti. Oggi i desideri diventano diritti. Ricorda le spinte a
legalizzare l'incesto in Germania o,alla depenalizzazione della pedofilia in
Belgio. Solo la barriera delle coscienze può fermare la deriva. La grande sfida
è non rinunciare alla dottrina economica, non solo ascolto, ma guardare ai
fenomeni del tempo con un pensiero robusto. Oggi c'è grande vuoto soprattutto se
non matura un forte pensiero laico. Riflessioni della sera. La rete può dare
molto, ma non può dare tutto. Può dare un resoconto ma non può darti le
riflessioni di un libro. Purtroppo siamo dentro una forte crisi culturale che
dovremmo affrontare anche con un più forte dialogo non solo virtuale. Abbiamo la
fortuna di meditare con le parole di Papa Francesco definito con una bellissima
definizione, grande acceleratore di particelle evangeliche.
Il libro di Domenico Rosati vuole
muovere le acque. Ci riuscirá?
Roma, 9 dicembre 2014
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Seminario
fiorentino sulla riforma costituzionale:
Le Regioni dalla Costituente al
nuovo Senato della Repubblica
Per iniziativa delle Associazioni ex
parlamentari della Repubblica ed ex consiglieri regionali, in collaborazione con
la Fondazione del Consiglio Regionale della Toscana si è svolto a Firenze il
convegno sulle "Regioni dalla Costituente al nuovo Senato della Repubblica". Si
è tenuto in una giornata infelice per le difficoltá dei trasporti e delle
manifestazioni a sostegno dello sciopero sociale. Ha comunque avuto successo con
una larghissima partecipazione.
È stata una importante occasione di
verifica sullo stato della Riforma costituzionale Renzi-Boschi che ha ripreso
l'esame alla Camera, dopo una iniziale accelerazione al Senato e una altrettanto
rapida frenata.
Dobbiamo essere grati ai promotori
di questo evento, in particolare all’amico Sergio Pezzati, che hanno saputo
coinvolgere insigni giuristi relatori di interessanti e meditate riflessioni. I
corpi intermedi, quei corpi sotto attacco politico, in ragione di una
verticalitá che non vuole tenere conto della orizzontalitá del Paese - per
ricordare le parole di Giuseppe De Rita - hanno voluto tenuto vivo il dibattito
su una questione come la riforma costituzionale, marginalizzata dai media
nazionali.
Gerardo Bianco ha svolto una
prolusione introduttiva ricordando che non vi siano riserve al cambiamento, ma
come il passaggio dal bicameralismo paritario a uno differenziato avviene con un
intervento complessivo senza chiarezza sui principi. il testo approvato dal
Senato è peggiorato rispetto alla idea originaria. Il compromesso raggiunto fa
smarrire il filo logico di partenza. Evidenzia le contraddizioni sul principio
di rappresentanza, sulla struttura normativa dell'articolo 70 relativo al
procedimento legislativo, sulle evidenti lacune nel raccordo tra le due Camere,
sulle garanzie costituzionali e sul ruolo di supplenza del Capo dello Stato.
Il Professor Ugo De Siervo, con
grande chiarezza e luciditá ha ricostruito le vicende storiche del regionalismo,
una storia difficile per la storia nazionale che muoveva dalla rifiutata idea
giacobina accentratrice, passando per l'unificazione di 7 Stati sovrani, poi per
lo Stato liberale, per il regime fascista fino alla Costituzione repubblicana.
Cita il pensiero di Sturzo per il
quale "il passaggio dalla idea al fatto è sempre penoso". Lo statuto
autonomistico siciliano viene introdotto prima della Costituzione del 1948.
Sulle Regioni vi fu un dibattito durissimo e lunghissimo che va dal giugno 1946
all'autunno 1947 per discutere sui poteri legislativi delle Regioni e che
porterá Livio Paladin a considerare "la pagina bianca della legislazione
regionale". Le Regioni nascono nel 1970 in una fase economica diversa dal 1948,
che vede la presenza affermata dello Stato Sociale, delle Partecipazioni Statali
e dell'Intervento Straordinario nel Mezzogiorno, prevalendo dunque una cultura
nazionale. Su processo di trasferimento delle funzioni si registra una chiusura
delle burocrazie sia nel 1972, che nel 1976 come pure nel 1994. Ricorda tuttavia
come negli anni settanta vi furono momenti di grande impegno soprattutto quando
furono emanati gli statuti regionali. Il Titolo V va in crisi perchè non vengono
realizzate le leggi cornice. Poi interverrá anche la decadenza della classe
politica.
Sul fenomeno del degrado
intervengono altri fattori come la crisi finanziaria, le trasformazioni continue
che erodono l'autonomia dei territori, come nei Trasporti, riducendo la
separatezza con influenza sugli enti territoriali e, infine, l'invecchiamento
delle politiche istituzionali. Per De Siervo nel Senato delle autonomie
territoriali non c'è nulla di eversivo. Cita, infine, Giuseppe Dossetti
sostenitore della eliminazione del bicameralismo paritario.
Per Giovanni Tarli Barbieri v'è un
massiccio ritorno alla legislazione statale con lo strumento dei decreti taglia
spesa. È l'eutanasia della legislazione regionale. Illustra la evoluzione della
struttura dei gruppi regionali, la formazione di maggioranze asimmetriche sui
provvedimenti, i massicci interventi amministrativi, l'addensamento dei
controlli sul consiglio anzichè sul Presidente, la definizione di modelli spuri
sulla legislazione elettorale regionale, gli effetti della legge Severino, con
ben 87 casi, sulla sospensione delle funzioni in conseguenza di procedimenti
penali.
Paolo Caretti ha affrontato il
quadro delle competenze normative nella evoluzione del titolo V con il nuovo
monopolio legislativo del Parlamento Nazionale e gli interventi della Corte
Costituzionale rispetto alla conflittualitá. Si voleva ritoccare il titolo V per
semplificare i rapporti e si finisce per depennare la materia concorrente. Si
interviene su 19 gruppi di materie esclusive e 45 materie. V'è una
sovrapposizione di cose diverse. Torna l'interesse nazionale con la clausola di
garanzia. Aumenterá il conflitto alla Corte Costituzionale. È dunque un passo
indietro.
Per Antonio Brancasi che ha
illustrato il tema dell'autonomia finanziaria regionale, l'autonomia va intesa
come non dipendenza finanziaria. Si può essere autonomi anche in presenza di
finanza derivata purchè vi sia impiego di parametri oggettivi.
Come si può vedere i temi sono di
grande attualità e hanno suscitato immediato interesse. Avevo il timore di
trovare un clima di maggiore consenso e favore sulla riforma. I timori sono
stati fugati dalla libertá di pensiero e di analisi riscontrate negli
interventi. Evidentemente ci sono filoni culturali che non trovano spazio ed
evidenza mediatica.
Non ho potuto fare a meno di
intervenire su molte questioni.
Nonostante le profonde modifiche
intervenute sul testo originario che hanno eliminato non poche incongruenze giá
evidenziate nella audizione di ieri al Senato, su un testo che è stato
praticamente riscritto, altrettante restano ancora sul tavolo.
Per stare al tema principale ritengo
che sia stato compiuto un grave errore di metodo quello di avere tenuto tutto
insieme. Lo stesso errore che è stato compiuto con la devolution di Calderoli
poi bocciata dal referendum confermativo. Si è puntato sul binomio
bicameralismo- titolo V piuttosto che correggere il solo titolo V su cui si
poteva trovare un più ampio e facile consenso. Così tutto è diventato più
complicato perchè non si vede più un modello di riferimento. Da un lato abbiamo
un Senato svuotato nelle funzioni e dall'altro il tentativo di fare il luogo
della rappresentanza delle autonomie ma che per pudore evita di chiamarlo tale.
Si è voluto cancellare il Senato
come camera politica piuttosto che ridurre il numero dei componenti di entrambe
le Camere, armonizzandone, differenziandone e specializzandone le funzioni.
E veniamo al punto. Partirei da una
riflessione di Costantino Mortati del 1976. “L’autonomia finanziaria come pietra
angolare dell’intero sistema autonomistico".
Se non dispongono di mezzi
finanziari, se non c’è una correlazione tra quantum di autonomia e quantum di
risorse si arriva inevitabilmente a una situazione di dipendenza finanziaria.
In assenza di legittimità popolare,
e quindi di un bagno elettorale avremo un Senato che per la modalità di elezione
indiretta diventerà una Camera delle rivendicazioni, delle proteste, delle
rivalse, delle frustrazioni, delle contestazioni senza alcuna incidenza. Prima è
stato richiamato Dossetti, ma è vero che Dossetti voleva eliminare il
bipartitismo perfetto, ma nella sua ultima lezione alla Universitá di Parma il
26 apriperfetto le suo testamento politico, con i suoi richiami al
costituzionalismo moderno, guardava al Senato delle Autonomie e delle grandi
formazioni sociali con preferenza per un federalismo moderato sul modello del
federalismo tedesco così come definito dall' art 72 della Grundgesetz.
Va detto poi, per tornare al tema
del convegno, che in questi anni il legislatore ha stentato a valorizzare
strumenti di raccordo e cooperazione tra i diversi livelli di governo in una
logica di leale collaborazione.
E’ mancato un sistema di raccordo.
Così è stato per la Acof Alta Commissione per il federalismo di cui alla legge
289 del 2002, come pure con la conferenza permanente di coordinamento sulla
finanza pubblica disciplinata con l’art. 33 del decreto legislativo 68/2011 che
si è riunita solo nell’ottobre 2013.
Se mancano o non vengono valorizzati
gli strumenti di raccordo tra i livelli dello Stato come si può dialogare
costruttivamente per obiettivi di finanza pubblica rispetto a patti stabilità e
crescita?
Se viene abrogato il 117 terzo comma
la potestà legislativa concorrente si profila una centralismo neo statalista. Lo
Stato torna a decidere su tutto escluso il "coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario". Ciò è coerente con il fiscal compact, ma non con
l'autonomia finanziaria degli enti locali.
Con la legge costituzionale n. 1 che
novella gli articoli 81, 97, 117, e 119 si correla tutto il settore PA al
vincolo del debito nel rispetto delle regole europee; il ricorso
all’indebitamento è subordinato a piani di ammortamento e ai vincoli della UE.
In questo modo per lo Stato è stato
attivato il navigatore automatico, che per le Regioni e gli enti locali più che
cinture di sicurezza di tipo automobilistica, diviene una vera e propria camicia
di forza che impedisce qualsiasi movimento.
Se il 117 armonizza il bilancio
pubblico alla competenza esclusiva, il 119 è inattuato.
La politica di bilancio si compone
dei saldi di finanza pubblica che devono essere garantiti a livello di
consolidato nazionale e delle regole di ripartizione degli stessi saldi. Ci deve
essere un raccordo. Non c’è quell’unicum tra patto di stabilità interno, scelte
di perequazione e legge di stabilità che viene spezzato senza un raccordo una
interconnessione tra obiettivi di finanza pubblica al rispetto del patto di
stabilità e crescita, convergenza dei vari livelli su costi e fabbisogni
standard e obiettivi di servizio per i livelli essenziali delle prestazioni (
lep) e funzioni fondamentali.
Le regole di realizzazione del
federalismo fiscale richiederebbero sempre maggiore trasparenza dei dati e
informazioni. Manca nel paese una cultura della rendicontazione con una
valutazione dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi perseguiti.
Vanno inoltre considerati i
controlli della Corte dei conti. Spiega infatti l’art. 1 del decreto-legge
numero 174 del 2012, che ha disciplinato la materia, che sono stati previsti “al
fine di rafforzare il coordinamento della finanza pubblica, in particolare tra i
livelli di governo statale e regionale, e di garantire il rispetto dei vincoli
finanziari derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”.
Si tratta di un controllo che, come
previsto dalla Costituzione tende a garantire in funzione obiettiva, cioè
nell’interesse generale, il buon funzionamento delle istituzioni le cui risorse
sono fornite dal cittadino attraverso il sistema fiscale. Pertanto la Corte
esamina la tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali
e sulle tecniche di quantificazione degli oneri, le coperture che devono
assicurare il corretto equilibrio dei bilanci.
In questo contesto le Sezioni di
controllo della Corte dei conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti
consuntivi delle regioni e degli enti che compongono il Servizio sanitario
nazionale, per la verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto
di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di
indebitamento dall’articolo 119 della Costituzione. Sempre agli stessi fini le
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano altresì che i
rendiconti delle regioni tengano conto anche delle partecipazioni in società
controllate e alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per la
collettività regionale e di servizi strumentali alla regione.
Nell’ottica del coordinamento della
finanza pubblica le relazioni redatte dalle Sezioni regionali di controllo della
Corte dei conti sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al
Ministero dell’economia e delle finanze “per le determinazioni di competenza”.
Il conferimento alla competenza esclusiva della legge statale della materia del
coordinamento della finanza pubblica costituisce, a ben vedere, uno sviluppo
coerente con le scelte già effettuate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012,
che ha effettuato analogo conferimento per la materia dell'armonizzazione dei
bilanci pubblici e novellato gli articoli 81, 97 e 119, della Costituzione,
estendendo a tutte le pubbliche amministrazioni (e dunque anche a tutte le
autonomie territoriali) il principio dell’equilibrio di bilancio tra entrate e
spese e il principio della sostenibilità del debito». In questo senso, anche
alla luce degli sviluppi più recenti della giurisprudenza costituzionale,
appare quantomeno dubbio che tale spostamento possa essere compatibile con la
salvaguardia dell’«autonomia finanziaria degli enti locali". Il finanziamento
delle regioni è stato perseguito con le addizionali Irpef con una esplosione del
fenomeno alterando la incidenza e distorcendo gli equilibri distributivi
riducendo gli spazi della politica fiscale affidata a surrogati come i bonus.
La compressione della spesa affidata
alla riduzione delle risorse è risultata inefficace per la dinamica della spesa
corrente ma progressivamente incidente per la spesa in conto capitale.
La riforma è dunque coerente con la
legge costituzionale n. 1 del 2012 ma non con il principio di sussidiarietá
edificato a Maastricht e incompatibile con la salvaguardia della autonomia
finanziaria degli enti locali.
In materia così delicata come i
rapporti centro periferia la soluzione non deve essere di tipo ideologico ma
guardando ai problemi reali e con le soluzioni più adeguate.
Un disegno riformatore va
incoraggiato e sostenuto purchè privilegi il miglioramento e l'efficienza
dell'assetto istituzionale e non determini una rottura dell'equilibrio
costituzionale e una alterazione del sistema delle garanzie.
Firenze 14 novembre 2014
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Al seminario fiorentino sulla
riforma costituzionale promosso dalla associazione ex parlamentari della
Repubblica e dalla associazione ex consiglieri regionali congiuntamente alla
fondazione Regione Toscana ho sentito dal top degli studiosi del diritto musica
per le mie orecchie.
Pensavo di trovare giuristi sostenitori della riforma e invece è stato un coro
di critiche demolitrici dell'impianto governativo, peggiorato dopo il passaggio
in prima lettura al Senato. Sono state argomentazioni forte poggiate su basi
scientifiche serie e che fanno aumentare le preoccupazioni sull'esito di un
progetto che richiede ben altra meditazione. Tornerò ampiamente sulle criticitá.
Oggi da Firenze torno sollevato perchè con questa riforma non si fa un passo in
avanti ma uno indietro. Purtroppo c'è l'amara considerazione sul ruolo della
stampa in questo Paese e sullo scarso rilievo che viene dato ad iniziative
culturali promosse dai corpi intermedi mentre viene dato ampio spazio allo
scandalismo e al gossip quotidiano.
C'è solo da augurarsi che alla Camera in seconda lettura prevalgano libere
opinioni piuttosto che logiche di schieramento. |
Zaccagnini un politico cristiano, uomo buono, onesto,
mite
Benigno Zaccagnini è stato ricordato oggi, 5 novembre, nel venticinquesimo
anniversario della sua scomparsa nella sala Aldo Moro di Montecitorio. Non
poteva essere altrimenti per chi si sentiva profondamente discepolo di Moro.
L'iniziativa è parsa quanto mai opportuna per un Paese che ha la memoria corta e
che tende a mettere ai margini della memoria collettiva personaggi come
Zaccagnini. Ne hanno ricordato la figura del politico che ha partecipato alla
lotta di liberazione, come protagonista della Resistenza bianca, con il nome
simbolico di battaglia di Tommaso Moro, e che avuto grandi responsabilitá sia
istituzionali che di partito, dalla Assemblea Costituente fino al 1989, come
Ministro del Lavoro e dei Lavori Pubblici, come Presidente del Gruppo Dc, come
Vicepresidente della Camera, come Segretario e Presidente del Partito, Francesco
Saverio Garofani, Paolo Ruffini, Nicola Antonetti, Presidente dell'istituto
Sturzo, il gesuita Francesco Occhetta e Gerardo Bianco, presidente della
associazione ex parlamentari. Sono intervenuti il Ministro Franceschini,
Pierluigi Castagnetti, Domenico Rosati, Giuseppe Gargani, Angelo Sanza ed altri
ancora. Il ricordo di Zaccagnini però non sbiadisce perchè sapeva parlare ai
giovani, agli operai con un linguaggio semplice e diretto. Amava i corpi
intermedi. Si rivolgeva alle coscienze, richiamando l'esigenza di moralitá.
Portava umanitá nella politica. Proprio in quel congresso del 1975 al Palasport
dell'Eur che lo elesse direttamente, dove prevalse con il 51,57 per cento dei
voti su Arnaldo Forlani, e che alimentò nuove diffuse speranze giovanili affermò
che la DC non sarebbe diventata il comitato di affari del capitalismo italiano,
rifiutando la scelta conservatrice e guadando ai ceti popolari. Dá forza, con
l'intuizione Bartolo Ciccardini alle Feste dell'amicizia che a Palmanova, in
Friuli, trovano il primo grande momento di partecipazione popolare.
Guidò
il partito nella difficile prova elettorale dellepolitiche del 1976 che
impedirono il sorpasso del Pci; con Zaccagnini si realizzò un grande
rinnovamento parlamentare: furono 101 i deputati democristiani che entrarono per
la prima volta a Montecitorio. Fu segretario della Democrazia Cristiana dal 1975
al 1980 nella stagione più drammatica della nostra storia che ha visto il
sacrificio prima di Moro, Mattarella, Bachelet e poi di Roberto Ruffilli. Vedeva
la solidarietá come orizzonte di interesse nazionale. La tragedia di Aldo Moro
fu per Zaccagnini, una ferita non rimarginata. Era uomo del dialogo ma anche
della fermezza. Ha difeso lo Stato senza cedimenti. Sui rapporti con il Pci non
v'è stata mai debolezza. Non v'era inclinazione consociativa, ma la ricerca del
confronto democratico nelle aule parlamentari, confronto non come teoria, ma
come prassi democratica.
In
politica estera la scelta atlantica è sempre stata netta. Così fu nel 1979
quando si decise per gli euromissili che rappresentò un punto di svolta, un
passaggio decisivo nei rapporti Est e Ovest e nella successiva crisi economica
dell'URSS.
Non
era un impolitico come si è tentato di raffigurarlo, ma un uomo politico di
spessore. Basti pensare alla poderosa legislazione mutualistica in favore degli
artigiani che introdusse da Ministro del Lavoro del II governo Segni
interessando milioni di persone allora ancora escluse dal welfare state così
come la definizione del ruolo della contrattazione riconoscendo la validitá erga
omnes dei contratti collettivi. Nel 1959 affermò che con " uno strumento
giuridico che rappresenta la difesa della parte più debole del nostro corpo
sociale, si realizza il rispetto della dignitá del lavoratore e l'acquisizione
di un retto ordine sociale di più larghi strati del mondo popolare e del
lavoro".
Uomo
schivo, di grande modestia, sensibile ai richiami del dovere divenne simbolo di
valori, di virtù, di dedizione al bene comune.
Per
Zaccagnini la politica era cercare di capire le grandi cose e fare tutto ciò che
si può.
Era un
uomo animato da un sentimento alto della politica, secondo quella che lui amava
definire:"la missione che le è propria: di governare il presente, di sentire il
futuro e, presagendolo, di inventarlo".
Roma,
5 novembre 2014
|
La Ricerca
e il Bel Paese (2)
Mentre nel Paese si
registra uno scontro tra Governo e sindacati sulle politiche per il lavoro,
sull'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e perfino sul diritto di
sciopero, c'è una Italia che si confronta sullo stato della ricerca nel
Paese.
L'occasione è stata la presentazione del libro di Lucio Bianco: La
Ricerca e il Bel Paese.
Grande partecipazione di pubblico. Niccolais ha ricordato il nuovo statuto
del CNR i rapporti con gli stakeholders e con le Regioni soprattutto
sull'utilizzo dei fondi europei e per le infrastrutture con l'obiettivo di
produrre conoscenza per spostare la frontiera del paese.
Non è importante distinguere tra ricerca di base o applicata ma fare buona
ricerca. Scienza e Tecnica sono inscindibili.
Per Novelli con il tempo si è persa simbiosi con l'universitá. È cruciale
l'idea della massa critica; non si può fare ricerca senza
interdisciplinaritá. Proporre al Paese una strategia Paese mettendo insieme
ricerca pubblica e ricerca privata. I fondi della ricerca dovrebbero
rappresentare una questione nazionale nell'ambito del ministero
dell'economia.
C'è poco reclutamento di
giovani, ma senza giovani non v'è innovazione. Se 9.000 giovani sono negli
Stati Uniti significa che sono ben preparati. Mentre il nostro Paese non
riesce ad attrarli.
Il dato negativo è che non si può ripartire da zero ad ogni cambio di
governo. CNR e universitá devono lavorare in simbiosi. Il CNR deve essere
incubatore e catalizzatore della ricerca. Credere nei giovani perchè la
scienza è motore dello sviluppo.
Giuseppe De Rita ha
voluto ripercorrere le vicende degli anni cinquanta e sessanta quando i
protagonisti di quegli anni avevano lo stesso progetto per un nuovo assetto
del Paese e in economia la creazione di strutture per intervenire superando
la concezione del vecchio stato liberale. V'era a sua di nuovo anche creando
una agenzia per entrare nella promozione dello sviluppo, lavorando per
piani, per centri di propulsione intellettuale, definendo cosa è importante
tra ricerca e progresso economico.
C'era in sostanza una finalizzazione della ricerca a fini collettivi. Quel
progetto fu sconfitto perchè la cultura era contraria, così come erano
contrari ai comitati nella logica del cavalcalamai.
Il CNR dovrebbe svolgere azione di agenzia finanziaria, fare ricerca in
proprio e incubatore specifico.
Bianco ripropone il discorso dell'agenzia per fare ricerca orientata. La
interdisciplinaritá rompeva il potere delle discipline quando vi è starà una
moltiplicazione tanto è che si era arrivati a prevedere 3.400 corsi di
laurea.
Maria Chiara Carrozza si
è soffermata sulla fragilitá del sistema troppi dipendente dalla politica. Ė
mancata la societá che dovrebbe ricordare l'importanza della ricerca. Nella
epoca democratica la ricerca è inceppata. V'è frammentazione e fragilitá del
sistema al contrario di quanto avviene in altri paesi in cui il pendolo
oscilla ma non viene messo in discussione. Il giusto rapporto tra CNR e
Confindustria non può essere di dipendenza. È importante l'autonomia. La
politica deve programmare le linee di sviluppo. Deve valutare il piano non
la ricerca. La scuola di robotica ha avuto le sue radici nel CNR. La ricerca
libera ha il suo valore ma i progetti finalizzati servono a rafforzare
alcune aree e problemi. Propone di fare gli stati generali della ricerca
italiana per fare il punto.
Per Pietro Greco il progetto di Vito Volterra era quello di dare al Paese un
modello di sviluppo legato alle conoscenze modernizzando il Paese.
L'altra missione deve essere il trasferimento economico della conoscenza.
Per Walter Tocci bisogna
interrogarsi sulle ragioni del declino. Nel libro c'è tensione. Oggi ci
manca la relazione annuale sulla ricerca che dovrebbe essere ripristinata.
Ricorda le tre A: autonomia, apertura e adattabilitá. Dovremmo interrogarci
sul perchè si è riusciti nel passaggio dalla societá agricola a quella
industriale mentre oggi si trovano difficoltá. Nel passaggio dalla societá
industriale a quella della conoscenza e quindi manca l'aggancio. Va
riconosciuto il tarlo del burocratismo compreso il '68 con appiattimenti ed
egualitarismo. Gli anni ottanta sono stati quelli delle occasioni sprecate.
La seconda repubblica è stata letale per la ricerca. Scompaiono tre aspetti
fondamentali: l'agenzia come strumento di elaborazione delle strategie, la
gemmazione delle esperienze.
L'autore Lucio Bianco ha replicato agli intervenuti. Ha ringraziato per la
grande partecipazione.
Siamo noi che dovremmo ringraziarlo per una full immersion sulla ricerca che
conferma che c'è una Italia che guarda al futuro perchè senza ricerca non
c'è innovazione e senza innovazione non c'è nè competitivitá nè sviluppo.
Roma
27 ottobre 2014
|
La ricerca
e il Bel Paese
Questo libro di Lucio Bianco è la storia del CNR raccontata da un protagonista,
che ha vissuto la intera vita professionale all’interno dell’Istituto, fino a
diventarne Presidente. C’è, nella conversazione con Pietro Greco, uno sguardo
retrospettivo sull’intero secolo trascorso da cui trarre ricche indicazioni per
il futuro. Lucio Bianco ripercorre non solo le vicende storiche del CNR, le
tappe fondamentali, i suoi protagonisti, ma rivendica con orgoglio la sua
visione sulla ricerca, sul ruolo, sulla autonomia dell’istituto e le grandi
scelte che hanno reso il CNR protagonista di passaggi fondamentali per lo
sviluppo del Paese.
E’ un libro che aiuta a comprendere le vicende italiane sulla ricerca che è
momento fondamentale della crescita di un Paese perché senza ricerca non c’è
sviluppo.
L’autore non si accontenta di ripercorrere la storia del CNR, ma si sofferma su
tanti episodi che in qualche modo ciascuno di noi può legare al proprio punto
di vista, alla propria posizione e alle vicende personali. Così, da parte mia,
sono riandato alle vicende del progetto San Marco, chiamato così perché
protettore delle operazioni sul mare. Non quello degli albori degli anni
sessanta, ma quello realizzato più compiutamente negli anni settanta, cui
seguì’ il progetto Sirio. Il Generale Luigi Broglio incontrava Giulio
Andreotti, giá Ministro della Difesa, Presidente del Gruppo Parlamentare DC lo
rendeva partecipe dei progetti. Era indispensabile tessere i rapporti con le
istituzioni e con il mondo politico e parlamentare per trovare sostegno al “suo”
progetto, così come aveva fatto in passato con Fanfani e La Pira, che
necessariamente doveva avere risorse pubbliche e leggi di sostegno. Anche in
quelle vicende vi fu contrapposizione tra chi sosteneva scelte atlantiche e
scelte più europee. Luigi Broglio accompagnato dall’Ing. Piccari era capace di
affascinare gli interlocutori, tenendo vere e proprie lezioni, spiegando la
“bilancia Broglio”, usando fogli A4 anzichè lavagne con il gesso. Spiegava la
base di lancio posizionata all’equatore, in Kenia, a Malindi perché orbita
bassa, perché area pulita da influenze ambientali per facilitare la messa in
orbita del vettore, utilizzando piattaforme petrolifere, chiamate Santa Rita,
perché era la santa delle cose impossibili, come poteva sembrare a molti quella
impresa, recuperate dall’Eni, molti materiali recuperati dall’aeronautica, e
razzi dalla Nasa come lanciatori. Erano momenti indimenticabili e ci
sentivamo affascinati, coinvolti e partecipi in quell’obiettivo sognato di una
presenza italiana nello spazio, frutto della ricerca fatta con pochi mezzi ma
con tante idee geniali. Come non riconoscere la lungimiranza di quelle scelte
costruite su un accordo CNR e università di Roma che hanno aperto la strada
alla presenza nel settore aerospaziale. Successivamente diventerá la base dello
sviluppo delle reti di telecomunicazioni, della interconnessione con i
collegamenti telefonici e telematici in tempo reale. Da quelle prime pietre
della ricerca aerospaziale viene tracciata la strada di Italsat e della presenza
nei consorzi internazionali.
Con la lettura del libro di Lucio Bianco ho ripercorso la vicenda INFN che, per
grande intuizione di Antonino Zichichi, portò alla trasformazione del buco
nelle viscere del Gran Sasso, utilizzato per la autostrada Roma L’Aquila, in un
grande centro di ricerca internazionale dove ricercatori di ogni angolo del
mondo possono portare avanti i loro progetti e le loro sperimentazioni. Quelle
scelte sapevano guardare al futuro, ma non avvenivano per decreto, ma con un
faticoso iter parlamentare costruito per il carisma di Zichichi e per l’impegno
dei suoi preziosi collaboratori . Ricordo l’Ing. Federici poi prematuramente
scomparso, impegnato nella realizzazione del progetto.
Grandi nomi e grandi idee stanno a significare che nella ricerca, a volte, con
il coraggio e la determinazione si possono superare ostacoli insormontabili.
IL CNR ha avuto quindi grandi meriti e responsabilità per la realizzazione di
imprese di grane lungimiranza tecnologica e scientifica facendo fare grandi
balzi nelle tecnologie per la produzione di servizi di telecomunicazione.
Dobbiamo riconoscere che solo la ricerca pubblica consente di inserirci come
sistema paese nelle grandi realtà culturali, economiche e industriali del
Paese. La linea di fondo del libro di Lucio Bianco è un invito alla riflessione
sul significato della ricerca pubblica che come gli eventi di questi anni hanno
dimostrato è irrinunciabile per il futuro del Paese. I risultati raggiunti dal
Paese nella chimica, nella fisica, nelle telecomunicazioni per citarne solo
alcuni settori, hanno dimostrato che quando il Paese mobilita le risorse umane
più ampie e forti è anche in grado di determinare linee di sviluppo vincenti.
Poi, purtroppo, si è voluto mettere le mani sulla ricerca del CNR e anziché
razionalizzare in meglio si sono provocati danni incalcolabili sia per spinte
interne che per pressioni politiche esterne. Soprattutto “la riforma del 1999,
quelle che - come scrive amaramente Raffaella Simili nella prefazione - ha
cambiato profondamente la fisionomia originaria abolendo i comitati di
consulenza, spezzando la preziosa funzione di cerniera tra i due mondi
principali della ricerca italiana, università e CNR”. “La riforma passò facendo
perdere via via terreno al CNR, sottoposto a modifiche, accorpamenti,
smembramenti, spesso artificiali, tenuto ostaggio da ministri, commissari,
presidenti filo aziendalisti anche in virtù di pesanti tagli sul piano
finanziario, profondamente lesivi per la sua missione di ricerca”.
Il libro “La Ricerca e il Bel Paese” sarà presentato lunedì 27 ottobre nell’Aula
Marconi del CNR. Ne discuteranno Maria Chiara Carrozza, Giuseppe De Rita, Luigi
Nicolais, Giuseppe Novelli e Walter Tocci, coordinati da Rossella Panarese.
Autonomia, interdisciplinarità, internazionalizzazione sono i capisaldi del
CNR. Recuperando l’idea di Vito Volterra, fondatore del CNR Lucio Bianco ha
cercato di tenerla viva, ma solo difendendo questi valori sarà possibile
giocare le carte del futuro della ricerca.
Roma, 25 ottobre 2014 |
Bretton Woods
(scarica il documento)
Nel luglio scorso si è celebrato il
70° anniversario degli accordi di Bretton Woods. 730 delegati di 44 nazioni si
riunirono nel New Hampshire per definire su spinta degli Stati Uniti d’America
un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria
internazionale.
Era ancora viva la memoria della
dannosa grande depressione, delle politiche di controllo sul tasso di cambio,
delle barriere commerciali. Si avvertì la esigenza di governare i rapporti
monetari tra gli stati nazionali indipendenti, facendo prevalere i punti di
contatto piuttosto che le differenze.
Fu un compromesso tra due progetti:
quello di Harry White (USA), che risultò prevalente, e quello del grande
economista inglese John Maynard Keynes.
Furono create istituzioni
internazionali di supporto come il Fondo Monetario Internazionale, per dare
elasticità al sistema, e la Banca di ricostruzione e sviluppo per dare impulso
alla crescita e il GATT divenuto poi organizzazione mondiale per il commercio,
successivamente trasformato in WTO. Il sistema affermò un sistema di cambi fissi
tra valute agganciate al dollaro e quindi all’oro con piccoli scostamenti e
riallineamenti e la centralità del dollaro, cui furono ancorati i prezzi delle
materie prime e del petrolio. Era un accordo per un sistema aperto e liberista
nel solco dei principi di libertà e di democrazia, favorendo la ricostruzione e
determinando crescita e sviluppo.
Aveva tuttavia un limite perché non
prevedeva un controllo della quantità di dollari emessi permettendo così agli
USA di esportare inflazione. Infatti l’accordo va in crisi proprio a causa delle
politiche USA, in particolare, a seguito dalla grande espansione degli
investimenti produttivi negli anni sessanta, della guerra del Vietnam, in
conseguenza dell’aumento della spesa pubblica USA.
Tutto ciò aumentò la richiesta di
conversione di dollari in oro che portò alla dichiarazione improvvisa e
unilaterale di Nixon del 15 agosto 1971 che sospese la convertibilità. Nixon
impose anche soprattasse sulle importazioni in contrasto con le regole del GATT.
Il colpo fu immediato se consideriamo che l’Italia nel 1970 collocava negli USA
il 10,3 per cento del totale delle proprie esportazioni e per il 3,3 per cento
del totale delle importazioni USA. Ne conseguì la svalutazione del dollaro e il
passaggio alla fluttuazione dei cambi. Ne derivarono conseguenze successive come
gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 con forti squilibri sulle bilance dei
pagamenti che portarono alla stagflazione, un intreccio perverso tra inflazione
e recessione determinata dalla crisi del sistema monetario internazionale.
Per memoria nel 1980, il 63 per
cento degli scambi mondiali erano riferiti per il 44 per cento dell’Europa, per
il 12 per cento degli Stati Uniti e per il 7 per cento al Giappone. Queste tre
aree “facevano l’economia del mondo” perché concorrevano con l’84 per cento del
loro PIL dell’area OCSE e per il 60 per cento alla formazione del PIL mondiale.
Il sistema di Bretton Woods fondato sul “gold Exchange standard” aveva perduto
la sua condizione di equilibrio affidata ad una ragionevole proporzione tra oro
e debiti a breve nei centri emittenti moneta di riserva, negli Stati uniti in
pratica, e fra oro e crediti a breve nei centri che accettano moneta di riserva.
All’antico International Monetary System – affermò Robert Triffin – è subentrato
un International Monetary Non System. Ai mali del sistema mancò una risposta
adeguata. Mancò , in sede di FMI, nonostante le raccomandazioni alla vigilia
della Conferenza di Copenaghen per introdurre correttivi con l’ampliamento delle
bande di oscillazione, più piccoli e pronti aggiustamenti dei tassi di cambio,
deviazioni concertate delle parità.
Gli anni settanta hanno rotto gli
equilibri mondiali sul sistema dei pagamenti internazionali e con gravi
squilibri valutari. Con la quadruplicazione del prezzo del petrolio si spaccò
l’economia mondiale, mutando l’equilibrio dei fattori lavoro, capitale ed
energia. Da quel periodo iniziavano a manifestarsi squilibri strutturali sulla
competitività. La dimensione dei problemi finanziari è riflesso degli squilibri
reali e delle pressioni per una diversa distribuzione dei redditi a livello
internazionale. Un nuovo assetto monetario internazionale è irrealizzabile se
non si affrontano i termini di un nuovo ordine economico internazionale.
La globalizzazione spinta dalla
finanziarizzazione ha portato alla affermazione di nuovi Stati e di nuove
economie, sulla spinta delle multinazionali impegnate nei processi di
delocalizzazione per guadagnare vantaggi di competitività determinata da minore
costo del lavoro e pratiche di dumping sociale. Le integrazioni economiche e
produttive hanno al tempo stesso rafforzato gli scambi internazionali,
l’interdipendenza globale, i legami tra gli stati ed evitato i conflitti. Venti
anni di globalizzazione forzata hanno spostato il baricentro dello sviluppo,
delle produzioni e degli scambi internazionali con un ruolo sempre più marcato
dell’Asia. Nel 2012 la Cina e i paesi asiatici hanno raggiunto il 31,5 per cento
del totale delle esportazioni appena inferiore a quello dell’Europa (35,6) .
Alla area OCSE si sono progressivamente aggiunte nuove aree economiche come i
paesi del Brics ( Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica rappresentano il 40
per cento della popolazione mondiale e il 20 per cento del PIL del globo e i
Paesi del Mint (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia ) .
Queste economie emergenti,
potrebbero raggiungere nel 2025 il 50 per cento del pil mondiale. Scriveva
Charles P. Kindleberger nel 1984 :” il sistema europeo e quello mondiale
zoppicheranno per qualche tempo. Alla fine si determinerà una nuova gerarchia.
Non è ancora chiaro se sarà l’Europa, gli Stati Uniti o qualche paese ancora
ignoto a fornire al mondo il bene pubblico della stabilità monetaria ed
economica. Nel frattempo è importante che le nazioni stiano attente a non
mettere in pericolo la stabilità della barca.”Lo scorso 15 luglio a
Fortaleza, ptoprio in coincidenza con le settimane di luglio del 1944 a
Bretton Woods, i Brics hanno dato vita ad una Banca dello Sviluppo con un
capitale equamente diviso tra i partners per fronteggiare le crisi finanziarie.
Rappresenta una sfida globale perché crea istituzioni in contrapposizione a
quelle nate da Bretton Woods, guarda al ridimensionamento degli Stati Uniti e
all’accantonamento del dollaro. La decisione non si muove sul terreno della
cooperazione fruttuosa tra le aree economiche interdipendenti.
Le pressioni del XX secolo hanno
fatto saltare prima il gold standard poi il sistema dei cambi fissi di
Bretton Woods. Restano le preoccupazioni per il sistema monetario
internazionale che non procede nel senso della cooperazione ma del conflitto.
Sarebbe richiesto soprattutto un nuovo spirito di cooperazione che muova dal
ridimensionamento della leadership finanziaria americana affinchè non prevalgano
le svalutazioni competitive tra le valute che determinano effetti sulle
produzioni e sulla occupazione mondiali. Non va dimenticato che
l’interdipendenza gioca in positivo nella fase di sviluppo e in negativo nella
fase di recessione. La finanziarizzazione del sistema economico globalizzato e
modelli di sviluppo inadeguati rendono fragile l’intero sistema finanziario
perché richiedono riforme e regole globali che allo stato sembrano lontane
dall’essere realizzate. Il disordine monetario internazionale persisterá
fintanto che la contrapposizione tra economie con diritti e senza diritti non
porterá a regole condivise e soprattutto ad un accordo per un riequilibrio nel
rapporto tra le valute. Non saranno i mega accordi regionali come il TTIP,
quello transatlantico e TPP, quello del Pacifico, a rimuovere le cause di una
crisi profonda che investe le regole della economia globalizzata.
Oggi sembrano prevalere pericolose
logiche di contrapposizione piuttosto che quelle di integrazione.
Roma, 19 agosto 2014
|
Coraggio del passato e ripiegamento del presente
A proposito di mercato del
lavoro mi vengono in mente le parole di Nino Andreatta del 1993 allorquando
disse che la intermediazione come monopolio pubblico non poteva funzionare e che
fosse necessario acquisirla dalle organizzazioni professionali, dalle parti
sociali, non dagli uffici burocratici che dimostrano sempre più inefficacia, la
loro incapacitá di registrazione notarile e costituiscono un elemento che blocca
la diffusione di informazioni essenziale per
rendere dinamico il mercato.
E a proposito del capitale umano e del sostegno a nuove forme di
imprenditorialitá - a quelli che oggi guardano oltreoceano, in California, a
silicon valley dico io - le grandi imprese della sua cittá erano nate da
assistenti di ingegneria, magari con un intervento di 5 o 10 milioni del
suocero, cominciando nel garage di famiglia e sono oggi imprese con 1000 - 1500
persone, stabilimenti in Giappone, in Germania, terzo cliente d'Italia, 40 per
cento di ingegneri nello staff. Era lo sviluppo della impresa meccanica
emiliana. Lo stesso potrebbe dirsi per lo straordinario sviluppo modello
adriatico meno meccanico e meno tecnologico, ma più manifatturiero nel settore
della moda e del calzaturiero.
La differenza ora per allora sta in quel differenziale di difficoltá che è
l'anima della imprenditoria e che non risiede in posizioni comode ma in scelte
coraggiose.
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Bartolo
Ciccardini
Quello che avrei voluto dire
Quello che avrei voluto dire
nell’incontro presso l’Istituto Sturzo su Bartolo Ciccardini, mi è rimasto
dentro. Non ho potuto farlo perché il programma si era dispiegato oltre i tempi
previsti con interventi fuori programma, ma particolarmente graditi, come quelli
di Arnaldo Forlani e del suo amico avversario politico Marco Pannella. Tanti
hanno voluto essere presenti per partecipare al ricordo. Tra questi Francesco
Merloni, Mario Segni, Arturo, Parisi, Dario Antoniozzi, Favia Piccoli Nardelli,
Giuseppe Gargani, Angelo Sanza, Adriano Ciaffi, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe
Zamberletti, Pietro Giubilo e tanti altri ancora.
Lo storico Francesco Malgeri ha
lumeggiato la figura politica di Bartolo ricordando le tappe della sua lunga
esperienza politica, di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito,
autore di slogan e manifesti elettorali come quello del 1963 “La DC ha ventanni
“ direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia, la sua vitalità
straordinaria e la curiosità ai mutamenti. Autore di significative riflessioni
religiose sulla presenza dell’uomo nel mondo. Poi le esperienze recenti di
direttore della rivista culturale on line Camaldoli.org, di animatore dei
partigiani cristiani, ribelle per amore. Per Gerardo Bianco che fa risalire il
primo incontro con Bartolo alla Cattolica di Milano nel 1952 Ciccardini era un
“vulcano in continua eruzione”. Era esponente di quella generazione degli anni
venti protagonista della storia della DC. La loro amicizia profonda ha trovato
espressione nel libro viaggio nel Mezzogiorno configurato come lettere a Gerardo
Bianco, ma ora quel postino che ha recapitato tante lettere di Bartolo ora non
suonerà più.
Poi il vecchio leone politico Marco
Pannella ha voluto essere presente e parlare perché è certo che avrebbe fatto
piacere a Bartolo. Ha ricordato le sue battaglie con la sinistra liberale, la
sua amicizia antica e il suo impegno costante a ricercare la storia delle madri,
dei padri e dei figli senza distinzioni. Si è abbandonato a citazioni storiche
rivendicando con orgoglio e ricordando la vicenda Parri e quella verso De
Gasperi.
Alessandro Forlani ha ricordato gli
ultimi tragici momenti vissuti insieme a parlare di politica con una grande
preoccupazione per il Paese, ma con uno sguardo ancora al futuro e ainiziative
rivolte alla città di Roma, che dovevano coinvolgere il Vicariato e le
parrocchie E’ stato maestro di più generazioni per un approccio alla vita
pubblica. Ha dato i rudimenti del mestiere a tanti giovani con gli incontri a
Sant’Ignazio e al Terminillo. Sapeva introdurre sempre elementi innovativi.
Giovani Bianchi ha voluto ricordare
la battaglia condotta con i partigiani cristiani e la grande amarezza che aveva
avuto nel mancato riconoscimento. Ciccadini apparteneva alla categoria degli
anomali, degli irregolari di genio, quelli che legavano i partiti con i
territori, con i corpi intermedi. Voleva sottrarre la Resistenza alla epopea e
farla capire alle nuove generazioni. Di qui le iniziative per i 400 sacerdoti
uccisi, per Suor Teresina, per la battaglia della Montagnola per Dossetti e la
Resistenza, per il 70° del Codice di Camaldoli.
Per Arnaldo Forlani, Bartolo
Ciccardini è morto con i giovani. Per onorarlo sarebbe bene dare vita ad una
casa editrice con una collana editoriale che riprenda la esperienza delle 5
Lune. Non tutti erano giovani come Bartolo che sapeva stare con i giovani.
Luciana Castellina ha voluto mandare
un ricordo scritto per testimoniare il dialogo tra giovani DC e giovani
comunisti attraverso gli organismi universitari. Nei giorni della famosa legge
truffa litigarono lungo Corso Vittorio ma in realtà erano più d’accordo di
quanto apparisse. “Con lui - ricorda Luciana Castellina - se n’è andato un pezzo
della storia della mia generazione, oltreché un grande amico: il solo amico
democristiano!”
Avrei voluto tratteggiare l'aspetto
umano, quello della persona, le telefonate, le mail, i commenti, i giudizi, i
programmi, le idee, le iniziative. Sapeva guardare ad orizzonti lontani. Il
Ciccardin parlamentare, uomo di vasta e profonda cultura. Quello che avrei
voluto dire è che Ciccardini non voleva essere protagonista. Sapeva essere
discreto. Preferiva fare il soggettista sceneggiatore, stare dietro le quinte,
scrivere il copione. Non voleva la ribalta. Altri dovevano essere i
protagonisti. Per il 70° di Camaldoli volle filmare l’evento nonostante un
braccio ingessato. Rimase piacevolmente sorpreso della straordinaria
partecipazione ad un evento che si tenne nel pieno di un torrido mese di luglio.
Non si accontentava del sito, voleva una diffusione larga anche per coloro che
non poteva essere presenti nelle sale della Camera. E la diretta streaming lo
riempiva di gioia. E’ mancato pochi giorni prima della commemorazione del 15°
anniversario della scomparsa di Livio Labor. Era l’occasione per fare il punto
su un particolare momento storico quello della scissione delle Acli agli inizi
degli anni settanta che per lui vecchio aclista fu una ferita non rimarginata.
Voleva illuminare la storia con i protagonisti degli eventi. Bartolo Ciccardini
inizia il suo percorso parlamentare con le elezioni del maggio 1968. Interviene
alla Camera il 28 aprile 1970 sulla legge istitutiva del Referendum che marciava
parallela alla legge sul divorzio. Lì, in quell’intervento c’è tutto Bartolo.
Quel discorso racchiude e anticipa le indicazioni e le scelte degli anni
successivi fino ad oggi. Riteneva necessario rendere viva la Costituzione allo
sviluppo storico del Paese. Poneva la esigenza si una legge adeguandola allo
spirito della Costituzione. Riteneva il referendum come mezzo necessario per
integrare il Parlamento e come mezzo di allargamento della vita democratica. Si
sofferma sul ruolo dei partiti. Anticipa di venti anni la elezione diretta del
sindaco e la difesa delle autonomie locali non in una visione percentualistica
delle forze politiche. Con il proporzionale che era nato nel 1919 votiamo i
numeri invece che i nomi. Interviene sul bilancio interno della Camera,
sollecitando il Presidente Pertini, affinchè i pannelli che ornano l’Aula
riportino i risultati del referendum Istitutivo della Repubblica frutto della
Resistenza. Era un simbolo, ma che simbolo.! Vedeva scarsa attenzione per Roma
Capitale e il rischio che Roma divenisse il gorgo in cui si perdono i deficit.
Propone un asse attrezzato lontano dal centro storico anziché la concentrazione
della città della politica. Non voleva il privilegio del permanente ferroviario,
ma i mezzi per il contatto con l’elettorato. Richiamò ben 25 anni fa perfino il
ruolo costituzionale del Cnel, che solo oggi viene cancellato. Vede i rischi del
procedimento legislativo con continue incomprensibili norme di rinvio che defini
un “Olimpo giuridico che il popolo non capisce”.
Potrei dire e scrivere molto altro.
Mi fermo qui. Resta il ricordo di una persona che sapeva coinvolgerti anche in
progetti difficili. Niente riteneva insuperabile. Apparteneva appunto a quella
generazione degli anni venti formata nella Resistenza, nelle difficoltà della
guerra e del dopoguerra, nella faticosa ricostruzione, negli anni del
contestazione giovanile e poi nel terrorismo e vedeva la necessità di adeguare
il sistema istituzionale nel solco della Costituzione. Un ribelle per amore.
L’Istituto Sturzo gli ha dedicato il giusto tributo in quella che Bartolo
Ciccardini considerava la sua casa, il luogo del confronto delle idee senza
pregiudizi.
Roma, 1 ottobre 2014
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La nebbia
del potere
Nella Sala del Refettorio di Palazzo
San Macuto è stato presentato l’ultimo libro di Marco Follini “La nebbia del
potere” per i tipi di Marsilio. Sarebbe stato un evento che avrebbe stimolato
Bartolo Ciccardini con Camaldoli.org e un ampio dibattito sulla rete. Lo
facciamo lo stesso perché non basta un twitter per raccontarlo. V’è stata una
larghissima partecipazione di pubblico. La qualità del panel dei protagonisti
del dibattito spingeva alla presenza insieme al desiderio di capire se è il
momento di accendere i fendinebbia, se inserire gli airbag o aspettare
passivamente che la nebbia si diradi. Aleggiavano nella sala gli effetti del
duro editoriale direttore del graficamente rinnovato Corriere della Sera verso
il Presidente del Consiglio titolato “il nemico allo specchio”.
Antonio Polito ha svolto il suo
ruolo di moderatore stimolando efficacemente il dibattito ponendo in apertura la
questione centrale della crisi della democrazia che pone fenomeni profondi
sanati da figure che saltano la intermediazione. Giuseppe De Rita ha
riconosciuto a Follini di avere prefigurato con largo anticipo la attualità con
una serie di precise affermazioni recuperate dalle pagine di un libro letto e
riletto. Siamo di fronte ad un potere abile propagandista di se stesso. La
analisi di De Rita si è concentrata su tre punti: l’idea del rapporto tra
politica verticale e orizzontale; il rapporto tra società civile e politica e il
rapporto tra politica e opinione pubblica. Oggi si parla alla gente con il
gestismo, ma la politica italiana è stata gentismo. Ricorre alla citazione di un
episodio del 1973 ,quando Moro disse che la politica deve essere capace di
orientare e Andreotti rispose che la politica non deve orientare ma
rassomigliare. Orientare significa pensare e riflettere. Questa contraddizione
non è stata risolta né da Craxi né dal Berlusconismo con i vari tentativi di
assomigliare alla società. Sulla scarsa capacità di mettere insieme verticalità
e orizzontalità cita l’episodio storico dei duemila morti di Venabro. La
Democrazia Cristiana aveva rimosso il desiderio di verticalità. Oggi si fa
fatica a orientare il policentrismo, ma anche la Chiesa è policentrica. La crisi
della società derivava dal suo policentrismo che nessuno sa governare. Infine il
rapporto tra politica e società civile si è ridotto perché tutti alla fine
girano interno al Palazzo per cercare di entrarci. Per De Rita la crisi del
potere è che il cambio di politica diventa cambio di regime e che non sappiamo
cambiare il corso delle politiche. Abbiamo tutti paura del vuoto che è il
problema del Paese fino a diventare una condanna italiana.
Gerardo Bianco che come presidente
della Associazione ex parlamentari aveva promosso la iniziativa riconosce a
Follini il merito di invitarci a riflettere con una analisi del potere. Cita
Ovidio. Sposta il dibattito sul potere esercitato della DC che era inclusivo,
fino a criticare la lettura impropria del doppio Stato e la sostituzione
progressiva dei poteri con il passaggio dalla società liquida di Bauman alla
liquidità del potere. Una società non regge se non ripensa al rapporto tra etica
ed economia e etica e democrazia, se non recupera valori e tradizioni, se la
politica non diventa eco prima di orientamenti e indirizzi. Bianco non perde la
occasione per fare un riferimento alla prima repubblica quando il potere era
ancora più disarticolato eppure fu momento di slancio perché c’erano valori di
civiltà italiana, elementi morali forti, classe dirigente che guardava al potere
come momento di elevazione. Per Bianco non si può recedere nelle piccole patrie
recuperando un pensiero forte. Walter Veltroni riconosce a Marco Follini il
segno di una passione politica. Ricorda il suo discorso del Lingotto del 2007.
E’ un libro dedicato al potere che non necessariamente coincide con la
democrazia. Sposta l’attenzione sui tempi atipici che viviamo in cui c’è
qualcosa di più profondo che la contingenza politica italiana citando casi
internazionali come il semipresidenzialismo francese e la crisi spagnola.
Riconosce la crisi dei meccanismi decisionali. La sua visione del mondo lo porta
a guardare anche al superamento della stagione dei blocchi, al nuovo quadro
internazionale e alla affermazione di strutture sovranazionali. Va in soccorso
di Renzi riconoscendo in modo semplificatorio che questo è il tempo di Tweet e
non quello del latino. Per Veltroni la democrazia deve essere rapida,
trasparente, decidente perché senza se e senza ma c’è solo la legalità. Poi è
intervenuto Ferruccio de Bortoli con eleganza di linguaggio e il consueto garbo
soffermandosi sul rapporto tra politica e comunicazione, senza rinunciare ad
entrare sul rapporto tra potere ed economia in virtù del suo bagaglio di
giornalista economico. Vede in questo libro di Follini un atto di amore verso la
politica; il libro fa riflettere perchè analizza il rapporto tra leader e potere
politico e arriva alla affermazione che quel rapporto della prima repubblica
merita di essere riletto. V’è il rischio che il destino del leader coinvolga il
partito nella sua interezza. Si sofferma sulla estetica del potere per come si
presenta alla opinione pubblica. La pubblica opinione ha finito per avere troppo
amore o eccessivo odio. De Bortoli ritiene interessante una autocritica dei
mezzi di informazione sul fenomeno della antipolitica. Prende atto della
modernità che viviamo con la rete e i social network, che la politica cavalca ma
che ha anche il dovere di mettersi contro le correnti della rete. La politica
non deve semplificare perché i problemi non hanno soluzioni semplici. Una
politica saggia sa usare gli strumenti della modernità senza farsi catturare. La
popolarità non può essere scambiata per consenso. IL rapporto con il pubblico
deve essere guardato con i mutamenti. Siamo tutti un po’ surfisti tendendo ad
aggirare gli ostacoli piuttosto che saltarli e avere saltato i corpi intermedi
ha indebolito la politica. Per De Bortoli non esistono i poteri forti e la
tematica non ha grande consistenza. Il Direttore del Corriere riconosce che
Mediobanca del passato era più forte e che quei poteri erano più internazionali
di oggi. Riconosce anche che la qualità delle persone del passato era superiore.
In risposta a Bianco dice che chi non lascia le proprie memorie corre il rischio
che vengono riempite da altri. E’ quasi un invito a scrivere una storia della
DC. Certamente gli uomini del passato aveva una idea di Italia. Oggi come nella
politica c’è perdita di peso specifico, altrettanto si manifesta nell’economia.
Le privatizzazioni non devono essere fatte da corsari ma da imprenditori seri,
non da chi guarda a profitti di breve termine.
Marco Follini ha replicato agli
intervenuti. Per Follini la politica è contesa tra idee e non tra persone.
La politica non è un derby tra
vecchio e nuovo. Fa una previsione che è anche scommessa sulla fortuna degli
storici revisionisti.
Guarda con preoccupazione al
giovanilismo politico ricordando che ai temi della legge Acerbo i deputati
avevano meno di quaranta anni e l’ottanta per cento erano entrati alla Camera
per la prima volta. La politica è la organizzazione della convivenza. Ha voluto
ricordare il suo maestro politico Aldo Moro con un particolare inedito dello
statista pugliese. Moro era un uomo che portava sia la cinta e che le bretelle
quasi a significare che il potere deve avere attitudine alla prudenza e alla
saggezza.
Un bellissimo pomeriggio di politica
nel Palazzo per accendere insieme fendinebbia e airbag sul potere prendendo
esempio da Aldo Moro perché la nebbia del potere rischia di mandare fuori strada
il Paese.
Roma, 25 settembre 2014
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Il video messaggio del premier Matteo Renzi e la colonna
di Marco Aurelio
Il Premier con un video
messaggio ha cancellato d'un colpo le cronache giudiziarie e lanciato il guanto
di sfida alla CGIL. Una operazione mediatica in stile berlusconiano. È cambiata
la location. Via i segni del poteri come telefoni, tavoli presidenziali arredi
barocchi solo il mezzobusto in camicia bianca, le bandiere sulla destra e sullo
sfondo la piazza Colonna che doveva rappresentare il popolo però
senza popolo. In grande evidenza la colonna di Marco Aurelio con la sua
straordinaria bellezza. Il Premier Matteo Renzi però sembrava apparire quasi
alla altezza del basamento della colonna piuttosto nel suo alto ufficio
presidenziale. La colonna è infatti alta 42 metri corrispondenti a 100 piedi
romani. Fu costruita per celebrare le vittorie di Marco Aurelio sulle
popolazioni germaniche tra cui i Marcomanni. Oggi forse la si vuole indicare
come inizio e simbolo della guerra ideologica tra governo e CGIL in nome di
nuove regole sui diritti dei lavoratori per avere quella flessibilitá che
l'Unione vuole subordinare alle riforme. Purtroppo la vicenda dell'articolo 18
non riguarda solo il PD. La tutela dei diritti ci coinvolge tutti.
Quello che è inaccettabile è la forzata alimentazione dello scontro fine a se
stesso con l'illusorio fine di dare tutele crescenti per taluni quando invece
diventeranno decrescenti per tutti.
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Renzi fa appello
all'unitá del PD
In una settimana pirotecnica che ha visto il vertice Nato, le polemiche su
Cernobbio, lo scontro sul blocco contrattuale della PA, le tensioni con il
comparto sicurezza, la polemica di Rosy Bindi sulla selezione della classe
dirigente, il Segretario del Pd ha chiuso i lavori della festa del partito a
Bologna con un appello all'unitá. Al vertice Nato Renzi ha riferito di avere
accantonato il paper dell'ambasciatore per fare una riflessione politica.
Immaginatevi la scena: i partner dell'alleanza hanno chiesto di aumentare sul 2
per cento le spese militari!
Quei vertici non sono come le direzioni del Pd. Rosy Bindi ha posto il problema
delle nomine dei Ministri per merito e non per bellezza. Siamo lontani dalle
posizioni di Rosy Bindi ma non si può riconoscere che ha fatto battaglie
politiche, condivisibili o meno ma i galloni se li ė conquistati sul campo. Ha
posto coraggiosamente una riforma sanitaria che prevedeva il tempo pieno per i
medici ospedalieri. Lo stesso non si può dire per molte nominate e cooptate sia
di centrodestra che di centrosinistra.
Il Presidente del Consiglio si è reso conto delle difficoltá che deve
fronteggiare nell'azione di governo nella previsione della revisione del
Documento di Economia e Finanza e nella predisposizione della Legge di
Stabilitá. La cessione di sovranitá indicata da Draghi può essere declinata in
tanti modi. Può riguardare l'agenda dei provvedimenti, le relative prioritá in
particolare, una accelerazione sul Job Act e sulla ristrutturazione
dell'apparato pubblico nel segno della linea indicata da Bruxelles e da
Cottarelli.
Sono previste misure dolorose che
richiedono un consenso ampio a cominciare dal suo partito. Di qui la sua
apertura. Ma essa appare tardiva perchè proposta quando tutto è giá stato deciso
e soprattutto quando la linea Renzi non può essere messa in discussione nelle
scelte di fondo.
C'è una immagine che da il senso di
un alibi ricercato da Renzi. La sua presenza solitaria sul palco di Bologna. Ha
rivendicato il successo delle europee. Tutta la classe dirigente fuori dal
palco, collocati in platea, quasi a significare one man show.
Poi il patto del tortellino con i leader socialisti europei ha sugellato la
collocazione internazionale del PD nella famiglia socialista, ma il piatto sará
stato indigeribile per i tanti post democristiani del partito democratico.
Per molti esponenti del PD il problema non ė dare sostegno alla linea politica
ed economica renziana, ma l'accettazione o meno del metodo renziano che cancella
il dna del partito e lo fa diventare una altra cosa, quella che fino a ieri
hanno sistematicamente avversato.
Roma, 7 settembre 2014 |
Il ruolo
dei cattolici di fronte al governo Renzi
Anche settori del Paese che hanno
entusiasticamente sostenuto il Governo Renzi si stanno accorgendo delle
difficoltá in cui si muove l'Esecutivo nell'affrontare i problemi reali. Non
bastano le politiche di annunci per rimettere in moto la economia e vincere la
grave disoccupazione. I numeri del decreto sblocca italia sono stati fortemente
ridimensionati, le attese deluse.
L'articolo 18 sul mercato del lavoro
all'interno del Job act, è stato messo sul binario morto. Non vi è stata la
stessa determinazione usata per altri provvedimenti. La tenuta del partito
democratico viene considerata prioritaria rispetto a scelte difficili, ma
irrinunciabili. Il monocolore Renzi sta dimostrando tutta la sua debolezza e
appare incapace di intervenire sui nodi dell'economia, da ciò che può liberare
risorse per investimenti pubblici e privati, domestici e internazionali, i soli
in grado di ridare corpo alle produzioni e ridurre la disoccupazione soprattutto
giovanile.
Sembrano prevalere logiche di
cessione di gioielli di stato o partecipazioni importanti per fare cassa senza
alcuna visione strategica per il Paese. Questa premessa era indispensabile per
chiarire meglio cosa si sta muovendo nell'area di centro. V'è la consapevolezza
di ritornare in campo con vigore per recuperare spazi politici desertificati. Il
punto di aggregazione economico e sociale sta nella centralitá dei valori del
popolarismo inteso come attenzione ai ceti medi produttivi, alla giustizia
sociale, alla economia sociale di mercato, al contrasto alle ingiustizie e alla
attenzione più marcata verso i più deboli. Il punto di aggregazione politico sta
nella convergenza con quelle forze che rifiutano il disegno di riforma
costituzionale e la legge elettorale portata avanti dal governo Renzi che per
bloccare il sistema va contro i principi di rappresentanza e dunque contro la
nostra storia. Questo va detto con chiarezza. Il punto di convergenza è nella
opposizione al Governo. Non vi possono essere nè dubbi nè incertezze. Qualsiasi
aggregazione del tipo costituente popolare che si fondi solo sulla sommatoria
algebrica di parlamentari che non hanno più alcun consenso popolare - come
dimostrato dalle elezioni europee - rappresenterebbe solo un tentativo di
precaria sopravvivenza legata a logiche di potere e dunque priva di prospettive.
Il CDU si sta muovendo in questa
direzione con grande limpiditá e determinazione. Si stanno ritrovando
entusiasmi; si stanno trovando significative convergenze e aggregazioni che si
possono consolidare solo con chi non è corresponsabile di scelte sbagliate che
stanno accentuando la deflazione e aggravando i problemi del Paese.
Non è più tempo di annunci ma di
scelte forti e responsabili.
Roma, 1 settembre 2014
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POPOLARI,
NASCE IL COORDINAMENTO DEI MOVIMENTI CHE
FANNO CAPO AL PPE
Mario Mauro
(Popolari per l’Italia), Maurizio Eufemi (Cdu), Ettore Bonalberti
(Alef-Associazione Liberi e Forti) e Publio Fiori (Rinascita Popolare)
hanno deciso in un incontro a Roma di dare vita alla Confederazione dei
Popolari Italiani. All’incontro ha dato la sua adesione anche Gianni
Fontana, a nome dell’associazione Democrazia Cristiana e Luigi Baruffi a
nome della Federazione nazionale dei Partiti regionali Democristiani. La
riunione dà seguito a un lavoro già avviato da mesi con molte altre
organizzazioni, associazioni , movimenti e gruppi dell’area popolare e
di ispirazione democratico cristiana.
I partecipanti
si sono impegnati a firmare un documento politico per la costituzione
formale della Confederazione dei Popolari Italiani e hanno dato mandato
al senatore Mauro di rappresentare in Parlamento e presso il governo i
temi emersi nella riunione. Un lavoro che sarà accompagnato da
iniziative unitarie delle diverse realtà associative in tutte le regioni
italiane, quali tappe di un confronto preparatorio in vista di una
grande assemblea dei popolari italiani da tenersi entro la fine
dell’anno.
Gli intervenuti
hanno espresso posizioni comuni sulla grave crisi economica e sociale in
cui versa il Paese, anche alla luce dei recenti dati sulla
disoccupazione e della certificata deflazione."Una realtà ben diversa -
secondo i partecipanti alla riunione - dall’ottimismo di maniera
quotidianamente rappresentato dal governo Renzi, che rischia di creare
una situazione insostenibile per una maggioranza sempre più ridotta a
un monocolore PD".
"La Crisi
economica e sociale ha causato la rottura dell’equilibrio tra il ceto
medio produttivo allo sbando e le classi popolari più direttamente
colpite dalla crisi, ad essa si è accompagnato il tentativo pericoloso
sul piano della tenuta democratica del sistema risultante dal combinato
disposto riforma del Senato e sistema elettorale. Si tratta - hanno
affermato i partecipanti alla riunione - di elementi assolutamente
incompatibili con il patrimonio di interessi e di valori rappresentati
da sempre in Italia dal movimento dei cattolici e dei popolari
sturziani e de gasperiani".
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I Bronzi
di Riace
Le polemiche di questi giorni dimostrano la incapacitá di affrontare una
questione culturale come quella dei Bronzi di Riace senza pregiudizi e
strumentalizzazioni ideologiche.
Non vi è dubbio che bisogna cogliere l'occasione dell'Expo 2015 di Milano per
catalizzare l'attenzione dei visitatori sulle ricchezze culturali del Paese.
Perchè non legare i temi dell'Expo anche alla storia dell'uomo nel corso dei
secoli abbinandola ai percorsi culturali e artistici? Non vi sono ostacoli
tecnici al trasporto come ha dimostrato la mostra al Quirinale realizzata per
impulso del Presidente Pertini e come ha ricordato saggiamente Vittorio Sgarbi.
Perchè non legare il prezzo del biglietto ad una partecipazione agli incassi
anche per tutte le opere messe a disposizione dei Poli museali? Sarebbe uno
straordinario momento di marketing culturale che determinerebbe un successivo
grandioso ritorno in termini di visitatori nelle cittá d'arte e nei musei del
nostro paese. Perchè non promuovere fin d'ora - come proposi nel 2005 per le
Olimpiadi di Torino del 2006 - una lotteria Expo 2015 per mobilitare risorse
aggiuntive da destinare ai restauri dei monumenti. Ebbe un tale successo che il
Tesoro mise un limite di destinazione per le entrate. Lo stesso potrebbe essere
fatto per lotterie istantanee come i Gratta e vinci inserendo tra i premi anche
tessere di accesso permanente ai monumenti per le cittá d'Italia.
Sarebbe un coinvolgimento globale verso il nostro Paese.
Per fare questo non c'è tempo da perdere. Occorre abbandonare i pregiudizi e
attivare iniziative. C'è bisogno del fare.
Roma, 24 agosto 2014 |
Il
feeling con il ragazzo e il ragazzotto
Oggi, la voce del
Quirinale, Marzio Breda, ci informa di un feeling forte tra Palazzo Chigi e il
colle e che il premier è padrone dell'agenda, ma viene invitato a riflettere
sulle prioritá, senza mettere troppa carne al fuoco come rischierebbero di
essere le cinque riforme politico istituzionali che diventerebbero fuochi
ingestibili. Come dire c'è feeling ma deve essere affidato alla saggezza e
sapienza del Quirinale se vuoi superare gli ostacoli che hai di fronte e che si
chiamano innanzitutto controllo dei conti attraverso Padoan ed Unione Europea
attraverso la Bce e la visita informale a Cittá della Pieve.
Non a caso il vero
problema politico posto con intransigenza da NCD con l'articolo 18, che
rischiava di diventare terreno di scontro nella maggioranza, è stato prontamente
sminato collocandolo nell'ambito della riforma dello statuto dei lavoratori, in
un percorso meno accidentato come è una legge delega, dunque fuori dalla
attualitá. La posizione è stata ribadita con una intervista al Ministro Poletti
che allontana ogni pericolo presente spostando l'attenzione sull'articolo 41 e
46 della Costituzione.
Se dalle prime pagine
del Corriere ci spostiamo a quelle più lontane delle idee e degli
approfondimenti troviamo un interessante Mauro Magatti che analizza la lenta
metamorfosi del PD dal partito di Berlinguer a quello di Renzi, un partito
sopraffatto dal successo personale del suo leader. Magatti arriva alla
conclusione (riferita al ragazzo) che la volontá di cambiamento che a parole
tutti professano - riferita a statuti, bilanci e democrazia interna dei partiti
- è solo apparente se è proprio chi dichiara di volere rinnovare l'Italia a non
volersi o non sapersi rinnovare.
Alle riflessioni di
Magatti aggiungiamo quelle di Ostellino, per il quale, riprendendo una
intervista di Renzi ad un quotidiano inglese: " continueremo ad abbassare le
tasse" secondo il quale, il ragazzotto è a tal punto abituato a confondere il
fare col dire che lui stesso è prigioniero delle proprie chiacchiere dá per
fatto ciò che non neppure detto e, forse manco pensato. La amara conclusione di
Ostellino è che Renzi si rivela così più che un fenomeno innovativo, un caso di
regressione, un tardo figlio della prima repubblica , furbo e cinico, e della
cui vocazione democratica a né osare francamente lecito dubitare. Un tipetto su
cui contare con molta cautela. ...
Mi fermo qui. Viene da
domandarsi se Marzio Breda abbia letto oggi gli articoli a pagina 33 del
Corriere. |
Uscire
dall'immobilismo
Corrado Passera con un
intervento sul quotidiano Libero ha gettato un sasso nello stagno della
politica. Ha innanzitutto richiamato l'attenzione sulla gravissima situazione
economica anche per la sottovalutazione dei responsabili di governo.
Nella sua ferma presa di
posizione vi sono alcune indicazioni condivisibili.
In particolare la scelta
strategica di guardare innanzitutto al progetto Paese piuttosto che a riforme
costituzionali che non favoriranno partecipazione e governabilitá. V'è il
rischio di perdere tempo prezioso con il rischio di aggravare le criticitá
domestiche.
È condivisibile la
critica che muove a Renzi sull'eccesso di comunicazione e quindi di populismo
che cancella i corpi intermedi e le formazioni sociali.
Traccia linea di azione
che possono trovare convergenze soprattutto quando individua i valori liberali e
popolari, insisto autenticamente popolari, che riconoscano la famiglia come
centrale per un nuovo Welfare di comunitá, come terreno di nuove aggregazione
per elettori delusi e che non vogliono arrendersi ad una situazione politica
bloccata e paralizzante che impedisce il flusso di energie nuove.
Il cdu nei suoi
documenti e nelle sue recenti riflessioni interne ha formulato proposte che
trovano riscontro in alcune indicazioni espresse da Corrado Passera.
Si tratta ora di
mettersi alla stanga per non rassegnarsi ad un pericoloso immobilismo.
La sfida politica va
condotta sul terreno della politica e dunque sui programmi con la gente e tra la
gente, come noi del Cdu facciamo ogni giorno.
Roma, 16 agosto 2014 |
M.Tassone: il nuovo simbolo del CDU
Il Consiglio nazionale del
CDU ha scelto all’unanimità il nuovo simbolo del partito, raccogliendo
indicazioni e valutazioni,attraverso un sondaggio durato più di un
mese, di iscritti e simpatizzanti.
Il Consiglio nazionale
presieduto dal Senatore Iervolino si era aperto con una relazione del Segretario
nazionale del Partito Onorevole Tassone, sull'attuale situazione politica del
Paese, confermando le decisioni congressuali che vedono il CDU come un punto di
riferimento per una vasta area di formazione politica, culturale, liberale laica
e riformista accomunata da un impegno di difesa dei principi della democrazia e
libertà del nostro Paese. Non ci possono essere scorciatoie per risolvere i
problemi economici. In particolar modo, il Segretario ha affermato che il paese
non attende riforme costituzionali che compromettono gli equilibri della
democrazia e mettono in discussione il ruolo insostituibile delle rappresentanze
democratiche. Legare la riforma del Senato della Repubblica alla vandea dei
costi della politica piuttosto che ad una ridefinizione dei poteri del
parlamentarismo è demagogico e fuorviante rispetto alla prospettiva di creare
istituzioni efficaci ed efficienti che diano risposte ai cittadini ed è un atto
di affievolimento della "demos-kratia".Le
grandi questioni su cui bisognerebbe operare sono la modifica dell'articolo 81
della Costituzione, riportandola alla sua stesura originaria e quindi
eliminando il pareggio di bilancio, la soppressione di gran parte delle
authority indipendenti, un'anomalia, una dispersione di risorse enorme e con
assolutamente nessuna utilità sostanziale, il ripristino dei controlli reali
sulle regioni e sui comuni, la riforma della elezione dei Presidenti delle
Giunte regionali e dei Sindaci, con la previsione della sopravvivenza degli
organi assembleari anche in presenza delle dimissioni di Presidenti di giunta e
Sindaci, una lotta reale all'evasione, una rivisitazione della struttura
dell'articolazione delle competenze della Corte dei Conti, una politica per il
credito attraverso un impianto che controlli gli istituti bancari impegnati
alla raccolta di liquidità e scarsamente propensi ad aiutare le attività
produttive, una politica di reale risanamento economico, abbattendo i
monopoli delle aziende municipalizzate, di enti del parastato che sfuggono ad
ogni più elementare controllo sul piano economico. Una forte spinta quindi per
l'occupazione attraverso provvedimenti lineari e non complessi di difficile
applicazione, con risultati quindi, nulli.
Roma, 30/7/2014 |
Per
riprendere il cammino...
Ieri in una torrida giornata di
luglio ci siamo ritrovati per riprendere un cammino... Per rigenerare la
politica, per non arrenderci alla irrilevanza politica.
Natale Forlani ha svolto una penetrante relazione introduttiva per ridefinire
una linea nel solco del pensiero della dottrina sociale partendo dalle cause
della crisi che viviamo e dalla somma degli squilibri ( demografici,
territoriali, debito pubblico) che per il nostro paese diventano fattori di
debolezza sistemica. Ho raccolto alcune indicazioni che porto alla riflessione
comune. Di fronte alla crisi che impone sempre maggiore disintermediazione tra
Stato e cittadino, v'è stata la azione di supplenza delle famiglie come
ammortizzatori sociali e dell'associazionismo. Le risposte finora offerte sono
inadeguate perchè hanno determinato maggiore spesa pubblica e pressione fiscale.
V'è stata una progressiva affermazione dei diritti individuali con una
esaltazione del relativismo e conseguente marginalizzazione della famiglia come
entità. L'offerta politica si è incanalata nel populismo trovando
legittimazione sull'antipolitica. Non rinunciamo a praticare la politica su basi
nuove perseguendo l'obiettivo di riaggregare ripartendo dal fallimento di Todi 1
e di Todi 2 perchè non ci può essere una societá civile che sostituisce la
politica.
Dobbiamo ripartire da una idea dello sviluppo economico in cui si affermi il
pluralismo nel sistema delle imprese siano esse capitalistiche, sociali e di
forma cooperativa, per recuperare un ceto medio produttivo oggi marginalizzato.
V'è stato un ampio dibattito. Sono intervenuti ben 14 rappresentanti di
associazioni e movimenti, tra gli altri Sergio Marini, Giorgio Guerrini, Mario
Tassone, Ivo Tarolli, Floris, Alessandro Forlani, Carmagnola. Si è deciso di
rivederci a fine settembre per uno step ulteriore. Si è deciso di creare due
gruppi di lavoro: uno sulla identitá e uno sul progetto paese. Apriremo il
confronto on line per arricchire il dibattito con il contributo di quanti
vorranno partecipare alla elaborazione dei documenti secondo le proprie
sensibilitá.
P.s. Nel mio intervento ho sottolineato come una crescita dello 0,2, sul 2014,
aggravata da ulteriore caduta degli investimenti, peraltro precaria non
consente di dare risposte alla crisi occupazionale soprattutto giovanile.
Proprio rispetto alla analisi di Natale Forlani le risposte del governo sono
inadeguate perchè non si affronta il problema del debito pubblico e manca una
strategia di politica industriale. Assistiamo infatti alla acquisizione di
importanti pezzi di apparati industriali che vanno da Indesit-Whirpool a Ducati,
da Garofalo a Elettrolux. Queste operazioni sono più salvataggi o
ristrutturazioni di multinazionali nella globalizzazione piuttosto che
investimenti diretti capaci di generare nuova occupazione. Ho manifestato
altresì preoccupazione per il disegno di riforma costituzionale che riduce i
principi della rappresentanza e del pluralismo e comprime il ruolo e la funzione
dei corpi inintermedi quelli delle formazioni sociali.
Possiamo e dobbiamo ritrovare una identitá e una visione d'insieme senza farci
contagiare dal qualunquismo. Dobbiamo avere il coraggio di uno sguardo lungo e
di un pensiero forte. La nostra risposta deve essere coesione, rinunciando e
sacrificando ciascuno in qualcosa, per evitare di essere spettatori di una
partita giocata da altri. |
REFERENDUM STOP AUSTERITY
Oggi in Piazza Fiume in Roma,
una torrida giornata estiva, con punte di 35 gradi, ho convintamente firmato per
i 4 referendum sulla legge che ha recepito il fiscal compact e per cambiare la
politica economica dell'Unione Europea finalizzati allo stop all'austerità, si
alla crescita, si alla Europa del lavoro e per un nuovo sviluppo. Gli strumenti
di democrazia diretta che il governo Renzi vuole comprimere elevando sia il
quorum necessario per promuoverlo, così come ha alzato il numero delle firme per
le proposte di legge popolari devono essere salvaguardati perchè rappresentano
un modo efficace richiamare l'attenzione dei cittadini su temi che possono
sembrare lontani, ma che incidono sulla carne viva del Paese. Se non vogliamo
che le decisioni di politica economica sia guidate dal pilota automatico o dal
navigatore di marca tedesca dobbiamo costringere i responsabili del Governo a
misurarsi sulle questioni di fondo. Non dobbiamo essere sazi di democrazia per
la quale hanno combattuto i padri costituenti.
Maurizio Eufemi
|
Nota di
Mario Tassone A proposito dell'emendamento Tosato alla Assemblea
Costituente
Il mio amico Maurizio Eufemi commentando la proposta di riforma per l'elezione
del Presidente della Repubblica fatta da Casini, che riprende un emendamento
avanzato nell'assemblea costituente da Tosato, ricorda che contro tale
emendamento votarono ,fra gli altri, Ruini e Moro. Il richiamo ad Aldo Moro non
credo che possa creare difficoltà di alcun genere in P.F. Casini, impegnato a
scrivere la sua storia .
Casini propone di allargare la
platea degli elettori ai deputati europei italiani, fissare una soglia alta non
solo per le prime tre votazioni (due terzi) ma anche per le successive tre (tre
quinti) e, se anche queste dovessero risultare infruttuose, il presidente della
repubblica sarebbe eletto dai cittadini che dovrebbero scegliere fra i primi due
votati dai parlamentari nazionali ed europei.
Casini non si pone alcun problema
riguardo alla riforma del senato e a quella elettorale, che sono una chiara
linea di demarcazione tra democrazia vissuta sin dalla nascita della Repubblica
e un riformismo a colpi di machete che prefigura una democrazia da partito unico
con "alleati " vogliosi di vivere una esistenza serena senza scossoni e traumi.
Il mio amico Casini ha coniato un
motto di adesione a Monti "senza se è senza ma", poi lo stesso motto,
opportunisticamente, lo ha utilizzato per Letta, mentre oggi diventa una
professione di fede per Renzi finché tiene le redini del Paese. E,allora,vorrei
ricordare a Eufemi che è giusto ricordare Moro e i nostri valori,che comprendono
i sacrifici e il coraggio.
Oggi si vive alla giornata, senza
disegni, ma in un avventura senza pretese per gli altri ma per se' certamente si
!
p.s. - Sull'emendamento
presentato da Tosato alla Assemblea Costituente, citato da Casini, si espressero
contro Ruini e Moro a nome del Gruppo DC. Per la storia!. |
O
parlamentarismo o presidenzialismo. No il semipopolarismo
Di fronte a una riforma istituzionale combinata con una legge elettorale
incostituzionale e inaccettabile, e che giorno dopo giorno mostra profonde crepe
e contraddizioni enormi emergono le proposte più strampalate per correggere gli
errori più vistosi. L'ultima è quella del leader maximo dell'Udc Pierferdinando
Casini che dalle colonne del Corriere lancia il
semipopolarismo. Accorgendosi che con il sistema proposto, la elezione del
Presidente della Repubblica è facile appannaggio della maggioranza pigliatutto
che vince con una soglia bassa, propone di allargare la platea dei grandi
elettori ai deputati europei e di alzare il quorum a maggioranze qualificate
prima dei due terzi e poi dei tre quinti nelle prime tre e successive tre
votazioni.
Poi se si determina lo stallo parlamentare si procede con la elezione diretta
del popolo con il ballottaggio tra i primi due.
Il problema non è la maggioranza qualificata ma nella base parlamentare che è
inficiata dal sistema elettorale italicum.
Immaginate cosa succederebbe di fronte a difficoltá di raggiungere il quorum con
la indizione di elezioni presidenziali in chissá quale periodo dell'anno ( anche
d'estate) perchè non può essere programmabile la fine del mandato presidenziale
in caso di impedimento. Sarebbe la paralisi istituzionale.
Non si possono proporre soluzioni pasticciate per uscire da una proposta
elettorale caotica. Si abbia il coraggio di abbandonare strade impervie e
pericolose per la democrazia.
Roma, 3 luglio 2014 |
Il
partito dei sindaci e la revisione del catasto
C'è un partito invisibile che governa ormai il paese, quello dei
sindaci. Questo partito sta portando avanti una precisa strategia di
occupazione del potere in settori di governo e dell'apparato
amministrativo, oltre che una linea che piega le linee di indirizzo
politico generale ai desiderata dei sindaci. Si perchè non sono in
discussione solo questioni locali ormai, ma questioni che hanno riflesso
con le politiche economiche generali.
L'ultima vicenda è quella relativa alla revisione delle zone censuarie,
che viene svincolata da una visione generale dei problemi del Paese e
non sará difficile prevedere che prevarranno le esigenze di incassare
sempre di più rivalutando ciò che oggi è giá molto svalutato. Qui non è
in discussione la correzione di evidenti squilibri nelle valutazioni che
vanno certamente affrontati e come in parte giá è stato fatto. Qui è in
discussione il patrimonio abitativo, la ricchezza immobiliare del Paese
su cui si vuole mettere le mani senza controlli adeguati da parte del
Parlamento e dei corpi intermedi.
E la situazione peggiorerá inevitabilmente perchè aumentando la
fiscalitá immobiliare i valori di mercato tenderanno ulteriormente e
inevitabilmente a deprimersi.
I cittadini saranno nudi e indifesi rispetto a decisioni che saranno
imposte dall'alto.
In passato ci siamo sempre battuti contro questa impostazione che oggi
sta riprendendo vigore perchè l'opposizione è disattenta è distratta e
la storia delle deleghe e dei decreti legislativi è quella di un
parlamento piegato all'esecutivo, incapace di svolgere qualsiasi
funzione di controllo.
Abbiamo l'impressione che le sentinelle ancora una volta si siano
addormentate.
|
Giovanni Goria a vent'anni dalla scomparsa
Giovanni Goria viene ricordato oggi nella Sala della Regina a Montecitorio nel
ventennale della sua prematura scomparsa.
Era
entrato alla Camera nel 1976 a 33 anni nel segno del forte rinnovamento
zaccagniniano. Furono infatti ben 98 su 262 i deputati che furono eletti alla
Camera dei Deputati, con un tasso di rinnovamento del 37, 40 per cento,
inferiore solo a quello degasperiano della grande vittoria democristiana del
1948 che con 147 su 306 deputati risultò del 48,04 per cento, ma erano
condizioni diverse.
Giovanni Goria si affermò subito per la sua competenza in Commissione Finanze
sulla finanza locale per un governo dei conti degli enti locali, sul bilancio
dello Stato, sulle materie economiche. Fu ben presto chiamato a Palazzo Chigi
dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti a svolgere un ruolo di
coordinamento dei provvedimenti economici interfacciando con i gruppi
parlamentari nella difficile fase della solidarietá nazionale, mentre si
costruiva il piano Pandolfi, si modificavano le regole del bilancio con la
innovazione della legge finanziaria 468/1978 e sul piano esterno si ponevano le
basi dello SME in una scelta europea.
Proprio sulla finanziaria del 1978 intervenendo in Aula manifestò le sue
preoccupazioni per i problemi strutturali del Paese. " La scelta europea, pur
condizionata da atteggiamenti negoziali degli altri paesi membri, - affermò -
significa pur sempre un utilizzo antinflazionistico della politica dei cambi; un
severo rispetto delle compatibilità finanziarie; un rigoroso contenimento delle
dinamiche dei fattori interni relativi ai costi di produzione; il tutto
governato non in termini episodici, ma con prospettive certe di continuità di
azione, continuità che diventa fattore essenziale per il recupero di una
sufficiente spinta all’investimento complessivo.
Nella
sua seconda legislatura, quella dal 1979 al 1983 Giovanni Goria divenne
capogruppo in Commissione Finanze. Gerardo Bianco volle affidargli nell'ottobre
del 1980 la guida politica dell'osservatorio di legislazione economica che
realizzammo con Luigi Cappugi e tanti giovani che di sarebbero poi affermati con
ruoli di responsabilitá.
Si
trattava di una autentica innovazione. Il gruppo parlamentare si dotava di un
autonomo centro di ricerca e di elaboraborazione dei dati, allora solo nelle
mani del governo. Basti pensare che neppure la Camera disponeva del potente
Ufficio studi che conosciamo ora o del servizio bilancio che verrá costruito
successivamente.
Si
offrì ai parlamentari democristiani uno strumento continuativo di
approfondimento dei problemi economici all'esame del parlamento valutandone gli
effetti sulla finanza pubblica e sul sistema economico e sociale del Paese.
Era un
modo per affermare la centralitá parlamentare nel segno del consolidamento della
democrazia ad un livello di qualitá e di maturitá più elevato. Furono prodotte
più di cento schede, poi raccolte in volumi. Non ci fu mai censura neppure
preventiva. Su una di esse vi fu uno scontro politico a villa Madama per i
rilievi particolarmente critici che si sfiorò la crisi di governo per la
irritazione di Giorgio La Malfa di fronte a misure che venivano considerate di
difficile praticabilitá e altre "scritte sul ghiaccio"
Poi
Giovanni Goria brucia le tappe. Un viaggio negli Stati Uniti preparato con cura
sui vari problemi del Paese lo fa conoscere oltreoceano. Diventa sottosegretario
al Bilancio nel dicastero Spadolini nel luglio 1981 e ministro del Tesoro nel v
governo Fanfani nel dicembre 1982. Manterrá quel dicastero con il dicastero
Craxi fino al 1987 fino a quando diventerá il più giovane Presidente del
Consiglio, quando la legge finanziaria diventerá il momento dell'assalto alla
diligenza, manifestando pericolose crepe nel funzionamento parlamentare fino al
punto che Nilde Iotti la definì un "inghippo". Si inaspriva lo scontro tra
parlamento e Governo. Alla centralitá parlamentare si contrapponeva la esigenza
di governabilitá e di stabilitá.
Nel
1985 Giovanni Goria! ministro del Tesoro, elaborò il piano per il rilancio della
azione programmatica con l'obiettivo di consolidare lo sviluppo e rilanciare
l'occupazione nella sua finalitá prioritaria. Era necessario massimizzare la
crescita creando 300.000 posti aggiuntivi all'anno per assorbire l'aumento
naturale delle forze lavoro.
Giovanni Goria chiudeva quel suo documento con queste parole:" nel nostro domani
forse non c'è il baratro perchè gli equilibri raggiunti ci mettono al riparo dal
peggio, almeno nel breve ieri odo; c'è però sicuramente una ulteriore
frantumazione delle speranze di chi cerca lavoro o ha paura di perderlo; in
altri termini c'è l'ennesima prevaricazione della parte più forte del Paese su
quella più debole".
Roma,
18 giugno 2014
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Gianni Goria nel ricordo di Pisanu,
Scotti, Sacconi e Mattarella
Dopo una biografia di Marco Damilano che ha tratteggiato i punti più importanti
della vita politica di Gianni Goria sono intervenuti nell'ordine Giuseppe
Pisanu, Enzo Scotti, Maurizio Sacconi e Sergio Mattarella che hanno affondato la
memoria nel cassetto dei ricordi, dei momenti di incontro, delle vicende
politiche di quegli anni.
Pisanu si è soffermato sulle elezioni del 76 con le parole di Aldo Moro sue
due vincitori in presenza di forte inflazione, un Pil negativo e dall'emergere
del terrorismo. Vera la brutale alternativa del ricorso alle urne o della
intesa. Prevalse l' esigenza di dare governo al paese per riassestare il
sistema politico con la formula del compromesso storico di Berlinguer o della
solidarietá nazionale per Moro.
Superata la emergenza i due partiti sarebbero tornati alternativi senza più
rischi per la democrazia. Goria giunge a Roma in questo contesto. Nonostante la
risevatezza e la sua sobrietá si impose subito per la serietá e per la sobrietá.
Milo Rubbi lo sosteneva diffusamente apprezzandone le capacitá.
Era un tecnico e un politico che sapeva fare analisi e pensieri lunghi. Aveva
senso alto dello stato e della moralitá pubblica.
Per Enzo Scotti si era nel pieno di uno scontro mondiale. Il segretario del PSI
De Martino a Natale del 1975 si era espresso sugli equilibri più avanzati.
Ricorda le parole di Moro ai gruppi parlamentari il 28 febbraio 1978: " il
futuro non è nelle nostre mani".
Goria svolge un ruolo importante a Palazzo Chigi con Cappugi e con lo stesso
Scotti per il programma economico. Si scontrano due linee una di
riposizionamento e l'altra di tenere tutto in piedi accollando alla finanza
pubblica che voleva un paese chiuso. Ne discutono con Chiaromonte e
Napolitano.
Alla fine si liquida il governo di solidarietá nazionale come politica lassista.
Era un uomo allergico alle correnti. Ricorda come si riuscì ad intervenire sulla
spesa previdenziale per 2.400 md. Lo scontro con il Pci avvenne sulla
invarianza dei salari reali. Nel novembre del 1982 ci reincontrammo perchè il
23 gennaio scadeva l'accordo sulla scala mobile. Fanfani, presidente del
Consiglio, ci affidò compito di trovare accordo generale che consentisse lo
scambio sociale. Lavorammo intensamente per 20 giorni. Voleva il dialogo con i
sindacati. Il tempo non è una variabile indipendente. Purtroppo rigore senza
consenso e senza sviluppo ha fatto disastri inenarrabili.
Lo scontro era tra tre linee: accordo di potere con i socialisti; un accordo
strategico con il PSI per fare le riforme; Infine il ridimensionamento del PSI
per guardare al Pci.
Maurizio Sacconi ricorda i momenti di dialogo con Gianni Goria come relatore di
3 finanziarie quando Goria era ministro del Tesoro. Gli anni ottanta sono stati
la risposta agli anni 70.
Goria sapeva maneggiare i dossier, in modo diverso da Andreatta. Guardava con
preoccupazione alla spesa operando una distinzione tra competenza e cassa
soprattutto agli impegni presi negli anni settanta. Ricorda la vicenda del tetto
a 50.000 con sfondamento a 75.000. Eredità della trojka Lamalfa Formica e
Andreatta. Sottolinea negativamente il parlamentarismo selvaggio, la vicenda
del divorzio Tesoro Banca d'Italia, la finanza derivata di stammati e
visentini. Negli anni ottanta a Gianni Goria si deve una maggiore
responsabilizzazione dei centri di spesa perchè gli enti locali avevano
dilatato la spesa dal 6 al 13 per cento. Gianni Goria individuò la necessitá
della riforma dello stato sociale contrastando la intermediazione. Individuando
la famiglia come protagonista di un modello sociale sostenibile. In quegli anni
Gianni De Michelis e Goria puntano a ridurre il tendenziale. Non si può infine
dimenticare che con Goria, presidente del Consiglio nasce e si avvia la
riforma della legge Amato sulle banche pubbliche e sulle sim.
Sergio Mattarella interviene ricordando il suo ruolo di Ministro dei rapporti
con il Parlanento del Governo Goria. Goria era un uomo che studiava i dossier e
quando li si esamina non ci si annoia. In quegli anni si mise mano alle riforme
regolamentari del 1988 Che interessarono anche la sessione di bilancio e la
tesoreria unica. In sedici anni ha svolto un intensa stagione parlamentare.
Il governo Goria nacque sul programma di decantazione, di transizione. Gli
avvenimenti vanno affrontati.
Fronteggiò problemi gravi. Riteneva necessario ridurre l'esercizio del voto
segreto. Nel 1987 affrontò la crisi del golfo persico su una missione
all'estero superata con 3 voti. A ottobre si prospettarono l'insegnamento
della religione dopo i patti madamensi e la frana della Valtellina. I decreti
legge ereditati ben 41. Definì intesa tra maggioranza e opposizione. Nilde
Iotti favorì lo smaltimento accorpando e smaltendo. Impostò riforme per guardare
al futuro. L' avvio della legge 362 e della legge 400 sulla presidenza, furono
due grandissimi risultati.
Il suo governo aveva limiti obiettivi, ma non fece nulla per allungare il
termine. Aveva un forte senso del dovere istituzionale e morale. La normalitá
del suo linguaggio lo rendevano semplice e comprensibile. Era spontaneo.
Riduceva la distanza con gli interlocutori perchè era direttamente espressivo.
Rispetto ai tempi che viviamo va ricordata la concretezza del suo lavoro, la
sobrietá dello stile di vita.
Roma, 18 giugno 2014
|
Bartolo Ciccardini
Stamani ci siamo ritrovati in tanti nella sua parrocchia del Buon Pastore alla
Montagnola per rendere l'ultimo saluto a Bartolo Ciccardini. Erano presenti tra
gli altri Arnaldo Forlani, Mario Segni, Michele Zolla, Cinzia Bonfrisco, Enzo
Carra, Giovanni Bianchi, Alessandro Forlani, Fazio Bianco, in rappresentanza di
Gerardo Bianco che si trova all'estero, Pino Ferrarini, Flavia Nardelli, una
rappresentanza di Francesco Merloni, un commosso Marco Pannella e tanti altri
che hanno voluto testimoniare affetto alla famiglia di Bartolo ricordando così
il suo impegno politico per la modernizzazione delle Istituzioni, per il
cambiamento e per il rinnovamento generazionale, in una visione in cui la
persona umana è stata sempre la espressione più alta.
La funzione religiosa è stata celebrata da vescovo Mons Schiavon che ha anche
tratteggiato la figura dell'uomo politico Bartolo Ciccardini. Non vi è stato
spazio per commemorazioni pubbliche. È per queste ragioni che sará individuato
un momento per lumeggiarne adeguatamente la figura.
Bartolo era impegnato con la sua rivista on line Camaldoli, con l'attivitá dei
partigiani cristiani, con l'Istituto Sturzo con la finalitá per non disperdere
la memoria dei cattolici nella Resistenza.
Aveva costruito l'incontro del prossimo 24 giugno dedicato all'anniversario
della scomparsa di Livio Labor, presidente delle ACLI. Aveva voluto una sede
prestigiosa, densa di significati come Palazzo Giustiniani, così come aveva
fatto nelle recenti iniziative per Dossetti e la Costituzione e per il 70
anniversario del Codice di Camaldoli.
Ricordare gli avvenimenti per tenere viva la memoria soprattutto delle giovani
generazioni.
Ci ha lasciati con un programma ancora vasto di idee e di appuntamenti. Abbiamo
il dovere di portarlo avanti tenendo vive le parole di Padre Davide Turoldo che
amava ricordare:
Riprendiamoci amici il nostro nome di battaglia e armiamoci di luce!.
Roma, 14 giugno 2014 |
Rapporto
della Corte dei conti
La corte dei conti ha presentato un
interessante rapporto sul coordinamento della finanza pubblica.
La corte come magistratura contabile si è attrezzata rispetto alla evoluzione
dei conti pubblici. Non sono valutazioni ex post ma anche valutazioni sulla loro
dinamica anche tenendo conto di shock positivi sulla crescita.
V'è un certo ottimismo nel guardare al 2018 in un quadro economico
internazionale che non offre certezze.
Troppe variabili rischiano di essere aleatorie.
Tutto viene giocato sulla fiducia generata da annunci su riforme che sono solo
sulla carta.
C'è il rischio che le aspettative possano mutare se non si vedono riscontri
positivi.
Restano i numeri che indicano la particolare situazione del Paese. Ne ricordiamo
alcuni:
Una pressione fiscale nel 2013 pari al 43,8 quattro punti superiore al livello
medio dell'Unione; l'eccesso di prelievo gravante sul fattore lavoro che
evidenzia un cuneo orari al 47,8, quasi 6 punti superiore alla media di 21 paesi
pari al 42 per cento; il funzionamento dell'Irpef falsato da due fenomeni come
elusione ed erosione che influiscono sul livello e sulla distribuzione del
prelievo; il fenomeno della erosione per dimensione 105 md e 176 agevolazioni su
720 configura una "fuga" dalla progressivitá dell'imposta; l'operare di tutte le
agevolazioni produce un forte ridimensionamento della aliquota media effettiva
che si riduce dal 27,3 al 19 per cento; l'operatività dell'Irpef viene
condizionata dalla esplosione delle addizionali destinate al finanziamento di
Regioni e Comuni, alterandone l'incidenza e distorcendone gli equilibri
distributivi; scelte selettive rientranti nell'ambito proprio dell'Irpef se
affidate a surrogati come prelievi di solidarietá, bonus e tagli retributivi
sono all'origine di un sistematico svuotamento della base imponibile dell'Irpef,
finendo per intaccare la portata e la efficacia redistributiva dell'imposta.
Emerge poi la costellazione delle societá partecipate e degli enti strumentali
che secondo un censimento determina la erogazione di ben 25 miliardi con
sovrapposizione di compiti e duplicazione di funzioni e costi.
Se l'Italia vuole raggiungere il rapporto spesa/Pil della Germania al 41 per
cento dovrebbe tagliare 2 punti di Pil corrispondenti a 32 md come indicato
dalla spending review. Questo obiettivo appare ambizioso rispetto al livello
della crescita che appare troppo bassa rispetto a quella della Germania.
Viene indicato il risultato positivo delle amministrazioni locali che hanno
prodotto un avanzo primario di 3,6 miliardi ma ciò è stato possibile per gli
effetti delle addizionali.
Il percorso delle riforme appare ineludibile. È illusorio pensare che quelle
istituzionali da sole possano determinare più investimenti e più crescita. È
altresì illusorio immaginare che la crescita possa essere determinata da
virtuosi comportamenti solo domestici e l'Europa non modifichi le sue politiche
per una maggiore armonizzazione economica e sociale tra gli Stati dell'Unione.
Roma, 4 giugno 2014 |
Nell'ottobre 2001
ponevo la questione... Con una interrogazione esaminata congiuntamente a
quella presentata dal Sen Passigli Oggi il presidente
del consiglio la ripropone...
EUFEMI. – Ai
Ministri dell’economia e delle finanze e delle comunicazioni.– Per
conoscere:
le sue valutazioni sulle notizie di stampa relative alla
vendita della Raiway alla società americana Crown Castle di Houston – Texas;
se tale vendita sia consentita dallo Statuto, trattandosi di
impianti di diffusione radiofonica e televisiva che rientrano tra gli scopi
sociali della RAI Spa;
se sia stata approntata una gara di vendita e se non si ritenga
che con tale operazione venga violata la concessione tra RAI e Ministero
delle comunicazioni;
se tale vendita sia stata sottoposta alla decisione del
consiglio d’amministrazione della RAI e se siano state rispettate le
procedure di vendita;
le valutazioni del Ministro su tale operazione, sulla quale
emergono pesanti ombre sia di legittimità giuridica che di valutazione
economica;
quali siano infine gli effetti finanziari dell’operazione sul
bilancio della RAI Spa, anche per i riflessi sul canone radiotelevisivo.
N.B.
I testi di seduta sono riportati in allegato al Resoconto stenografico.
L’asterisco indica che il testo del discorso è stato
rivisto dall’oratore.
Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN;
CCD-CDU:Biancofiore: CCD-CDU:BF;
I lavori hanno inizio alle ore 15,40.
INTERROGAZIONI
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento di
interrogazioni.
Sarà svolta per prima l’interrogazione 3-00162, presentata dal
senatore Passigli.
GASPARRI, ministro delle comunicazioni. In
riferimento all’interrogazione del senatore Passigli, (3-00162),
sull’accordo tra la Rai e la società Crown Castle, il 26 ottobre ho assunto
la decisione di negare la presa d’atto della cessione da parte della RAI
alla CCR srl, società controllata dalla Crown Castle International
Corporation, delle azioni rappresentative del 49 per cento del capitale di
Raiway.
E’ indubbio che la decisione spettasse – contrariamente a
quanto erroneamente affermato dall’onorevole Passigli nel corso della sua
intervista all’Unità del 28 ottobre – solo al Ministro delle comunicazioni.
Ed invero 1’articolo 1, comma 5 della
Convenzione Stato-Rai prevede che la concessionaria possa avvalersi, per
attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi (tra cui rientra
l’installazione e l’esercizio tecnico degli impianti) di società da essa
controllate, previa autorizzazione del Ministero delle poste e delle
telecomunicazioni (ora Ministero delle comunicazioni). La Rai venne
autorizzata con atto a firma dell’allora Ministro in carica Cardinale
dell’11 novembre 1999 ad avvalersi della società New Co TD (ora Raiway),
dalla concessionaria interamente controllata. Nell’atto di autorizzazione
era espressamente previsto che ogni variazione dell’assetto di controllo
della New Co TD (ora Raiway) dovesse essere preventivamente autorizzata dal
Ministero delle comunicazioni che si riservava di modificare ovvero di
revocare l’autorizzazione in qualsiasi momento.
Inoltre, l’atto di compravendita del 49 per cento della
partecipazione a Raiway è stato dalle parti (RAI e CCR) condizionato
risolutivamente alla mancata acquisizione della presa d’atto del Ministero
delle comunicazioni.
Da quanto precede consegue inequivocabilmente che solo il Ministro
delle comunicazioni avrebbe potuto concedere o negare la presa d’atto. Il
motivo della decisione del Ministro deriva dal contenuto del contratto, che
il senatore Passigli potrà leggere. Il perché sia stato redatto in questo
modo dovrà chiederlo ad altri ministri e Governi.
Tuttavia, ho ritenuto doveroso informare della mia decisione – in
base all’affidamento esclusivo della decisione a me – il Presidente del
Consiglio ed i Ministri durante la seduta del Consiglio dei ministri del 26
ottobre. Ho ritenuto maleducato che il Governo assumesse questa notizia
dalle Agenzie di stampa.
Il Presidente del Consiglio si è limitato, quindi, a prenderne atto,
senza che potesse minimamente esserne coinvolto a livello decisionale né,
tantomeno, potesse darvi la propria approvazione, affatto prevista.
Peraltro non ritengo, come ministro competente a prendere la
decisione, che il diniego di presa d’atto abbia l’effetto di condurre la Rai
sotto stretto controllo dell’Esecutivo né di incidere sull’autonomia, che,
oggettivamente, deve conciliarsi con gli obblighi stabiliti in convenzione.
Né ritengo che la Rai risulti dalla mancata cessione indebolita
finanziariamente, posto che dalla relazione semestrale alla data del 30
giugno 2001 trasmessa al Ministero, emerge addirittura un risultato
economico positivo ( + 78,1 milioni di euro), pur se inferiore rispetto a
quello del corrispondente semestre del 2000. E’ evidente, poi, che la
decisione presa non ha alcun collegamento con il tema della privatizzazione
della RAI, che deve essere oggetto di ben diversa riflessione nelle
opportune sedi parlamentari.
Trattandosi dunque - ripeto - di atto adottato singolarmente ed
individualmente da me, in qualità di Ministro delle comunicazioni
competente, non ho rinvenuto in esso alcun profilo da cui potesse scaturire
un conflitto d’interesse.
PASSIGLI (DS-U). Il Ministro Gasparri più
che alla mia interrogazione risponde, in realtà, a notizie di stampa, e cioè
a mie osservazioni fatte all’indomani della sua lettera. L’interrogazione
riguardava esattamente i rapporti intercorsi all’interno del Governo su
questa decisione nella sua fase finale. Prendo atto di quanto ha detto il
ministro Gasparri, ma ho qualche difficoltà a ritenere che questioni di tale
importanza per l’emittente pubblica – con tale rilevanza economica – vengano
decise solo da un Ministero, senza interpellare il Ministro del tesoro che
della Rai è l’azionista. Prendo atto che il ministro Gasparri afferma che il
Presidente del Consiglio nulla sapeva della questione. Nel merito, però,
continuo a ritenere che la questione sia un po’ più complessa di come la
presenta il Ministro. La presa d’atto del contratto tra Rai e Crown Castle,
negata dal Ministro, era stata prevista all’atto della creazione di Rai Way,
allora denominata diversamente, per assicurare il rispetto di tutti gli
obblighi contemplati nella convenzione e nel contratto di servizio. Ciò non
significa che il Governo abbia una totale discrezionalità, ma semplicemente
che può negare la presa d’atto solo motivatamente, laddove le variazioni
dell’assetto proprietario di RaiWay violino accordi previsti dalla
convenzione o dal contratto di servizio. Questo non è il caso del contratto
Rai-Crown Castle, i cui patti parasociali non incidono sugli obblighi di
servizio pubblico della Rai. Il rifiuto della presa d’atto è infatti
motivato, nella lettera del Ministro del 26 ottobre 2001 a tutti i
parlamentari, non con una violazione del contratto di servizio ma ricorrendo
a tre motivazioni totalmente estranee a tale contratto.
La prima argomentazione è che i patti parasociali darebbero a
Crown Castle un potere di indirizzo strategico sulle attività di RaiWay,
addirittura superiore a quello della Rai. Non è così: nominare la
maggioranza dei componenti il collegio sindacale è, infatti, prerogativa che
la prassi dei contratti internazionali riconosce sempre all’azionista di
minoranza; analogamente, il prevedere maggioranze qualificate sia per i voti
di Consiglio che in sede di Assemblea straordinaria è nuovamente una prassi
comune a tutti i contratti internazionali, a tutela di quella che si usa
chiamare una minoranza di blocco.
Anche l’affidare le funzioni di gestione del Tower
business ad un dirigente nominato dal Consiglio di
amministrazione, piuttosto che all’Amministratore delegato, non fa venire
meno i poteri di indirizzo del Consiglio di amministrazione stesso. Quindi,
a me sembra che il rifiuto di presa d’atto da parte del Ministro non possa
essere motivato sulla base dei patti parasociali. Infatti, si ricorre a due
ulteriori motivazioni: in primo luogo, il Ministro argomenta il suo rifiuto
sulla base di una scarsa tutela del puro e semplice interesse commerciale
(semmai, mi sembra che non si tratti di interesse commerciale ma economico);
la seconda giustificazione è che il valore patrimoniale è superiore. A
questo proposito, il Ministro fa riferimento ad una valutazione – di cui non
ho avuto modo di prendere conoscenza – effettuata dall’IRI, circa dieci anni
fa peraltro, non credo mai suffragata da stime esterne né, soprattutto, da
verifiche di mercato. Nessuno, infatti, si fece avanti per acquistare il
bene in questione.
Pertanto, appare più attendibile la valutazione effettuata da una
serie di advisors indipendenti, tra cui l’Arthur
Andersen che giunge ad una valutazione massima per l’intero pacchetto
azionario di 1.350 miliardi, cosicché gli 800 miliardi, che Crown Castle
pagherebbe per una partecipazione del 49 per cento, quindi senza premio di
maggioranza, rappresentano una cifra ben superiore. In ogni caso,
l’azionista IRI holding (o ex IRI holding) è
ricorso ad advisors ulteriori quali Rotschild e Lazard,
di cui il Tesoro si serve abitualmente quando fa operazioni di offerta
pubblica e di vendita delle proprie partecipazioni che hanno confermato la
valutazione in questione. Non credo che abbiamo il diritto di ritenere che
quanto è da più advisors internazionali considerato un
prezzo congruo, anzi vantaggioso, non lo sia.
Infine, vengo alla terza ed ultima motivazione offerta, dato che le
motivazioni inerenti al contratto di servizio, le sole che competono al
Ministro delle comunicazioni, non giustificano il diniego di presa d’atto.
L’ultima è anche la giustificazione politicamente più significativa:
infatti, la ragione addotta dal Ministro Gasparri per negare la presa d’atto
consiste nella sua affermazione che le apparecchiature di Raiway assolvono –
cito – «a delicatissimi compiti di sicurezza di cui solo una gestione
realmente riconducibile, anche indirettamente, alla parte pubblica può
garantirne la piena disponibilità». Tutto ciò conferirebbe al sistema che la
Rai ha costruito un’importanza strategica. È evidente che, se si sottoscrive
una simile posizione, Raiway e la stessa Rai non potranno mai essere
privatizzate, come peraltro ancora dispone (o ancora auspica) un non da
tutti dimenticato referendumpopolare.
Ostacolare la privatizzazione della Rai, dalla quale prenderebbero
vita nuovi soggetti attivi nel sistema televisivo; mantenere una Rai
pubblica ma finanziariamente indebolita (dal momento che gli ultimi dati,
con il calo avvenuto in tutto il mondo dei gettiti pubblicitari – salvo la
grande capacità di Mediaset, che sembra risentirne meno di altre
organizzazioni – porranno la Rai a fine anno in una posizione nettamente
indebolita: questi sono i risultati del no posto dal Ministro; quelli di
mantenere la Rai in una posizione finanziariamente indebolita, quindi meno
in grado di competere con il monopolista privato e di evitare che gli
impianti della RAI, attraverso la loro privatizzazione, possano essere
affittati a terzi, rendendone accessibile l’uso a nuovi operatori.
A questo punto si impone un interrogativo che riporta alla domanda
iniziale: può un Governo, guidato dal proprietario del principale
concorrente della Rai, assumere decisioni che favoriscono Mediaset ed
indeboliscono la TV pubblica? A me sembra di essere chiaramente in presenza
di uno di quei casi di conflitto di interessi per i quali domandiamo da
tempo una legge. Queste sono le vere ragioni politiche che non sono
attinenti a patti parasociali che rientrano negli standard internazionali
(come qualsiasi professionista può dire), né a valutazioni economiche perché
queste avrebbero consigliato un sì al contratto. Le vere ragioni ineriscono
piuttosto, e sicuramente, a motivazioni politiche.
Devo, pertanto, dichiararmi insoddisfatto dell’intervento del
ministro Gasparri.
PRESIDENTE. Segue l’interrogazione n. 3-00164, presentata dal
senatore Eufemi.
GASPARRI, ministro delle comunicazioni. I
giornali e le radiotelevisioni nazionali e straniere, nella gran parte dei
casi, hanno correttamente informato circa il diniego di presa d’atto
dell’operazione di cessione alla Crown Castle delle azioni rappresentative
del 49 per cento del capitale di Raiway da me comunicato alla Rai il 26
ottobre.
Ciò tranne in alcuni casi, nei quali il contenuto degli
articoli ha travisato la mia posizione e che mi sono premurato di
rettificare, annunciando, per taluni di essi, di adire le vie legali.
L’articolo 1, comma 5, della Convenzione Stato-Rai prevede che la
concessionaria possa avvalersi, per attività inerenti all’espletamento dei
servizi concessi (tra cui rientra l’installazione e l’esercizio tecnico
degli impianti) di società da essa controllate, previa autorizzazione del
Ministero delle poste e delle telecomunicazioni (ora Ministero delle
comunicazioni).
La Rai venne autorizzata con atto, a firma del Ministro pro
tempore, dell’11 novembre 1999 ad avvalersi della società New Co
TD (ora Raiway), interamente posseduta dalla concessionaria.
Nell’atto di autorizzazione era espressamente previsto che ogni
variazione dell’assetto di controllo della New Co TD (ora – ripeto – Raiway)
dovesse essere preventivamente autorizzata dal Ministero delle
comunicazioni, che si riservava di modificare ovvero di revocare
l’autorizzazione in qualsiasi momento.
Dunque, costituisce già una anomalia la circostanza che la Rai,
anziché chiedere preventivamente l’autorizzazione alla cessione del 49 per
cento di Raiway, abbia stipulato la compravendita condizionandone
risolutivamente l’efficacia alla successiva mancata presa d’atto, entro sei
mesi, del Ministero delle comunicazioni.
Per l’individuazione dell’acquirente, la Merrill Lynch, advisor della
Rai, ha svolto una procedura di selezione. I relativi atti sono stati
forniti, su mia richiesta, dalla Rai solo il 16 ottobre, quindi pochi giorni
prima della scadenza del termine per la presa d’atto. Alcuni aspetti dello
svolgimento della gara non sono stati ancora sufficientemente approfonditi.
Non sono a conoscenza di quali atti siano stati sottoposti al Consiglio di
amministrazione.
Le mie valutazioni sull’operazione di cessione sono quelle contenute
nel diniego di presa d’atto e basate esclusivamente sui seguenti criteri:
l’interesse a mantenere in capo alla Rai impianti di un così rilevante
interesse strategico anche per la sicurezza; i dubbi circa la congruità del
valore attribuito agli impianti, che risulta eguale a quello attribuito
dall’IRI nel 1991; la pesante portata dei patti parasociali che assegnavano
al socio di minoranza poteri di indirizzo addirittura superiori a quelli
della Rai, socio di maggioranza.
In proposito, riporto testualmente il contenuto della mia risposta
alla Rai:
«1 – Gestione della società.
L’articolo 3, lettera c) dei Patti
parasociali prevede per ben sedici tipologie di delibere, cioè per la
totalità delle decisioni, l’adozione con il voto favorevole di due
consiglieri di designazione del partner. Pertanto, la maggioranza (su un
Consiglio di amministrazione di otto membri pari a cinque) viene ad essere
annullata.
2 – Collegio sindacale.
L’articolo 4 dei patti parasociali prevede che la Rai designi un
sindaco con funzioni di presidente e un supplente e che il partner designi
due sindaci e un supplente, con la conseguenza che l’equilibrio del collegio
sindacale è sbilanciata favore del partner.
3 – Nomine.
Il Business Development Officer (BDO) nominato dal Consiglio di
amministrazione su designazione dei consiglieri nominati dal partner, previa
consultazione con la Rai, secondo quanto previsto dall’articolo 6 dei patti
parasociali, è figura centrale per tutto quanto attiene alla parte della
società che dovrà operare in campi innovativi, di rilevante interesse
strategico (i più soprarichiamati Tower business). Nei patti parasociali si
legge che «l’amministratore delegato conferirà procura al BDO delegandogli
pieni poteri, equiparabili ai poteri delegati all’amministratore delegato
dal consiglio di amministrazione, limitatamente alla gestione delle attività
della società nel Tower business. La Rai conviene che l’amministratore
delegato non revocherà tale procura, salvo diverse istruzioni ricevute dal
consiglio di amministrazione». È evidente che viene a mancare l’unità di
guida della società; che tutta l’ampia gamma di affari del Tower business
(elencati nei patti parasociali) è di competenza esclusiva del BDO, con
pieni poteri e rischio di conflitto con l’amministratore delegato designato
dalla Rai.
4 – Maggioranze in assemblea straordinaria.
L’articolo 5, lettera b), prevede una
maggioranza del 67 per cento per le materie di competenza dell’assemblea
straordinaria sia in prima che in seconda convocazione, elevata al 75 per
cento (articolo 5, lettera d)) in caso in cui la società
fosse quotata in borsa.
Se ne deduce che il partner avrebbe un considerevolissimo potere di
blocco sulle delibere dell’assemblea straordinaria.
5 – Divieto di concorrenza.
L’articolo 9, lettera a), dei patti parasociali prevede il divieto
di concorrenza del partner per il periodo di un solo anno dalla perdita
della qualità di socio.
Il dato è tanto più significativo ove si consideri che nella prima
stesura dei patti parasociali predisposti dalla Rai e distribuiti a tutti
gli aspiranti acquirenti il periodo di non concorrenza era stabilito in
cinque anni».
Quanto, infine, agli effetti finanziari dell’operazione sul bilancio
della Rai, non posso non sottolineare che la Rai appartiene al 100 per cento
al Ministero del tesoro che avrebbe ricevuto, in definitiva, l’entrata
connessa con la cessione.
Il mancato introito non comporta quindi gravi effetti sul bilancio
della concessionaria, che, peraltro, dalla relazione semestrale al 30 giugno
2001, sembrerebbe in lieve attivo.
Quanto al canone Rai, è attualmente al lavoro la Commissione
paritetica che deve formulare la proposta di variazione in base ad una serie
di criteri, primo fra tutti quello dell’indice di inflazione. La proposta
dovrebbe essere imminente e su di essa non ha alcun riflesso l’operazione
Raiway.
EUFEMI (CCD-CDU:BF). In primo luogo,
desidero formulare un sentito ringraziamento al Ministro delle
comunicazioni, onorevole Gasparri, per avere prontamente risposto al
documento di sindacato ispettivo presentato sin dal settembre scorso; quindi
in epoca non sospetta, prima che esplodesse la questione nella sua
complessità e virulenza sino a toccare punte inimmaginabili.
Mi dichiaro soddisfatto della risposta del Ministro anche se
credo che egli abbia evitato di entrare nel merito dei tre quesiti finali
riguardanti l’accordo finanziario in quanto tale, i patti parasociali e
quant’altro.
Tuttavia, al di là delle questioni propriamente tecniche, c’è un
aspetto che ho mancato di sottolineare ed è l’atteggiamento del Presidente
della Rai che, in quanto tale, risponde all’azionista, in questo caso al
Tesoro, non per scelta di questo Governo ma per scelta dei Governi
precedenti, i quali hanno pasticciato in merito all’equilibrio
«assemblea-poteri di nomina.» La Rai Spa non appartiene né al professor
Zaccaria né a quanti altri ricoprano cariche in virtù di un mandato
temporaneo; costoro hanno solo il dovere di produrre risultati di impresa,
compatibili con il servizio pubblico. Quest’ultimo, peraltro, è scivolato,
proprio con la gestione attuale, sempre più verso i parametri di una
televisione commerciale priva di qualità e di spessore, ponendo in essere,
in definitiva, una progressiva ed inarrestabile perdita di identità del
servizio pubblico.
Ormai, il professor Zaccaria si muove in una logica di irriducibile
e deprecabile battaglia, personale e di un gruppo funzionale a determinati
interessi politici. La permanenza del professor Zaccaria alla guida
dell’azienda rischia, quindi, di paralizzarne il presente e di
comprometterne il futuro, così come sta accadendo per il bilancio che, a mio
parere, finirà con il sacrificare la qualità attuale e futura del prodotto
del servizio pubblico che dovrebbe essere l’interesse primario di un
presidente della Rai.
Bene ha fatto, dunque, il ministro Gasparri ad esprimere il parere
contrario sull’accordo. A lui va il nostro plauso perché ha esercitato la
sua azione nel rispetto delle sue prerogative, previste dalla stessa intesa
del 27 aprile.
Entrambi i contraenti (la Rai ed il suo Presidente e la Crown
Castle) erano a conoscenza della clausola risolutiva, attivabile entro sei
mesi dalla stipula.
Non vorremmo che il presidente Zaccaria si avventurasse in una lite
temeraria agendo contro il Governo e, dunque, contro il suo azionista. Il
professor Zaccaria è perfettamente a conoscenza di come stanno le cose, per
la sua lunga esperienza di Consigliere di amministrazione prima e di
Presidente poi.
Abbiamo preso conoscenza del fatto che l’accordo, raggiunto tra Rai
e Crown Castle, era stato proposto ad altre compagnie come Telecom o France
Telecom, che lo hanno respinto perché inaccettabile e sfavorevole
all’Azienda pubblica, soprattutto in tema di maggioranze qualificate per
l’assunzione di decisioni strategiche, espropriando, di fatto, l’azienda Rai
della gestione e perchè affidava al partner di minoranza
poteri di indirizzo superiori al socio di maggioranza, nonché un potere di
blocco sulle delibere delle assemblee straordinarie.
Si trattava di un’autentica svendita di un’azienda strategica nel
sistema degli impianti di trasmissione e diffusione televisiva e
radiofonica.
Per noi è francamente inaccettabile che nell’esercizio delle proprie
funzioni e prerogative la decisione dell’autorità di Governo sia stata
definita da un esponente politico una «libertà violata», proprio da chi ha
nominato il vertice Rai che nasconde i propri disastri, inventando
fallimentari battaglie personali ammantate da posizioni politiche.
PRESIDENTE. Lo svolgimento delle interrogazioni è così
esaurito.
I lavori terminano alle ore 15,55.
|
Mario Tassone
contro Report
La foga nel ricercare a tutti i costi responsabilità negative e comportamenti
poco edificanti nel contesto politico a volte induce qualcuno a commettere un
errore rispetto al quale chi non ha nulla da temere - ed ha sempre improntato la
propria vita ed il proprio impegno pubblico e politico all’insegna della
moralità - non può non reagire. Ho dato mandato ai miei legali di sporgere
querela nei confronti della trasmissione televisiva Report che - in ordine alla
vicenda delle sedi facenti parte del patrimonio immobiliare della Democrazia
Cristiana – ha fornito, per quanto mi riguarda, una ricostruzione lontana dalla
verità e soprattutto priva delle risposte con le quali ho fornito ampia e
documentata spiegazione.
La sede di Catanzaro ha rappresentato per noi tutti un punto di riferimento
costante nel corso dei decenni, in quelle stanze si sono formate generazioni di
politici ed in quegli spazi hanno trovato manifestazione le passioni e
l’entusiasmo di migliaia di militanti nel corso dei decenni. Per noi tutti è un
pezzo di storia, un luogo che se per un verso ci ricorda anni di coinvolgente
militanza dall’altro ci anima in un impegno che continua. Proprio per tali
ragioni posso affermare di essere orgoglioso di aver fatto quanto era nelle mie
possibilità per rilevare quel cespite ed impedire che un patrimonio – non
immobiliare ma storico, culturale e sentimentale – venisse perso e svilito del
suo significato in una compravendita tra privati; ne sono orgoglioso e – a
scanso di equivoci – vorrei anche aggiungere che lo rifarei subito.
Ho già fornito alle autorità competenti alcune esaustive spiegazioni ma proprio
per evitare che questa circostanza diventi materia da campagna elettorale e
continui ad essere strumentalizzata in modo becero e volgare aggiungo che appena
l’intera vicenda sarà chiarita in tutti i suoi aspetti legali l’immobile di via
San Nicola sarà ceduto ad una Fondazione. Si tratta di una scelta che era stata
concordata sin dall’origine ma alla quale non si è dato seguito proprio per
l’insorgere di problemi riguardanti la gestione complessiva del patrimonio
immobiliare della DC.
Da ultimo vorrei aggiungere che rispetto a ciascuno di noi – ed in particolare
al sottoscritto – è possibile dissentire sulle scelte politiche, è lecito
giudicare positivamente o no una storia di impegno civico ma ciò che non è
consentito a nessuno è mettere in dubbio la moralità dei comportamenti ed il
rigore con il quale ho sempre inteso l’impegno politico. Un rigore che mi deriva
dalla mia fede, da solidi riferimenti valoriali e dall’aver sempre inteso la
politica come strumento orientato al bene comune e non certo all’interesse o
alla convenienza personale.
La mia storia personale – anche in anni nei quali l’intero sistema politico è
apparso segnato da comportamenti non certo irreprensibili – è lì a testimoniare
ogni giorno come anche in politica l’onestà non è qualcosa da declamare ma da
vivere e praticare ogni santissimo giorno. |
Fanfani e Renzi storie toscane e forzati parallelismi
Molti frequentatori di piazze
televisive, soprattutto di estrazione di sinistra, si sono avventurati nel
paragonare il successo elettorale di Matteo Renzi alle elezioni europee del 25
maggio con quello di Amintore Fanfani del 1958.
È un confronto improprio su diversi
aspetti.
Sul piano del risultato elettorale
accostare le percentuali significa non leggere bene i numeri. Fanfani nel 1958
ottenne 12,5 milioni di voti con il 42,5 per cento dei voti che rappresentavano
il 93,83 dei votanti che furono 30.434 milioni. La percentuale raggiunta da
Renzi è del 40,81 corrispondente a 11.172.861 voti assoluti, ma con una
percentuale di partecipazione al voto del 57,2 per cento!.
Quel valore del 40,81 è dunque
gonfiato dalla massa degli astenuti.
Forse l'unica analogia rispetto a
quanto scrive oggi Antonio Polito sul Corriere è il rinnovamento della classe
dirigente che Fanfani da segretario politico della Democrazia Cristiana operò
con le elezioni politiche del 1958. I deputati democristiani eletti per la prima
volta a Montecitorio nel 1958 furono ben 94 su 273 con un tasso di rinnovamento
del 34,43. Quel dato fu però inferiore a quello del Pci che rinnovo il gruppo
parlamentare alla camera del 40,71 che corrispondevano a 57 deputati sui 140
dell'intero gruppo.
Fanfani veniva da un decennio di
responsabilitá governative prima, nei dicasteri De Gasperi ai dicasteri del
lavoro nel IV e V D e Gasperi e dell'agricoltura nel Vii De Gasperi , agli
interni nell' VIII De Gasperi e di segretario della DC per un quinquennio.
Realizzò quello straordinario piano casa con la costruzione di 300 mila alloggi
di edilizia residenziale pubblica ancora visibile nelle cittá italiane. Poi
divenne segretario della DC nel 1954, carica che tenne fino al 1959, quando
logorato dai franchi tiratori, si arrivò all'epilogo della Domus Mariae e
l'avvento della segreteria di Aldo Moro.
Non è neppure il caso di ricordare
quel formidabile apporto culturale prodotto con testo in contrapposizione alle
tesi di Max Weber, che fu " cattolicesimo e protestantesimo nella formazione
storica del capitalismo" oppure la magistrale storia economica.
Matteo Renzi ha rappresentato una
rottura ideologica all'interno del PD e il suo coraggio è stato premiato
dall'elettorato. Ma evitiamo accostamenti impropri.
A meno che non si voglia anche
accostare la Leopolda al Codice di Camaldoli.
Ad oggi è soltanto la provenienza
dalla regione Toscana che li unisce.
Solo il tempo potrá consentire di
esprimere un sereno giudizio e tracciare un bilancio politico di quanto
realizzerá.
Roma,
27 maggio 2014 |
Difendiamo
le radici dell'Europa
Condividiamo la ferma presa di posizione del segretario nazionale del CDU
Mario Tassone dopo le dichiarazioni del candidato del PSE Schulz che
vuole cancellare "l'anagrafe storica" dell'Europa.
Fa esplodere una grave contraddizione culturale.
Non vogliamo un Europa che sia soltanto un meccanismo politico amministrativo
"senza anima".
Vogliamo una Europa con una precisa identitá culturale, una Europa dei valori,
che non nasce da un relativismo senza princìpi, ma da quei valori che pongano la
persona umana e la sua dignitá al centro della costruzione sociale verso cui
orientare l'azione politica.
Vogliamo e dobbiamo reagire al pregiudizio "anti cristiano" con l'opposizione ai
valori religiosi e alla ereditá giudaico-cristiana per affermare il principio
della laicitá dell'Europa in cui ogni Stato vi appartiene in una confusa
ideologia di libertá.
Non vi può essere il diritto all'amnesia delle proprie radici, a quei valori che
hanno plasmato l'identitá europea nel corso dei secoli.
Il radicamento cristiano dell'Europa è un radicamento laico non confessionale.
Benedetto Croce e Giovanni Gentile hanno avuto il coraggio di riconoscere i
valori della civiltá cristiana.
Ci aspettiamo una presa di posizione da parte di quanti nel partito democratico
si apprestano a sostenere il candidato Schulz.
Roma, 22 maggio 2014 |
La crisi
della Unione Europea: come e perchè invertire la rotta
Oggi, promosso dalla Associazione ex parlamentari della
Repubblica, presso la Sala delle Colonne si è tenuto un interessante
incontro su "La crisi dell’Unione Europea: come e perché invertire la
rotta".
"La crisi dell’Unione Europea: come e perché invertire la rotta".
I lavori presieduti e introdotti dall’on. Giancarla Codrignani, Vice
Presidente dell’Associazione ex parlamentari, e conclusi dal Sen. Andrea
Manzella hanno visto
gli interventi dell' Rocco Cangelosi e il Dott. Pier Virgilio Dastoli.
Sono state riflessioni che, fuori dalle quotidiane polemiche politiche
elettorali hanno permesso di approfondire questioni che si presenteranno
dopo il 26 maggio. Il diffuso sentimento anti europeo non deve
interrompere la costruzione del progetto europeo di unitá nelle
diversitá. Le forze politiche europee dovranno tenere in debito conto le
indicazioni del voto correggendo la rotta, interpretando le aspettative
del popolo europeo. Le elezioni serviranno a capire dove vuole andare
l'Europa.
I voti liberi, fuori dagli schieramenti tradizionali avranno purtuttavia
la forza di entrare nel gioco politico anche portando alla elezione di
un Presidente della Commissione fuori dalle indicazioni di partenza,
senza che questo significhi lesa maestá o tradimento del Voto.
Purtroppo il Trattato di Lisbona è stato concepito in un periodo
profondamente diverso da quello conseguente alla crisi finanziaria che
ha portato ad amplificare delle disuguaglianze tra gli Stati e
all'interno dei singoli Stati.
È diffuso il convincimento che la componente euroscettica sará molto
forte e che una risposta fondata da larghe intese europee tra PPE e PSE
diventi una risposta sbagliata perchè rappresenterebbe una difesa a
riccio dell'esistente, privilegiando il groviglio tecnocratico e metodo
intergovernativo.
Le elezioni potranno essere uno shock positivo se portano a ritrovare la
Politica.
Non facciamoci troppe illusioni sul peso del semestre di presidenza
italiana. Sará praticamente un semestre bianco perchè la fase di rinnovo
delle cariche terminerá a novembre e in tutto questo periodo il governo
europeo sará nelle mani del consiglio europeo e di van Rumpoy.
Queste elezioni europee saranno di svolta perchè dovrá essere affrontata
la emergenza sociale e non potrá farlo l'Europa mascherata per usare una
espressione di Delors, non quella dei tecnocrati, ma quella dei volti
scoperti.
Le elezioni del 24 maggio
dovranno servire a cambiare la politica dell'Europa non a sfasciarla.
Roma, 14 maggio 2014
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Il CDU presente con una delegazione a Via Caetani per il
36° anniversario di A. Moro
Con il Presidente della
Repubblica, i Presidenti del Senato e della Camera, il Presidente della Regione
ed il Sindaco di Roma, il CDU, con una folta rappresentanza, guidata dal
Segretario nazionale On.le Mario Tassone, ha partecipato alla commemorazione di
Aldo Moro in Via Caetani. Oltre all’on.le Gerardo Bianco, Presidente
dell’Associazione degli ex parlamentari, erano presenti alcuni rappresentanti
del PD. La partecipazione del CDU (unico partito presente, tra tutti quelli che
si richiamano alla Democrazia Cristiana), vuole essere non solo memoria del
passato, ma testimonianza dei valori e dell’impegno dei cristiani in politica,
avendo come esempio Aldo Moro.
Il senso profondo della
democrazia, come momento di evoluzione dell’uomo, nella sua integralità
maritainiana ed il divenire della società in ogni sua componente generazionale
e sociale - oggetto di analisi in ogni suo intervento o riflessione - danno a
Moro una attualità ancor più valida oggi che, gli istituti della democrazia,
sono in fase di trasformazione sistematica, che tende a restringere le
espressioni di democrazia.
Moro insegna che la ricerca
della maggior ampiezza della democrazia è necessaria alla crescita dell’uomo.
Roma, 9/5/2014
|
Sconfitta
politica del Governo sulla riforma costituzionale
Ieri in senato il governo ha
registrato una prima pesante sconfitta politica sulla riforma costituzionale al
momento del voto su un ordine del giorno Calderoli su un punto che era
irrinunciabile per l'Esecutivo.
Oggi v'è il tentativo di ridimensionare il significato di quel voto che ha un
valore certamente più politico più che tecnico.
Il regolamento del Senato, diversamente dalla Camera, impone di votare
all'inizio del procedimento gli ordini del giorno che servono da orientamento
alle fasi successive dell'iter.
La questione è la tenuta e la forza della maggioranza rispetto ad un testo che
presenta molte criticitá.
Il governo ha sbagliato a presentare un testo arroccandosi su di esso con il
tentativo di schiacciare la maggioranza e restringendo gli spazi del confronto
parlamentare.
È un pessimo inizio. È molto rischioso perchè senza un libero e franco confronto
sará difficile con i numeri dati portare avanti una riforma che richiederebbe
larghe intese piuttosto che esigue maggioranze.
Non possiamo neppure immaginare che la sinistra voglia ripetere il film del 2001
con una riforma del titolo v approvata con soli 4 voti di maggioranza, che ha
portato ai disastri sulla legislazione concorrente e al conflitto stato regioni
che sono sotto gli occhi di tutti, oltre che al super lavoro della Corte
Costituzionale.
Roma, 7 maggio 2014 |
Audizione del Presidente della
Associazione ex parlamentari Gerardo Bianco presso la 1 commissione Affari
Costituzionali nell'ambito della indagine conoscitiva sulle riforme
istituzionali
PRESIDENTE FINOCCHIARO.
Ringrazio per la sua presenza il Presidente dell'Associazione ex parlamentari
della Repubblica, Gerardo Bianco, cui cedo la parola.
BIANCO. Signora Presidente, desidero anzitutto ringraziarla per aver
accolto il nostro invito ad essere oggi ascoltati su un tema che, ovviamente,
interessa direttamente la nostra associazione. Mi riferisco alla questione
principale su cui abbiamo orientato la nostra attenzione, che è la cosiddetta
riforma del Senato della Repubblica, sia nella sua impostazione, così come
prevista dal disegno di legge del Governo, sia negli effetti che una eventuale
diversa - ci auguriamo - elezione del Senato può avere sulla legge elettorale e
sul sistema democratico del Paese. La riforma così come concepita non può non
avere degli effetti anche sulla riforma elettorale, per una serie di
considerazioni che per brevità non sottolineo, ma che credo non possano sfuggire
e che riguardano l'assetto democratico del Paese.
Per quanto concerne il Senato, voglio subito fare una precisazione. Nella
stragrandemaggioranza, noi siamo ovviamente favorevoli alla differenziazione. Da
tempoabbiamo portato avanti un discorso che riguardava una differenziazione e -
quindi - ilsuperamento del cosiddetto sistema bicamerale paritario. Mi permetto
di dire chel'argomento è presente fin dagli anni Settanta, quando presentai in
questa sede unaproposta legislativa che prevedeva il superamento del
bicameralismo perfetto (lei, signora Ministro, non era ancora nata, perché si
tratta di una proposta presentata nel lontano 1975). Purtroppo questo ritardo
sta dimostrare che è giusto l'impulso che il Governo ed anche le forze politiche
danno affinché si affronti finalmente questo problema.
A noi sta molto a cuore capire sulla base di quale principio si imposta questa
riforma.
A nostro avviso, per come è concepita, l'effetto disgregante - uso un termine
forte - sul piano della Carta costituzionale è assicurato. Secondo il mio punto
di vista, che è confortato da analisi di importanti studiosi, l'effetto sarà -
paradossalmente - esattamente contrario a quello che il Governo desidera. Si
tratta, cioè, di un classico esito storico della eterogenesi dei fini: si finirà
inevitabilmente per incontrare una serie di contrasti di posizioni, soprattutto
quando si tratterà di affrontare temi che riguardano la legislazione nella quale
anche il Senato, così come riformato, dovrà intervenire.
Faccio questa affermazione per dire che la nostra preferenza è indirizzata -
ovviamente - verso quello che a suo tempo, come noto, Leopoldo Elia definì
bicameralismo procedurale. Si tratta di un bicameralismo che non affrontava il
problema, che oggi si deve invece affrontare, dello squilibrio che viene a
determinarsi tra le due Camere, con una asimmetria che inevitabilmente avrà
degli effetti negativi,
ma anche con una serie di contraddizioni ed aporie interne che immediatamente
emergono dalla lettura del testo del Governo. Senza andare molto lontano, mi
permetto di osservare che quando si prevede che «Il Parlamento si compone della
Camera dei deputati e del Senato delle autonomie», ciò implicherebbe una
sostanziale parità di funzioni. Tuttavia, non appena si passa al secondo comma,
vi è già una differenziazione, con una serie di effetti, secondo me estremamente
gravi, nel momento in cui si afferma che «Ciascun membro della Camera dei
deputati rappresenta la Nazione». Allora, se i componenti del Senato della
Repubblica, che vengono eletti come previsto nel testo, non rappresentano la
Nazione, cosa rappresentano? Inevitabilmente interessi particolari. Questa
impostazione, peraltro, viene poi paradossalmente a scontrarsi - perché diventa
un purus flatus voci, come dicevano i latini - con la definizione dell'articolo
5, che rivede l'articolo 67 della Costituzione, ove si sottolinea che «I membri
del Parlamento esercitano le loro
funzioni senza vincolo di mandato». Ora, un presidente di Regione, o il sindaco
di una città eletto senza che rappresenti la Nazione inevitabilmente finisce per
sentirsi vincolato al mandato per cui è stato eletto, con effetti che non
possono che essere quelli di rappresentare sostanzialmente una Camera delle
rivalse, delle frustrazioni, delle contestazioni. Osservo ancora che il testo
prevede che il Senato delle autonomie partecipa all'attuazione degli atti
normativi dell'Unione europea, se non fosse che all'articolo 15 la Camera delle
autonomie viene esclusa dalla ratifica dei trattati internazionali. Ad una
lettura rapida ho contato 32 discrasie e contraddizioni. Tutto questo per una
ragione molto semplice: lo stesso concetto del Senato delle autonomie, così come
impostato, si scontra con l'assetto del nostro sistema istituzionale. La nostra
Repubblica è «una e indivisibile», come sancito dalla Carta suprema: non è una
Repubblica federale; non è la Repubblica dei Länder.
Visto che il Ministro ha richiamato anche l'attenzione ad un programma
dell'Ulivo, del quale fui uno dei partecipi e fondatori, mi permetto di dire che
in quel caso era abbastanza chiaro ed evidente che si voleva indirizzare il
Paese verso la costruzione di uno Stato federale, peraltro collegato ad un
sistema elettorale chiaramente indicato (che era quello del doppio turno), con
una filosofia completamente diversa. Quindi, il richiamo alla coerenza rispetto
a quel progetto non può essere rispecchiato in questo testo che, così com'è
formulato, ripeto, avrà effetti assolutamente diversi da quelli che si vogliono
raggiungere, ad esempio la rapidità delle decisioni. Vorrei ancora richiamare un
altro elemento. La Camera delle autonomie può richiedere la presenza costante
del Governo che, secondo una disposizione, è obbligato ad essere presente. Anche
in questo caso, paradossalmente, così come è formulato, il progetto prevede una
situazione asimmetrica all'interno della asimmetria del Parlamento, nel senso
che c'è un Senato che da una parte perde ruolo e potere e diventa una Camera
secondaria per tutta una serie di effetti, e dall'altra parte, finisce per avere
poteri ed influenze tali, in una situazione di asimmetria, da determinare
persino il blocco e quindi la difficoltà di procedere. Il groviglio, a mio
avviso, invece di sciogliersi finisce per diventare ancor più gordiano, e non ci
sarà nessun Alessandro a rompere il nodo con un colpo
di spada!
Questi sono una serie di elementi negativi ma ne cito anche un altro: la scelta
della modalità di elezione, per esempio, dei giudici costituzionali, ovvero tre
eletti da una Camera e due dall'altra, con una Camera che non ha un'investitura
diretta. Anche qui c'è un problema rilevante che credo il Senato debba
affrontare.
Vogliamo, come obiettivo, rilegittimare le istituzioni? Ebbene, la
rilegittimazione delle istituzioni passa inevitabilmente attraverso una
consultazione diretta di chi deve essere rappresentato; solo un bagno diretto di
elezione del Senato, secondo logiche appunto tradizionali (che sono quelle
dell'investitura diretta) può rilegittimare le istituzioni.
Il problema dei costi è facilmente affrontabile. La proposta di legge che, solo
per memoria storica, ho citato risale al 25 novembre del 1975, e prevedeva una
netta riduzione del numero dei parlamentari: metà deputati e metà senatori. Mi
permetto di aggiungere che prevedere la riduzione dei membri della Camera dei
deputati significa rendere la stessa più efficiente, perché è ben diverso
gestire Commissioni con la metà dei membri o un'Aula che passa da 630 componenti
a 315, o anche a 400. Questo renderebbe tutto più semplice, andando proprio
nella direzione di ciò che il Governo giustamente insiste nel voler ottenere,
ovvero la rapidità delle decisioni. Peraltro chi ha avuto lunghe esperienze alla
Camera e al Senato sa che tale obiettivo sarebbe molto più facilmente
conseguibile attraverso una seria revisione dei Regolamenti parlamentari:
basterebbe utilizzare la sede redigente per poter accelerare i processi
legislativi e quindi ottenere risultati positivi. Detto questo, presenterò un
dossier dove è contenuta della documentazione al riguardo.
Voglio concludere dicendo che a noi sembra rispondere meglio alle esigenze della
giusta riforma del Senato il provvedimento presentato dal senatore Chiti, anche
se, a mio avviso, deve essere corretto e rivisto soprattutto per le procedure.
Mi permetto solo di osservare che il Governo, secondo una logica di celerità e
di volontà dello stesso di attuare il proprio programma, sarebbe più facilitato
dall'avere due Camere differenziate nelle competenze, senza l'obbligo della
doppia lettura. Quest'ultima potrebbe essere realizzata solo se una delle due
Camere, a maggioranza assoluta dei propri componenti, lo richiedesse per una
correzione. Sappiamo, infatti, che spesso è lo stesso Governo ad aver bisogno di
rivedere decisioni che sono state adottate. Chi ha lunga esperienza parlamentare
sa bene che molte volte è proprio il Governo a chiedere all'altro ramo del
Parlamento di correggere alcune delle decisioni adottate.
Tutto questo si otterrebbe molto più facilmente con la possibilità del Governo
di scegliere l'una o l'altra Camera per l'approvazione di un provvedimento,
senza bisogno di revisione. Aggiungo che c'è una piccola minoranza che aderisce
all'idea di fare del Senato una sorta di Senato sul modello di quello francese
(qui non siamo al Bundesrat, che è un modello completamente diverso, in un
quadro diverso, in una coerenza diversa di Repubblica federale). Penso, in
conclusione, che la cosa più importante sia cercare di ottenere l'obiettivo che
il Governo si pone, proprio correggendo ciò che il Governo ha proposto.
PRESIDENTE FINOCCHIARO. Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa
l'audizione odierna.
Rinvio il seguito dell'indagine conoscitiva in titolo ad altra seduta.
------------------------------
Audiovideo della audizione del
Presidente della Associazione ex parlamentari on. Gerardo Bianco presso la
Commissione affari Costituzionali del Senato nell'ambito della riforma
istituzionale
http://webtv.senato.it/4191?video_evento=865 |
Dalla democrazia parlamentare alla
democrazia popolare.
Il presidente del
consiglio ha presentato, dopo il consiglio dei ministri odierno, le
linee programmatiche di riforma della pubblica amministrazione.
Senza entrare nel merito delle indicazioni, che restano tali fino
alla presentazione dei documenti parlamentari, v'è un punto che
merita attenzione.
Il metodo certamente innovativo rompe gli schemi del passato.
Vengono aperte dal governo le consultazioni sulla rete fino al
13 giugno. Si sta passando rapidamente dalla repubblica parlamentare
ad una nuova forma di democrazia popolare. Sulle linee di riforma
infatti si apre il confronto sulla rete. Il governo sostiene che
vaglierá e recepirá i suggerimenti che perverranno.
Di fatto sposta il luogo del confronto dal parlamento alla rete,
senza nessuna garanzia e filtro democratico.
Non saranno più i parlamentari i protagonisti delle scelte che in
ogni caso avranno un ruolo residuale e secondario. Non sará più il
Parlamento il luogo del confronto.
Non saranno più i rappresentanti del popolo a interpretare le
istanze della societá civile in quanto il governo dialogherá in modo
diretto con gli attivisti della rete.
È un duro colpo che
viene inferto al funzionamento delle regole democratiche su cui
tutti dovrebbero meditare.
È un duro colpo che viene assestato anche alle formazioni
intermedie, all'associazionismo che non avrá più i tradizionali
collegamenti. In nome del rapporto diretto con il popolo viene
colpito il principio di rappresentanza.
V'è in definitiva il
disconoscimento del ruolo dei partiti e dei sindacati.
Un governo che ha una linea chiara presenta un decreto legge,
affronta il parlamento e fa scelte su cui il popolo esprimerá al
momento opportuno le sue valutazioni.
La rete non può essere l'alibi per un consenso fittizio.
Roma, 30 aprile 2014
|
Il
compromesso di basso profilo sul Senato: dalla abolizione del CNEL al nuovo
Senato CNEL
Il compromesso che si profila sulla
abolizione del Senato appare di basso profilo.
Dopo l’incontro al Quirinale, il
Presidente del Consiglio ha rimosso le iniziali rigidità e appare disponibile ad
una intesa che tuttavia serve soltanto ad evitare una sconfitta politica dopo
che il Governo si era arroccato sulla immodificabilità del testo su quattro
punti irrinunciabili: nessun voto di fiducia, nessuna indennità, nessun al voto
sul bilancio e nessuna elezione diretta. Da quattro no si è passati a 2 no e due
ni. E’ certamente saltato il crono programma.
Mentre per l’indennità si aggira la
questione prevedendo che resti a carico delle Regioni. Si tenta poi di rivedere
la questione della elezione diretta con una elezione attraverso il voto
regionale, con un sostanziale entusiasmo della Lega che pensa di salvaguardarsi
con una simbolica presenza marginale, e una piccola soddisfazione alla minoranza
interna del PD, immaginando così di superare l’empasse.
Quindi né vincitori né vinti, ma al
prezzo di un piccolo compromesso che prevede una soluzione che non definisce il
ruolo e la funzione della seconda Camera. Essa appare la riproposizione del Cnel
che si voleva abolire, sotto altre vesti. Si individua un Senato delle Autonomie
che non diventerà il luogo del dialogo istituzionale, ma quello della protesta
delle problematiche che non troveranno soluzione né nella Camera politica né nei
territori.
Qui non è in discussione un
ammodernamento del sistema. Nessuno è pregiudizialmente contrario ad un
monocameralismo. Sta bene una sola Camera che voti la fiducia politica, ma
quello che manca è un disegno organico delle funzioni del Senato. Le funzioni
nuove e specifiche possono essere così definite: tutta la fase ascendente e
discendente della normativa e dei rapporti con l’Unione Europea; l’azione di
controllo sul governo; le funzioni di garanzia rispetto alle prerogative e
immunità dei deputati che non possono decidere su se stessi soprattutto se si
introduce un sistema elettorale maggioritario come l’italicum che viola
pesantemente il principio di rappresentanza e di uguaglianza con soglie
escludenti di ampie fasce di elettorato; competenza incidente sul bilancio
perché è esso un unicum tra patto di stabilità interno, scelte di perequazione,
consolidato nazionale, legge di stabilità e parametri di Maastricht.
Resta il nodo irrisolto della
dell’equilibrio dei poteri che verrebbe stravolto con le modifiche che
interverrebbero sul sistema di votazione degli organi costituzionali e delle
authorities.
Il Senato va dotato di poteri pieni
che possono concretizzarsi solo con un bagno elettorale. Non con elezioni
indirette che porterebbe ad una grande lottizzazione di nominati, ma con una
scheda elettorale che porti alla elezione dei senatori chiamati a quelle
funzioni. Potranno essere anche abbinate alle elezioni regionali e acquisterebbe
il significato di elezioni di mezzo termine perché non coincidenti con le
elezioni politiche.
Se non si affrontano i nodi politici
resterà il pasticciaccio brutto del connubio del Nazareno che servirà a far
passare con finte tensioni la nottata delle elezioni europee. Resteranno i
problemi di un sistema istituzionale del Paese che come configurato sarà poco
rispettoso della Carta Costituzionale e dei suoi principi ispiratori.
Roma, 28 aprile 2014 |
Rilievi sulla
posizione del Ministro Boschi
lettera inviata al "Corriere
della sera"
Gentile direttore,
In una lettera al "Corriere della sera" il Ministro per le riforme on. Maria
Elena Boschi per dimostrare la coerenza del progetto riformatore del governo
Renzi, soprattutto nell'impianto costituzionale, con la linea del PD richiama
il programma dell'Ulivo del 1996. Non vi è dubbio che in quel programma che era
di Romano Prodi e credo non sottoscritto da tutti i partiti che sostenevano la
premiership, si faceva riferimento alla trasformazione del Senato in una Camera
delle Regioni.
Peccato che abbia dimenticato che il sistema elettorale previsto non era
l'italicum ma un sistema uninominale con doppio turno alla francese! Non è cosa
ininfluente rispetto all'architettura istituzionale.
C'è poi un altro punto di quel programma dell'Ulivo del 1996 che viene ignorato:
un cambiamento di maggioranza di governo richiede lo scioglimento della camera e
il ricorso a nuove elezioni, come non si è verificato con il governo Renzi e
come si è verificato con la caduta del governo Prodi nel 2008!.
Maurizio Eufemi,
Giá senatore nella Xiv e Xv legislatura |
Introduzione alla presentazione del libro di Paolo Acanfora “Miti e
ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità Atlantica”
Il libro che oggi presentiamo
“Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità
Atlantica”, di Paolo Acanfora ha suscitato in me una grande sorpresa.
Pensavo infatti di trovarmi
di fronte un esame della politica estera DC nelle sue linee generali, più
basato sulle idee che sugli avvenimenti. Invece nel libro c’è una
documentazione così dettagliata e documentata, da fornire i resoconti anche
di alcuni congressi e di alcuni avvenimenti di quei tempi fra i quali un
Congresso delle N.E.I. tenutosi a Bad Ems nel 1951.
Ebbene a quel Congresso io
c’ero: era a capo della nostra delegazione l’On. Mario Cingolani ed io ero
stato invitato in rappresentanza del Movimento Giovanile della DC.
In un mio scritto ho
raccontato un episodio che avvenne in quel Congresso. Mi sia permesso di far
questa autocitazione:“Ho visto con i miei occhi di ragazzo rinascere la
Germania. L’ho raccontato in un libro. Ero a Bad Ems, piccola città termale
che era rimasta intatta in mezzo alle rovine della Germania. Era una
riunione a cui doveva portare un saluto Adenauer. Ma Adenauer, nominato
dagli alleati capo della amministrazione civile della Germania occupata, non
era potuto venire, perché convocato a Parigi.
All’improvviso si sparge
la voce: arriva Adenauer. Usciamo di corsa dal Kursaal: fuori c’è una
pioggia fine fine, che si confonde con il colore ed il suono del fiume Ems.
Non ci si vede molto, non c’è luce e non ci sono lumi. Arriva Adenauer, un
signore alto, di quasi ottanta anni, con un volto asiatico impenetrabile,
con un lungo cappotto ed un cappello grigio, grande, a lobbia.
Non entra nel Kursal, ma
sale i pochi gradini di un gazebo che non ha più vetri, attorno al quale si
é raccolta una piccola folla. Sono persone rattrappite sotto la fine
pioggia, vestite con consunti abiti militari, con qualche cappelluccio di
fatica dei soldati tedeschi . Adenauer, “Der Alt” dice poche parole, senza
enfasi. Annuncia che i governi americano, francese ed inglese, ma non la
Russia, hanno riconosciuto la Germania ed il governo tedesco. La Germania
torna ad esistere. C’è grande sorpresa ed emozione, ma nessuno applaude. A
questo punto Adenauer si toglie il cappello sotto la pioggia e con voce
bassa, come in chiesa, intona la seconda strofa dell’inno tedesco, quella
dedicata alla libertà. Un coro di voci sommesse si alza fra la gente, un
coro basso , straziante, ma unito, profondo e corale, come solo i tedeschi
sanno fare. Le persone raccolte, la piccola folla ora è diritta, in piedi ed
a me pare di vederli di nuovo vivi, più alti, quasi impettiti, con le
lacrime agli occhi. Ho visto risorgere la Germania”.
Ma nella qualità di
testimone più che nella funzione di recensore debbo anche ricordare che fui
presente a Bad Ems in un’altra occasione per la riunione dei giovani della
NEI. Fui incaricato di fare una relazione che è riportata in “Per l’Azione”
del Novembre 1951, ovviamente sul tema europeo (scaricabile in pdf dal sito
dell’Istituto Sturzo:
http://91.212.219.213/RDB/Public/View/ViewIndex.aspx?idView=46).
La relazione è presentata con un simpatico senso di autocritica. Infatti il
direttore di Per l’Azione (che ero io) la presenta in questa maniera:
“Quessta è la relazione che Ciccardini ha tenuto a Bad Ems, al Congresso
della N.E.I. ed è la prima volta che fra giovani DC europei si parla di
impostazioni storico-politiche e di scelte culturali politiche uscendo dal
sentimentalismo unitario. La relazione non ha avuto alcun successo. accusato
di teoricismo non ho avuto neppure l’onore della discussione, la quale
invece si è soffermata sulla questione dei teorici e dei pratici”. Per
maggior comprensione del commento autoironico devo ricordare che la
“querelle fra teorici e pratici” era il tema del dibattito fra dossettiani
ed andreottiani all’interno del movimento giovanile. Forse noi allora
eravamo troppo teorici, anche se gli andreottiani erano troppo pratici.
Comunque la relazione è
effettivamente molto astrusa. Parte dalla dottrina sociale della Chiesa,
analizza e condanna il capitalismo esamina e seppellisce tutto quello che va
dal marxismo allo stalinismo per riaffermare la necessità dell’Europa unita.
La conclusione era questa che, seppur lodevolissima per la sua fede europea,
appare indigesta per la sua formulazione.“La condizione per cui lo
spirito democratico-cristiano può compiere la sua attuazione nel tempo
presente, sta nel non esaurirsi nella funzione di governo, ma nel rimanere
forza ideale, capace di rinnovarsi ogni volta. Tale funzione consiste nella
elaborazione di una nuova conoscenza della società a cui devono fare il loro
contributo la filosofia dell’essere e la teoria generale dell’economia. Su
questa base è possibile fondare una conoscenza del mondo moderno e quindi
un’azione politica integralmente nuova. Punto di partenza per questa
elaborazione nuova è la coscienza europea, cioè la coscienza che l’Europa
anche se incommensurabilmente più debole dei due colossi (americano e
sovietico) ha una capacità di rinnovamento e di liberazione ad altri
preclusa”.
Trovo il pezzo molto
dossettiano, molto confuso, molto presuntuoso, ma anche molto
rappresentativo della fortissima tensione dell’ideale europeo.
Dato questo mio contributo
non essenziale all’atmosfera dell’epoca vorrei esprimere la mia sorpresa per
il lavoro di Paolo Acanfora.
Sostanzialmente riscopre cose
che abbiamo dimenticato essere importanti, ma che analizzate nel particolare
acquistano un valore enorme. Particolarmente attuale il progetto della CED
che a guardarlo oggi sembra un’utopia ma che allora, in tempi difficili, era
un grande atto di coraggio e responsabilità.
Noi abbiamo dimenticato la
cultura della crisi che seguì alla seconda grande guerra civile europea.
L’Europa per due volte aveva suscitato un conflitto mondiale in cui morirono
più persone che non negli altri conflitti della storia umana messi assieme.
Non solo fu una “inutile
strage” ma fu anche il suicidio dell’Europa e la vittoria del male assoluto
con i totalitarismi vincenti, con i loro campi di concentramento, con
l’abominevole olocausto. In questa atmosfera era molto ardito pensare ad una
comunità di difesa che era intesa più come un’assicurazione contro la
possibilità di guerre future che non come una possibilità di veder rinascere
la potenza europea. Nel rivivere gli atti concreti del sorgere dal progetto
della CED si nota questa grande difficoltà e questa speranza utopica. E la
si rivive. È molto interessante il punto di partenza culturale: la coscienza
che al di là della sua sconfitta l’Italia fosse espressione di una civiltà
ed avesse il dovere di salvare l’Europa. C’è all’origine nella visione di De
Gasperi e nella visione di Gonella una forma di giobertismo cattolico e
nazionale in cui il valore dell’Italia si riafferma come valore di civiltà
europea.
È in questa fase che De
Gasperi adopera per la prima volta, ed Acanfora ce lo ricorda, il concetto
di “partito nazionale”, concetto veramente straordinario per i tempi. Il
“partito nazionale” ricordava il Partito Nazionale Fascista e non per
imitazione, ma per contraddizione. Infatti “partito nazionale” era unito
all’ideale civile della nazione come formula giobertiana. Ma “partito
nazionale” era anche un superamento del “partito popolare” e del “partito
dei cattolici”. Era “nazionale” il partito che vedeva le nazioni nel
contesto europeo. È in questa forma che l’europeismo diventa una
connotazione, un DNA della Democrazia Cristiana.
È interessantissimo che
questo processo, che chiamerei di “resurrezione”, vada di pari passo con la
scoperta della democrazia americana, della sua funzione liberatrice e della
sua leadership. Non in contraddizione con l’Europa, ma in collaborazione per
una pace universale e per l’utopistico progetto delle nazioni unite, la cui
definitiva realizzazione è ancora da farsi. Fu in quel momento che noi
giovani scoprimmo il valore della guida americana alla democrazia. E ci
apparve sempre strano l’antiamericanismo dei fascisti e dei comunisti che
per motivi antichi e grondanti sangue seguitavano a dipingere l’America come
il paese dei cowboy, degli sceriffi e della plutocrazia. Un pregiudizio che
rimane ancora vivo in tutti coloro che si oppongono alle forme democratiche
del presidenzialismo americano come fossero l’anticamera di un nuovo
fascismo.
Ed è veramente interessante
seguire il formarsi del programma della DC nella sua versione milanese,
nella sua versione di Camaldoli, nella sua versione scritta da Demofilo.
Questo impianto fondativo
cresce, diventa patriottismo europeo, diventa internazionalismo
democratico-cristiano, ispira dopo il fallimento della CED un nuovo progetto
di comunità fondata sull’economia e, proprio in conseguenza della grande
crisi attuale, si ripropone come progetto di grande novità e di grande
necessità.
Bartolo Ciccardini
|
Qualcosa
si muove sulla riforma del Senato
Sulla riforma del Senato si sono levate oggi voci autorevoli. Innanzitutto
quella del Presidente del Senato Grasso, poi quella del senatore a vita Mario
Monti.
Aprono una breccia rispetto al
muro alzato dai sostenitori dell'accordo Renzi - Berlusconi. Invitano ad un
ripensamento rispetto alla soluzione prospettata. Hanno di fatto respinto il
precotto che era immangiabile. Il presidente Grasso pone il Senato come sede dei
diritti. Mario Monti individua un allargamento della composizione alle autonomie
funzionali con una trasformazione in un Senato della Riflessione che guarda ai
problemi di meglio lungo periodo proprio perché sganciato dalla fiducia politica
e dalla decisione quotidiana. Non è invece chiarita dal senatore a vita la
questione fondamentale della legittimazione dei senatori, che non potranno
essere cooptati o nominati di secondo livelli ma di elezione diretta.
Solo con la legittimazione
democratica il Senato potrá avere la forza per assolvere alle funzioni che sono
state richiamate da Grasso e da Monti. Si tratta ora di respingere l'ultimatum
renziano del prendere o lasciare che l'accordo sottostante vorrebbe imporre
anche prendendo atto che posticipando la legge elettorale a dopo la riforma
costituzionale di fatto l'intesa politica è giá stata stravolta impedendo
qualsiasi ipotesi elettorale nel breve periodo a meno di non utilizzare il
consultellum.
Roma, 30 marzo 2014 |
CONGRESSO
CDU
Il partito dei
Cristiani Democratici Uniti terrà un congresso a Roma il 14 e 15 marzo per
sancire definitivamente il distacco dall'Udc di Pier Ferdinando Casini e dare
vita ad un terzo polo equidistante da Fi e dal Pd. È questa la prospettiva
emersa da una conferenza stampa svoltasi stamane con il segretario del Cdu Mario
Tassone ed altri ex parlamentari per la presentazione dell'assise. «Non possiamo
accettare - ha detto il leader - che Lorenzo Cesa continui ad essere un partito
disponibile al migliore offerente». IL Cdu è l'unico partito che ha ereditato di
diritto lo storico simbolo scudocrociato con la scritta Democrazia Cristiana,
perchè lo scudo dell'Udc ne è privo. Tassone ha ricordato che la storia del suo
movimento «viene da molto lontano, dal '95: nel 2002 abbiamo fatto un patto
costituente con Casini che è stato però politicamente tradito. Con il congresso
riprenderemo a tessere l'aggregazione con tutte le associazioni, i partiti e i
movimenti che vorranno lavorare per il centro». Tassone è stato molto critico
nei confronti della «deriva plebiscitaria nata con l'accordo Renzi-Berlusconi
che sta causando gravi danni al sistema elettorale solo per motivi di puro
potere». Ovvie le critiche alla mancanza di preferenze nella nuova normativa.
Maurizio Eufemi, ex senatore, ha detto che il congresso punterà «alla
rigenerazione della politica rilanciando i valori di Luigi Sturzo per restituire
a tutti il principio della partecipazione alla politica, ora negata da una legge
elettorale che già si presenta peggio del porcellum».
Il congresso
eleggerà il nuovo segretario del partito che ha 2.200 iscritti.
IV CONGRESSO CRISTIANI
DEMOCRATICI UNITI “RICOMINCIAMO DALL’UOMO”
HOTEL SHERATON ROMA
14/15 MARZO 2014
Intervento Maurizio Eufemi
(guardalo su YouTube)
Care amiche e cari amici del
congresso del CDU,
Noi che oggi siamo qui non abbiamo
cancellato le parole “democratici cristiani” dal simbolo, rivendicando le
ragioni, la storia, la identità.
Dobbiamo ringraziare Mario Tassone
che coraggiosamente ha voluto ricostruire la nostra casa. E’ stato violato il
patto fondativo del 2002, distrutto da ambizioni personali, scelte ambigue,
sconfitte clamorose; ricordate le candidature effimere di Emanuele Filiberto e
Magdi Allam?. E’ stata progressivamente emarginata la classe dirigente del CDU,
con la complicità di chi doveva difenderla e si è arreso alle convenienze.
Siamo stati traditi tutti noi che
siamo qui.
E allora riprendiamoci la libertà di
agire, ricostruiamo una casa più grande, dove possa sventolare il nostro
vessillo. Portiamo avanti il nostro programma con le nostre idee, con la nostra
gente.
Difendiamo la nostra storia così
come avevamo difeso lo scudo crociato nel 1994 con laceranti scissioni quanto
c’era chi si rifugiava sotto l’ombrello berlusconiano come Casini e chi
rinnegava la nostra storia cercando una discontinuità infinita fino ad annegare
nel partito socialista europeo.
Oggi Fioroni si accorge che
l’elettorato cattolico rifiuta questa scelta!
E, quel che è peggio, nella cultura
del personalismo renziano che lo porta ad esaltare il grandioso risultato della
legge elettorale che non è una nota di merito ma di demerito perché è peggiore
della legge Acerbo del regime fascista. L’Italicum è uno scempio costituzionale;
è una vergogna!!!. Pone barriere all’ingresso, blocca l’esistente, garantisce un
bipolarismo che non c’è per trasformarlo in bipartitismo forzato, vuole mettere
una camicia di forza al sistema.
E’ un furto di democrazia perché i
voti non sono uguali, quelli che valgono di più o meno.
Per contrastare il disegno dobbiamo
mobilitarci promuovendo un comitato referendario per l’abrogazione
dell’italicum.
Presenterò una mozione in tal senso
alla conclusione dei lavori del congresso.
Cari amici c’è un virus che si sta
diffondendo nella società contemporanea, il virus della sondaggiocrazia come ha
detto Sartori e della videocrazia. È una miscela pericolosa che porta alla
demolizione delle istituzioni rendendole inutili, superflue, costose. La
democrazia non si taglia ma si difende,si rafforza, si consolida rendendo
efficienti le istituzioni.
Il virus si combatte con la politica
e la partecipazione!
Molti dell’area di centro hanno
fatto prevalere posizioni di potere piuttosto che combattere la battaglia.
Questo è un congresso aperto senza
filtri, libero. Vogliamo riscoprire la politica come motore delle aspettative
della società, che include, che non rottama, che costruisce ponti familiari e
intergenerazionali. La rete non può sostituire la rappresentanza. Un partito non
è un social forum. Non siamo una aggregazione liquida dove stiamo insieme come
quelli che lasciano il cappotto al guardaroba per il tempo dello spettacolo
teatrale.
Noi stiamo insieme per storia, per
ideali, per convinzioni, che vogliamo difendere e perseguire.
Il governo sottovaluta la situazione
e i vincoli europei. Annuncia una manovra che alimenta illusioni, favorisce i
lavoratori sindacalizzati ed esclude gli incapienti, i lavoratori delle partite
IVA, i senza lavoro, gli autonomi, gli ambulanti. Introduce uno strano concetto
di ceto medio più vicino alla sopravvivenza che non riferito ad una classe
sociale produttiva che viene penalizzata. Si colpisce il risparmio orientato
agli investimenti, vogliono colpire i pensionati.
Difendiamo la nostra identità perché
affondiamo le radici nel popolarismo sturziano e nell’interclassismo
degasperiamo.
Riscoprire quei valori del
popolarismo significa porre attenzione ai più deboli, ai vessati, agli umiliati.
Popolarismo è combattere le ingiustizie, è difendere la libertà; è riformismo;è
partecipazione.
Non abbiamo visto gesti di
solidarietà istituzionale verso quel giovane padre di famiglia titolare di una
pizzeria, che si è suicidato per una sanzione perché la moglie lo aiutava.
Sono queste le questioni che
dobbiamo affrontare a cominciare da Equitalia, per un fisco giusto.
Oggi vengono rimpianti gli strumenti
per crescita come erano gli istituti di credito speciale, la cassa per il
mezzogiorno e le partecipazioni statali.
Solidarietà significa fare non ciò
che è bene per qualcun altro ma ciò che è bene per tutti noi ha detto Claus
Offe, quel noi sta per solidarietà consolidata e identità condivisa.
Vogliamo una azione di recupero
della partecipazione politica soprattutto dei giovani in una democrazia
pluralista.
Noi siamo nella famiglia del
popolarismo europeo, ma vogliamo cambiare una linea troppo schiacciata sulle
tecnocrazie. Va riscoperta la solidarietà e la coesione europea per uno sviluppo
armonico di tutte le regioni europee. L’obiettivo è costruire un partito
transazionale popolare in cui i cittadini siano protagonisti delle scelte
democratiche europee, per costruire un noi europeo che ancora non siamo.
Dobbiamo riprenderci il nostro destino.
La Chiesa ha saputo guardare avanti;
ha scelto la sua guida nella periferia del mondo, in uno stato dove il ceto
medio ha vissuto una crisi profonda che lo portava al punto di chiedere sostegno
alla Caritas. Credo che il Ppe nella scelta del presidente della commissione
europea avrebbe dovuto fare una scelta diversa, non un rappresentante del paese
più ricco d’ Europa come il Lussemburgo, che ha il PIL procapite diciassette
volte maggiore di quello della Bulgaria.
Non è un caso che l’Ungheria ha
appoggiato il candidato francese Barnier visto che il peso soffocante, quasi il
40% dell’economia è in mano alla Germania, è quasi una reazione.
Prevalgono le furbizie sia esse
della Fiat che va in Olanda e a Londra sia di Depardieu che va in Belgio alla
ricerca di sistema fiscali più favorevoli. La crisi del mondo contemporaneo ci
impone di ripensare il modello di sviluppo troppo schiacciato sulla
finanziarizzazione, recuperando invece i principi della economia sociale di
mercato che combina i valori della libertà individuale, della solidarietà e
della sussidiarietà, un capitalismo umano e una economia al servizio delle
persone. Parlare dell’uomo come ci ha ricordato ieri Don Tommaso Stenico
significa declinarlo su ogni aspetto della vita, dalla sanità alla giustizia,
dal fisco alla produzione, dall’ambiente fino alle istituzioni.
Ricominciamo dall’uomo in economia
significa anche un nuovo punto di incontro tra capitale e lavoro con la
partecipazione dei lavoratori al destino delle imprese attraverso regole
trasparenti.
Cari Amici,
quando con Mario Tassone abbiamo
cominciato a riflettere se dopo una vita vissuta in politica valesse la pena
rimettersi alla stanga non abbiamo avuto esitazioni.
Dobbiamo dare ai giovani che sono
qui l’entusiasmo di riscoprire la politica, quell’entusiasmo che ci è stato
trasmesso.
Ricominciamo dall’uomo è la sintesi
di chi siamo, di con chi stiamo, di dove vogliamo andare.
Il congresso odierno non è un punto
di arrivo, ma un punto di partenza per superare la diaspora, fare ammenda degli
errori, rinunciare a qualcosa, mettersi in gioco per favorire una più ampia
riaggregazione per ricostruire una presenza nella società e nelle istituzioni,
per raggiungere una massa critica che ci consenta di contare, di far sentire la
nostra voce.
Voglio essere uno di voi, uno di
noi.
Possiamo ancora scrivere una pagina
importante della storia dei democratici importante se ritroveremo l’unità per
partecipare al gioco politico, per difendere i nostri valori, altrimenti saremmo
solo spettatori ai margini del campo di gioco.
Domani cari amici è un anniversario
importante per tutti noi e per voi Mario e Marco in particolare.
Ricorre infatti il trentaseisimo
anniversario della strage di via Fani. Rivolgiamo un pensiero alla memoria di
Aldo Moro e della sua scorta, vittime del terrorismo che si sono sacrificati per
la democrazia del nostro paese.
Roma, 14 - 15 marzo 2014
la registrazione audio
dell'intervento di Maurizio Eufemi si trova nel sito di Radio Radicale
all'indirizzo:
http://www.radioradicale.it/scheda/406026/ricominciamo-dalluomo-iv-congresso-nazionale-dei-cristiani-democratici-uniti-2-ed-ultima-giornata
Chi vuole la rinascita della
Dc. Speranze, delusioni e progetti del Cdu di Tassone
15 - 03 - 2014
Edoardo Petti
La formazione guidata da
Mario Tassone punta a creare un'ampia aggregazione cattolico-popolare.
E lancia l’idea di un
referendum abrogativo dell’Italicum.
È nato l’embrione di una nuova
DC? L’interrogativo sorge spontaneo analizzando lo svolgimento e l’esito del 4°
Congresso nazionale dei Cristiani democratici uniti celebrato allo Sheraton
Hotel di Roma. Un’iniziativa in cui ogni elemento visivo, gesto e parola
sprigionano lo spirito e l’atmosfera della Democrazia cristiana
Una forte impronta democratico-cristiana
Sul palco campeggia il simbolo dello Scudo Crociato con i
volti di Luigi
Sturzo e Alcide
De Gasperi
. E negli interventi aleggiano
l’opera e l’insegnamento di Aldo
Moro
. L’assemblea richiama più
volte la visione dei padri fondatori popolari dell’Unione Europea, l’umanesimo
cristiano contro l’egemonia della finanza e dell’economia, la stella polare del PPE
alternativo ai populismi e al
Partito socialista europeo.
L’avversione per Renzi e per il
maggioritario
È in nome di questi
riferimenti che le assise del CDU ricordano le gravi
violazioni delle libertà fondamentali perpetrate dal governo chavista in
Venezuela
Con lo stesso bagaglio ideale
manifestano avversione per il “cinismo incarnato da Matteo Renzi nel
liquidare l’esperienza del governo di Enrico Letta”, e ribadiscono
l’ostilità verso la stagione maggioritaria avviata nel 1994 e culminata nel meccanismo
di voto approvato dalla Camera
. Legge “che al contrario del
proporzionale con preferenze mortifica la rappresentanza e la libertà di scelta
dei parlamentari”.Gli ostacoli sul cammino della rinascita democratico-cristiana
sono presenti nello stesso mondo cattolico. Perché il Congresso del CDU
certifica in modo plastico una rottura
traumatica con l’Unione di centro
Una rottura e tanti interrogativi
. La scintilla che la sancisce
è l’ipotesi, avanzata da AgenParl
e confermata da Renzo
Lusetti, di una lista unitaria per le elezioni europee tra UDC, Centro
democratico di Bruno Tabacci, Popolari per l’Italia diMario Mauro con
l’esclusione del Nuovo Centro-destra di Angelino Alfano.Scelta che
avrebbe provocato un vivace confronto tra Lorenzo Cesa e Pier
Ferdinando Casini, contrario all’estromissione della formazione guidata dal
vice-premier. E che archivia la creazione di un soggetto
politico unico dell’area popolare per il rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo
nell’orizzonte di una nuova
casa conservatrice e moderata
. Provocando di riflesso lo
smembramento dell’alleanza
liberal-popolare
che ha alimentato una tempesta
nell’inquieta galassia dell’ALDE
La partecipazione di una parte del mondo DC
.L’unico punto fermo nella
strategia dei Cristiani democratici uniti è il rifiuto del rapporto con Forza
Italia in una riedizione
della Casa delle libertà
. Curioso rovesciamento
storico, visto che la causa scatenante dellacostituzione
del CDU nel 1995-1996
fu la spaccatura del Partito
popolare
attorno all’alleanza con la
creatura politica di Silvio Berlusconi. La priorità ora è riunire
la platea più ampia di gruppi e realtà di orientamento democratico-cristiano
. Lo testimonia la partecipazione al
congresso di Publio Fiori, Gianni Fontana, Alberto Alessi, Luisa
Santolini, Clemente Mastella, Marco Follini e Gerardo
Bianco e Renzo Lusetti.
Ricomporre la diaspora popolare
È l’ex “fratello nemico” Gerardo
Bianco, segretario del PPI all’epoca della scissione, a porre
all’assemblea l’interrogativo di
fondo: esiste lo spazio per una presenza incisiva dei cattolici democratici
nella vita pubblica italiana prigioniera di un generale impoverimento
politico-culturale? La risposta secondo l’ex parlamentare risiede in un
ripensamento critico degli errori compiuti da tutti i democratici-cristiani
negli anni Novanta. Compresi gli artefici del CDU, che per opera di Rocco
Buttiglione scelsero l’accordo con il Cavaliere, “figura aliena
dall’esperienza cattolico-popolare”.
Più fiducioso nel futuro è il
ragionamento di Marco Follini, convinto che un forte riferimento
democratico-cristiano possa costituire l’antidoto a una spirale plebiscitaria
fonte di vane speranze e di cocenti delusioni. A suo giudizio è necessario
recuperare lo spirito del Convegno
di Camaldoli e del
ceto dirigente cattolico del dopoguerra, animato da un
forte senso della missione internazionale dell’Italia, dal valore della coesione
nazionale, dall’idea di società aperta, mobile e non
notabilare-censitaria. Prospettiva, spiega l’ex segretario dell’UDC, che non
può ripresentarsi sotto le bandiere della nostalgia ma deve interpretare
l’opinione pubblica inorridita dalla parabola di Berlusconi e riluttante a rintanarsi
nell’orbita del PSE
Perchè Junker in Europa?
A scagliarsi contro il vertice
dell’UDC e contro Casini “per aver distrutto il patrimonio democratico-cristiano
a causa della fame di potere, delle ambizioni personali, e di candidature
improbabili come quella di Magdi Allam e Emanuele Filiberto”, è Maurizio
Eufemi. Ma i bersagli polemici sono numerosi. Rivendicando l’orgoglio
dell’identità cattolico-popolare contro l’annullamento
del cristianesimo sociale e democratico nel socialismo europeo
l’ex parlamentare del CDU
punta il dito contro “la personalizzazione politica incarnata da Renzi,
responsabile di una manovra fiscale che favorisce i lavoratori dipendenti
sindacalizzati e colpisce investimenti produttivi e pensioni. Oltre a essere
l’artefice del furto di democrazia chiamato Italicum
Un meccanismo di voto,
rimarca Eufemi, peggiore della legge Acerbo che aprì le porte al regime
fascista: “Perché calpestando le istituzioni rappresentative, punta a imporre il
bipartitismo fondato su videocrazia e sondaggiocrazia, tipico di forze politiche
liquide sviluppate nella Rete”. È in virtù di queste valutazioni che il CDU
contesta la
scelta compiuta dal PPE di candidare Jean Claude
Junker, “esponente del ricco e
privilegiato Lussemburgo”, alla guida della Commissione UE. E rilancia i valori
originari dell’europeismo democratico-cristiano: economia sociale di mercato,
capitalismo umano e solidale fondato sulla partecipazione dei lavoratori al
destino delle imprese.
Un leader antico e nuovo
Artefice del rilancio
del CDU a costo della rottura con l’UDC
è Mario Tassone. Rivolgendosi
“ai vertici dell’Unione di centro che hanno tradito la parola data e i valori
originari evitando di essere presenti al Congresso e agli amici ex PPI che hanno
scelto di farsi inglobare nel PD entrato nel PSE”, l’ex vice-ministro dei
trasporti parte da una consapevolezza: “Tutti i democratici-cristiani oggi sono
sconfitti. Perché quando la storia ci diede ragione nella vittoria contro il
blocco sovietico-comunista, altri ne approfittarono emarginando le culture
popolari e privilegiando la svendita della coscienza”.
È per tale ragione che egli accetta
di candidarsi a segretario del CDU per un arco di tempo brevissimo, “necessario
per trovare al nostro interno un giovane espressione del fermento rinnovatore
del cattolicesimo popolare”. Proposta che la platea accoglie per acclamazione. E
all’unanimità approva due mozioni. La prima chiede un incontro con con Junker
per chiarire il programma del PPE nella campagna elettorale europea. La seconda
mira a promuovere un referendum abrogativo dell’Italicum. |
Ripensare politicamente i rapporti tra Europa e Russia
Per chi volesse approfondire
un tema di grande attualitá come la vicenda dell'Ucraina e i rapporti
con la Russia segnaliamo questo articolo di Bartolo Ciccardini che non
troverete sui quotidiani. È una memoria politica che non deve andare
dispersa se si vuole comprendere meglio il rapporto Est - Ovest fuori da
schemi preconfezionati. Un gigante della storia come Giovanni Paolo II
aveva la capacitá di comprendere le dinamiche mondiali con largo
anticipo rispetto agli eventi. Buona lettura.
È incomprensibile come l’Europa pensi di
annettere alla Comunità Europea i paesi che facevano parte della Unione
Sovietica, senza trattare con la Russia. E’ stato già straordinario che
i paesi, formalmente indipendenti ma praticamente dominati dalla Unione
Sovietica, come la Polonia si siano potuti unire alla Comunità Europea.
Diverso è il caso dell’Ucraina, della Georgia e di altre ancora, che
facevano formalmente parte dell’Unione Sovietica.
La soluzione
del problema ucraino non riguarda soltanto l’esistenza di una minoranza
russa o di basi militari russe sul territorio ucraino. Ci sono problemi
più antichi, più gravi e più gravidi di conseguenze che non si possono
ignorare.
Il primo
riguarda la vera natura della Russia. La Russia è il più grande dei
paesi europei che ha anche una dimensione continentale in Asia. In
pratica, nel periodo della grande espansione europea (XVIII e XIX
secolo), ha conquistato le sue colonie nell’orto di casa, contigue e
controllabili, e le ha conservate quasi tutte, a differenza degli altri
paesi europei. Come del resto hanno fatto gli Usa con il loro West.
Questa condizione le da una posizione di forza nei confronti dell’Europa
e contemporaneamente la mette nella necessità di ricercarne la
collaborazione, per la migliore qualità dei livelli tecnici europei e
per la specializzazione del suo mercato. In questa situazione l’ Europa
non può rinunciare allo scudo americano, ma, nel contempo ha un grande
interesse a coltivare buoni rapporti fra Usa e Russia.
Un secondo
problema è dettato dalle sue radici storiche. La Russia è un paese
europeo di confine con molte etnie e molte religioni, conquistato alla
civiltà europea dai Normanni, come lo furono la Sicilia e la Britannia e
profondamente segnato dalla conversione al cristianesimo per opera dei
santi Cirillo e Metodio, inviati da Roma.
La Russia
originaria, quella che aveva per capitale Kiev fu provata dall’invasione
dell’Orda d’Oro, che divise il sud cristiano dei santi Cirillo e Metodio
dal nord cristiano di san Sergio e del Kremlino. Era inevitabile che la
Santa Russia di San Sergio e di Alexander Nersky, capace di resistere a
tutte le invasioni, riconquistasse i territori dell’Orda d’Oro, e
riunificasse i territori di San Cirillo e Metodio e cercasse di avere un
ricongiungimento con la Costantinopoli dei patriarchi bizantini.
La terza Roma,
così amava chiamarsi Mosca, si sentiva figlia della seconda Roma, ed
aspirava ad essere europea e bizantina. Questo impero di confine
profondamente legato all’Europa suscitava timore nelle Nazioni europee
che spesso cercarono di limitarne l’espansione alleandosi con l’Impero
ottomano. Ma non per questo la Russia non prese parte da sempre agli
eventi della storia europea. Anzi.
La Russia, che
aveva respinto Napoleone, dopo aver occupato (o liberato?) Milano e
Parigi diviene protagonista del Congresso di Vienna, (a cui il Papa non
era stato invitato), dove propone all’Europa una intesa cristiana, una
Santa Alleanza per il mantenimento della pace e dell’ordine. A scuola ci
hanno insegnato che la Santa Alleanza era reazionaria e illiberale e
quindi destinata ad essere sopraffatta dall’incontenibile moto
progressivo delle Nazioni. In realtà l’equilibrio proposto dalla Russia,
finché durò, garantì il grande sviluppo economico dell’Europa dell’800 e
persino la sua egemonia mondiale, senza per questo impedire la crescita
liberale degli stati europei. Solo l’impeto aggressivo delle Nazioni,
tracimato nei nazionalismi, riuscì a distruggere nelle due Grandi Guerre
mondiali l’ordinamento equilibrato della Europa e la stessa supremazia
europea nel mondo.
Nella
conferenza di pace di Versailles del 1919 erano scomparvero gli imperi
tedesco, austriaco e russo. Nel capitolo successivo, nel 1945,
scomparvero gli altri e la Russia si ripresentò di nuovo, nel 1945, come
nel 1815, dentro i confini dell’Europa, come arbitro potente,
alternativo alla egemonia americana, per il suo contributo pesantissimo
alla disfatta di Hitler.
Abbiamo
considerato sempre il comunismo come il momento più aggressivo della
Russia verso l’Europa. In realtà il comunismo, proponendo un nuovo
ordine incompatibile con la realtà europea, riuscì a tenere lontana la
Russia dall’Europa e a contenerla nei suoi nuovi confini acquisiti. Una
Russia non comunista avrebbe potuto svolgere in Europa un compito simile
a quello svolto dalla Russia zarista nella Congresso di Vienna. Oppure
una funzione paragonabile a quella svolta dagli Stati Uniti.
Chi ha pensato
che la fine del comunismo significasse la fine della Russia ha
sbagliato. La Russia, liberata dal comunismo, dopo aver superato la
gravissima crisi del post-comunismo, è di nuovo in Europa con il suo
peso e deve essere presa in considerazione come un elemento europeo di
grandissima importanza.
Non si può
immaginare la Russia come se fosse la replica della Unione Sovietica.
Non si possono cambiare i confini nell’Europa che è compresa nella sua
area vitale, senza convincerla e senza ascoltarla. Non dobbiamo
illuderci che la Russia possa assistere passivamente all’attrazione che
i territori che fanno parte del suo sistema economico passino all’Europa
senza procurare conflitti, a meno che lei non sia coinvolta il questo
passaggio. Non dobbiamo augurarci che la Russia perda il controllo dei
territori asiatici che facevano parte del suo impero. La cosa più
saggia sarebbe cominciare a pensare ad un qualche coinvolgimento della
Russia stessa nella convivenza europea.
Per questo la
posizione della Russia in Europa va ripensata politicamente, tenendo
conto anche della sua dimensione asiatica, della sua difficile posizione
nei confronti della Cina, del suo dominio siberiano. Bisogna trattare
con la Russia considerandola per quello che è: una potenza europea.
Bisogna
trattare con la Russia considerando i suoi interessi asiatici come
nostri interessi. Bisogna trattare con la Russia considerando che un
rapporto costruttivo fra Russia e Stati Uniti, necessario alla pace di
oggi ed ancor più necessario alla pace di domani, quando le potenze
asiatiche alzeranno la voce, è l’unica prospettiva praticabile per
conservare la pace e l’ordine mondiale.
Temperare il
potenziale conflitto fra gli USA e la Federazione Russa sarà il compito
primo dell’Europa. Infine bisognerà anche farsi carico di una divisione,
sempre sottovalutata, di cui bisogna tener conto. Questa faglia
sotterranea ha origini remote e risale alla divisione fra la Chiesa di
Roma e la Chiesa Orientale.
Probabilmente
non vi sarà una vera trattativa fra Europa e Russia finchè non sarà
eliminata la ostilità fra i due cristianesimi. Era questo il desiderio
di Papa Giovanni Paolo II e la spiegazione del suo sogno di recarsi a
Mosca a parlare di pace. Diventa quindi importante in questo quadro
politico che i primi a parlarsi siano proprio i cristiani, ricordando
che in Ucraina, prima ancora di una guerra fra etnie o fra ideologie,
c’è stata una guerra fra Chiese.
Ritengo che
questo compito posa essere portato a termine, sul piano politico dai
democratici ispirati al cristianesimo che hanno i medesimi ideali, che
vivono sia nell’Europa occidentale, sia nell’Europa orientale, e che,
purtroppo, non si parlano. Per questa latitanza, il vuoto politico dei
cattolici italiani appare disastroso perché causa una drammatica
ignoranza dei problemi fondamentali della pace europea.
Bartolo
Ciccardini
*P.S.
Anni fa a proposito della politica europea scrissi un articolo
“L’Europeismo dopo Giovanni Paolo II”. In quelle pagine narravo questo
episodio, che mi sembra ancora attuale, avvenuto nel 1979, quando la
Russia era ancora un potente stato comunista.
“Nel Natale del 1979, quando ero Sottosegretario ai Trasporti, il Papa
Giovanni Paolo II venne a celebrare il Natale, di notte, con i
ferrovieri, allo scalo di San Lorenzo. Il ministro Preti, ottimo
socialista democratico che aveva in uggia preti vescovi e papi, mandava
me. Io riaccompagnai il Papa in treno, dallo scalo San Lorenzo alla
Stazione di San Pietro. Eravamo soli, nel belvedere che allora i rapidi
avevano sulla fronte del treno e ci veniva incontro, nella notte, una
Roma insolita. Il Papa mi parlò con passione e nostalgia del natale
degli Uniati, i cattolici ucraini di rito greco che erano stati cacciati
dalle loro chiese fin dai tempi di Stalin, dei difficili rapporti con la
Chiesa Ortodossa che quelle chiese ora occupava, della dura persecuzione
a cui erano tuttora sottoposti, gli uni e gli altri, con affetto e
comprensione per le persecuzioni, di cui non si parla mai, che anche i
fratelli ortodossi avevano subito. Io non sapevo nulla degli Uniati, non
ero in grado di considerare la gravità di quei problemi. Mi rimase solo
il ricordo della straordinaria testimonianza di un papa polacco che
nella notte natalizia traversava Roma in un treno tutto per lui,
accompagnato da un ignaro precario della ferrovie, che ascoltava stupito
il suo sogno di andare a Mosca per sanare l’orribile ferita nel corpo di
Cristo: il peccato della separazione dei fratelli cristiani”. |
EMILIO COLOMBO
In occasione della presentazione del
volume " per l'Italia per l'Europa" conversazione di Arrigo Levi con
Emilio Colombo ne è stata ricordata la figura. Questo è l'intervento
di Gerardo Bianco alla cerimonia che ha visto la presenza del
Presidente della Repubblica.
La biografia politica di Emilio Colombo
attraversa per intero la nostra storia repubblicana. In tutti i
decisivi passaggi della nostra tormentata costruzione democratica
egli è presente, da protagonista.
Ha solo 26 anni quando viene eletto
all’Assemblea Costituente. L’Italia ha fatto la sua scelta ed è
repubblicana. Fu anche questo l’orientamento del giovanissimo
Colombo in un ambiente sociale e partitico ancora intriso di
nostalgie monarchiche.
Egli apparteneva a quella nuova
generazione di giovani formatisi nelle parrocchie, che avevano
sperimentato la difficile convivenza tra organizzazioni cattoliche
e regime fascista che suscitava rigetto e spirito di libertà. Fu
militare durante la folle guerra del fascismo e ne uscì
fortunosamente e con amaro dissenso.
Di questa insofferenza verso il clima
oppressivo dell’epoca ci dà testimonianza Emilio Colombo, rievocando
i suoi anni giovanili, nella bella intervista ad Arrigo Levi. Il
sentimento di libertà era comune ai giovani cattolici di ogni parte
d’Italia. La Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici,
costituì la cinghia di trasmissione di questo disincanto che non fu
di ribellione, ma di consapevolezza della distanza che separava la
mitologia fascista, fondata sulla violenza, dalla concezione
cristiana della vita, dall’umanesimo di Maritain autore di culto dei
giovani cattolici. Colombo apparteneva a quella schiera di fucini,
da Dossetti a Moro, a Zaccagnini, ai redattori del Codice di
Camaldoli, che diventeranno la classe dirigente dell’Italia
repubblicana. Ma non poca influenza sul bisogno di libertà e di
riscatto politico dové esercitare su Colombo lo stesso
ambiente potentino e lucano.
Già la scuola da lui frequentata,
intitolata a Luigi La Vista, il giovane ucciso dalle truppe svizzere
del Borbone nella repressione scatenata contro il Parlamento
partenopeo, nel 1848, e che era diventato un mito nella coscienza
popolare della Regione, evocava a Colombo valori di libertà.
Ma era tutta la più fervida e feconda
cultura lucana, da Giustino Fortunato, a Francesco Saverio Nitti
(che Colombo commemorò il 24 febbraio 1953 con un breve, ma
penetrante intervento alla Camera, nel momento della scomparsa), a
Don Giuseppe De Luca, l’acutissimo interprete della pietà
popolare, a influire sulla formazione del giovane Emilio Colombo.
Altra influenza determinante, come
dichiara lo stesso Colombo, fu quella di Monsignor Bertazzoni, uno
straordinario vescovo che alla spiritualità religiosa univa forte
sensibilità civile e sociale, e che non poca parte ebbe nella
ricostruzione di Potenza e della Basilicata colpite da pesanti
bombardamenti.
È in questo contesto che si va formando
la personalità di Emilio Colombo che alla profonda fede religiosa
coniugherà una visione laica dell’agire politico che gli studi
universitari, alla scuola Carlo Arturo Iemolo, contribuiranno a
consolidare. Scelse appunto il partito di De Gasperi e non i
comitati civici di Gedda, sui quali espresse riserve politiche.
Egli perviene, a me pare, alla
intuizione del popolarismo, come dottrina e metodo di governo,
soprattutto attraverso la riflessione sulla realtà delle parrocchie,
la conoscenza del mondo contadino locale che amava visitare come
giovane dell’Azione Cattolica, sulla struttura giuridica delle
proprietà ecclesiastiche, le chiese
ricettizie, sulle quali elaborerà la sua tesi di laurea.
L’argomento, può sembrare lontano da
tematiche più pregnanti ed attuali, ma, esso, consentiva a Colombo
di capire meglio l’incidenza delle proprietà ecclesiastiche che,
come ha chiarito Gabriele De Rosa, avevano avuto notevole impatto
sulla storia sociale del Mezzogiorno, gli permetteva
di capire, inoltre, gli assetti proprietari, la natura dei contratti
agrari, le condizioni dei contadini, in definitiva il mondo agricolo
del Sud.
Colombo si troverà,
quindi, culturalmente attrezzato quando assumerà, appena
ventottenne, la prima responsabilità di governo, come
sottosegretario all’Agricoltura nella prima legislatura, nel quinto
governo De Gasperi. Comincia, così, la formidabile carriera
governativa di Emilio Colombo, deputato per XI legislature, oltre
la transizione costituzionale, per tre senatore a vita, con 39
incarichi di Governo. Fu anche sindaco di Potenza.
Alla Costituente egli restò piuttosto in
ombra, ma affrontò subito il problema della grande sete, il problema
antico dell’acqua che tormentava le regioni del Sud. La sua opera
diviene intensa nella prima legislatura, rivelando la sua innegabile
capacità di mediazioni alte e di governo.
A Colombo viene affidata la difficile
missione di riportare la pace a Melissa in una rivolta che aveva
causato vittime e grave turbamento in tutto il Paese. Colombo
riesce nel suo compito, acquista prestigio e diventa il braccio
destro di Antonio Segni nell’attuazione della riforma agraria, una
questione irrisolta da secoli, che rappresentava, all’epoca, il più
grave problema sociale dell’Italia unita.
Sono anni di grandi scelte, ma anche
di minuti provvedimenti. I resoconti parlamentari raccontano questa
storia e ci dicono del vasto impegno di Colombo su numerosi atti
legislativi tra i quali spicca il risanamento dei “Sassi” di Matera
che era la promessa di Alcide De Gasperi, sconvolto nel suo viaggio
in Basilicata dal degrado umano di quelle realtà abitative.
È un noviziato che rafforzerà la
competenza legislativa e amministrativa di Colombo anche per
l’esperienza acquisita come sottosegretario ai LLPP, preparandolo al
salto con il primo Governo Segni, nel 1953. Segni gli affiderà il
Ministero dell’Agricoltura dove andava completato il disegno
riformista con le leggi per la proprietà contadina e soprattutto con
la revisione dei patti agrari che Colombo affronterà nel gennaio
1957.
In quegli anni, la popolarità di Colombo
era notevolmente cresciuta non solo tra la sua gente, ma nel Paese e
nel Partito. Resta nella memoria di tutti noi che lo ascoltammo, il
celebre discorso pronunciato nel Congresso della Democrazia
Cristiana a Napoli, nel 1954che segnò anche il passaggio
generazionale da De Gasperi a Fanfani alla guida della D.C.
Quel discorso, limpido ed argomentato,
che disegnava una suggestiva linea di orizzonte politico per il
Paese e per il Sud, consacrò Colombo tra i maggiori leader della
Democrazia Cristiana.
Egli divenne anche l’interprete più
autorevole, nella D.C., di quel pensiero politico che concepiva la questione
meridionale come il fulcro della politica nazionale.
È del 7 febbraio 1951 un suo ampio
discorso sul Mezzogiorno, pronunciato come Ministro dell’Industria e
del Commercio, dove alla profondità delle conoscenze specifiche
nelle singole materie si accompagna il respiro della grande politica
da attuare egli afferma per un “autentico rinnovamento” di tutta
intera la vita nazionale.
Sono 18 pagine di resoconto parlamentare
che raccolgono il suo intervento seguito da un lungo dibattito di
alto profilo, caratterizzato da una dialettica vivace ma sempre
corretta e dialogante di cui Ella Signor Presidente fù incisivo
protagonista.
Di questa attenzione al tema e di questo
stile non trovo più traccia nelle recenti sessioni delle nostre
Assemblee parlamentari.
Gli anni sessanta sono anni di grandi
riforme. Si susseguono quelle della scuola media, della legge
costitutiva delle Regioni, della riforma universitaria, dello
Statuto dei lavoratori (1970), della nazionalizzazione dell’energia
elettrica che porta la firma di Emilio Colombo, ma l’elenco potrebbe
continuare.
Colombo è alla guida di Ministeri che
portano a compimento l’ancoraggio dell’Italia alle economie più
avanzate d’Europa.
Il Paese cresce a tassi di sviluppo
inaspettati, mentre il Sud supera il Nord (il 5,8 contro il
4,3), con il divario economico che si riduce, per la prima volta,
tra le due aree del Paese.
È la stagione del cosiddetto miracolo
economico. Emilio Colombo è dentro questi avvenimenti ma cominciano
a manifestarsi in quegli anni anche i primi segni di malattia che la
stessa impetuosa crescita economica va determinando. L’inflazione
incalza, il deficit commerciale aumenta, la lira traballa. Al
capezzale viene chiamato Emilio Colombo. Egli diventa Ministro del
Tesoro con Leone e poi con il I e II Governo Moro, e affronta, con
determinazione e severità, il problema dell’inflazione, invertendo
la rotta negativa della bilancia dei pagamenti. Nel 1965 la lira
ottiene l’Oscar come la migliore moneta corrente.
Egli diventa candidato naturale per la
guida del Paese. Appare infatti come l’uomo giusto per situazioni
difficili, e complicatissima risulta la situazione con le
dimissioni dal II Governo Rumor, alla vigilia dello sciopero
generale proclamato dai sindacati. Colombo scioglie i nodi e
subentra a Rumor come Presidente del Consiglio. Il suo Governo
durerà 527 giorni in un clima di gravi tensioni con la guerriglia
urbana delle città calabresi, con una precaria maggioranza nella
quale il PSI propone “equilibri più avanzati e meglio garantiti”,
con la fine della convertibilità del dollaro annunciata da Nixon,
che determina instabilità dei cambi, crisi economica, causa di
profondi dissensi con il PRI che esce dal Governo, con le
inquietanti notizie di tentato colpo di Stato, confermato dal
Ministro degli Interni Franco Restivo, con atti di terrorismo rosso
e nero, con l’incombente iniziativa del referendum sul divorzio che
spacca il mondo cattolico.
Non fu un anno felice per Emilio
Colombo che guidava un Governo non molto diverso da quello
precedente. Pure non mancarono efficaci provvedimenti che
fronteggiarono la situazione economica e affrontarono gravi problemi
come quello del Mezzogiorno con una legge lungimirante, rimasta
purtroppo inapplicata.
Colombo ritorna nei Governi Andreotti,
come Ministro del Tesoro e poi per l’ONU avviando così
un’esperienza internazionale che lo vedrà, tra la fine degli anni
70, e nel decennio successivo, protagonista della politica europea.
Da Presidente del Parlamento europeo con
elezione indiretta, tra il 1977 e il 1979, traghetta il passaggio
all’Assemblea eletta con suffragio universale che vedrà alla guida
una straordinaria figura dell’europeismo: Simone Veil.
Il 1979 è anche l’anno del conferimento
a Emilio Colombo del premio Carlo Magno attribuito in precedenza
solo ad Alcide De Gasperi. Seguirà un altro grande europeista:Carlo
Azeglio Ciampi.
Sono gli anni 80 a consolidare la fama
di Emilio Colombo a livello europeo e a renderlo particolarmente
popolare negli ambienti politici del Continente.
Sono stato testimone diretto a Berlino
e poi a Strasburgo dell’alta considerazione di cui godeva Emilio
Colombo.
La sua capacità di impostare in modo
lungimirante la politica europeista è dimostrata da quell’intesa
con Genscher del 1981 che sbloccò una situazione impantanata,
aprendo nuovi percorsi, che portarono all’Atto
Unico del 1986 e poi alla moneta unica, grande conquista
dell’Europa.
In quella linea v’era il timbro
dell’eredità de gasperiana, creativamente vissuta.
Toccò ancora a Colombo far ratificare
dal Parlamento, nel 1992, il Trattato di Maastricht che era
conseguenza dello storico accordo sancito con Genscher.
Colombo, nel 1992, era diventato
Ministro degli Esteri dopo le dimissioni di Enzo Scotti che non
volle rinunciare al mandato parlamentare accettando le regole
fissate dal partito di incompatibilità tra le due cariche. Colombo
non era affatto convinto della bontà di quella decisione e lo
espresse in una lettera, ma si adeguò alla direttiva del partito
perché ad esso era profondamente legato.
Visse con tormento la prima scissione
della D.C., ma quando fu il momento della scelta, da che parte
stare, non ebbe dubbi e si schierò con il PPI. Lo ebbi così al
fianco pienamente solidale nella stagione dell’Ulivo (quello con
il trattino) e fu la nostra bandiera a livello europeo per
dimostrare che il PPI era l’autentico erede della Democrazia
Cristiana, di quella storia di cui Colombo aveva scritto pagine
importanti, di quella storia che non è stata affatto compresa,
che viene costantemente mistificata. Circolano stereotipi, come
quello del doroteismo, dalle accezioni negative (lo è diventato
ormai lo stesso termine “democristiano” nell’odierna vulgata
giornalistica e politica) che rappresentano la grande
falsificazioneinterpretativa della cosiddetta Prima Repubblica che
ha costruito una grande democrazia e non un “doppio Stato”.
Colombo fu doroteo, ma forse la sua
biografia può far meglio intendere quel movimento interno alla DC
che non fu solo immobile palude, come si tende a definirlo, ma anche
sapienza di governo.
Anche a noi, nella lotta politica
interna, appariva troppo statica l’opera dei dorotei, ma in
quell’andare avanti, quasi indietro, come i gondolieri di Venezia,
c’era la non infondata preoccupazione di non essere seguiti da un
elettorato più arretrato rispetto alla classe dirigente
democristiana. Ma se una certa passività di azione del doroteismo è
innegabile è da respingere la tesi di puro conservatorismo, quasi
reazionario, di quella componente che non fu affatto una palude
ma anzi la base per le politiche di centro-sinistra che rappresentò
il primo allargamento dell’area democratica.
Era la natura stessa della D.C.
a escludere la collocazione a destra del partito. Emilio Colombo
ribadisce questo concetto in modo netto, nell’intervista ad Arrigo
Levi rivendicando la vocazione egli dice, “ non conservatrice e
riformistica della Democrazia Cristiana”.
Egli visse come un dramma la
dissoluzione anche delle speranze del popolarismo nate con l’Ulivo e
tentò un infelice esperimento. Non fummo generosi con lui, e sentì
il gelo dellasolitudine e soffrì il silenzio, come mi disse, del
telefono che non più squillava!.
Ciampi gli rese giustizia, nominandolo
senatore a vita. Ha avuto la ventura di aprire questa XVII
legislatura ed ha parlato da Costituente, richiamando quel primo
tempo della Repubblica per una rinnovata ricostituzione dei grandi
valori collettivi, quelli che furono a fondamento della
ricostruzione post bellica.
Con Raffaele Garramone ho incontrato
Colombo nella sala del Senato non molto tempo prima della sua
scomparsa. Era visibilmente contento. Si apprestava a partire per
Torino per presentare il suo libro – intervista, intrigante dialogo
con Arrigo levi ricco di ricordi e di riferimenti storici che
rivelano l’ampio respiro dell’azione politica di Emilio Colombo.
Egli amava conversare e raccontare e così fece con noi, lasciandoci
poco spazio. Ma era amabile ascoltarlo nel lucido argomentare con la
sua voce calda e melodiosa con la quale, in un tempestoso congresso
della D.C., che egli presiedeva, riportò alla calma i delegati
surriscaldati intonando improvvisamente con piglio allegro, la
nota canzone popolare “vola, vola, vola lu cardillo” coinvolgendo
l’intera platea. Perché Emilio Colombo era anche questo: amico
gioviale, signorile e popolare.
Egli aveva chiesto ai familiari
di volere uscire in penombra dalla vita terrena, e così fu, tra la
folla commossa e silenziosa della Chiesa di S. Emerenziana, ma
illustre e luminosa, malgrado debolezze, gelosie competitive,
inevitabili errori propri di ogni essere umano, illustre e luminosa,
ripeto, resta la sua storia personale, quella di una vita spesa,
come recita il titolo del suo libro intervista, per l’Italia e per
l’Europa.
Gerardo Bianco
|
Convegno:
“Costituzione e legge elettorale”
Roma, 5 marzo
2014; h. 9,30 – 14,00
Camera dei Deputati - Auletta dei Gruppi parlamentari - Via di Campo Marzio 76
(leggi l'invito)
Costituzione e
legge elettorale
In questa legge elettorale sembra prevalere
più la data della entrata in vigore piuttosto che i contenuti.
Se nel biglietto da visita che è, poi, la
relazione Sisto che accompagna l'italicum si arriva a strumentalizzare
le parole Aldo Moro alla legge de Gasperi Scelba del 1953, allora, le
cautele sono d'obbligo.
Qui infatti il premio può scattare con il 35 per cento e non con il 50,1
quindi una maggioranza relativa che si trasforma in assoluta. Tutto ciò
in un quadro aggravato dal forte astensionismo che attraversa oggi il
corpo elettorale.
Lo sbarramento viene combinato con lo sbarramento del 4,5 per cento
(secondo le intese non ancora formalizzate) annullando intere
rappresentanze senza scorporo dei voti apportati alla coalizione dai
partiti che non raggiungono la soglia elettorale.
Non viene previsto il divieto di candidature
multiple su tutti i collegi così si perpetuerá il gioco delle opzioni e
non si eviterá senza la introduzione delle preferenze, il malcostume dei
nominati.
Molti voti sarebbero un conferimento gratuito senza incidenza nella
coalizione, "cancellando diversitá e articolazioni della nostra vita
politica e nell'ambito stesso della maggioranza che permettere di
togliere ogni mortificante uniformitá della maggioranza" come affermò
Aldo Moro.
Vi sono rischi che il sistema degeneri così come avvenne con il fenomeno
della desistenza rispetto al Mattarellum. Per raggiungere più
agevolmente la soglia del premio di maggioranza, i leader dei partiti
più forti non faranno fatica a incoraggiare liste o listarelle senza
speranza, voti gratuiti rispetto all'alternativa di contrattare qualche
posto sparso. I partiti dovrebbero andare da soli, come ha affermato il
prof. Sartori, per evitare maggioranze false.
C'è poi la questione dei collegi. Su questo il Parlamento è stato
tagliato rispetto a quanto previsto dal Mattarellum con la commissione
parlamentare, con esperti presieduta dal Presidente dell’Istat, nella
definizione compiuta dei criteri socio- economici e in ordine alla
popolazione che è aumentata di 3,5 milioni di abitanti, con contrazione
demografica in alcune regioni. Potrei portare gli esempi proprio di
Firenze e di Torino.
La soppressione del Senato, così come indicato e la sua trasformazione
in Camera di secondo livello, pone una serie di problemi in particolare
sulle funzioni, sulla revisione costituzionale riferita all’articolo
138, sulle autorithies con le perplessità manifestate in modo puntuale
da Manzella, in ordine a meccanismi delicati quali i rapporti tra
Regolamenti e fonti legislative, sulla elezione del CSM e della Corte
costituzionale e dello stesso Presidente della Repubblica.
Andreotti nel 2005 vedeva il pericolo di creare un "ectoplasma con un
lieve turismo interno di presidenti di regione o di altri (i sindaci)
che vi parteciperanno di tanto in tanto".
V'è la suggestione del monocameralismo. Il
bicameralismo perfetto si può abbandonare, trasformando la seconda
camera in quella per la legislazione europea, delle autonomie delle
grandi formazioni sociali come auspicava Dossetti.
Il Presidente del Consiglio ha affermato che
il Senato non dovrá votare i bilanci, ma la politica di bilancio si
compone dei saldi di finanza pubblica che devono essere garantiti a
livello di consolidato nazionale e delle regole di ripartizione degli
stessi saldi. Ci deve essere un raccordo. C'è un unicum tema patto di
stabilitá interno, scelte di perequazione e legge di stabilitá, che
verrebbe spezzato senza un raccordo e una interconnessione.
Dunque ci si avvia alla eutanasia del senato. Viene imposto un criterio
economicistico, ma la democrazia non si taglia. Si corregge. I tagli
sarebbero modesti. Molta spesa è incomprimibile. Certamente non è quella
ipotizzata di 1 md di euro.
Non vogliono indulgere su amarcord felliniani ma due aspetti meritano un
ricordo.
Nel 1981 venne in Senato da Amintore Fanfani, lord Hailshan di St.
Marylebon presidente Camera dei lords.
Si pose l’interrogativo: quale deve essere una seconda camera in un
sistema moderno?.
Deve riflettere le funzioni per le quali
l'organismo viene eletto senza violare il principio della universalitá
dei diritti, della rappresentatività, del completamento del lavoro sui
codici, ma soprattutto non essere impotente e dotato di poteri reali per
farsi ascoltare.
Quelle indicazioni andrebbero sapientemente attualizzate rispetto alla
armonizzazione della legislazione europea sia nella fasce ascendente che
discendente, al rapporto tra legislazione statale e regionale, alle
funzioni di controllo.
IL Senato dovrebbe far funzionare il motore
legislativo bene attraverso un regolatore di velocità o di lubrificanti
idonei.
Nel 1975 Bianco presentò una p.d.l. Con la riduzione del numero dei
parlamentari si raggiungerebbero fortissime economie non solo un
migliore rapporto eletti/ abitanti che passerebbe a 122 mila, migliore
di quello tedesco rispetto ad una popolazione di 83 milioni e 699
parlamentari.
Con il monocameralismo si avrebbe
alterazione del corpo politico legislativo, dittatura maggioranza con
Parlamento che diventa mediocre canale di decisioni prese altrove, ha
scritto efficacemente Manzella.
Abbiamo bisogno di un parlamento
funzionante, con razionalizzazione delle attivitá con alcune materie
bicamerali e altre monocamerali se approvate a maggioranza assoluta, con
possibilità di richiamo su specifiche materie.
Un Parlamento con la previsione di una
Camera con 380 membri e un Senato con 185 porterebbe ad un totale
565 membri quindi un numero inferiore perfino alla Camera che si vuole
tenere in vita e al complesso dei parlamentari della Germania. Si
determinerebbero notevoli concreti risparmi di spesa.
Quale sarà dunque il destino dell’articolo
138 rispetto alla revisione dell’impianto costituzionale; con quali
regole sarà governato il procedimento se viene imposto un
monocameralismo maggioritario in cui si afferma la dittatura della
minoranza andando ben oltre i pericoli percepiti alla Costituente da
Tosato sull’assolutismo democratico?.
Cerchiamo di non accompagnare il Senato al
suicidio assistito.
Roma, 7 marzo 2014
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La costituzione e la
legge elettorale è stato il tema del convegno promosso dalla
associazione ex parlamentari.
La condanna del parlamentarismo è la condanna della democrazia affermò
Kelsen.
Si è svolto mentre nell'aula di Montecitorio si affrontava
il cosiddetto italicum dopo gli ultimi accordi politici che hanno mutato
il quadro politico. Che senso ha ormai affrontare una legge che riguarda
il solo sistema della camera se non si affronta la riforma
costituzionale del senato dopo l'annuncio della soppressione e
trasformazione in camera delle autonomie di secondo livello senza
conoscere allo stato legittimazione, funzioni e competenze. Sono stati
posti in luce i rilievi di ordine costituzionale rispetto al principio
di rappresentanza e proporzionalità.
Una legge che fa acqua da tutte le parti e che merita correzioni
profonde. Si forza oltre misura il sistema rispetto ai principi
costituzionali del pluralismo e della rappresentativitá.
Un monocameralismo come quello ipotizzato non porta solo all'assolutismo
democratico come ipotizzato da Tosato alla Costituente, ma con questa
legge elettorale, alla dittatura della minoranza.
La sondaggiocrazia sta portando il Paese alla oclocrazia con tutti i
rischi conseguenti.
|
Il
Presidente
Roma, 24/2/2014
Caro Amico/a,
per intensificare il confronto sui temi di comune
interesse, stiamo attivando una serie di servizi on line, da oggi è già
operativo il nostro account twitter, all’indirizzo @cduitalia, che sarà
la nostra base operativa per il Congresso e per la futura attività del
CDU, a breve entrerà in funzione anche il sito internet ufficiale
www.cdu-italia.it (già consultabile in dominio). Ti ricordo,
inoltre, che è sempre attivo il mio profilo facebook (mariotassone),
dove puoi continuare a seguire e commentare la mia attività. Aspetto i
Tuoi contributi, un caro saluto.
Mario
Tassone |
Presentazione libro di Gerardo Bianco "La
parabola dell’Ulivo"
In una splendida cornice di pubblico che ha
affollato la Sala Perin del Vaga di Palazzo Baldassini è stato
presentato il recente volume di Gerardo Bianco la parabola dell’Ulivo
(1994 .-2000) che integra e completa il precedente La Balena Bianca,
l’ultima battaglia 1990-1994. Moderati da Gianfranco Astori, si sono
confrontati Marco Follini, Arturo Parisi, lo storico Agostino
Giovagnoli, il padrone di casa Giuseppe Sangiorgi.
Non hanno mancato all’appuntamento, Mario
Segni, Giorgio La Malfa, Gennaro Acquaviva, Bartolo Ciccardini, Arnaldo
Forlani, Nicola Mancino, Sergio Zoppi, Bruno Tabacci, Flavia Nardelli,
Ernesto Preziosi, Alessandro Forlani, Francesco D’Onofrio.
Nel corso di tutti gli interventi sono
riecheggiate le parole dello storico Piero Craveri, autore della
postfazione e che erano scolpite come pietre nell’invito “ Tra le
culture politiche che hanno sorretto l’esperienza politica della
Repubblica quella dei cattolici democratici avrebbe certamente potuto
dare un contributo politico nella fase di transizione apertasi con il
1992. Meno ideologica, più fondata su semplici principi di socialità,
essa aveva dalla sua una lunga esperienza capace di coniugare i problemi
di mercato con la solidarietà sociale, forte di un senso concreto
dell’azione politica di un empirismo, senza vincolo ideologico, di volta
in volta meditato.
L’aver abbandonato questa premessa di
capacità di sintesi è stato un inutile cedere alla radicalizzazione
della lotta politica, che ha impoverito così tanto la capacità di
pensiero e di azione politica. Bianco ci racconta la storia di una
sconfitta in cui il senso della storia è andato oltre senza lasciare
riferimenti. E su questi presupposti occorrerà tornare a riflettere se
si vogliono aprire nuove prospettive”.
Marco Follini si è soffermato sulla
importanza del “trattino”, anzi sulla sua crucialità, nella evoluzione
dei rapporti tra il centro e la sinistra. In quella distinzione v’era la
difesa del mondo del cattolicesimo democratico distinto dalla sinistra e
distante dalla destra.
V’era la difesa di quella civiltá evitando quel progressivo amalgama,
quella idea della politica che va di moda e che porta alla
semplificazione con tutti i rischi conseguenti se l’alternativa a Renzi
dovesse essere Giorgia Meloni. Dunque referendum sulle persone piuttosto
che confronto sulle politiche.
Marco Follini si è posto il problema di quale tributo pagare alla
modernità e pur nella difesa della democrazia parlamentare ci si deve
interrogare sulla introduzione del semipresidenzialismo e
poiché siamo alla reversibilitá dei partiti introduciamo contrappesi
necessari ad evitare forzature. Rispetto alle vicende di attualità non
ha mancato di richiamare l’azione di Moro sempre impegnato in uno sforzo
costante di ricucitura ma anche capace di giudizi severi. Era la regola
della politica.
Ha concluso con un twitter sintetico che sembrava una preoccupazione a
mode giovanilistiche e un richiamo a Renzi e alla sua squadra di
governo: “gallina vecchia fa buon brodo”.
Poi è intervenuto lo storico Agostino Giovagnoli che ha apprezzato il
lavoro di Bianco riprendendo e sviluppando le parole di Piero Craveri.
Ha voluto sottolineare le indicazioni di Pietro Scoppola ai convegni di
Orvieto e di Chianciano, sulla necessità del trattino come esigenza
ineludibile della diversità tra il centro e la sinistra. Lo storico,
purtroppo, non si è calato nell’attualità e non ha ricordato i passaggi
delle laceranti divaricazioni che si sono consumate a metà degli anni
novanta all’Ergife e che hanno progressivamente accentuato la diaspora
democristiana. Giuseppe Sangiorgi si è posto il problema del “trasloco
della memoria” che come con Johann Gutemberg i manoscritti furono
superati con la carta stampata che oggi, è detronizzata dalla rete. Ha
sottolineato come l’Istituto Sturzo con Francesco Malgeri e lo stesso
Agostino Giovagnoli sia impegnato in questa fase di ricostruzione
storica degli avvenimenti che si svilupperà con un portale che metterà
in risalto molti particolari nascosti ben oltre quelli riportati da Alan
Friedman sulla vicenda Monti.
Infine Arturo Parisi che non è voluto mancare all’appuntamento
nonostante i postumi influenzali, è stato generoso sul piano personale
con Gerardo Bianco. Ne ha riconosciuto la linearità della condotta.
Ha inquadrato gli avvenimenti attuali con una lettura sociologica Quella
attuale è la generazione, quella di Renzi, figlia decisionismo
maggioritario perché nati nel 1975.
Si è spinto ad affermare che ha letto il libro con sofferenza, ma che la
umanità del tratto ha alleviato la lettura.
Ritiene che Bianco rivendica il proporzionale assoluto ma che si
accontenta del mattarellum rifiutando il presidenzialismo.
Renzi è il primo sindaco che diviene sindaco Italia affermando una
cultura della pluralità.
Parisi ammette che faceva sogni diversi da Bianco pur vivendo nelle
stessa e nello stesso letto - a castello - . Il pensiero Parisi torna
alle vicende del governo Prodi del 1996-1998 e riconosce delusione e
illusione. Si garantiva il dominio ma non il predominio. Il
maggioritario imponeva realtá nuova. Ecco dunque l'Ulivo che non era
riconducibile alla quercia. Il trattino era stato cancellato perché il
paese era cambiato rispetto all'isola che non c 'è. Dalla segreteria
Bianco si passò a Marini e poi alla segreteria Castagnetti. Impazienza e
ansia di recuperare portarono alla crisi.
Bianco ha replicato agli intervenuti difendendo le ragioni storiche
della DC sia nella fase della ricostruzione degasperiana che in quella
tragica del terrorismo, la capacità di coniugare l’euroatlantismo con
l’eurocomunismo berlingueriano anche grazie alla sapienza di Arnaldo
Forlani, Ministro degli Esteri, così come di fronte alla crisi
finanziaria dei primi anni novanta le risposte di rigore della DC con le
scelte nel solco dell’europeismo.
Ha rivendicato l’orgoglio della difesa di
quel “trattino” distintivo che oggi assume ancora più importanza di
quanto non ne avesse nel 1998. Dietro quel “trattino” non c’era lo
scontro tra innovatori e conservatori, tra la cultura del proporzionale
e del maggioritario, Dietro quel trattino c’era una fiammella di ideali
che l’Istituto Sturzo ieri ha tenuto accesa.
PS. Non è stato possibile aprire un
dibattito. Avrei voluto chiedere a titolo personale, come cittadino, ad
Arturo Parisi se è ancora convinto della bontà delle primarie aperte,
laddove una lobby può scalare un partito sponsorizzando una candidatura
e se alla luce dei recenti avvenimenti come la sostituzione di Letta con
Renzi non si determinino le condizioni per possibili future scalate
puntando più sulle persone che sulle politiche. La domanda resta
nell’IPAD e dunque è senza risposta. Speriamo di non fare brutti sogni,
soprattutto di non fare i sogni di Parisi.
Maurizio Eufemi
Roma, 27 febbraio 2014 |
Il disastro dell'Udc
Finalmente ci sono riusciti. Ci hanno messo un pò ma sono riusciti
nell'impresa di distruggere un partito. È quanto avvenuto con il
congresso Udc all'auditorium della Conciliazione trasformato in
dissoluzione. Al di lá della vicenda della elezione del segretario
riconfermato per una manciata di voti, che non ha avuto il coraggio di
rimettere il mandato dopo i disastri politici ed elettorali di questi
anni, emergono le macerie lasciate sul piano politico. Come valutare
diversamente la rottura operata con i popolari per l'Italia sulla
vicenda del governo Renzi. Viene sacrificato il Ministro della Difesa
Mauro per lasciare spazio a Galletti esponente del cerchio magico
bolognese, in nome di chissá quale competenza ambientale. Viene
sacrificato il ministro D'Alia nonostante l'impegno profuso nella P.A e
bruciato nella battaglia congressuale non per la persona in sè, ma
perchè i delegati hanno visto tra i supporter della candidatura D'Alia
l'ombra del leader che ritengono il responsabile principale della crisi
politica esplosa in quel che resta dell'Udc. Come può pensare di
ricomporre le fratture multiple?
Mario Tassone aveva indicato una strada intelligente.
Si è preferito l'arroccamento per conservare briciole di potere.
Resta un partito, l'udc, spaccato a metá, paralizzato nella linea
politica e nelle linee di movimento per la diffidenza che ormai incontra
con tutta l'area dei Popolari.
Noi del Cdu rivendichiamo libertà, perchè è stato tradito il patto
fondativo del dicembre 2002. Il congresso del 14 marzo sará l'occasione
per fare il punto e prendere decisioni importanti e conseguenti.
Siamo stati traditi nei valori e nei comportamenti.
Roma 23 febbraio 2014 |
Il
governo Renzi tra
etá e rappresentanza territoriale
Grande attenzione è stata posta dai media all'etá del governo Renzi,
soprattutto alla etá media. Se analizziamo i valori per classe di etá
scopriamo però che il valore modale, quello che indica la maggiore
frequenza sta nella classe tra 50-59 anni con 6 unitá, poi segue la
classe 40-49 con 5 unitá, quindi 4 unitá in quella tra 30-39 e 2 unitá
tra i sessantenni. Valore modale e etá media non coincidono.
Minore attenzione è stata posta al contrario alla distribuzione
territoriale dei ministri che assume un valore significativo in ordine
alla rappresentanti geografica in seno al dicastero. Scopriamo allora
che le due regioni più rappresentate sono il Lazio e Emilia Romagna con
4 unitá ciascuna, segue la Toscana con 3, quindi Liguria e Lombardia con
2, Sicilia e Calabria chiudono con 1 solo rappresentante.
L'anomalia di questo governo sarà nella frattura territoriale che viene
determinata con l'assenza di rappresentanti di regioni come il Piemonte,
il Veneto, Friuli Venezia Giulia, le Marche, Abruzzo, Molise,
Basilicata, Puglia, Campania e Sardegna. È un vulnus grave avere
privilegiato la dorsale appenninica del Paese (Lazio, Toscana ed Emilia)
con 11 ministri su 17, comprendendo anche il Presidente del Consiglio.
Ancora più grave è la sottorappresentazione del Mezzogiorno con soli due
ministri su 17. È un indice di pericolosa marginalizzazione.
Non sappiano se si correrá ai ripari ma certamente le scelte operate non
appaiono sufficientemente meditate, soprattutto perchè nei
pronunciamenti del Presidente del Consiglio si guarda alla soppressione
del Senato con relativa trasformazione in Camera delle autonomie. Per il
momento constatiamo un segnale di incoerenza perchè vediamo la
cancellazione della rappresentanza governativa di interi territori che
assumono rilievo non solo per il Pil prodotto, ma per la ricchezza di
valori morali e civili.
Roma, 22 febbraio 2014
|
Moro e
la legge elettorale
La crisi del governo
Letta dopo la sfiducia della direzione del PD ha rallentato l’iter della
legge elettorale.
Il ritmo a tappe forzate sembra essere
svanito. Quello che doveva essere la priorità, ciò che si doveva
realizzare in pochi giorni sembra diventare una clausola dell’accordo di
governo che ne vedrebbe la approvazione solo dopo le riforme
costituzionali del titolo V^ e della soppressione del Senato. Nella
lettura della relazione Sisto che accompagna il testo della riforma
elettorale all’esame dell’Aula di Montecitorio colpisce una citazione di
Aldo Moro, decontestualizzata, inappropriata, parziale. Viene
riportata una frase di Aldo Moro pronunciata l’ 8 dicembre 1952 durante
la discussione della modifica al testo unico sulle elezioni della Camera
dei Deputati, quella che la sinistra definì “legge truffa”.
In quella seduta Aldo Moro intervenne come
vicepresidente del Gruppo, per le precarie condizioni di salute del
Capogruppo Giuseppe Bettiol, contro le pregiudiziali di
incostituzionalità presentate da Togliatti, Basso, De Martino e
Ferrandi.
E’ vero che Moro paventa il pericolo di
un’alleanza di opposizioni per impedire alla maggioranza di assolvere
alle sue funzioni, ma si tralascia di ricordare che Moro guardava “ad
una maggioranza di coalizione unificata saldamente ancorata ad un
principio comune. V’era la esigenza riconosciuta dalla legge è che sia
raggiunta la metà , che sia superata la metà dei voti… cioè che
l’opinione pubblica si deve essere espressa con una chiara indicazione.
E che non è già una maggioranza relativa che si trasformi in una più o
meno solida maggioranza assoluta. E’ una maggioranza assoluta già
conseguita che viene integrata in qualche modo per assicurare quella
funzionalità della quale abbiamo parlato”.
E’ esattamente il contrario di quanto
sostiene il relatore Sisto.
Nel testo Sisto di riforma elettorale il
premio di maggioranza scatterebbe con il 37 per cento dei voti. Il
premio di maggioranza viene poi combinato con lo sbarramento al 4,5 per
cento annullando intere rappresentanze. Non viene poi previsto lo
scorporo per i partiti della coalizione che non raggiungono la soglia
elettorale. Molti voti sarebbero un conferimento gratuito e dunque a
perdere perché senza incidenza sulla coalizione, “ cancellando diversità
e articolazioni della nostra vita politica e nell’ambito stesso della
maggioranza che permette di togliere ogni mortificante uniformità della
maggioranza” come afferma Moro nello stesso intervento dell’8 dicembre,
ma di queste parole di Aldo Moro l’On. Sisto si guarda bene dal
citarle.
Aldo Moro chiudeva il suo intervento così
“il supremo giudizio sulla validità della legge sarà dato dal popolo
italiano in quanto sarà il popolo italiano che attribuendo più del 50
per cento dei voti alla coalizione democratica dimostrerà di accettare
la legge e di voler difendere con essa i supremi principi di democrazia
e di libertà”. (vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra –
moltissime congratulazioni).
PS. Il disegno di legge presentato ad
ottobre 1952 fu approvato dalla Camera dei Deputati il 21 gennaio 1953 e
dal Senato il 29 marzo 1953. ( legge 31 marzo 1953 n. 148). Tempi
adeguati, senza forzature.
Roma, 21 febbraio 2014
Maurizio Eufemi |
Le giravolte di Casini
Casini anticipa una linea politica che dovrebbe appartenere alla
sacralitá congressuale mostrando disprezzo per le regole e per i
delegati. Si converte tardivamente al bipolarismo che attraverso la
legge elettorale renzusconi cancella il pluralismo e il popolarismo.
In
nome delle elezioni europee finisce per allearsi proprio con i maggiori
critici dell'europeismo dimostrando ancora una volta un cinismo politico
senza limiti. È una scelta che rappresenta il fallimento della politica
partecipata e il tentativo goffo di ritagliarsi unicamente uno spazio
personale sacrificando ogni valore insito nel progetto politico che
stava alla base dell'Udc.
Roma, 4 febbraio 2014 |
L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA ED IL
PROGETTO ANPC
Importanza della memoria
Ci sono tre indirizzi
nella storiografia della Resistenza di cui celebreremo il 70°
anniversario, proprio in questo triennio. Tre indirizzi che ci
propongono tre diversi atteggiamenti fondativi della nuova identità
della Patria italiana. Il primo indirizzo ispira una storiografia che
guarda con maggiore attenzione alla Resistenza armata, con forte
contenuto ideologico, e perciò portata a condannare l’attendismo,
parola che contiene già un giudizio sfavorevole ad ogni forma di
autogoverno responsabile. Il secondo indirizzo ispira la storiografia
della guerra civile e della zona grigia: due minoranza
politiche si sono affrontate in una guerra civile, mentre la
maggioranza della popolazione era la “zona grigia” che cercava
soltanto di sopravvivere.
Il terzo indirizzo
ispira la storiografia della Resistenza civile che guarda con
attenzione, accanto alle importanti e decisive operazioni armate, anche
alla resistenza morale, che va dal sacrificio dei soldati che si
immolarono anche senza avere ordini precisi, dall’internamento di
militari che rifiutano l’arruolamento, al rifiuto della barbarie da
parte delle popolazioni, del clero, delle donne e di tutta la società
che accoglieva i perseguitati ed i sofferenti.
Come scrive Pietro
Scoppola: “Il prendere le armi non si può considerare l’unica forma
di partecipazione e coinvolgimento senza cedere proprio a quella
concezione della Resistenza che i comunisti proponevano con la loro
accanita polemica contro gli attendisti. È il concetto stesso di
Resistenza che va ripensato recuperando il significato originale di
resistere. Insomma il fenomeno della lotta armata, che conserva tutto il
suo valore, non può essere isolato dalle innumerevoli forme di
resistenza civile”.
L’Associazione dei
Partigiani Cristiani ha preparato per il 70° anniversario della
Resistenza un programma di studi e di ricerca dedicato al particolare
significato di questo terzo indirizzo storiografico che spesso è stata
tralasciato per l’egemonia esercitata dalla cultura politica dominante.
Il Progetto di ricerca
dei Partigiani Cristiani
Partiamo dal
contenuto formativo: il progetto, senza dimenticare gli avvenimenti
conosciuti, si soffermava su tre aspetti ancora inesplorati:
Le stragi delle
popolazioni inermi: gli episodi “apocalittici”, punto massimo della
follia ideologica che colpiva la civiltà umana, indicato da Dossetti
come “segno dei tempi”da non dimenticare; (Dossetti, partigiano
disarmato, è sepolto tra le vittime di quelle stragi!).
Il sacrificio dei
sacerdoti. Tutte le località che hanno vissuto l’esecuzione del suo
prete lo ricorda e lo commemora. Ma nessuno ha studiato il perché di
questa particolare persecuzione, fortissima nel numero delle vittime e
nelle modalità atroci delle esecuzioni. Forse per una disconoscenza
voluta, forse causata dal fatto che i sacerdoti erano ritenuti dai
tedeschi i capi naturali della Resistenza civile.
Il contributo delle
donne: non solo il contributo nobilissimo delle combattenti e delle
dirigenti di movimenti politici, ma anche il contributo umile,
quotidiano, nella pietà cristiana, delle donne che nascondevano i
perseguitati, curavano i feriti, seppellivano i morti e dividevano il
pane, i vestiti e le speranze con i disperati. La pietas di un popolo,
l’amore delle mamme che si sostituiva ad un’altra mamma lontana.
Il progetto ha,
proprio per questo, partnership importantissime: una Università, (la
LUMSA); un Istituto di ricerche storiche, l’Istituto Luigi Sturzo); un
Istituto di ricerca politica, l’Istituto Alcide De Gasperi di Bologna;
un’Associazione di promozione popolare, le Acli; un ufficio storico di
un grande gruppo:l’ENI, fondato da Enrico Mattei, capo dei Partigiani
Cristiani e fondatore dell’ANPC.
E, per la prima volta,
per la parte riguardante l’eccidio dei sacerdoti, abbiamo ottenuto il
patrocinio della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Chiediamo aiuto a
tutti gli uomini ed alle donne, ai giovani, che credono nella
Resistenza, nella Costituzione e nell’Italia per realizzare questo
progetto. Aderite ai Partigiani cristiani e lo porteremo a termine tutti
insieme, ispirandoci al verso di una poesia, che ricorda la lettera di
Paolo ai Romani di questa prima Domenica di Avvento, dedicata alla
Resistenza da Padre David Maria Turoldo, partigiano cristiano:“Riprendiamoci,
amici, il nostro nome di battaglia ed armiamoci di luce”.
|
(dai Discorsi di
Mattei)
Dicembre 1945 –
pubblicato da Mercurio
Quello che hanno
fatto i religiosi in questa guerra ha dell’incredibile. In quasi tutte
le formazioni partigiane c’erano cappellani, ufficiali e volontari. Non
c’è stata una brigata, una divisione che non abbia avuto l’assistenza
religiosa, il conforto agli infermi, ai moribondi. Il sacerdote
partigiano era il fratello che confortava il fratello ammalato, ferito,
il morente.
Fuori di quell’ora
solenne, in cui la creatura ritornava al creatore, il sacerdote viveva
la vita di stenti di pericoli coi partigiani.
Spesso assumeva il
compito di ufficiale di collegamento, preoccupato di far giungere alle
formazioni armi, cibarie, vestiario. Altre volte erano i sacerdoti che
facevano da intermediari per lo scambio degli ostaggi.
Più guerriero che
sacerdote
Accanto ai cappellani
i parroci. Nelle zone occupate o battute dai partigiani il parroco era
sempre il primo partigiani che si incontrava. Sfidando sospetti, rischi,
perquisizioni, deportazioni, i parroci erano sempre pronti ad apprestare
il loro aiuto.
Solo in una zona del
parmense 15 sacerdoti vennero fucilati per favoreggiamento. La storia
delle barbarie e delle sofferenze dei partigiani e del clero dovrà
essere narrata. Si vedrà allora quanto hanno potuto l’amore
cristiano e l’amore di Patria.
C’era un prete, anima
di tutte le formazioni, che nell’adempimento dei suoi compiti sembrava
più guerriero che sacerdote, Padre Carlo delle formazioni del Nord
Emilia.
C’era una suora (Suor
Cecilia di Como) che non dubitò mai di sfidare la sorveglianza dei
poliziotti pur di portare notizie delle famiglie ai detenuti. Essa era
in collegamento col servizio assistenza del comando generale, e recava
ai partigiani alimenti e la parola soave del suo cuore.
Dal cappellano del
carcere (Don Castelli), tutto dolcezza e comprensione, attendevamo
ansiosamente la Messa. Fra il freddo invernale della tetraggine del
luogo sentivamo il calore della sua parola. Vedevamo nel cappellano un
partigiano senza distinzione politica. Era il fratello nostro maggiore,
era il padre che confortava tutti, facendoti intendere fugacemente,
durante la Messa, sotto gli occhi dei carcerieri nuove situazioni.
Quando, dopo 37 giorni di detenzione, riuscì a fuggire dal carcere di
Como, sorse contro Don Castelli una accanita diffidenza. Di fatti fu
imprigionato e poi liberato grazie all’intervento del suo Vescovo. Un
altro brutto giorno fu quando si seppe che il “posto andò bruciato”.
Avevano arrestato il Colonnello Palumbo (Pieri) e Sogno (Franchi).
Dovevamo trovarci
insieme da Monsignor Paolo, la cui casa era piena di documenti
compromettentissimi. Era il luogo di riunione del Comando Generale del
Corpo Volontari della Libertà e di tutti i capi delle formazioni
democratiche-cristiane, il nostro quartier generale.
Vi si discutevano i
piani, vi venivano decisi i colpi di mano, impartiti gli ordini.
Arrivavamo uno per
volta con andatura circospetta, con le borse ricolme di “gravi carte”.
“Conferenza di San
Vincenzo di Paoli” era la nostra parola d’ordine. Maria, la sorella di
Monsignor Paolo era la nostra sorella maggiore, tutto cuore, tutta
ansietà per noi. a Monsignor Paolo confidammo che Cadorna era con noi.
era stato capitato degli alpini nella guerra 1915-18: egli volle
essergli presentato. Era commosso per la nostra attività e volle lui
pure fare qualcosa per l’Italia. e quanto ha fatto! Un giorno chiesi al
mio fedele amico “Gino” di trovarmi un rifugio. Si doveva cambiare il
posto di riunione del comando. “Gino mi presentò a Padre Edoardo”.
Trovai in lui un’accoglienza più che fraterna. Non l’avevamo mai veduto.
La sua alta figura, il suo viso sorridente, la sua accoglienza aperta,
mi accertarono subito che potevamo contare su di lui come su di un
grande amico. Fu molto lieto di aiutarci, di mettere a nostra
disposizione i locali del suo laboratorio. Padre Edoardo volle
conoscerci tutti. La sua affettuosità, il suo interessamento per la
nostra attività, conquistò, commosse tutti. Di sopra, Padre Edoardo, nel
suo ufficio lavorava per i giovani randagi, per gli ebrei nascosti, per
gli scappati, per i perseguitati dalla polizia, ma di fuori il nemico
cominciava a ronzare. Furono date le segnalazioni ammonitrici e “Gino”
dovette ricercare un altro sicuro rifugio. Ci portò in un convento di
suore, un grande e vecchio edificio poco distante dal punto dove, il 26
ottobre 1944 Saletta fece di noi una grossa retata.
Una grande impresa
“Gino” ci presentò a
Madre Rosa Chiarina, la superiora generale, due occhi lucenti,
intelligenti, vivacissimi. Appena ci vide la sua faccia si illuminò. Non
sapeva chi fossimo. Sapeva da “Gino” che “cospiravamo” per liberare
l’Italia dal tedesco. Fu felice di concorrere alla nostra impresa,
dandoci tutto il suo aiuto. Dalle nove del mattino alle venti di sera
restavamo in una stanza a lavorare senza sosta. La prima volta, verso
sera, Madre Rosa Chiarina, non vedendoci uscire si preoccupò e venne a
picchiare alla porta. Un bel giorno Madre Rosa Chiarina si trovò innanzi
a noi, non più cospiratori, ma a comando generale militare del CVL. Le
chiedemmo di ospitarci per la notte e di metterci a disposizione il
telefono e qualche locale per mettere in piedi degli uffici. Madre
Chiarina fu colta da evidente sorpresa, confusa di trovarsi
impensatamente dinanzi al Comando. Avendo obiettato che non poteva darci
ospitalità per la notte ,essendo un monastero femminile sottoposto alle
leggi canoniche, le rispondemmo che noi eravamo da quel momento il
Governo dell’Alta Italia e come tale investito di tutti i poteri in
virtù dei quali proseguimmo alla requisizione di una parte del
monastero. Quell’atto mise in pace la coscienza di Madre Rosa Chiarina.
Era il pomeriggio del 25 Aprile. Partito l’ordine dell’azione in breve
il monastero diventò quartier generale del CVL e vi alloggiammo
comandanti, ufficiali di collegamento, staffette.
A nostra disposizione
avemmo alcune suore che furono preziose nostre collaboratrici. Occupata
la prefettura, la mattina del 26 Aprile vi trasferimmo il nostro
comando, lasciando, non senza nostalgia, l’ospitale monastero. Subito
dopo la Liberazione, il Generale Cadorna inviò alla superiora generale
la lettera che mi piace qui riportare: “Milano 5 Maggio 1945. Reverendissima
Rosa Chiarina Scolari, superiora generale delle suore della Riparazione,
Corso Magenta, 79 – Milano.
Reverendissima Madre
Generale,
il Comando Generale
Militare desidera esprimerle i più vivi ringraziamenti per la cordiale
ospitalità datagli nei giorni che precedettero la Liberazione, e nella
memoranda notte che segnò la fine della tirannide. In quel giorno da
codesta casa generalizia, di decisero le sorti di questa preziosissima
parte dell’Italia, affidata al Corpo Volontari. Per noi queste ore di
intenso lavoro, svolto nella serena quiete del suo monastero, rimarranno
nel nostro più caro ricordo, come un giorno gli italiani conosceranno
che da codeste mura partirono gli ordini per la resurrezione della
Patria”.
Ricordando oggi
questi fatti fra i tanti episodi della Guerra di Liberazione penso con
ansietà ai rischi ed ai pericoli corsi dai tanti generosi e silenziosi
collaboratori dell’azione partigiana. La loro opera non sarà
dimenticata.
Enrico Mattei |
Cronaca della riunione dei
partigiani cristiani
(a cura di Bartolo
Ciccardini)
Si è tenuta a Roma, presso l’Istituto Sturzo, la riunione del Comitato
Scientifico e delle Associazioni partecipanti al programma: “Resistenza
civile oggi”.Il programma nasce dall’impegno dei Partigiani Cristiani a
trasmettere ai giovani la memoria ed i valori civili della Resistenza.
Esso segue l’iniziativa già presa dalle Acli
e dai Partigiani Cristiani per costituire Gruppi di Lavoro “Resistenza e
Costituzione”, affinchè i giovani traggano dalla storia motivazione ed
ispirazione ad un impegno politico
Il fatto centrale, trascurato dalla dalle
due storiografie contrapposte, quella dell’attendismo e quella
della zona grigia, è stata la scelta morale della Resistenza
civile, la scelta di una opposizione morale al nazifascismo,
comportamento conseguente fino all’eroismo quotidiano. La Resistenza
civile fu il comportamento, non di una minoranza, ma di una vasta massa
popolare, in cui si distinsero i cattolici, le donne ed i sacerdoti, il
cui operato non è stato ancora studiato e spiegato. Questo ritrovare il
significato della scelta morale, che è tutt’altro dalla zona grigia,
è necessario oggi perché i giovani escano dalla “non politica” odierna.
Ha aperto la riunione il Presidente dei
Partigiani Cristiani, On. Giovanni Bianchi: “La Resistenza come
esperienza di rinascita e di rinnovamento proposta ai giovani non come
esempio, ma come valore per il nostro futuro”. Ha ricordato il programma
dei Partigiani Cristiani dell’anno2013 (Giuseppe Dossetti, 13
febbraio 2013; La particolare Resistenza di Roma, Aprile 2013; il
documento della rinascita a Camaldoli, Luglio 2013; l’inizio della
Resistenza cristiana, la Battaglia della Montagnola, il 9 settembre 2013).
Bianchi ha citato il pensiero storiografico di Pietro Scoppola ed ha
ringraziato i partecipanti al presente programma, il Comitato
scientifico con i maestri Malgeri, Giovagnoli, D’Andrea, Ciampani ed
Acanfora, che esporranno il tema storiografico ed i partner del
programma: le Acli (con la presenza del Presidente Nazionale, Gianni
Bottalico; l’Istituto Sturzo, con Giuseppe Sangiorgi; l’Università
LUMSA, il cui Magnifico Rettore Giuseppe Della Torre ha inviato un suo
saluto; l’Eni, con la presenza della Dottoressa Lucia Nardi; l’Istituto
Alcide De Gasperi di Bologna, con la presenza del Prof. Domenico Cella;
ed infine la Rivista Civitas con la presenza del Direttore, Amos
Ciabattoni.
Il Professor Giovagnoli ricorda la
intuizione di Chabod a proposito dei cattolici nella Resistenza che
paragonò Pio XII a Gregorio Magno, per il ruolo svolto dalla chiesa
nella transizione dal fascismo alla democrazia in Italia.
Non fu soltanto un ruolo di rifugio e di
accoglimento (in Laterano si era rifugiato il futuro governo democratico
italiano), ma furono soprattutto le due scelte fondamentali che dettero
il via alla transizione: la scelta della pace contro tutte le
guerre nel messaggio del 1939 e la conseguente scelta della democrazia contro
i regimi totalitari che vogliono la guerra, furono il fondamento di un
antifascismo morale che interpretò l’attesa di pace dei popoli. Questo
fu l’atto di nascita di un’opposizione tra cattolici e nazismo che
Hitler capì benissimo, quando affermò: “Finito il lavoro con gli ebrei
toccherà ai cattolici”.
Bisogna rivedere la storia della
persecuzione dei sacerdoti, che apparentemente avviene per motivi
casuali e locali, che fu invece la reazione degli occupanti ad una
opposizione passiva ma forte che tutti i documenti delle autorità
fasciste testimoniano. Questo antifascismo morale contrasta il giudizio
di De Felice sull’opportunismo degli italiani. Certamente ci fu anche
opportunismo, ma non solo quello. Bisogna recuperare la storia dei
sacerdoti come posizione “non grigia” ed il desiderio di pace come
elemento coagulante. La scelta per la pace precede la coscienza di
condanna del fascismo a causa della guerra e porta alla scelta della
democrazia, perché vuole la pace. E questo avrà conseguenza anche
successive che sono state disconosciute anche per la fine della
militanza comune. La spaccatura dei blocchi mise fine alla
collaborazione fra antifascisti che era arrivata fino alla Costituente.
Se si parla di zona grigia non si capisce quello che avvenne dopo. E
troppo spesso si è indicata la DC come zona grigia, misconoscendo i
valori che interpretava. Non a caso, nei difficili anni, ’70 Moro torna
a parlare di “antifascismo morale” diverso dall’antifascismo politico,
nel momento in cui la Resistenza veniva invocata per colpire il cuore
dello Stato.
L’interpretazione partitica della Resistenza
ha perduto questo significato dell’antifascismo morale e
dell’antifascismo popolare. Si è cosi indebolito il significato della
Resistenza civile
Importantissimo è seguito il contributo del
Professor Francesco Malgeri. Egli ricorda la storiografia ideologica dei
primi anni, che trascurò i valori della Resistenza civile. Nel ’70
ricomparvero nella nuova sinistra la tesi di una Resistenza tradita.
Però, nel contempo, ci furono molti studi, non solo sul fenomeno della
lotta partigiana, ma anche sulla situazione politica reale nei tempi
della Resistenza. La crisi politica indebolisce i valori della identità
nazionale. Non ci rendiamo conto di come l’aver messo in discussione
l’unità ha cancellato il comune sentire della Resistenza. Malgeri si
richiama all’importante lavoro di Claudio Pavone del 1991, che induce ad
una nuova comprensione della Resistenza. La crisi politica provoca una
forte caduta dei valori resistenziali.
In riconsiderazione dei temi: de “la
morte della Patria” e della “zona grigia”. Il nostro compito
è quello di riscoprire il momento della scelta. Fu il momento in cui
ogni “italiano restò con sé stesso” ed ognuno singolarmente prese
nei giorni difficili la decisione di cosa avrebbe dovuto fare. Lla
Resistenza fu anche una decisione morale personale. Ed è questo il
significato dei giorni difficili. Per risalire dal baratro bisogna
ritornare ad una scelta personale. .
Il Prof. Andrea Ciampani della LUMSA inizia
subito con una affermazione di speranza. Non è vero che i giovani non
vogliono partecipare, anzi sono in attesa di una spiegazione di quello
che sta avvenendo.
La comunicazione con i giovani deve avere
quattro momenti. Un momento della scelta: ognuno si chiede la cosa per
cui vale la pena di vivere. È un momento che non si può più rinviare. Il
secondo momento è il contatto con la realtà: cosa c’è di possibile, cosa
c’è di buono e cosa c’è di alternativo alla nostra scelta. Il terzo
momento è il momento educativo: nel ricordare la storia della Resistenza
dei cattolici e del grande risultato degli anni successi ci si è
dimenticato di quale fu l’enorme sforzo educativo della Chiesa negli ’30
e negli anni ’40. Quarto momento è l’animazione sociale. La
scelta ed il lavoro successivo devono trovare uno sbocco naturale nel
servizio agli altri. Il punto più alto dell’animazione sociale è la
politica. Il Prof. Ciampani propone di prolungare il programma dello
studio del ’44 e del ’45 fino al ’46 per giungere alle soluzioni
politiche proposte dalla Resistenza: la Repubblica e la Costituzione.
Il Presidente delle Acli, Gianni
Bottalico, rinnova l’impegno delle Acli a portare nel territorio con i
suoi circoli di riflessione sui temi proposti con la traduzione in
termini di azione sociale che sarà possibile attuare nei nostri
giorni.
A nome delle Acli parla il Prof. Paolo
Acanfora. Ricorda che bisogna sottolineare non tanto la visione
cattolica della Resistenza quanto l’azione dei cattolici nella
Resistenza condivisa. Il programma deve insistere sulla scelta:
che sia propriamente una scelta sulle ragioni del vivere. E riprendere
quindi come strumento di formazione il testo prezioso, purtroppo
dimenticato delle Lettere dei condannati a morte della resistenza.
L’On. Flavia Nardelli ha portato il saluto
dei deputati impegnati nella battaglia parlamentare, fra cui l’On.
Preziosi e D’Andrea, e ha ricordato il grande lavoro svolto
dall’Istituto Sturzo, con l’edizione dei sette volumi sui “I cattolici e
La Resistenza”del Mulino.
Stefano Corsi delle Acli romane, è promotore
di un gruppo di Lavoro “Resistenza a e Costituzione”: interviene sulla
importanza del lavoro formativo per la preparazione politica dei
giovani.
Interviene anche Ruggero Orfei per
sottolineare l’iniziativa della ricerca personale da parte dei giovani
sui testimoni della Resistenza, una sorta di luogo di incontro, in forma
epistolare tra “Caro Nonno” e “Caro nipote…”, ricordando
l’importanza degli episodi conservati nella memoria della sua famiglia.
Ricostituire così le memorie personali e singole di quegli anni.
La riunione del Comitato Scientifico
allargato si conclude con la dimostrazione di un primo impegno
mediatico, che sarà importante per coinvolgere i giovani: Maurizio
Eufemi agita il suo i-pad annunciando che la notizia della riunione è
già on-line.”Siamo appena nati e siamo già in the cloud. Nella
nuvola".
Roma, 4 febbraio 2014 |
Sistema
elettorale e adempimenti
La questione elettorale è materia
incandescente. I contrasti tra le forze politiche aumenteranno. E’ in
gioco la sopravvivenza di intere formazioni politiche. Sono state
introdotte soglie troppo alte all’ingresso in Parlamento mentre la
soglia per il premio di maggioranza è troppo bassa rispetto alla
dimensione del premio stesso. Anche partiti o formazioni politiche di 3
milioni di consensi fuori da coalizione rischiano di stare fuori. Tutto
ciò è contro la Costituzione repubblicana che ha privilegiato pluralismo
e partecipazione.
Il passaggio dal porcellum, sistema
proporzionale con premio senza soglia minima all’italicum, sistema
plurinominale con liste bloccate senza preferenze, non è cosa banale da
potere essere liquidata in nome della semplificazione del sistema
elettorale.
Intanto va detto che non è cosa fa dare in
pochi giorni come si intenderebbe prendendo il modello Firenze come
dimensione di popolazione.
Va ricordato infatti che allorquando si
introdusse il Mattarellum con le leggi 276 e 277 del 4 agosto 1993
all’articolo 7 fu data una delega al Governo di quattro mesi per
determinare i collegi elettorali uninominali con precisi principi e
criteri direttivi, in base alla composizione economico-sociale e alla
popolazione di ciascun collegio. Lo schema di parere veniva poi
sottoposto all’esame delle Camere, con l’obbligo di motivare eventuali
difformità dalle indicazioni del Parlamento.
Il ruolo rilevantissimo del Parlamento
veniva inoltre consolidato con i poteri affidati ai Presidenti delle due
camere di provvedere all’inizio di ogni legislatura alla costituzione di
una Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali.
Ma v’è di più veniva anche previsto all’articolo 7 della legge 277/93
che dopo ogni censimento generale o ogni volta che ne avverta la
necessità la Commissione formulava le indicazioni per la revisione dei
collegi.
Il governo nella predisposizione del decreto
delegato doveva tenere conto delle indicazioni della Commissione
composta dal Presidente dell’Istat e da dieci docenti universitari ed
esperti nelle materie specifiche.
Il rispetto dei tempi naturali, come il
tempo di 4 mesi per l’esercizio della delega dopo la approvazione della
legge, ancora all’esame della Commissione della Camera in prima lettura,
impedirebbe qualsiasi soluzione che porti alle elezioni anticipate.
Chiediamo sommessamente se all’inizio della
corrente legislatura i Presidenti delle Camere hanno provveduto a
costituire la Commissione indicata dalla normativa indispensabile per
procedere alla definizione dei collegi elettorali, anche in ragione del
15° censimento generale della popolazione italiana che è del dicembre
2011. Non va dimenticato che dal precedente censimento del 2001 la
popolazione è passata da 56,996 milioni a 59.434 milioni di abitanti con
un incremento del 4,3 per cento con incremento della popolazione
straniera e contrazione demografica di quella italiana che riguarda il
Mezzogiorno, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia per il Nord,
Toscana e Umbria per il centro. La popolazione della Toscana, tanto per
fare un esempio, si riduce di 174.396 unità.
Sono tutti elementi che dovrebbero portare
ad una qualche meditazione evitando rischi di legiferare su una materia
che richiede ponderazione e non superficialità.
La polemica su chi deve definire i collegi
non è secondaria rispetto alle decisioni da assumere perché i collegi di
possono fare in tanti modi. Allungare un collegio alla forma di una
salamandra, inserendo un comune o più comuni con particolari
composizioni socioeconomiche, può determinare il successo si una
coalizione o meno. Il ruolo del Ministero degli interni è fondamentale,
così come è altrettanto indispensabile il ruolo del Parlamento e della
relativa commissione che deve essere prontamente istituita ove non sia
già stato fatto dai Presidenti delle Camere
Roma, 25 gennaio 2014 |
Disegniamo insieme il nostro futuro
(intervento del sen. Eufemi
al convegno)
Non celebriamo con questa iniziativa di
Gianni Fontana e della Associazione Democrazia Cristiana,
solo l’anniversario dell’appello di Luigi Sturzo ai Liberi e Forti.
E’ anche l’anniversario della diaspora del
1994, di speranze deluse di attese di una ricomposizione che hanno
portato alla scomparsa nel 2013 dpi una presenza organizzata dei
cattolici in parlamento.
Non va dimenticato che al primo punto del
programma sturziano figurava la integrità della famiglia.!
Lo diciamo oggi proprio perché sembra si
apri una deriva rispetto al tema della famiglia, anche di terzo genere,
delle unioni civili confondondendo i desideri con i diritti.
Abbiamo il dovere di difendere quel
grandioso patrimonio che trovava ancoraggio nella ispirazione religiosa
pur nella laicità, che poneva la persona innanzi a tutto, che guardava
ad un riformismo coraggioso, che rifiutava il conservatorismo e il
moderatismo, che si ancorava ai territorio attraverso la sussidiarietà e
la solidarietà.
Vediamo abbandonata la strada indicata da
Sturzo di guardare alle classi intellettuali e medie che formano la
spina dorsale della struttura del paese e che hanno fatto la storia del
Paese fin dalla unità e in tutti i passaggi compreso quello negativo del
1922.
Purtroppo oggi le classe medie sono
progressivamente penalizzate vessate fiscalmente ridotte nel loro corpo
dinamico della società, progressivamente ridimensionate, preoccupate non
solo per il presente ma per il futuro dei propri figli e per le
insicurezze crescenti.
Gabriele De Rosa fedele interprete del
pensiero sturziano sollecitava ripetutamente a riprendere quel termine
popolare inteso come società delle condizioni umane dove i ceti sociali
sono riferiti alla condizione giovanile, femminile, operaia, degli
anziani . Quelle categorie andrebbero attualizzate ai giorni nostri
rispetto ai dati della disoccupazione, ai giovani al precariato, alle
insicurezze.
V’era nella idea sturziana l’obiettivo di
federare le diverse realtà.
Ecco noi pour venendo a esperienze diverse,
dobbiamo dare voce ad un movimento in cui i cattolici possano
riconoscersi e ritrovarsi per affermare quelle idee e quei principi.
Oggi sembra prevalere la svolta
generazionale senza peraltro conferme elettorali.
E’ una questione fuorviante. Si può essere
giovani incapaci e anziani saggi, lungimimiranti e coraggiosi come De
Gasperi.
Non c’è bisogno di fratture generazionali,
ma di costruire un ponte generazionale per uscire insieme dalla crisi.
I problemi non si risolvono by magic.
Lo diciamo perché si affacciano nuovi leaderismi, nuovi personalismi
dove prevale lo spirito della democrazia decidente piuttosto che quella
partecipata.
Il giovane Renzi ha lanciato idee
approssimative molto confuse come per l'abolizione del Senato. Si fa
passare il messaggio che con una sola camera che da la fiducia al
Governo si risolvono tutti i problemi. Non è così. Non è in discussione
l’articolo 94 della Costituzione. Verrebbero travolti gli articoli dal
55 all’82.
Ne cito alcuni: deliberazione dello stato di
guerra, trattati internazionali, approvazione dei bilanci e del
perimetro della PA, elezione del presidente della Repubblica, il capo
dello Stato provvisorio, la composizione del csm e della Corte
costituzionale, il meccanismo del 138 di revisione della costituzione.
Tutti i meccanismi di nomina delle autorithies.
Come non ricordare quanto affermato da
Giulio Andreotti che vedeva il pericolo di creare un “ectoplasma con un
lieve turismo interno di presidenti di regione o di altri che vi
parteciperanno di tanto in tanto".
Abbiamo visto che quando la politica è
debole entrano in gioco gli interessi forti. Basti pensare che nel
silenzio generale degli organi di informazione è stata operata la
cessione delle quote della Banca di Italia.
Dobbiamo riaffermare le ragioni del
popolarismo come modo di essere nella società, come presenta critica,
come interpreti delle attese della gente.
La cultura della partecipazione deve
guardare alla stella polare della economia sociale di mercato in cui il
modello renano prevalga su quello anglosassone, in cui i dipendenti
siano coinvolti nella vita e nel destino della impresa. La scelta di
allocare le azioni di Poste ai dipendenti è una idea giusta ma
realizzata nel modo sbagliato. Non si fa nel chiuso del comitato
privatizzazioni. Si fa con linee guida precise. Dobbiamo guardare alla
affermazione dei corpi intermedi, alle formazioni sociali per sviluppare
un quel welfare community complementare e alternativo a quello
universalistico, costoso e inefficiente.
Per l’Europa dobbiamo essere rivoluzionari.
Il Ppe non può avere la sola ambizione di essere il primo partito
europeo, di essere quello più numeroso per prendere le cariche più
importanti. Dobbiamo abbandonare il metodo intergovernativo applicato ai
partiti e agli stati nazionali. Nel PPE dobbiamo avere un solo corpo
elettorale, realizzando un partito transazionale. L’Europa deve
riscoprire i valori della solidarietà e della coesione sociale.
Sturzo guardava agli Stati Uniti di Europa
come espressione di popoli che tendono alla unificazione perché legati
da tradizioni di civiltà, da aspirazioni comuni.
Dobbiamo essere chiari ed evitare equivoci.
Non vogliamo sentire parlare di popolarismo di chi in questi anni non lo
ha praticato e non è stato coerente con quei valori. L'ipotesi della
legge elettorale sul modello spagnolo non convince perchè non garantisce
il pluralismo e il principio di rappresentanza.
E’ tempo di nuove sfide per una nuova
stagione di impegno e di responsabilità.
E’ tempo che la famiglia dei cattolici
ritrovi unità e identità partendo dai programmi ma diceva Sturzo “un
programma politico non si inventa si vive e per viverlo deve seguire
nelle sue fasi evolutive precorrere le attuazioni determinare le
soluzioni nel complesso ritmo delle affermazioni nella fermezza delle
negazioni".
Riprendiamo coraggio dalla lezione di
Sturzo.
Il vascello che stiamo costruendo deve
essere robusto, con equipaggio coeso e convinto nel procedere nella
rotta del popolarismo. Non abbiamo bisogno di capitani Fletcher e di
ammutinati del Bounthy pronti ad impossessarsi del nostro vascello e
modificare la rotta che qui, oggi stiamo definendo.
Maurizio Eufemi
18- 19 gennaio 2014 |
Riflessioni del
sen. Eufemi sulla lettera dell'on. Gerardo Bianco
La lettera del Presidente Gerardo Bianco su
due argomenti come la riforma del Senato e la legge elettorale, offre lo
stimolo ad alcune riflessioni in particolare sulla soppressione del
Senato e conseguente cancellazione del bicameralismo.
L’idea enfatizzata dalla riduzione dei costi
istituzionali appare semplicistica non sufficientemente meditata.
Non è sufficientemente chiara la
legittimazione dei componenti del Senato trasformato in Camera delle
Autonomie.
Non è in discussione solo l’articolo 94
relativo alla concessione o revoca della fiducia al governo come
potrebbe apparire, perché la riforma del Senato coinvolgerebbe
direttamente o indirettamente tutto il titolo I Sezione I, relativo al
Parlamento quindi gli articoli dall’articolo 55 all’82.
Basti pensare agli articoli 56 e 57 che
disciplinano il sistema di elezione del Senato,
l’articolo 67 sull’assenza dei vincoli di
mandato, l’articolo 69 la disciplina dell’indennità, l’ articolo 78
sulla deliberazione dello stato di guerra, l’articolo 80 sulla ratifica
dei trattati internazionali, l’articolo 81 relativo alla approvazione
dei bilanci.
Non va poi dimenticato che Il Parlamento
come seggio elettorale procede alla elezione del Presidente della
Repubblica e che l’articolo 86 disciplina il ruolo di supplenza
affidandolo al Presidente del Senato.
Anche gli articoli, 104 relativo alla
composizione del CSM, e il 135 relativo alla composizione della Corte
Costituzionale verrebbero ad essere coinvolti.
Riflesso ancora più importante riguarda
l’articolo 138 relativo al meccanismo di revisione della Costituzione
che verrebbe ad essere inficiato rispetto all’idea dei costituenti.
Non va infine dimenticato tutto il sistema
stratificato delle nomine nelle Authorities che vengono affidate talune
ai Presidenti di Camera e di Senato e altre alla elezione di ciascuna
Camera. Senza dimenticare che i regolamenti parlamentari stabiliscono
che gli organi collegiali bicamerali, per le indagini conoscitive
l’intesa fra i due presidenti è fonte di diritto parlamentare e è anche
fonte di diritto legislativo perché dalla intesa fra i due presidenti
dipende la nomina di membri di Authorities.
Nel momento in cui è la Costituzione e non
il regolamento non una legge organica a fissare la procedura per fare le
leggi da quel momento non ci possono essere intese presidenziali che
possano cambiare o derogare l’ordine costituzionale delle competenze.
Il passaggio dal bicameralismo perfetto ad
uno asimettrico limita il Senato rispetto alla formazione delle leggi
tra queste rientrano anche i bilanci e la legge di stabilità. La
politica di bilancio si compone dei saldi di finanza pubblica che devono
essere garantiti annualmente a livello di consolidato nazionale e delle
regole di ripartizione sul territorio degli stessi saldi. Il problema è
se tutti gli aspetti della politica di bilancio debbano passare alle due
Camere o meno Ci deve essere un raccordo tra di esse nel perimetro di
Maastricht cioè sul consolidato della PA. E’ impensabile non tenere
conto delle autonomie territoriali e funzionali.
Patto di stabilità interno, scelte di
perequazione e legge di stabilità rappresentano un unicum costituito dal
saldo complessivo che verrebbe spezzato tra due Camere con competenze
differenziate rispetto invece ad una unitarietà e a una intrinseca
interconnessione tra centro e periferia.
Come funzionerebbe infine un Senato delle
autonomie senza bilancio e senza risorse?.
Non vorremmo assistere a una fase della
storia in cui il Senato voti l’eutanasia del Senato stesso o non si
corra il rischio di creare quello che Andreotti definì “un ectoplasma
senatoriale sia pure con un lieve turismo interno di presidenti di
Regione o di altri che vi parteciperanno di tanto in tanto”.
La riduzione del numero dei parlamentari sia della Camera che del Senato
appare la via più ragionevole, seria, efficace.
Roma, 14 gennaio 2014 |
LETTERA APERTA DELL'ON. GERARDO BIANCO SU RIFORMA DEL SENATO E DELLA
LEGGE ELETTORALE
Caro/a Collega,
in un panorama piuttosto confuso ed agitato
che riguarda, peraltro, il delicatissimo assetto del nostro sistema
istituzionale, mi sembra “cosa buona e giusta” intervenire per dare il
nostro contributo con osservazioni e suggerimenti, per evitare un
definitivo “appannamento” della nostra Carta Costituzionale.
Sottopongo pertanto alla tua attenzione
alcune considerazioni maturate nei nostri convegni e negli scambi di
idee con numerosi colleghi sulle quali ti sarei grato se volessi farci
pervenire un tuo argomentato commento.
All’ordine del giorno dell’agenda politica
sono stati prioritariamente proposti i due delicatissimi temi della
riforma del Senato e della legge elettorale.
È bene che soffi un vento nuovo e forte
sulla vita politica italiana, ma è bene anche vigilare se esso sia
orientato nella direzione giusta, e così non sembra con la prospettata
riforma del Senato.
La questione del bicameralismo perfetto e
della revisione del numero dei parlamentari si pose già al tempo
dell’approvazione dell’ordinamento regionale. Un gruppo di deputati
affrontò la questione presentando una puntuale proposta di legge (20
novembre 1975, nr. 4127), ma le condizioni politiche dell’epoca, di
forti divisioni ideologiche, ma di grande cautela costituzionale non
consentivano di esaminare e di approvare una così innovativa riforma.
La questione, benché rilevante, è rimasta
irrisolta.
Il superamento del bicameralismo perfetto è
un passaggio obbligato per dare efficienza al sistema istituzionale, ma
non sarebbe affatto lungimirante procedere tout courtcon la
soppressione del Senato e della sua funzione deliberante.
La ultra-decennale esperienza parlamentare
dimostra come sia spesso necessario intervenire in corso d’opera per
correggere errori della prima deliberazione o anche per accogliere
ripensamenti dello stesso Governo, fatto tutt’altro che raro.
La strada da seguire è dunque un’altra, già
indicata da eminenti costituzionalisti, ed è quella della
differenziazione delle competenze e delle funzioni, con la possibilità
di richiamo delle leggi da parte della Camera esclusa dalla prima
lettura su richiesta di una maggioranza qualificata o dal Governo.
Sulla fiducia all’Esecutivo e su alcuni
limitati atti legislativi o su materie di particolare rilevanza le
Camere potrebbero deliberare insieme, come avviene per la elezione del
Presidente della Repubblica e altre cariche elettive. È questo il
modello del Parlamento procedurale che supererebbe i limiti del
bicameralismo perfetto, senza annullare la possibilità del secondo esame
correttivo.
Nella discussione politica in atto è stata
prospettata l’ipotesi di un Senato formato da rappresentanti delle
Autonomie locali, già eletti.
Non si comprende quali competenze e funzioni
potrebbe avere un Senato così formato, squilibrato rispetto alla Camera
eletta con votazione nazionale che non può che svolgersi sulla base di
programmi riguardanti l’intero Paese.
Non mi sembra infondato prevedere contrasti,
frustrazioni, rivendicazionismi localistici e continue polemiche
antigovernative poiché questa Camera, (non più Senato) non potrebbe
avere altro ruolo se non quello di provocare risonanze mediatiche.
L’obiettivo sacrosanto di una revisione del costo della politica non
sarebbe peraltro conseguito, mentre si ridurrebbe lo spessore della
nostra democrazia.
È evidente che una soppressione del Senato o
la sua trasformazione in Camera dei già eletti nelle amministrazioni
locali, comporterebbe come conseguenza il mantenimento di un numero
comunque alto dei Deputati (se non proprio l’attuale), con l’effetto di
non rendere, come è auspicabile, più snello e penetrante il procedimento
legislativo che si otterrebbe, appunto, con la riduzione dei componenti
della Camera.
Per coniugare rappresentatività, efficienza,
qualità legislativa e anche risparmio economico, senza indebolire
l’assetto democratico, è necessario battere altre strade, che passano,
appunto, per la differenziazione, e insieme per la parità istituzionale
dei due rami del Parlamento, per il dimezzamento del numero dei Deputati
e Senatori (315 e 130), per l’adozione di innovativi regolamenti
parlamentari, cominciando a privilegiare il metodo redigente in
commissione.
V’è, infine, un ulteriore aspetto che mi
lascia perplesso e riguarda il prospetto dei tempi per come si
accavallano, con paradossali conseguenze.
E’ indubbio che la riforma della legge
elettorale sia una assoluta priorità, ma affrontarla subito significa
intervenire anche sulla parte che riguarda il Senato.
Che cosa accadrà se, poniamo, tra la nuova
legge approvata, e quindi in vigore, dovesse seguire la soppressione o
trasformazione del Senato in Camera delle autonomie dei già eletti?
Sul sistema della legge elettorale si va
sviluppando un dibattito inappropriato poiché ispirato da calcoli di
parte.
Ciò accade perché la premessa del
ragionamento è, a mio parere, sbagliata. Si cerca non la buona legge (e
i modelli non mancano), ma quella che garantisca il bipolarismo che in
Italia non c’è, e difficilmente ci sarà.
Si cerca in sostanza di creare una “camicia
di forza” invece di elaborare una legge inclusiva che sia in grado di
determinare il massimo di coinvolgimento (come è accaduto con il
proporzionale che è stato il sistema elettorale che ha favorito il
superamento dei partiti antisistema e quindi il rafforzamento
democratico dell’Italia) con l’obiettivo di dare stabilità ai Governi.
Il mattarellum fu concepito con
questo metro, dopo il referendum sulla legge elettorale proporzionale.
Seguirne l’ispirazione potrebbe essere un
buon filo di Arianna per la necessaria riforma del porcellum,
senza l’illusione di garantirsi per legge il bipolarismo che è in crisi
perfino nella stessa Inghilterra. Basta leggere un po’ di bibliografia
in proposito per rendersene conto!
La legislazione che regola la vita
democratica si scrive sotto un “velo di ignoranza”, senza chiedersi: “a
chi giova?”. È questo il metodo giusto per fare una buona legge
elettorale.
Ed ora un personale auspicio: che non si
imbocchi la strada fuorviante del presidenzialismo sul cui tema sarà
comunque necessario ritornare ove dovesse profilarsi all’orizzonte con
forme improprie o distorte (come il sindaco d’Italia), che di fatto
alterano la Costituzione.
Scusatemi se l’ho fatta piuttosto lunga, ma
era necessario ripercorrere i vari punti in esame, anche esprimendo la
mia opinione, proprio perché tu li possa esaminare criticamente,
facendoci pervenire al più presto le tue considerazioni.
Colgo l’occasione per rinnovarti con
l’augurio per il nuovo anno il mio affettuoso saluto.
Gerardo Bianco |
L'appello sturziano per riprendere
il cammino
Si avvicina la data del 18 gennaio. Non è
solo la celebrazione del novantacinquesimo anniversario del partito
popolare di Luigi Sturzo con il suo manifesto programma "a tutti i
liberi e forti, che in questa grave ora sentono il dovere di cooperare
ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi nè preconcetti, facciamo
appello perchè uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali
di giustizia e di libertá".
Quella data coincide anche con il momento
più aspro della diaspora cattolica. In quegli stessi giorni del 1994 si
ricostituiva con grandi aspettative il nuovo Partito Popolare, prima
all'Istituto Sturzo, poi con una grande Assemblea.
Purtroppo quelle speranze sono andate
deluse, così come le attese di una ricomposizione che invece è stata
sopraffatta da una progressiva frantumazione della presenza organizzata
dei cattolici fino alla scomparsa, nel 2013, di una formazione politica
di riferimento in Parlamento. Rispetto alle polemiche e al dibattito di
questi giorni non va dimenticato che al primo punto del programma
sturziano figurava la integritá della famiglia.
V'era nel 1994 la consapevolezza di dovere
resistere ai pericoli derivanti dal cedimento dei grandi partiti
popolari che per Mino Martinazzoli avrebbero fatto entrare direttamente
in gioco gli interessi forti e la politica sarebbe diventata la parodia
di se stessa; così come la esigenza di riaffermare le ragioni del
popolarismo inteso come modo di essere nella societá, come costante
presenza critica nella societá.
È stata purtroppo progressivamente
abbandonata la strada indicata da Sturzo di guardare alle classi
intellettuali e medie che formano la spina dorsale della struttura di
paese civile moderno e che hanno fatto la storia del Paese fin dalla
unitá di Italia e in tutti i passaggi cruciali, compresi quelli
negativi.
Come non ricordare le parole di Gabriele De
Rosa che nel 1994 sollecitava a riprendere quel termine popolare
inteso come "societá delle condizioni
umane" dove i ceti sociali sono riferiti alla condizione giovanile,
femminile, operaia, degli anziani, attualizzandola al precariato e ai
mondi insicuri dei giorni nostri.
"Chi si
stacca dalle radici - affermò Gerardo Bianco nel 1994 - non ha altro
orizzonte se non quello del bazaar".
Si tratta
ora di operare un reset, di ricominciare, recuperando i principi della
identitá sturziana in una ritrovata unitá per dare senso ad una presenza
politica nelle Istituzioni e per non disperdere il patrimonio del
popolarismo soprattutto in un momento in cui dopo un ventennio si
affacciano nuove forme di leaderismo, nuovi personalismi, dove sembrano
prevalere le spinte della democrazia decidente piuttosto che quelle
della democrazia partecipata, più soluzioni imposte dunque che quelle
condivise. Persino il Partito Democratico nato sulla difficile fusione
di due culture, quella post democristiana e quella postcomunista sembra
essere travolto nella sua identitá fondante sui valori originari,
marginalizzando presenza e cultura dei cattolici democratici.
Le
rievocazioni del 18 gennaio che si terranno all'Istituto Sturzo e alla
Pontificia Universitá Lateranense diventino allora occasione per
meditare e riflettere sugli errori e sulle responsabilitá e al tempo
stesso per porsi di fronte ai tempi nuovi nel solco della profonditá del
pensiero sturziano che appare ancora come una luminosa stella polare del
popolarismo rispetto alla parodia della politica dei giorni che viviamo
con tristezza ma senza rassegnazione.
Maurizio
Eufemi
Roma, 10
gennaio 2014 |
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