...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

comunicati 2014

Le mani sulle banche popolari

Il governo Renzi vuole mettere le mani sulle banche popolari. Lo fa con un intervento sul tuf testo unico di finanza, cancellando il principio fondamentale del voto capitario e con la trasformazione in SPA. Lo fa con motivazioni risibili come l'eccessivo numero dei banchieri e la scarsa erogazione del credito. Lo fa in contraddizione con la recente introduzione del voto plurimo che consente nelle societá quotate di accrescere il peso degli azionisti stabili, tutelando il capitalismo nostrano. La veritá è che si vogliono mettere le mani sulle banche popolari che sono quelle che rappresentano un quarto del sistema del credito e che hanno garantito in questi anni difficili lo stesso credito ai territori con la loro presenza di prossimità, capillare. 
Ė scandaloso il silenzio dei grandi organi di informazione, ma sappiamo bene a chi appartengono e gli interessi che intendono tutelare. Il governo Renzi si appresta dunque a compiere una manovra che i poteri forti in questi anni hanno sempre tentato senza riuscirci, perchè l'abbiamo respinta e la respingiamo con vigore. 
Con il governo Renzi in un Parlamento distratto sará evidentemente la
‪#‎voltabuona‬
. !!!

Roma, 18 gennaio 2015

Per un progetto politico nel segno del popolarismo

Creare una alternativa allo stato attuale delle cose nella linea del popolarismo che significa innanzitutto ascoltare la gente. Esistere con il popolo come scriveva Maritain, perchè il popolo c'è. Non avere il timore di difendere i valori fondamentali della vita, della famiglia che non devono risiedere solo nelle coscienze, ma anche nei programmi e  nella azione politica quotidiana.
Avere una visione progettuale chiara perchè la coerenza spinta fino in fondo può portare successi, dunque presentarsi alternativi con una distinzione chiara. Questa è una esigenza del Paese che richiede  un progetto politico alternativo con una vocazione al governo.
La ispirazione cristiana è fondamentale per rivendicare una cultura politica del popolarismo che non si confonde con il socialismo.
In una fase come questa il primo passo è ripresentarci con una federazione ricca di sensibilitá diverse. Anche il PPE si dimostra insufficiente rispetto  ad una rappresentanza dei valori più compiuti del popolarismo più autentico e della solidarietá dei popoli europei.
Riscoprire la politica come alto atto di amore per il prossimo.

P.S
Sono alcune delle linee di azione emerse nell'incontro del convento di San Sisto dedicato a San Domenico perchè lì operò. Mentre svolgevamo le nostre riflessioni le suore domenicane nel silenzio mediatico distribuivano  ai poveri il pane quotidiano come missione di amore verso chi soffre.
Nella cappella della chiesa c'è una bellissima immagine dell'abbraccio tra  San Francesco insieme a San Domenico, simbolo di vera fraternitá,  un tesoro nascosto della Roma cristiana.

Roma, 10 gennaio 2015

Intervento di Mario Tassone  

Abbraccio tra San Francesco e San Domenico la vera fraternitá

On. Mario Tassone  

Intervento al convento San Sisto con Filippo Peschiera

Confronti...

 

In un confronto televisivo su La7 il capogruppo del Pd Roberto Speranza rivendicava di guidare il gruppo parlamentare più numeroso della Camera dei Deputati dall'avvento della Repubblica, ben 307, superiore perfino a quello della DC del 1948 che furono 305. Vi sono differenze sostanziali. Quei 305 ottenuti da De Gasperi derivarono da 12.741.299 voti assoluti su 26.854.203 votanti pari al 48,5 per cento del corpo elettorale. La percentuale di partecipazione al voto fu del 92,2. 
I 307 deputati attuali del gruppo Pd derivano da numeri elettorali diversi e soprattutto dalla applicazione della legge Porcellum con premio di maggioranza alla coalizione prevalente guidata dal PD. Il Porcellum è profondamente differente dalla legge proporzionale pura in vigore nel 1948. Il Porcellum sará dichiarato incostituzionale dalla Consulta proprio sulla assenza di una soglia minima per l'applicazione del premio che ora si vuole elevare al 40 per cento. 
La consistenza del gruppo Pd è lievitata fino a 307 per le adesioni dei deputati eletti nelle liste di sinistra ecologia e libertá e da quelli eletti in Scelta Civica. Dunque sono stati ben 15 i deputati che sono approdati al PD. 
Il partito Democratico nelle elezioni del 2013 ha infatti ottenuto 292 seggi con 8.646.034 pari al 25,43 per cento. La partecipazione al voto è stata del 75,20 per cento. La coalizione di centrosinistra ha prevalso sulla coalizione di centrodestra per una differenza di 126.793 voti assoluti e dello 0,37 per cento in valore relativo. A quasi paritá di voti, la differenza in termini di seggi è stata di 216! 
È evidente il tentativo di usare le armi della propaganda televisiva per esaltare risultati che sono ben lontani da quelli della prima repubblica, soprattutto dimenticando gli effetti del sistema elettorale. Ed è grave che si voglia utilizzare quella legge elettorale dichiarata incostituzionale per alterare gli equilibri costituzionali. 
V'è una autoesaltazione del PD nel dimostrare una forza superiore a quella di De Gasperi e di Fanfani. Non è così. Basta leggere i numeri. 
La prossima esaltazione verrá dopo la introduzione della nuova legge Acerbo?

 

Roma, 17 dicembre 2014

Fare chiarezza sulle cooperative degenerate

Le vicende della inchiesta romana su "Mafia Capitale" ha posto in luce una questione politica che va oltre quella giudiziaria. 
Si tratta della formula cooperativa al centro della inchiesta, che è stata scelta per aggirare i controlli di qualsiasi genere.

Quando nel 2001, in occasione della riforma del diritto societario tentammo di mettere ordine nel sistema mutualistico, la sinistra definì quella operazione "vendetta politica". Si voleva, al contrario, mettere ordine, garantire le cooperative vere, quelle che perseguono effettivi fini di mutualitá come disciplinati dalla Carta costituzionale, evitando che alcuni soggetti, falsamente cooperativistici possano utilizzare le agevolazioni sia fiscali che finanziarie, di cui sono beneficiari. Non possono essere certo considerati soggetti cooperativistici da garantire, quei soggetti quei soggetti con un forte squilibri nel rapporto tra gli apporti dri soci e quelli dei terzi sia lavoratori dipendenti che autonomi. Di qui la battaglia per specificare il requisito della prevalenza del carattere mutualistico quale condizione essenziale per caratterizzare la cooperazione costituzionalmente riconosciuta. 


Quando la cooperazione degenera diventando una holding finanziaria, con pochi soci e migliaia di dipendenti, perde di vista i caratteri fondanti della mutualitá e si arriva alla fotografia impressa dalla inchiesta romana. 
Quello che lascia sconcertati è anche il silenzio dei vertici del movimento cooperativo rosso di fronte ad eventi che determina un danno reputazionale di tutto il movimento anche di quello buono che lavora nel silenzio e nel rispetto delle regole. 
È evidente che sono mancati i controlli, soprattutto sui bilanci così come sul procedimento di erogazione delle risorse pubbliche.

Sorprende che dopo la pubblicazione della foto che ritrae Poletti, allora capo della coop, con i protagonisti di inchiesta giudiziaria così delicata non abbia ancora portato il PD ad una seria riflessione sulla cooperazione degenerata che merita di essere affrontata senza indugi e con il decisionismo utilizzato in altre situazioni.

E Poletti non pensa di fare un passo indietro?

 

Roma, 14 dicembre 2014

Dove va l'Italia

"Dove va l'Italia" è stato il tema di un incontro promosso dalla Associazione ex parlamentari, con il Prof. Giuseppe De Rita oggi a Roma nella sala delle Colonne a Palazzo Marini.

Il Presidente del CENSIS, con la consueta franchezza e chiarezza espositiva, non ha nascosto la sua preoccupazione per la mancanza di attenzione sui soggetti della societá: le famiglie e le imprese. Le famiglie in questi anni di crisi si sono patrimonializzate. Sono diventate più ricche per la crescita dei depositi bancari, delle polizze vita come modo di costruire il futuro, per maggiori fondi investimento (nei ultimi 18 mesi + 30 miliardi al trimestre), per un crescente risparmio in nero derivante dall'allargamento del sommerso.

Il volume di risparmio incredibile numeri porta a parlare di boom del risparmio. Per le famiglie va detto che dopo il can can di questi mesi, gli ottanta euro non sono andati a sviluppo ma a risparmio. Che cosa è successo, che cosa succedera allora? Il Paese è fermo rispetto alle pagelle della Unione Europea o della pronuncia della agenzia di rating Standard & Poors. Perchè nessuno va a vedere le truppe come stanno? Non investiamo, non compriamo e mettiamo da parte; meglio stare liquidi. Ritornano le paure, dalla malattia alla vecchiaia. Si fa la cosa più statica: si risparmia. Le imprese aumentano il patrimonio perchè non hanno idee sul prodotto da lanciare e produrre, dall'abbigliamento alla casa e alle macchine; si preferisce il taxi. Si preferisce investire sulla legge Sabatini per le macchine utensili che significa stare al passo con i tempi nella innovazione tecnologica, piuttosto che in nuovi capannoni. Dunque famiglie e imprese sono due soggetti fermi e se ripartono lo fanno con mezzi propri perchè hanno sofferto troppo. Le imprese non hanno prospettive di mercato.

Il futuro dell'Italia è legato alla ripartenza, alla rimobilitazione i milioni di famiglie e di imprese. Dove vogliono andare le famiglie e le imprese italiane? Purtroppo si discute del nulla perchè non c'è alcuna capacitá di indagine. Dove va l'Italia in termini organizzativi e di investimenti? V'è la solitudine dell' impresa. Nessuno chiede nulla. Mancano i partiti, i sindacati, i corpi intermedi. La finanza internazionale vive a sè, vivono tra loro, non scendono sulla terra. Il primo presidente della Banca Mondiale nel 1944 seppe guardare allo sviluppo e al planning. Sapeva fare cerchio con Menichella, Giordani, Saraceno. Oggi non c'è nessun cerchio. Oggi vivono in se stessi. Sono gruppi omogenei a se stessi. Quella che è stata rappresentata è la prima giara. Poi c'è la seconda giara. Renzi fa politica della politica. Fai tutto ma non fai nulla. Puoi fare tutto come riforme, leggi, se poi mancano i decreti attuativi. Il mondo istituzionale vive di se stesso. Tutto gira verticosanente, ma rimane nel social network. Poi c'è il sommerso che dicevano che era un fenomeno transitorio, ma è ritornato. Oggi è tutto sommerso da Prato a Valenza. È un mondo che si chiude, non si apre; mentre prima erano divertiti oggi sono incupiti dentro. È un ambiente che non appare.

Che societá è? Ci sono mondi asistemici che non comunicano. La cultura del comando non può essere cultura della politica. Se la politica non smuove soggetti che stanno fermi e i mondi non comunicano tra loro, se non smuove i tempi, corre tre rischi: 1) slittare nel populismo e nel gentismo con interpreti diversi come Berlusconi, Renzi, Salvini; 2) slittare nell'autoritarismo. In tutta Europa cresce voglia di autoritá. La societá disarticolata ha bisogno di chi la regge; non solo Putin, ma anche Merkel. In questo senso siamo vaccinati anche rispetto a Tambroni. Populismo e autoritarismo smantellano la mediazione; è una critica alla cultura moderna. 3) il secessionismo sommerso che è il terzo pericolo. Girando l'Italia si vede un potere diverso rispetto al potere statuale. Ci sono cacicchi locali, padroni delle tessere si muovono sulle primarie e fanno secessionismo sommerso.

La politica divrebbe rivolgersi in avanti interpretando aspettative di famiglia e imprese per dividersi dai tre pericoli.

I giovani italiani sono differenziati tra narcisi rappresentanti di un decadimento antropologico e giovani seri e preparati, ma che vanno accompagnati. La politica non è riuscita a capire le aspettative del tempo come fu con il piano casa di Fanfani o con il progetto auto di Valletta. Oggi i giovani manager stanno all'estero, non giocano dentro.

Oggi c'è una crisi della democrazia perchè nessuno, oltre Moro e Berlinguer, ha saputo dare orientamento. Oggi ci sono tanti soldi e poche idee. Il riassetto dell'esistente vince. Non dobbiamo avere nostalgia di risettare. Vale per tutto il paese anche per il nordest. I sistemi si stanno risettando.

Roma, 10 dicembre 2014

I cattolici e la politica

di Domenico Rosati

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Logica della mediazione o della presenza, valori componibili o non negoziabili, partito unico o «tensione unitiva», alleanze omogenee o patti con il diavolo.

La partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana ha attraversato numerose fasi e ha collaudato schemi che oggi risultano superati. Ripercorrere le strade già battute serve a capire dove si è arrivati e a comprendere le glorie e le miserie delle imprese compiute. È la condizione necessaria, non sufficiente, per intraprendere un nuovo corso. Solo una ricognizione sincera e, dunque, impietosa consente di guardare avanti liberi dall’incubo del già vissuto. La posta in gioco è il mutamento della qualità dell’azione politica, il recupero della sua funzione di servizio anziché di pratica del potere. Con un fine di umanizzazione della vita che rigetta la cultura dello scarto insita nella logica mercantile che domina la produzione e gli scambi.

 

Queste parole dell'editore per richiamare i contenuti del libro di Domenico Rosati giá Presidente nazionale delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) dal 1976 al 1987, poi senatore della Repubblica dal 1987 al 1992. Rosati ha lungamente collaborato con Caritas Italiana per i problemi delle politiche sociali, è commentatore per quotidiani e periodici e autore di saggi, tra cui Biografia del centrosinistra. 1945-1995 (Sellerio 1995) e Il laico esperimento. Lavoratori cristiani tra fedeltà e ricerca. 1976-1987 (Edup 2006).

 

Oggi sul libro di Rosati si sono confrontati Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci, Giovanni Bottalico, Presidente delle ACLI, Alessandro Plotti, vescovo emerito di Pisa e Gerardo Bianco, presidente associazione ex parlamentari.

 

Ha introdotto i lavori Claudio Sardo giá direttore dell'Unitá. Naturalmente non sono mancati i richiami alle parole di Papa Francesco rispetto alle disuguaglianze, alla societá della disintermediazione, alle sollecitazioni ai cristiani a non restare nelle retrovie, ad avere più coraggio.

 

Da uno storico laico come Vacca v'è il riconoscimento del magistero del Papa che parla a tutti anche ai non credenti che possono trovare terreno di ricerca comune sulla globalizzazione, sulla economia, sulle guerre. Riconosce l'errore della sinistra che ha preferito la strada della contrapposizione sulla fecondazione assistita, che leader del passato non avrebbero compiuto.

 

Botralico è rimasto sui temi sociali, sottolineando come la crisi economica e sociale sta impoverendo ceti sociali. Rivendica il metodo democratico come storicamente consolidato nelle Acli ribadito sulla legge elettorale, sulla politica internazionale. Papa Francesco ci sollecita a riacquistare il primato della speranza a riflettere su povertá denaro e pace. La parola povertá tende a scomparire dal dibattito, nonostante sia aumentata quella assoluta. Non se ne parla, invece va ma acquisita come prioritá. Il progetto reddito inclusione sociale è un modo concreto per dare sostanza alla politica della misericordia. Va spezzata la idolatria del denaro. Promuovere un nuova cultura incentrata sulla solidarietá. La solidarietá è lottare contro le cause strutturali della povertá. La pace richiede saggezza e lungimiranza come la posizione contro la guerra in medio oriente. C'è nei cattolici poca attenzione su questi temi mentre stiamo vivendo la terza guerra mondiale ma a pezzi. Il libro ci dischiude coraggiose linee di impegno.

 

Poi è intervento Alessandro Plotti che ha portato la sua lunga esperienza dentro la CEI. Ha voluto porre interrogativi seri a cominciare dalla verifica dello stato di salute del popolo di Dio che si trova ad affrontare la novitá dei problemi posti da Papa Francesco. La massa soffre di malattie, ma curabili. Si sofferma in particolare su: 1) la natura del dissenso. È più sviluppato di quanto immaginiamo. Con il timore che possa ledere la unitá della fede. Oggi è impossibile discutere, farsi ascoltare avere il coraggio di manifestare il proprio dissenso. C'è degrado. Si evita il confronto per paura che possa manifestarsi. Mancano i luoghi dove confrontarsi. Questa paura di gestire il dissenso ha portato a un indebolimento della partecipazione. Le cause sono tante. Oltre l'individualismo, manca lo spazio per confrontarsi. Il Papa è tornato sul fondamentalismo cristiano. La nostra relazione non deve essere immobile. Cercare la veritá è diverso dal possederla o manipolarla. Troppi cristiani pensano di essere al sicuro dentro un pensiero omogeneo. Camminare insieme per trovare risposte adeguate anche nel dissenso, purchè pluralista. I cattolici non si mettono in posizione di difesa per trovare nuove speranze e nuove prospettive. Camminare insieme con il passo giusto. Troppe contrapposizione ci sono state in passato. Ricordano come nel convegno del 1975 su Evangelizzazione e Promozione umana fu fatto tacere il segretario della CEI. Dunque avere coraggio. Ci deve essere spazio. Liberarsi dalla paura del dissenso. 2) i Valori non negoziabili. Troppo relativismo etico. Ci sono valori naturali. v'è Fardello di esasperazione dottrinale che allontana anzichè avvicinare le persone. Ricorda gli schiaffi delle leggi sul divorzio e sull' aborto. La democrazia non è fondata su questo ma nella sovranitá del popolo. Dobbiamo formare le coscienze e qui la chiesa è stata latitante anche da questa malattia. La ricerca della veritá deve essere fatta insieme. Ritrovare una linea portante di una antropologia evangelica. V'è stato il tentativo di ceizzare tutto. Le CEI sono nate per dare collegialitá non per centralizzare. Si creano miti e guasti. Ultimo punto richiamato da Plotti: 3) l'autonomia dei laici ricordando il pensiero di Lazzati. Ci sono protagonisti o gregari, ma oggi sembrano graditi i gregari quelli che si accodano. I laici hanno molto da dire alle gerarchie. L'autonomia che nasce e porta ad assumersi responsabilitá. Manca una classe di politici. Portare i valori dentro la societá con un'anima. È arrivato il momento di non aspettarene di delegare.

 

Gerardo Bianco ha portato il suo contributo di politico. Riconosce di avere trovato difficoltá a stare dentro la impostazione di Rosati. Ritiene che la questione cruciale sia il rapporto tra democrazia e cristianesimo. Bergoglio ha lanciato una sfida alla civiltá contemporanea. Dovremmo uscire dal discorso politico. L'economicismo attuale, quello dell'individualismo ha posto in evidenza i vizi anzichè le virtù. L'interesse del fornaio è quello di fornire il pane, non la sua benevolenza. È inevitabile che i cattolici si misurino con i problemi, ma combattere la povertá è realizzabile senza un pensiero capace di produrre ricchezza? Il libro immagina stagione di cattolici adulti. La storia della autonomia dei cattolici va salvaguardata. Ricorda ad esempio la polemica tra Aldo Moro e il cardinale Siri. Il pensiero di Papa Francesco va oltre l'Italia. Il referendum è stata svolta culturale per contrastare il radicalismo. Le leggi possono essere neutrali o avallo di comportamenti. Oggi i desideri diventano diritti. Ricorda le spinte a legalizzare l'incesto in Germania o,alla depenalizzazione della pedofilia in Belgio. Solo la barriera delle coscienze può fermare la deriva. La grande sfida è non rinunciare alla dottrina economica, non solo ascolto, ma guardare ai fenomeni del tempo con un pensiero robusto. Oggi c'è grande vuoto soprattutto se non matura un forte pensiero laico. Riflessioni della sera. La rete può dare molto, ma non può dare tutto. Può dare un resoconto ma non può darti le riflessioni di un libro. Purtroppo siamo dentro una forte crisi culturale che dovremmo affrontare anche con un più forte dialogo non solo virtuale. Abbiamo la fortuna di meditare con le parole di Papa Francesco definito con una bellissima definizione, grande acceleratore di particelle evangeliche.

 

Il libro di Domenico Rosati vuole muovere le acque. Ci riuscirá?

 

Roma, 9 dicembre 2014

 

 

Seminario fiorentino sulla riforma costituzionale:

Le Regioni dalla Costituente al nuovo Senato della Repubblica

 

Per iniziativa delle Associazioni ex parlamentari della Repubblica ed ex consiglieri regionali, in collaborazione con la Fondazione del Consiglio Regionale della Toscana si è svolto a Firenze il convegno sulle "Regioni dalla Costituente al nuovo Senato della Repubblica". Si è tenuto in una giornata infelice per le difficoltá dei trasporti e delle manifestazioni a sostegno dello sciopero sociale. Ha comunque avuto successo con una larghissima partecipazione.

È stata una importante occasione di verifica sullo stato della Riforma costituzionale Renzi-Boschi che ha ripreso l'esame alla Camera, dopo una iniziale accelerazione al Senato e una altrettanto rapida frenata.

Dobbiamo essere grati ai promotori di questo evento, in particolare all’amico Sergio Pezzati, che hanno saputo coinvolgere insigni giuristi relatori di interessanti e meditate riflessioni. I corpi intermedi, quei corpi sotto attacco politico, in ragione di una verticalitá che non vuole tenere conto della orizzontalitá del Paese - per ricordare le parole di Giuseppe De Rita - hanno voluto tenuto vivo il dibattito su una questione come la riforma costituzionale, marginalizzata dai media nazionali.

 

 

Gerardo Bianco ha svolto una prolusione introduttiva ricordando che non vi siano riserve al cambiamento, ma come il passaggio dal bicameralismo paritario a uno differenziato avviene con un intervento complessivo senza chiarezza sui principi. il testo approvato dal Senato è peggiorato rispetto alla idea originaria. Il compromesso raggiunto fa smarrire il filo logico di partenza. Evidenzia le contraddizioni sul principio di rappresentanza, sulla struttura normativa dell'articolo 70 relativo al procedimento legislativo, sulle evidenti lacune nel raccordo tra le due Camere, sulle garanzie costituzionali e sul ruolo di supplenza del Capo dello Stato.

 

Il Professor Ugo De Siervo, con grande chiarezza e luciditá ha ricostruito le vicende storiche del regionalismo, una storia difficile per la storia nazionale che muoveva dalla rifiutata idea giacobina accentratrice, passando per l'unificazione di 7 Stati sovrani, poi per lo Stato liberale, per il regime fascista fino alla Costituzione repubblicana.

Cita il pensiero di Sturzo per il quale "il passaggio dalla idea al fatto è sempre penoso". Lo statuto autonomistico siciliano viene introdotto prima della Costituzione del 1948. Sulle Regioni vi fu un dibattito durissimo e lunghissimo che va dal giugno 1946 all'autunno 1947 per discutere sui poteri legislativi delle Regioni e che porterá Livio Paladin a considerare "la pagina bianca della legislazione regionale". Le Regioni nascono nel 1970 in una fase economica diversa dal 1948, che vede la presenza affermata dello Stato Sociale, delle Partecipazioni Statali e dell'Intervento Straordinario nel Mezzogiorno, prevalendo dunque una cultura nazionale. Su processo di trasferimento delle funzioni si registra una chiusura delle burocrazie sia nel 1972, che nel 1976 come pure nel 1994. Ricorda tuttavia come negli anni settanta vi furono momenti di grande impegno soprattutto quando furono emanati gli statuti regionali. Il Titolo V va in crisi perchè non vengono realizzate le leggi cornice. Poi interverrá anche la decadenza della classe politica.

Sul fenomeno del degrado intervengono altri fattori come la crisi finanziaria, le trasformazioni continue che erodono l'autonomia dei territori, come nei Trasporti, riducendo la separatezza con influenza sugli enti territoriali e, infine, l'invecchiamento delle politiche istituzionali. Per De Siervo nel Senato delle autonomie territoriali non c'è nulla di eversivo. Cita, infine, Giuseppe Dossetti sostenitore della eliminazione del bicameralismo paritario.

 

Per Giovanni Tarli Barbieri v'è un massiccio ritorno alla legislazione statale con lo strumento dei decreti taglia spesa. È l'eutanasia della legislazione regionale. Illustra la evoluzione della struttura dei gruppi regionali, la formazione di maggioranze asimmetriche sui provvedimenti, i massicci interventi amministrativi, l'addensamento dei controlli sul consiglio anzichè sul Presidente, la definizione di modelli spuri sulla legislazione elettorale regionale, gli effetti della legge Severino, con ben 87 casi, sulla sospensione delle funzioni in conseguenza di procedimenti penali.

 

Paolo Caretti ha affrontato il quadro delle competenze normative nella evoluzione del titolo V con il nuovo monopolio legislativo del Parlamento Nazionale e gli interventi della Corte Costituzionale rispetto alla conflittualitá. Si voleva ritoccare il titolo V per semplificare i rapporti e si finisce per depennare la materia concorrente. Si interviene su 19 gruppi di materie esclusive e 45 materie. V'è una sovrapposizione di cose diverse. Torna l'interesse nazionale con la clausola di garanzia. Aumenterá il conflitto alla Corte Costituzionale. È dunque un passo indietro.

 

Per Antonio Brancasi che ha illustrato il tema dell'autonomia finanziaria regionale, l'autonomia va intesa come non dipendenza finanziaria. Si può essere autonomi anche in presenza di finanza derivata purchè vi sia impiego di parametri oggettivi.

 

Come si può vedere i temi sono di grande attualità e hanno suscitato immediato interesse. Avevo il timore di trovare un clima di maggiore consenso e favore sulla riforma. I timori sono stati fugati dalla libertá di pensiero e di analisi riscontrate negli interventi. Evidentemente ci sono filoni culturali che non trovano spazio ed evidenza mediatica.

 

Non ho potuto fare a meno di intervenire su molte questioni.

 

Nonostante le profonde modifiche intervenute sul testo originario che hanno eliminato non poche incongruenze giá evidenziate nella audizione di ieri al Senato, su un testo che è stato praticamente riscritto, altrettante restano ancora sul tavolo.

Per stare al tema principale ritengo che sia stato compiuto un grave errore di metodo quello di avere tenuto tutto insieme. Lo stesso errore che è stato compiuto con la devolution di Calderoli poi bocciata dal referendum confermativo. Si è puntato sul binomio bicameralismo- titolo V piuttosto che correggere il solo titolo V su cui si poteva trovare un più ampio e facile consenso. Così tutto è diventato più complicato perchè non si vede più un modello di riferimento. Da un lato abbiamo un Senato svuotato nelle funzioni e dall'altro il tentativo di fare il luogo della rappresentanza delle autonomie ma che per pudore evita di chiamarlo tale.

 

Si è voluto cancellare il Senato come camera politica piuttosto che ridurre il numero dei componenti di entrambe le Camere, armonizzandone, differenziandone e specializzandone le funzioni.

 

E veniamo al punto. Partirei da una riflessione di Costantino Mortati del 1976. “L’autonomia finanziaria come pietra angolare dell’intero sistema autonomistico".

Se non dispongono di mezzi finanziari, se non c’è una correlazione tra quantum di autonomia e quantum di risorse si arriva inevitabilmente a una situazione di dipendenza finanziaria.

In assenza di legittimità popolare, e quindi di un bagno elettorale avremo un Senato che per la modalità di elezione indiretta diventerà una Camera delle rivendicazioni, delle proteste, delle rivalse, delle frustrazioni, delle contestazioni senza alcuna incidenza. Prima è stato richiamato Dossetti, ma è vero che Dossetti voleva eliminare il bipartitismo perfetto, ma nella sua ultima lezione alla Universitá di Parma il 26 apriperfetto le suo testamento politico, con i suoi richiami al costituzionalismo moderno, guardava al Senato delle Autonomie e delle grandi formazioni sociali con preferenza per un federalismo moderato sul modello del federalismo tedesco così come definito dall' art 72 della Grundgesetz.

 

Va detto poi, per tornare al tema del convegno, che in questi anni il legislatore ha stentato a valorizzare strumenti di raccordo e cooperazione tra i diversi livelli di governo in una logica di leale collaborazione.

E’ mancato un sistema di raccordo. Così è stato per la Acof Alta Commissione per il federalismo di cui alla legge 289 del 2002, come pure con la conferenza permanente di coordinamento sulla finanza pubblica disciplinata con l’art. 33 del decreto legislativo 68/2011 che si è riunita solo nell’ottobre 2013.

 

Se mancano o non vengono valorizzati gli strumenti di raccordo tra i livelli dello Stato come si può dialogare costruttivamente per obiettivi di finanza pubblica rispetto a patti stabilità e crescita?

 

Se viene abrogato il 117 terzo comma la potestà legislativa concorrente si profila una centralismo neo statalista. Lo Stato torna a decidere su tutto escluso il "coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". Ciò è coerente con il fiscal compact, ma non con l'autonomia finanziaria degli enti locali.

 

Con la legge costituzionale n. 1 che novella gli articoli 81, 97, 117, e 119 si correla tutto il settore PA al vincolo del debito nel rispetto delle regole europee; il ricorso all’indebitamento è subordinato a piani di ammortamento e ai vincoli della UE.

In questo modo per lo Stato è stato attivato il navigatore automatico, che per le Regioni e gli enti locali più che cinture di sicurezza di tipo automobilistica, diviene una vera e propria camicia di forza che impedisce qualsiasi movimento.

Se il 117 armonizza il bilancio pubblico alla competenza esclusiva, il 119 è inattuato.

 

La politica di bilancio si compone dei saldi di finanza pubblica che devono essere garantiti a livello di consolidato nazionale e delle regole di ripartizione degli stessi saldi. Ci deve essere un raccordo. Non c’è quell’unicum tra patto di stabilità interno, scelte di perequazione e legge di stabilità che viene spezzato senza un raccordo una interconnessione tra obiettivi di finanza pubblica al rispetto del patto di stabilità e crescita, convergenza dei vari livelli su costi e fabbisogni standard e obiettivi di servizio per i livelli essenziali delle prestazioni ( lep) e funzioni fondamentali.

 

Le regole di realizzazione del federalismo fiscale richiederebbero sempre maggiore trasparenza dei dati e informazioni. Manca nel paese una cultura della rendicontazione con una valutazione dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi perseguiti.

Vanno inoltre considerati i controlli della Corte dei conti. Spiega infatti l’art. 1 del decreto-legge numero 174 del 2012, che ha disciplinato la materia, che sono stati previsti “al fine di rafforzare il coordinamento della finanza pubblica, in particolare tra i livelli di governo statale e regionale, e di garantire il rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”.

Si tratta di un controllo che, come previsto dalla Costituzione tende a garantire in funzione obiettiva, cioè nell’interesse generale, il buon funzionamento delle istituzioni le cui risorse sono fornite dal cittadino attraverso il sistema fiscale. Pertanto la Corte esamina la tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali e sulle tecniche di quantificazione degli oneri, le coperture che devono assicurare il corretto equilibrio dei bilanci.

In questo contesto le Sezioni di controllo della Corte dei conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle regioni e degli enti che compongono il Servizio sanitario nazionale, per la verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall’articolo 119 della Costituzione. Sempre agli stessi fini le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano altresì che i rendiconti delle regioni tengano conto anche delle partecipazioni in società controllate e alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per la collettività regionale e di servizi strumentali alla regione.

 

Nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica le relazioni redatte dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al Ministero dell’economia e delle finanze “per le determinazioni di competenza”. Il conferimento alla competenza esclusiva della legge statale della materia del coordinamento della finanza pubblica costituisce, a ben vedere, uno sviluppo coerente con le scelte già effettuate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha effettuato analogo conferimento per la materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici e novellato gli articoli 81, 97 e 119, della Costituzione, estendendo a tutte le pubbliche amministrazioni (e dunque anche a tutte le autonomie territoriali) il principio dell’equilibrio di bilancio tra entrate e spese e il principio della sostenibilità del debito». In questo senso, anche alla luce degli sviluppi più recenti della giurisprudenza costituzionale, appare quantomeno dubbio che tale spostamento possa essere compatibile con la salvaguardia dell’«autonomia finanziaria degli enti locali". Il finanziamento delle regioni è stato perseguito con le addizionali Irpef con una esplosione del fenomeno alterando la incidenza e distorcendo gli equilibri distributivi riducendo gli spazi della politica fiscale affidata a surrogati come i bonus.

 

La compressione della spesa affidata alla riduzione delle risorse è risultata inefficace per la dinamica della spesa corrente ma progressivamente incidente per la spesa in conto capitale.

 

La riforma è dunque coerente con la legge costituzionale n. 1 del 2012 ma non con il principio di sussidiarietá edificato a Maastricht e incompatibile con la salvaguardia della autonomia finanziaria degli enti locali.

In materia così delicata come i rapporti centro periferia la soluzione non deve essere di tipo ideologico ma guardando ai problemi reali e con le soluzioni più adeguate.

 

Un disegno riformatore va incoraggiato e sostenuto purchè privilegi il miglioramento e l'efficienza dell'assetto istituzionale e non determini una rottura dell'equilibrio costituzionale e una alterazione del sistema delle garanzie.

 

Firenze 14 novembre 2014

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Al seminario fiorentino sulla riforma costituzionale promosso dalla associazione ex parlamentari della Repubblica e dalla associazione ex consiglieri regionali congiuntamente alla fondazione Regione Toscana ho sentito dal top degli studiosi del diritto musica per le mie orecchie.
Pensavo di trovare giuristi sostenitori della riforma e invece è stato un coro di critiche demolitrici dell'impianto governativo, peggiorato dopo il passaggio in prima lettura al Senato. Sono state argomentazioni forte poggiate su basi scientifiche serie e che fanno aumentare le preoccupazioni sull'esito di un progetto che richiede ben altra meditazione. Tornerò ampiamente sulle criticitá.
Oggi da Firenze torno sollevato perchè con questa riforma non si fa un passo in avanti ma uno indietro. Purtroppo c'è l'amara considerazione sul ruolo della stampa in questo Paese e sullo scarso rilievo che viene dato ad iniziative culturali promosse dai corpi intermedi mentre viene dato ampio spazio allo
scandalismo e al gossip quotidiano.
C'è solo da augurarsi che alla Camera in seconda lettura prevalgano libere opinioni piuttosto che logiche di schieramento.

Zaccagnini un politico cristiano, uomo buono, onesto, mite

Benigno Zaccagnini è stato ricordato oggi, 5 novembre, nel venticinquesimo anniversario della sua scomparsa nella sala Aldo Moro di Montecitorio. Non poteva essere altrimenti per chi si sentiva profondamente discepolo di Moro. L'iniziativa è parsa quanto mai opportuna per un Paese che ha la memoria corta e che tende a mettere ai margini della memoria collettiva personaggi come Zaccagnini. Ne hanno ricordato la figura del politico che ha partecipato alla lotta di liberazione, come protagonista della Resistenza bianca, con il nome simbolico di battaglia di Tommaso Moro, e che avuto grandi responsabilitá sia istituzionali che di partito, dalla Assemblea Costituente fino al 1989, come Ministro del Lavoro e dei Lavori Pubblici, come Presidente del Gruppo Dc, come Vicepresidente della Camera, come Segretario e Presidente del Partito, Francesco Saverio Garofani, Paolo Ruffini, Nicola Antonetti, Presidente dell'istituto Sturzo, il gesuita Francesco Occhetta e Gerardo Bianco, presidente della associazione ex parlamentari. Sono intervenuti il Ministro Franceschini, Pierluigi Castagnetti, Domenico Rosati, Giuseppe Gargani, Angelo Sanza ed altri ancora. Il ricordo di Zaccagnini però non sbiadisce perchè sapeva parlare ai giovani, agli operai con un linguaggio semplice e diretto. Amava i corpi intermedi. Si rivolgeva alle coscienze, richiamando l'esigenza di moralitá. Portava umanitá nella politica. Proprio in quel congresso del 1975 al Palasport dell'Eur che lo elesse direttamente, dove prevalse con il 51,57 per cento dei voti su Arnaldo Forlani, e che alimentò nuove diffuse speranze giovanili affermò che la DC non sarebbe diventata il comitato di affari del capitalismo italiano, rifiutando la scelta conservatrice e guadando ai ceti popolari. Dá forza, con l'intuizione Bartolo Ciccardini alle Feste dell'amicizia che a Palmanova, in Friuli, trovano il primo grande momento di partecipazione popolare.

Guidò il partito nella difficile prova elettorale dellepolitiche del 1976 che impedirono il sorpasso del Pci; con Zaccagnini si realizzò un grande rinnovamento parlamentare: furono 101 i deputati democristiani che entrarono per la prima volta a Montecitorio. Fu segretario della Democrazia Cristiana dal 1975 al 1980 nella stagione più drammatica della nostra storia che ha visto il sacrificio prima di Moro, Mattarella, Bachelet e poi di Roberto Ruffilli. Vedeva la solidarietá come orizzonte di interesse nazionale. La tragedia di Aldo Moro fu per Zaccagnini, una ferita non rimarginata. Era uomo del dialogo ma anche della fermezza. Ha difeso lo Stato senza cedimenti. Sui rapporti con il Pci non v'è stata mai debolezza. Non v'era inclinazione consociativa, ma la ricerca del confronto democratico nelle aule parlamentari, confronto non come teoria, ma come prassi democratica.

In politica estera la scelta atlantica è sempre stata netta. Così fu nel 1979 quando si decise per gli euromissili che rappresentò un punto di svolta, un passaggio decisivo nei rapporti Est e Ovest e nella successiva crisi economica dell'URSS.

Non era un impolitico come si è tentato di raffigurarlo, ma un uomo politico di spessore. Basti pensare alla poderosa legislazione mutualistica in favore degli artigiani che introdusse da Ministro del Lavoro del II governo Segni interessando milioni di persone allora ancora escluse dal welfare state così come la definizione del ruolo della contrattazione riconoscendo la validitá erga omnes dei contratti collettivi. Nel 1959 affermò che con " uno strumento giuridico che rappresenta la difesa della parte più debole del nostro corpo sociale, si realizza il rispetto della dignitá del lavoratore e l'acquisizione di un retto ordine sociale di più larghi strati del mondo popolare e del lavoro".

Uomo schivo, di grande modestia, sensibile ai richiami del dovere divenne simbolo di valori, di virtù, di dedizione al bene comune.

Per Zaccagnini la politica era cercare di capire le grandi cose e fare tutto ciò che si può.

Era un uomo animato da un sentimento alto della politica, secondo quella che lui amava definire:"la missione che le è propria: di governare il presente, di sentire il futuro e, presagendolo, di inventarlo".

Roma, 5 novembre 2014

La Ricerca e il Bel Paese (2)

Mentre nel Paese si registra uno scontro tra Governo e sindacati sulle politiche per il lavoro, sull'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e perfino sul diritto di sciopero, c'è una Italia che si confronta sullo stato della ricerca nel Paese. 
L'occasione è stata la presentazione del libro di Lucio Bianco: La Ricerca e il Bel Paese. 
Grande partecipazione di pubblico. Niccolais ha ricordato il nuovo statuto del CNR i rapporti con gli stakeholders e con le Regioni soprattutto sull'utilizzo dei fondi europei e per le infrastrutture con l'obiettivo di produrre conoscenza per spostare la frontiera del paese. 
Non è importante distinguere tra ricerca di base o applicata ma fare buona ricerca. Scienza e Tecnica sono inscindibili. 
Per Novelli con il tempo si è persa simbiosi con l'universitá. È cruciale l'idea della massa critica; non si può fare ricerca senza interdisciplinaritá. Proporre al Paese una strategia Paese mettendo insieme ricerca pubblica e ricerca privata. I fondi della ricerca dovrebbero rappresentare una questione nazionale nell'ambito del ministero dell'economia.

C'è poco reclutamento di giovani, ma senza giovani non v'è innovazione. Se 9.000 giovani sono negli Stati Uniti significa che sono ben preparati. Mentre il nostro Paese non riesce ad attrarli.
Il dato negativo è che non si può ripartire da zero ad ogni cambio di governo. CNR e universitá devono lavorare in simbiosi. Il CNR deve essere incubatore e catalizzatore della ricerca. Credere nei giovani perchè la scienza è motore dello sviluppo.

Giuseppe De Rita ha voluto ripercorrere le vicende degli anni cinquanta e sessanta quando i protagonisti di quegli anni avevano lo stesso progetto per un nuovo assetto del Paese e in economia la creazione di strutture per intervenire superando la concezione del vecchio stato liberale. V'era a sua di nuovo anche creando una agenzia per entrare nella promozione dello sviluppo, lavorando per piani, per centri di propulsione intellettuale, definendo cosa è importante tra ricerca e progresso economico. 
C'era in sostanza una finalizzazione della ricerca a fini collettivi. Quel progetto fu sconfitto perchè la cultura era contraria, così come erano contrari ai comitati nella logica del cavalcalamai. 
Il CNR dovrebbe svolgere azione di agenzia finanziaria, fare ricerca in proprio e incubatore specifico. 
Bianco ripropone il discorso dell'agenzia per fare ricerca orientata. La interdisciplinaritá rompeva il potere delle discipline quando vi è starà una moltiplicazione tanto è che si era arrivati a prevedere 3.400 corsi di laurea.

Maria Chiara Carrozza si è soffermata sulla fragilitá del sistema troppi dipendente dalla politica. Ė mancata la societá che dovrebbe ricordare l'importanza della ricerca. Nella epoca democratica la ricerca è inceppata. V'è frammentazione e fragilitá del sistema al contrario di quanto avviene in altri paesi in cui il pendolo oscilla ma non viene messo in discussione. Il giusto rapporto tra CNR e Confindustria non può essere di dipendenza. È importante l'autonomia. La politica deve programmare le linee di sviluppo. Deve valutare il piano non la ricerca. La scuola di robotica ha avuto le sue radici nel CNR. La ricerca libera ha il suo valore ma i progetti finalizzati servono a rafforzare alcune aree e problemi. Propone di fare gli stati generali della ricerca italiana per fare il punto. 
Per Pietro Greco il progetto di Vito Volterra era quello di dare al Paese un modello di sviluppo legato alle conoscenze modernizzando il Paese.
L'altra missione deve essere il trasferimento economico della conoscenza.

Per Walter Tocci bisogna interrogarsi sulle ragioni del declino. Nel libro c'è tensione. Oggi ci manca la relazione annuale sulla ricerca che dovrebbe essere ripristinata. Ricorda le tre A: autonomia, apertura e adattabilitá. Dovremmo interrogarci sul perchè si è riusciti nel passaggio dalla societá agricola a quella industriale mentre oggi si trovano difficoltá. Nel passaggio dalla societá industriale a quella della conoscenza e quindi manca l'aggancio. Va riconosciuto il tarlo del burocratismo compreso il '68 con appiattimenti ed egualitarismo. Gli anni ottanta sono stati quelli delle occasioni sprecate. La seconda repubblica è stata letale per la ricerca. Scompaiono tre aspetti fondamentali: l'agenzia come strumento di elaborazione delle strategie, la gemmazione delle esperienze. 
L'autore Lucio Bianco ha replicato agli intervenuti. Ha ringraziato per la grande partecipazione. 
Siamo noi che dovremmo ringraziarlo per una full immersion sulla ricerca che conferma che c'è una Italia che guarda al futuro perchè senza ricerca non c'è innovazione e senza innovazione non c'è nè competitivitá nè sviluppo.

 

 

Roma 27 ottobre 2014

La ricerca e il Bel Paese

Questo libro di Lucio Bianco è  la storia del CNR raccontata da un protagonista, che ha vissuto la intera vita professionale all’interno dell’Istituto, fino a diventarne Presidente.  C’è, nella conversazione con Pietro Greco, uno sguardo retrospettivo sull’intero secolo trascorso da cui trarre  ricche indicazioni per il futuro. Lucio Bianco ripercorre non solo le vicende storiche del CNR, le tappe fondamentali, i suoi protagonisti, ma rivendica con orgoglio la sua visione sulla ricerca, sul ruolo, sulla autonomia dell’istituto e le grandi scelte che hanno reso il CNR protagonista di passaggi  fondamentali per lo sviluppo del Paese.
E’ un libro che aiuta a comprendere le vicende italiane sulla ricerca che è momento fondamentale della crescita di un Paese perché senza ricerca non c’è sviluppo.
 L’autore non si accontenta di ripercorrere la storia del CNR, ma si sofferma su tanti episodi  che in qualche modo ciascuno di noi può legare al  proprio punto di vista, alla propria posizione e alle  vicende personali.  Così, da parte mia, sono riandato alle vicende del progetto San Marco, chiamato così perché protettore delle operazioni sul mare. Non quello degli albori degli anni sessanta, ma quello  realizzato più compiutamente negli anni settanta, cui seguì’  il progetto Sirio. Il Generale Luigi Broglio incontrava Giulio Andreotti, giá Ministro della Difesa, Presidente del Gruppo Parlamentare DC lo rendeva partecipe dei progetti. Era indispensabile tessere i rapporti con le istituzioni e con il mondo politico e parlamentare per trovare sostegno al “suo” progetto, così come aveva fatto in passato con Fanfani e La Pira,  che necessariamente doveva avere risorse pubbliche e leggi di sostegno. Anche in quelle vicende  vi fu contrapposizione tra chi sosteneva scelte atlantiche e scelte più europee. Luigi Broglio accompagnato dall’Ing. Piccari era capace di affascinare gli interlocutori, tenendo vere e proprie lezioni,  spiegando la “bilancia Broglio”, usando fogli A4 anzichè lavagne con il gesso. Spiegava la base di lancio posizionata all’equatore, in Kenia, a Malindi perché orbita bassa, perché area pulita da influenze ambientali per facilitare la messa in orbita del vettore, utilizzando piattaforme petrolifere, chiamate Santa Rita,  perché era la santa delle cose impossibili, come poteva sembrare a molti quella impresa,  recuperate dall’Eni, molti materiali recuperati dall’aeronautica,  e  razzi   dalla Nasa come lanciatori. Erano momenti indimenticabili e  ci sentivamo affascinati, coinvolti e partecipi in quell’obiettivo sognato di una presenza italiana nello spazio, frutto della ricerca fatta con pochi mezzi ma con tante idee geniali. Come non riconoscere la lungimiranza di quelle scelte costruite su un accordo CNR e  università di Roma che hanno aperto la strada alla presenza nel settore aerospaziale.  Successivamente diventerá la base dello sviluppo delle reti di telecomunicazioni,  della interconnessione con i collegamenti telefonici e telematici in tempo reale. Da quelle prime pietre della ricerca aerospaziale viene tracciata la strada di Italsat e della presenza nei consorzi internazionali.
Con la lettura del  libro di Lucio Bianco ho ripercorso la vicenda INFN che, per grande intuizione di Antonino Zichichi,  portò alla trasformazione del  buco nelle viscere del Gran Sasso, utilizzato per la autostrada Roma L’Aquila,  in un grande centro di ricerca internazionale dove ricercatori di ogni angolo del mondo  possono portare avanti i loro progetti e le loro sperimentazioni. Quelle scelte sapevano guardare al futuro, ma non avvenivano per decreto, ma con un faticoso iter parlamentare costruito  per il carisma di Zichichi e per l’impegno dei suoi preziosi collaboratori . Ricordo l’Ing. Federici poi prematuramente scomparso,  impegnato nella realizzazione del progetto.
Grandi nomi e grandi idee stanno a significare che nella ricerca, a volte, con il coraggio e la determinazione si possono superare ostacoli insormontabili.

IL CNR ha avuto quindi grandi meriti e responsabilità per la realizzazione di imprese di grane lungimiranza tecnologica e scientifica facendo fare grandi balzi nelle tecnologie per la produzione di servizi di telecomunicazione.
Dobbiamo riconoscere che solo la ricerca pubblica consente di inserirci come sistema paese nelle grandi realtà culturali,  economiche e  industriali del Paese. La linea di fondo del libro di Lucio Bianco è un invito alla riflessione  sul significato della ricerca pubblica che  come gli eventi di questi anni hanno dimostrato  è irrinunciabile per  il futuro del Paese. I risultati raggiunti dal Paese nella chimica, nella fisica, nelle telecomunicazioni per citarne solo alcuni settori, hanno dimostrato che quando il Paese mobilita le risorse umane più ampie e forti è anche in grado di determinare linee di sviluppo vincenti. Poi, purtroppo, si è voluto mettere le mani sulla ricerca del CNR e anziché razionalizzare in meglio si sono provocati danni incalcolabili sia per spinte interne che per pressioni politiche esterne. Soprattutto “la riforma del 1999, quelle che -  come scrive amaramente Raffaella Simili nella prefazione - ha cambiato profondamente la fisionomia originaria abolendo i comitati di consulenza, spezzando la preziosa funzione di cerniera tra i due mondi principali della ricerca italiana, università e CNR”.  “La riforma passò facendo perdere via via terreno al CNR, sottoposto a modifiche, accorpamenti, smembramenti, spesso artificiali, tenuto ostaggio da ministri, commissari, presidenti filo aziendalisti anche in virtù di pesanti tagli sul piano finanziario, profondamente lesivi per la sua missione di ricerca”.
Il libro “La Ricerca e il Bel Paese” sarà presentato lunedì 27 ottobre nell’Aula Marconi del CNR. Ne discuteranno Maria Chiara Carrozza, Giuseppe De Rita, Luigi Nicolais, Giuseppe Novelli e Walter Tocci, coordinati da Rossella Panarese.
Autonomia, interdisciplinarità, internazionalizzazione  sono i capisaldi del CNR.  Recuperando l’idea di Vito Volterra, fondatore del CNR  Lucio Bianco ha cercato di tenerla viva, ma  solo difendendo questi valori sarà possibile giocare le carte del futuro della ricerca.

Roma, 25 ottobre 2014

Bretton Woods

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Nel luglio scorso si è celebrato il 70° anniversario degli accordi di Bretton Woods. 730 delegati di 44 nazioni si riunirono nel New Hampshire per definire su spinta degli Stati Uniti d’America un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale.

Era ancora viva la memoria della dannosa grande depressione, delle politiche di controllo sul tasso di cambio, delle barriere commerciali. Si avvertì la esigenza di governare i rapporti monetari tra gli stati nazionali indipendenti, facendo prevalere i punti di contatto piuttosto che le differenze.

Fu un compromesso tra due progetti: quello di Harry White (USA), che risultò prevalente, e quello del grande economista inglese John Maynard Keynes.

Furono create istituzioni internazionali di supporto come il Fondo Monetario Internazionale, per dare elasticità al sistema, e la Banca di ricostruzione e sviluppo per dare impulso alla crescita e il GATT divenuto poi organizzazione mondiale per il commercio, successivamente trasformato in WTO. Il sistema affermò un sistema di cambi fissi tra valute agganciate al dollaro e quindi all’oro con piccoli scostamenti e riallineamenti e la centralità del dollaro, cui furono ancorati i prezzi delle materie prime e del petrolio. Era un accordo per un sistema aperto e liberista nel solco dei principi di libertà e di democrazia, favorendo la ricostruzione e determinando crescita e sviluppo.

Aveva tuttavia un limite perché non prevedeva un controllo della quantità di dollari emessi permettendo così agli USA di esportare inflazione. Infatti l’accordo va in crisi proprio a causa delle politiche USA, in particolare, a seguito dalla grande espansione degli investimenti produttivi negli anni sessanta, della guerra del Vietnam, in conseguenza dell’aumento della spesa pubblica USA.

Tutto ciò aumentò la richiesta di conversione di dollari in oro che portò alla dichiarazione improvvisa e unilaterale di Nixon del 15 agosto 1971 che sospese la convertibilità. Nixon impose anche soprattasse sulle importazioni in contrasto con le regole del GATT. Il colpo fu immediato se consideriamo che l’Italia nel 1970 collocava negli USA il 10,3 per cento del totale delle proprie esportazioni e per il 3,3 per cento del totale delle importazioni USA. Ne conseguì la svalutazione del dollaro e il passaggio alla fluttuazione dei cambi. Ne derivarono conseguenze successive come gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 con forti squilibri sulle bilance dei pagamenti che portarono alla stagflazione, un intreccio perverso tra inflazione e recessione determinata dalla crisi del sistema monetario internazionale.

Per memoria nel 1980, il 63 per cento degli scambi mondiali erano riferiti per il 44 per cento dell’Europa, per il 12 per cento degli Stati Uniti e per il 7 per cento al Giappone. Queste tre aree “facevano l’economia del mondo” perché concorrevano con l’84 per cento del loro PIL dell’area OCSE e per il 60 per cento alla formazione del PIL mondiale. Il sistema di Bretton Woods fondato sul “gold Exchange standard” aveva perduto la sua condizione di equilibrio affidata ad una ragionevole proporzione tra oro e debiti a breve nei centri emittenti moneta di riserva, negli Stati uniti in pratica, e fra oro e crediti a breve nei centri che accettano moneta di riserva. All’antico International Monetary System – affermò Robert Triffin – è subentrato un International Monetary Non System. Ai mali del sistema mancò una risposta adeguata. Mancò , in sede di FMI, nonostante le raccomandazioni alla vigilia della Conferenza di Copenaghen per introdurre correttivi con l’ampliamento delle bande di oscillazione, più piccoli e pronti aggiustamenti dei tassi di cambio, deviazioni concertate delle parità.

Gli anni settanta hanno rotto gli equilibri mondiali sul sistema dei pagamenti internazionali e con gravi squilibri valutari. Con la quadruplicazione del prezzo del petrolio si spaccò l’economia mondiale, mutando l’equilibrio dei fattori lavoro, capitale ed energia. Da quel periodo iniziavano a manifestarsi squilibri strutturali sulla competitività. La dimensione dei problemi finanziari è riflesso degli squilibri reali e delle pressioni per una diversa distribuzione dei redditi a livello internazionale. Un nuovo assetto monetario internazionale è irrealizzabile se non si affrontano i termini di un nuovo ordine economico internazionale.

La globalizzazione spinta dalla finanziarizzazione ha portato alla affermazione di nuovi Stati e di nuove economie, sulla spinta delle multinazionali impegnate nei processi di delocalizzazione per guadagnare vantaggi di competitività determinata da minore costo del lavoro e pratiche di dumping sociale. Le integrazioni economiche e produttive hanno al tempo stesso rafforzato gli scambi internazionali, l’interdipendenza globale, i legami tra gli stati ed evitato i conflitti. Venti anni di globalizzazione forzata hanno spostato il baricentro dello sviluppo, delle produzioni e degli scambi internazionali con un ruolo sempre più marcato dell’Asia. Nel 2012 la Cina e i paesi asiatici hanno raggiunto il 31,5 per cento del totale delle esportazioni appena inferiore a quello dell’Europa (35,6) . Alla area OCSE si sono progressivamente aggiunte nuove aree economiche come i paesi del Brics ( Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale e il 20 per cento del PIL del globo e i Paesi del Mint (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia ) .

Queste economie emergenti, potrebbero raggiungere nel 2025 il 50 per cento del pil mondiale. Scriveva Charles P. Kindleberger nel 1984 :” il sistema europeo e quello mondiale zoppicheranno per qualche tempo. Alla fine si determinerà una nuova gerarchia. Non è ancora chiaro se sarà l’Europa, gli Stati Uniti o qualche paese ancora ignoto a fornire al mondo il bene pubblico della stabilità monetaria ed economica. Nel frattempo è importante che le nazioni stiano attente a non mettere in pericolo la stabilità della barca.”Lo scorso 15 luglio a Fortaleza, ptoprio in coincidenza con le settimane di luglio del 1944 a Bretton Woods, i Brics hanno dato vita ad una Banca dello Sviluppo con un capitale equamente diviso tra i partners per fronteggiare le crisi finanziarie. Rappresenta una sfida globale perché crea istituzioni in contrapposizione a quelle nate da Bretton Woods, guarda al ridimensionamento degli Stati Uniti e all’accantonamento del dollaro. La decisione non si muove sul terreno della cooperazione fruttuosa tra le aree economiche interdipendenti.

Le pressioni del XX secolo hanno fatto saltare prima il gold standard poi il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods. Restano le preoccupazioni per il sistema monetario internazionale che non procede nel senso della cooperazione ma del conflitto. Sarebbe richiesto soprattutto un nuovo spirito di cooperazione che muova dal ridimensionamento della leadership finanziaria americana affinchè non prevalgano le svalutazioni competitive tra le valute che determinano effetti sulle produzioni e sulla occupazione mondiali. Non va dimenticato che l’interdipendenza gioca in positivo nella fase di sviluppo e in negativo nella fase di recessione. La finanziarizzazione del sistema economico globalizzato e modelli di sviluppo inadeguati rendono fragile l’intero sistema finanziario perché richiedono riforme e regole globali che allo stato sembrano lontane dall’essere realizzate. Il disordine monetario internazionale persisterá fintanto che la contrapposizione tra economie con diritti e senza diritti non porterá a regole condivise e soprattutto ad un accordo per un riequilibrio nel rapporto tra le valute. Non saranno i mega accordi regionali come il TTIP, quello transatlantico e TPP, quello del Pacifico, a rimuovere le cause di una crisi profonda che investe le regole della economia globalizzata.

Oggi sembrano prevalere pericolose logiche di contrapposizione piuttosto che quelle di integrazione.


 

Roma, 19 agosto 2014

Coraggio del passato e ripiegamento del presente

A proposito di mercato del lavoro mi vengono in mente le parole di Nino Andreatta del 1993 allorquando disse che la intermediazione come monopolio pubblico non poteva funzionare e che fosse necessario acquisirla dalle organizzazioni professionali, dalle parti sociali, non dagli uffici burocratici che dimostrano sempre più inefficacia, la loro incapacitá di registrazione notarile e costituiscono un elemento che blocca la diffusione di informazioni essenziale per rendere dinamico il mercato. 
E a proposito del capitale umano e del sostegno a nuove forme di imprenditorialitá - a quelli che oggi guardano oltreoceano, in California, a silicon valley dico io - le grandi imprese della sua cittá erano nate da assistenti di ingegneria, magari con un intervento di 5 o 10 milioni del suocero, cominciando nel garage di famiglia e sono oggi imprese con 1000 - 1500 persone, stabilimenti in Giappone, in Germania, terzo cliente d'Italia, 40 per cento di ingegneri nello staff. Era lo sviluppo della impresa meccanica emiliana. Lo stesso potrebbe dirsi per lo straordinario sviluppo modello adriatico meno meccanico e meno tecnologico, ma più manifatturiero nel settore della moda e del calzaturiero. 
La differenza ora per allora sta in quel differenziale di difficoltá che è l'anima della imprenditoria e che non risiede in posizioni comode ma in scelte coraggiose.

Roma, 7 ottobre 2014

Bartolo Ciccardini

Quello che avrei voluto dire

 

Quello che avrei voluto dire nell’incontro presso l’Istituto Sturzo su Bartolo Ciccardini, mi è rimasto dentro. Non ho potuto farlo perché il programma si era dispiegato oltre i tempi previsti con interventi fuori programma, ma particolarmente graditi, come quelli di Arnaldo Forlani e del suo amico avversario politico Marco Pannella. Tanti hanno voluto essere presenti per partecipare al ricordo. Tra questi Francesco Merloni, Mario Segni, Arturo, Parisi, Dario Antoniozzi, Favia Piccoli Nardelli, Giuseppe Gargani, Angelo Sanza, Adriano Ciaffi, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe Zamberletti, Pietro Giubilo e tanti altri ancora.

Lo storico Francesco Malgeri ha lumeggiato la figura politica di Bartolo ricordando le tappe della sua lunga esperienza politica, di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito, autore di slogan e manifesti elettorali come quello del 1963 “La DC ha ventanni “ direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia, la sua vitalità straordinaria e la curiosità ai mutamenti. Autore di significative riflessioni religiose sulla presenza dell’uomo nel mondo. Poi le esperienze recenti di direttore della rivista culturale on line Camaldoli.org, di animatore dei partigiani cristiani, ribelle per amore. Per Gerardo Bianco che fa risalire il primo incontro con Bartolo alla Cattolica di Milano nel 1952 Ciccardini era un “vulcano in continua eruzione”. Era esponente di quella generazione degli anni venti protagonista della storia della DC. La loro amicizia profonda ha trovato espressione nel libro viaggio nel Mezzogiorno configurato come lettere a Gerardo Bianco, ma ora quel postino che ha recapitato tante lettere di Bartolo ora non suonerà più.

Poi il vecchio leone politico Marco Pannella ha voluto essere presente e parlare perché è certo che avrebbe fatto piacere a Bartolo. Ha ricordato le sue battaglie con la sinistra liberale, la sua amicizia antica e il suo impegno costante a ricercare la storia delle madri, dei padri e dei figli senza distinzioni. Si è abbandonato a citazioni storiche rivendicando con orgoglio e ricordando la vicenda Parri e quella verso De Gasperi.

Alessandro Forlani ha ricordato gli ultimi tragici momenti vissuti insieme a parlare di politica con una grande preoccupazione per il Paese, ma con uno sguardo ancora al futuro e ainiziative rivolte alla città di Roma, che dovevano coinvolgere il Vicariato e le parrocchie E’ stato maestro di più generazioni per un approccio alla vita pubblica. Ha dato i rudimenti del mestiere a tanti giovani con gli incontri a Sant’Ignazio e al Terminillo. Sapeva introdurre sempre elementi innovativi.

Giovani Bianchi ha voluto ricordare la battaglia condotta con i partigiani cristiani e la grande amarezza che aveva avuto nel mancato riconoscimento. Ciccadini apparteneva alla categoria degli anomali, degli irregolari di genio, quelli che legavano i partiti con i territori, con i corpi intermedi. Voleva sottrarre la Resistenza alla epopea e farla capire alle nuove generazioni. Di qui le iniziative per i 400 sacerdoti uccisi, per Suor Teresina, per la battaglia della Montagnola per Dossetti e la Resistenza, per il 70° del Codice di Camaldoli.

Per Arnaldo Forlani, Bartolo Ciccardini è morto con i giovani. Per onorarlo sarebbe bene dare vita ad una casa editrice con una collana editoriale che riprenda la esperienza delle 5 Lune. Non tutti erano giovani come Bartolo che sapeva stare con i giovani.

 

Luciana Castellina ha voluto mandare un ricordo scritto per testimoniare il dialogo tra giovani DC e giovani comunisti attraverso gli organismi universitari. Nei giorni della famosa legge truffa litigarono lungo Corso Vittorio ma in realtà erano più d’accordo di quanto apparisse. “Con lui - ricorda Luciana Castellina - se n’è andato un pezzo della storia della mia generazione, oltreché un grande amico: il solo amico democristiano!”

Avrei voluto tratteggiare l'aspetto umano, quello della persona, le telefonate, le mail, i commenti, i giudizi, i programmi, le idee, le iniziative. Sapeva guardare ad orizzonti lontani. Il Ciccardin parlamentare, uomo di vasta e profonda cultura. Quello che avrei voluto dire è che Ciccardini non voleva essere protagonista. Sapeva essere discreto. Preferiva fare il soggettista sceneggiatore, stare dietro le quinte, scrivere il copione. Non voleva la ribalta. Altri dovevano essere i protagonisti. Per il 70° di Camaldoli volle filmare l’evento nonostante un braccio ingessato. Rimase piacevolmente sorpreso della straordinaria partecipazione ad un evento che si tenne nel pieno di un torrido mese di luglio. Non si accontentava del sito, voleva una diffusione larga anche per coloro che non poteva essere presenti nelle sale della Camera. E la diretta streaming lo riempiva di gioia. E’ mancato pochi giorni prima della commemorazione del 15° anniversario della scomparsa di Livio Labor. Era l’occasione per fare il punto su un particolare momento storico quello della scissione delle Acli agli inizi degli anni settanta che per lui vecchio aclista fu una ferita non rimarginata. Voleva illuminare la storia con i protagonisti degli eventi. Bartolo Ciccardini inizia il suo percorso parlamentare con le elezioni del maggio 1968. Interviene alla Camera il 28 aprile 1970 sulla legge istitutiva del Referendum che marciava parallela alla legge sul divorzio. Lì, in quell’intervento c’è tutto Bartolo. Quel discorso racchiude e anticipa le indicazioni e le scelte degli anni successivi fino ad oggi. Riteneva necessario rendere viva la Costituzione allo sviluppo storico del Paese. Poneva la esigenza si una legge adeguandola allo spirito della Costituzione. Riteneva il referendum come mezzo necessario per integrare il Parlamento e come mezzo di allargamento della vita democratica. Si sofferma sul ruolo dei partiti. Anticipa di venti anni la elezione diretta del sindaco e la difesa delle autonomie locali non in una visione percentualistica delle forze politiche. Con il proporzionale che era nato nel 1919 votiamo i numeri invece che i nomi. Interviene sul bilancio interno della Camera, sollecitando il Presidente Pertini, affinchè i pannelli che ornano l’Aula riportino i risultati del referendum Istitutivo della Repubblica frutto della Resistenza. Era un simbolo, ma che simbolo.! Vedeva scarsa attenzione per Roma Capitale e il rischio che Roma divenisse il gorgo in cui si perdono i deficit. Propone un asse attrezzato lontano dal centro storico anziché la concentrazione della città della politica. Non voleva il privilegio del permanente ferroviario, ma i mezzi per il contatto con l’elettorato. Richiamò ben 25 anni fa perfino il ruolo costituzionale del Cnel, che solo oggi viene cancellato. Vede i rischi del procedimento legislativo con continue incomprensibili norme di rinvio che defini un “Olimpo giuridico che il popolo non capisce”.

Potrei dire e scrivere molto altro. Mi fermo qui. Resta il ricordo di una persona che sapeva coinvolgerti anche in progetti difficili. Niente riteneva insuperabile. Apparteneva appunto a quella generazione degli anni venti formata nella Resistenza, nelle difficoltà della guerra e del dopoguerra, nella faticosa ricostruzione, negli anni del contestazione giovanile e poi nel terrorismo e vedeva la necessità di adeguare il sistema istituzionale nel solco della Costituzione. Un ribelle per amore. L’Istituto Sturzo gli ha dedicato il giusto tributo in quella che Bartolo Ciccardini considerava la sua casa, il luogo del confronto delle idee senza pregiudizi.

 

Roma, 1 ottobre 2014

 

La nebbia del potere

 

Nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto è stato presentato l’ultimo libro di Marco Follini “La nebbia del potere” per i tipi di Marsilio. Sarebbe stato un evento che avrebbe stimolato Bartolo Ciccardini con Camaldoli.org e un ampio dibattito sulla rete. Lo facciamo lo stesso perché non basta un twitter per raccontarlo. V’è stata una larghissima partecipazione di pubblico. La qualità del panel dei protagonisti del dibattito spingeva alla presenza insieme al desiderio di capire se è il momento di accendere i fendinebbia, se inserire gli airbag o aspettare passivamente che la nebbia si diradi. Aleggiavano nella sala gli effetti del duro editoriale direttore del graficamente rinnovato Corriere della Sera verso il Presidente del Consiglio titolato “il nemico allo specchio”.

Antonio Polito ha svolto il suo ruolo di moderatore stimolando efficacemente il dibattito ponendo in apertura la questione centrale della crisi della democrazia che pone fenomeni profondi sanati da figure che saltano la intermediazione. Giuseppe De Rita ha riconosciuto a Follini di avere prefigurato con largo anticipo la attualità con una serie di precise affermazioni recuperate dalle pagine di un libro letto e riletto. Siamo di fronte ad un potere abile propagandista di se stesso. La analisi di De Rita si è concentrata su tre punti: l’idea del rapporto tra politica verticale e orizzontale; il rapporto tra società civile e politica e il rapporto tra politica e opinione pubblica. Oggi si parla alla gente con il gestismo, ma la politica italiana è stata gentismo. Ricorre alla citazione di un episodio del 1973 ,quando Moro disse che la politica deve essere capace di orientare e Andreotti rispose che la politica non deve orientare ma rassomigliare. Orientare significa pensare e riflettere. Questa contraddizione non è stata risolta né da Craxi né dal Berlusconismo con i vari tentativi di assomigliare alla società. Sulla scarsa capacità di mettere insieme verticalità e orizzontalità cita l’episodio storico dei duemila morti di Venabro. La Democrazia Cristiana aveva rimosso il desiderio di verticalità. Oggi si fa fatica a orientare il policentrismo, ma anche la Chiesa è policentrica. La crisi della società derivava dal suo policentrismo che nessuno sa governare. Infine il rapporto tra politica e società civile si è ridotto perché tutti alla fine girano interno al Palazzo per cercare di entrarci. Per De Rita la crisi del potere è che il cambio di politica diventa cambio di regime e che non sappiamo cambiare il corso delle politiche. Abbiamo tutti paura del vuoto che è il problema del Paese fino a diventare una condanna italiana.

Gerardo Bianco che come presidente della Associazione ex parlamentari aveva promosso la iniziativa riconosce a Follini il merito di invitarci a riflettere con una analisi del potere. Cita Ovidio. Sposta il dibattito sul potere esercitato della DC che era inclusivo, fino a criticare la lettura impropria del doppio Stato e la sostituzione progressiva dei poteri con il passaggio dalla società liquida di Bauman alla liquidità del potere. Una società non regge se non ripensa al rapporto tra etica ed economia e etica e democrazia, se non recupera valori e tradizioni, se la politica non diventa eco prima di orientamenti e indirizzi. Bianco non perde la occasione per fare un riferimento alla prima repubblica quando il potere era ancora più disarticolato eppure fu momento di slancio perché c’erano valori di civiltà italiana, elementi morali forti, classe dirigente che guardava al potere come momento di elevazione. Per Bianco non si può recedere nelle piccole patrie recuperando un pensiero forte. Walter Veltroni riconosce a Marco Follini il segno di una passione politica. Ricorda il suo discorso del Lingotto del 2007. E’ un libro dedicato al potere che non necessariamente coincide con la democrazia. Sposta l’attenzione sui tempi atipici che viviamo in cui c’è qualcosa di più profondo che la contingenza politica italiana citando casi internazionali come il semipresidenzialismo francese e la crisi spagnola. Riconosce la crisi dei meccanismi decisionali. La sua visione del mondo lo porta a guardare anche al superamento della stagione dei blocchi, al nuovo quadro internazionale e alla affermazione di strutture sovranazionali. Va in soccorso di Renzi riconoscendo in modo semplificatorio che questo è il tempo di Tweet e non quello del latino. Per Veltroni la democrazia deve essere rapida, trasparente, decidente perché senza se e senza ma c’è solo la legalità. Poi è intervenuto Ferruccio de Bortoli con eleganza di linguaggio e il consueto garbo soffermandosi sul rapporto tra politica e comunicazione, senza rinunciare ad entrare sul rapporto tra potere ed economia in virtù del suo bagaglio di giornalista economico. Vede in questo libro di Follini un atto di amore verso la politica; il libro fa riflettere perchè analizza il rapporto tra leader e potere politico e arriva alla affermazione che quel rapporto della prima repubblica merita di essere riletto. V’è il rischio che il destino del leader coinvolga il partito nella sua interezza. Si sofferma sulla estetica del potere per come si presenta alla opinione pubblica. La pubblica opinione ha finito per avere troppo amore o eccessivo odio. De Bortoli ritiene interessante una autocritica dei mezzi di informazione sul fenomeno della antipolitica. Prende atto della modernità che viviamo con la rete e i social network, che la politica cavalca ma che ha anche il dovere di mettersi contro le correnti della rete. La politica non deve semplificare perché i problemi non hanno soluzioni semplici. Una politica saggia sa usare gli strumenti della modernità senza farsi catturare. La popolarità non può essere scambiata per consenso. IL rapporto con il pubblico deve essere guardato con i mutamenti. Siamo tutti un po’ surfisti tendendo ad aggirare gli ostacoli piuttosto che saltarli e avere saltato i corpi intermedi ha indebolito la politica. Per De Bortoli non esistono i poteri forti e la tematica non ha grande consistenza. Il Direttore del Corriere riconosce che Mediobanca del passato era più forte e che quei poteri erano più internazionali di oggi. Riconosce anche che la qualità delle persone del passato era superiore. In risposta a Bianco dice che chi non lascia le proprie memorie corre il rischio che vengono riempite da altri. E’ quasi un invito a scrivere una storia della DC. Certamente gli uomini del passato aveva una idea di Italia. Oggi come nella politica c’è perdita di peso specifico, altrettanto si manifesta nell’economia. Le privatizzazioni non devono essere fatte da corsari ma da imprenditori seri, non da chi guarda a profitti di breve termine.

Marco Follini ha replicato agli intervenuti. Per Follini la politica è contesa tra idee e non tra persone.

La politica non è un derby tra vecchio e nuovo. Fa una previsione che è anche scommessa sulla fortuna degli storici revisionisti.

Guarda con preoccupazione al giovanilismo politico ricordando che ai temi della legge Acerbo i deputati avevano meno di quaranta anni e l’ottanta per cento erano entrati alla Camera per la prima volta. La politica è la organizzazione della convivenza. Ha voluto ricordare il suo maestro politico Aldo Moro con un particolare inedito dello statista pugliese. Moro era un uomo che portava sia la cinta e che le bretelle quasi a significare che il potere deve avere attitudine alla prudenza e alla saggezza.

Un bellissimo pomeriggio di politica nel Palazzo per accendere insieme fendinebbia e airbag sul potere prendendo esempio da Aldo Moro perché la nebbia del potere rischia di mandare fuori strada il Paese.

 

Roma, 25 settembre 2014

 

 

Il video messaggio del premier Matteo Renzi e la colonna di Marco Aurelio

Il Premier con un video messaggio ha cancellato d'un colpo le cronache giudiziarie e lanciato il guanto di sfida alla CGIL. Una operazione mediatica in stile berlusconiano. È cambiata la location. Via i segni del poteri come telefoni, tavoli presidenziali arredi barocchi solo il mezzobusto in camicia bianca, le bandiere sulla destra e sullo sfondo la piazza Colonna che doveva rappresentare il popolo però senza popolo. In grande evidenza la colonna di Marco Aurelio con la sua straordinaria bellezza. Il Premier Matteo Renzi però sembrava apparire quasi alla altezza del basamento della colonna piuttosto nel suo alto ufficio presidenziale. La colonna è infatti alta 42 metri corrispondenti a 100 piedi romani. Fu costruita per celebrare le vittorie di Marco Aurelio sulle popolazioni germaniche tra cui i Marcomanni. Oggi forse la si vuole indicare come inizio e simbolo della guerra ideologica tra governo e CGIL in nome di nuove regole sui diritti dei lavoratori per avere quella flessibilitá che l'Unione vuole subordinare alle riforme. Purtroppo la vicenda dell'articolo 18 non riguarda solo il PD. La tutela dei diritti ci coinvolge tutti. 
Quello che è inaccettabile è la forzata alimentazione dello scontro fine a se stesso con l'illusorio fine di dare tutele crescenti per taluni quando invece diventeranno decrescenti per tutti.

Roma, 20 settembre 2014

Renzi fa appello all'unitá del PD

In una settimana pirotecnica che ha visto il vertice Nato, le polemiche su Cernobbio, lo scontro sul blocco contrattuale della PA, le tensioni con il comparto sicurezza, la polemica di Rosy Bindi sulla selezione della classe dirigente, il Segretario del Pd ha chiuso i lavori della festa del partito a Bologna con un appello all'unitá. Al vertice Nato Renzi ha riferito di avere accantonato il paper dell'ambasciatore per fare una riflessione politica. Immaginatevi la scena: i partner dell'alleanza hanno chiesto di aumentare sul 2 per cento le spese militari!
Quei vertici non sono come le direzioni del Pd. Rosy Bindi ha posto il problema delle nomine dei Ministri per merito e non per bellezza. Siamo lontani dalle posizioni di Rosy Bindi ma non si può riconoscere che ha fatto battaglie politiche, condivisibili o meno ma i galloni se li ė conquistati sul campo. Ha posto coraggiosamente una riforma sanitaria che prevedeva il tempo pieno per i medici ospedalieri. Lo stesso non si può dire per molte nominate e cooptate sia di centrodestra che di centrosinistra.

Il Presidente del Consiglio si è reso conto delle difficoltá che deve fronteggiare nell'azione di governo nella previsione della revisione del Documento di Economia e Finanza e nella predisposizione della Legge di Stabilitá. La cessione di sovranitá indicata da Draghi può essere declinata in tanti modi. Può riguardare l'agenda dei provvedimenti, le relative prioritá in particolare, una accelerazione sul Job Act e sulla ristrutturazione dell'apparato pubblico nel segno della linea indicata da Bruxelles e da Cottarelli.

 

Sono previste misure dolorose che richiedono un consenso ampio a cominciare dal suo partito. Di qui la sua apertura. Ma essa appare tardiva perchè proposta quando tutto è giá stato deciso e soprattutto quando la linea Renzi non può essere messa in discussione nelle scelte di fondo.
 

C'è una immagine che da il senso di un alibi ricercato da Renzi. La sua presenza solitaria sul palco di Bologna. Ha rivendicato il successo delle europee. Tutta la classe dirigente fuori dal palco, collocati in platea, quasi a significare one man show.
Poi il patto del tortellino con i leader socialisti europei ha sugellato la collocazione internazionale del PD nella famiglia socialista, ma il piatto sará stato indigeribile per i tanti post democristiani del partito democratico.


Per molti esponenti del PD il problema non ė dare sostegno alla linea politica ed economica renziana, ma l'accettazione o meno del metodo renziano che cancella il dna del partito e lo fa diventare una altra cosa, quella che fino a ieri hanno sistematicamente avversato.


Roma, 7 settembre 2014

Il ruolo dei cattolici di fronte al governo Renzi
 

Anche settori del Paese che hanno entusiasticamente sostenuto il Governo Renzi si stanno accorgendo delle difficoltá in cui si muove l'Esecutivo nell'affrontare i problemi reali. Non bastano le politiche di annunci per rimettere in moto la economia e vincere la grave disoccupazione. I numeri del decreto sblocca italia sono stati fortemente ridimensionati, le attese deluse.

 

L'articolo 18 sul mercato del lavoro all'interno del Job act, è stato messo sul binario morto. Non vi è stata la stessa determinazione usata per altri provvedimenti. La tenuta del partito democratico viene considerata prioritaria rispetto a scelte difficili, ma irrinunciabili. Il monocolore Renzi sta dimostrando tutta la sua debolezza e appare incapace di intervenire sui nodi dell'economia, da ciò che può liberare risorse per investimenti pubblici e privati, domestici e internazionali, i soli in grado di ridare corpo alle produzioni e ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile.

 

Sembrano prevalere logiche di cessione di gioielli di stato o partecipazioni importanti per fare cassa senza alcuna visione strategica per il Paese. Questa premessa era indispensabile per chiarire meglio cosa si sta muovendo nell'area di centro. V'è la consapevolezza di ritornare in campo con vigore per recuperare spazi politici desertificati. Il punto di aggregazione economico e sociale sta nella centralitá dei valori del popolarismo inteso come attenzione ai ceti medi produttivi, alla giustizia sociale, alla economia sociale di mercato, al contrasto alle ingiustizie e alla attenzione più marcata verso i più deboli. Il punto di aggregazione politico sta nella convergenza con quelle forze che rifiutano il disegno di riforma costituzionale e la legge elettorale portata avanti dal governo Renzi che per bloccare il sistema va contro i principi di rappresentanza e dunque contro la nostra storia. Questo va detto con chiarezza. Il punto di convergenza è nella opposizione al Governo. Non vi possono essere nè dubbi nè incertezze. Qualsiasi aggregazione del tipo costituente popolare che si fondi solo sulla sommatoria algebrica di parlamentari che non hanno più alcun consenso popolare - come dimostrato dalle elezioni europee - rappresenterebbe solo un tentativo di precaria sopravvivenza legata a logiche di potere e dunque priva di prospettive.

 

Il CDU si sta muovendo in questa direzione con grande limpiditá e determinazione. Si stanno ritrovando entusiasmi; si stanno trovando significative convergenze e aggregazioni che si possono consolidare solo con chi non è corresponsabile di scelte sbagliate che stanno accentuando la deflazione e aggravando i problemi del Paese.

Non è più tempo di annunci ma di scelte forti e responsabili.

 

Roma, 1 settembre 2014

POPOLARI,

NASCE IL COORDINAMENTO DEI MOVIMENTI CHE FANNO CAPO AL PPE

 

Mario Mauro (Popolari per l’Italia), Maurizio Eufemi (Cdu), Ettore Bonalberti (Alef-Associazione Liberi e Forti) e Publio Fiori (Rinascita Popolare) hanno deciso in un incontro a Roma di dare vita alla Confederazione dei Popolari Italiani. All’incontro ha dato la sua adesione anche Gianni Fontana, a nome dell’associazione Democrazia Cristiana e Luigi Baruffi a nome della Federazione nazionale dei Partiti regionali Democristiani. La riunione dà seguito a un lavoro già avviato da mesi con molte altre organizzazioni, associazioni , movimenti e gruppi dell’area popolare e di ispirazione democratico cristiana.

 

I partecipanti si sono impegnati a firmare un documento politico per la costituzione formale della Confederazione dei Popolari Italiani e hanno dato mandato al senatore Mauro di rappresentare in Parlamento e presso il governo i temi emersi nella riunione. Un lavoro che sarà accompagnato da iniziative unitarie delle diverse realtà associative in tutte le regioni italiane, quali tappe di un confronto preparatorio in vista di una grande assemblea dei popolari italiani da tenersi entro la fine dell’anno.

 

Gli intervenuti hanno espresso posizioni comuni sulla grave crisi economica e sociale in cui versa il Paese, anche alla luce dei recenti dati sulla disoccupazione e della certificata deflazione."Una realtà ben diversa - secondo i partecipanti alla riunione - dall’ottimismo di maniera quotidianamente rappresentato dal governo Renzi, che rischia di creare una situazione insostenibile  per una maggioranza sempre più ridotta a un monocolore PD".

 

"La Crisi economica e sociale ha causato la rottura dell’equilibrio tra il ceto medio produttivo allo sbando e le classi popolari più direttamente colpite dalla crisi, ad essa si è accompagnato il tentativo pericoloso sul piano della tenuta democratica del sistema risultante dal combinato disposto riforma del Senato e sistema elettorale. Si tratta - hanno affermato i partecipanti alla riunione - di elementi assolutamente incompatibili con il patrimonio di interessi e di valori rappresentati da sempre in Italia dal movimento dei cattolici e  dei popolari sturziani e de gasperiani".

I Bronzi di Riace

Le polemiche di questi giorni dimostrano la incapacitá di affrontare una questione culturale come quella dei Bronzi di Riace senza pregiudizi e strumentalizzazioni ideologiche.
Non vi è dubbio che bisogna cogliere l'occasione dell'Expo 2015 di Milano per catalizzare l'attenzione dei visitatori sulle ricchezze culturali del Paese. Perchè non legare i temi dell'Expo anche alla storia dell'uomo nel corso dei secoli abbinandola ai percorsi culturali e artistici? Non vi sono ostacoli tecnici al trasporto come ha dimostrato la mostra al Quirinale realizzata per impulso del Presidente Pertini e come ha ricordato saggiamente Vittorio Sgarbi. Perchè non legare il prezzo del biglietto ad una partecipazione agli incassi anche per tutte le opere messe a disposizione dei Poli museali? Sarebbe uno straordinario momento di marketing culturale che determinerebbe un successivo grandioso ritorno in termini di visitatori nelle cittá d'arte e nei musei del nostro paese. Perchè non promuovere fin d'ora - come proposi nel 2005 per le Olimpiadi di Torino del 2006 - una lotteria Expo 2015 per mobilitare risorse aggiuntive da destinare ai restauri dei monumenti. Ebbe un tale successo che il Tesoro mise un limite di destinazione per le entrate. Lo stesso potrebbe essere fatto per lotterie istantanee come i Gratta e vinci inserendo tra i premi anche tessere di accesso permanente ai monumenti per le cittá d'Italia.
Sarebbe un coinvolgimento globale verso il nostro Paese.

Per fare questo non c'è tempo da perdere. Occorre abbandonare i pregiudizi e attivare iniziative. C'è bisogno del fare.

Roma, 24 agosto 2014

Il feeling con il ragazzo e il ragazzotto

 

Oggi, la voce del Quirinale, Marzio Breda, ci informa di un feeling forte tra Palazzo Chigi e il colle e che il premier è padrone dell'agenda, ma viene invitato a riflettere sulle prioritá, senza mettere troppa carne al fuoco come rischierebbero di essere le cinque riforme politico istituzionali che diventerebbero fuochi ingestibili. Come dire c'è feeling ma deve essere affidato alla saggezza e sapienza del Quirinale se vuoi superare gli ostacoli che hai di fronte e che si chiamano innanzitutto controllo dei conti attraverso Padoan ed Unione Europea attraverso la Bce e la visita informale a Cittá della Pieve.

Non a caso il vero problema politico posto con intransigenza da NCD con l'articolo 18, che rischiava di diventare terreno di scontro nella maggioranza, è stato prontamente sminato collocandolo nell'ambito della riforma dello statuto dei lavoratori, in un percorso meno accidentato come è una legge delega, dunque fuori dalla attualitá. La posizione è stata ribadita con una intervista al Ministro Poletti che allontana ogni pericolo presente spostando l'attenzione sull'articolo 41 e 46 della Costituzione.

Se dalle prime pagine del Corriere ci spostiamo a quelle più lontane delle idee e degli approfondimenti troviamo un interessante Mauro Magatti che analizza la lenta metamorfosi del PD dal partito di Berlinguer a quello di Renzi, un partito sopraffatto dal successo personale del suo leader. Magatti arriva alla conclusione (riferita al ragazzo) che la volontá di cambiamento che a parole tutti professano - riferita a statuti, bilanci e democrazia interna dei partiti - è solo apparente se è proprio chi dichiara di volere rinnovare l'Italia a non volersi o non sapersi rinnovare.

Alle riflessioni di Magatti aggiungiamo quelle di Ostellino, per il quale, riprendendo una intervista di Renzi ad un quotidiano inglese: " continueremo ad abbassare le tasse" secondo il quale, il ragazzotto è a tal punto abituato a confondere il fare col dire che lui stesso è prigioniero delle proprie chiacchiere dá per fatto ciò che non neppure detto e, forse manco pensato. La amara conclusione di Ostellino è che Renzi si rivela così più che un fenomeno innovativo, un caso di regressione, un tardo figlio della prima repubblica , furbo e cinico, e della cui vocazione democratica a né osare francamente lecito dubitare. Un tipetto su cui contare con molta cautela. ...

Mi fermo qui. Viene da domandarsi se Marzio Breda abbia letto oggi gli articoli a pagina 33 del Corriere.

Uscire dall'immobilismo

 

Corrado Passera con un intervento sul quotidiano Libero ha gettato un sasso nello stagno della politica. Ha innanzitutto richiamato l'attenzione sulla gravissima situazione economica anche per la sottovalutazione dei responsabili di governo.

Nella sua ferma presa di posizione vi sono alcune indicazioni condivisibili.

In particolare la scelta strategica di guardare innanzitutto al progetto Paese piuttosto che a riforme costituzionali che non favoriranno partecipazione e governabilitá. V'è il rischio di perdere tempo prezioso con il rischio di aggravare le criticitá domestiche.

È condivisibile la critica che muove a Renzi sull'eccesso di comunicazione e quindi di populismo che cancella i corpi intermedi e le formazioni sociali.

Traccia linea di azione che possono trovare convergenze soprattutto quando individua i valori liberali e popolari, insisto autenticamente popolari, che riconoscano la famiglia come centrale per un nuovo Welfare di comunitá, come terreno di nuove aggregazione per elettori delusi e che non vogliono arrendersi ad una situazione politica bloccata e paralizzante che impedisce il flusso di energie nuove.

Il cdu nei suoi documenti e nelle sue recenti riflessioni interne ha formulato proposte che trovano riscontro in alcune indicazioni espresse da Corrado Passera.

Si tratta ora di mettersi alla stanga per non rassegnarsi ad un pericoloso immobilismo.

La sfida politica va condotta sul terreno della politica e dunque sui programmi con la gente e tra la gente, come noi del Cdu facciamo ogni giorno.

 

Roma, 16 agosto 2014

M.Tassone:   il nuovo simbolo del CDU

 

Il Consiglio nazionale del CDU ha scelto all’unanimità il nuovo simbolo del partito, raccogliendo indicazioni e valutazioni,attraverso un sondaggio durato più di un mese, di iscritti e simpatizzanti.

Il Consiglio nazionale presieduto dal Senatore Iervolino si era aperto con una relazione del Segretario nazionale del Partito Onorevole Tassone, sull'attuale situazione politica del Paese, confermando le decisioni congressuali che vedono il CDU come un punto di riferimento per una vasta area di formazione politica, culturale, liberale laica e riformista accomunata da un impegno di difesa dei principi della democrazia e libertà del nostro Paese. Non ci possono essere scorciatoie per risolvere i problemi economici. In particolar modo, il Segretario ha affermato che il paese non attende riforme costituzionali che compromettono gli equilibri della democrazia e mettono in discussione il ruolo insostituibile delle rappresentanze democratiche. Legare la riforma del Senato della Repubblica alla vandea dei costi della politica piuttosto che ad una ridefinizione dei poteri del parlamentarismo è demagogico e fuorviante rispetto alla prospettiva di creare istituzioni efficaci ed efficienti che diano risposte ai cittadini ed è un atto di affievolimento della "demos-kratia".Le grandi questioni su cui bisognerebbe operare sono la modifica dell'articolo 81 della Costituzione,  riportandola alla sua stesura originaria e quindi eliminando il pareggio di bilancio,  la soppressione  di gran parte delle authority indipendenti,  un'anomalia,  una dispersione di risorse enorme e con assolutamente nessuna utilità sostanziale, il ripristino dei controlli reali sulle regioni e  sui comuni,  la riforma della elezione dei Presidenti delle Giunte regionali e dei Sindaci,  con la previsione della sopravvivenza  degli organi assembleari anche in presenza delle dimissioni di Presidenti di giunta e Sindaci,  una lotta reale all'evasione,  una rivisitazione della struttura dell'articolazione delle competenze della Corte dei Conti,  una politica per il credito attraverso un impianto che controlli gli  istituti bancari impegnati alla raccolta di liquidità e scarsamente propensi ad aiutare le attività produttive,  una politica di reale risanamento economico,  abbattendo i  monopoli delle aziende municipalizzate, di  enti del parastato che sfuggono ad ogni più  elementare controllo sul piano economico.  Una forte spinta quindi per l'occupazione attraverso provvedimenti lineari e non complessi di difficile applicazione, con risultati quindi, nulli.

 

Roma, 30/7/2014

Per riprendere il cammino...

Ieri in una torrida giornata di luglio ci siamo ritrovati per riprendere un cammino... Per rigenerare la politica, per  non arrenderci alla irrilevanza politica.
Natale Forlani ha svolto una penetrante relazione introduttiva per ridefinire una linea nel solco del pensiero della dottrina sociale partendo dalle cause della crisi che viviamo e dalla somma degli squilibri ( demografici, territoriali, debito pubblico)  che per il nostro paese diventano fattori di debolezza sistemica. Ho raccolto  alcune indicazioni che porto alla riflessione comune.  Di fronte alla crisi che impone sempre maggiore disintermediazione tra Stato e cittadino, v'è stata la azione di supplenza delle famiglie come ammortizzatori sociali e dell'associazionismo. Le risposte finora offerte sono inadeguate perchè hanno determinato maggiore spesa pubblica e pressione fiscale. V'è stata una progressiva affermazione dei diritti individuali con una esaltazione del relativismo e conseguente marginalizzazione della famiglia come entità. L'offerta politica si  è incanalata nel populismo trovando legittimazione sull'antipolitica. Non rinunciamo a praticare la politica su basi nuove perseguendo l'obiettivo di riaggregare ripartendo dal fallimento di Todi 1 e di Todi 2 perchè non ci può essere una societá civile che sostituisce la politica.
Dobbiamo ripartire da una idea dello sviluppo economico in cui si affermi il pluralismo nel sistema delle imprese siano esse capitalistiche, sociali e di forma cooperativa, per recuperare un ceto medio produttivo oggi marginalizzato.
V'è stato un ampio dibattito. Sono intervenuti ben 14 rappresentanti di associazioni e movimenti, tra gli altri Sergio Marini, Giorgio Guerrini, Mario Tassone, Ivo Tarolli, Floris, Alessandro Forlani, Carmagnola.  Si è deciso di rivederci a fine settembre per uno step ulteriore. Si è deciso di creare due gruppi di lavoro: uno sulla identitá e uno sul progetto paese. Apriremo il confronto on line per arricchire il dibattito con il contributo di quanti vorranno partecipare alla elaborazione dei documenti secondo le proprie sensibilitá.

P.s. Nel mio intervento ho sottolineato come una crescita dello 0,2, sul 2014, aggravata da ulteriore caduta degli investimenti,  peraltro precaria non consente di dare risposte alla crisi occupazionale soprattutto giovanile. Proprio rispetto alla analisi di Natale Forlani le risposte del governo sono inadeguate perchè non si affronta il problema del debito pubblico e manca una strategia di politica industriale. Assistiamo infatti alla acquisizione di importanti pezzi di apparati industriali che vanno da Indesit-Whirpool a Ducati, da Garofalo a Elettrolux. Queste operazioni sono più salvataggi o ristrutturazioni di multinazionali nella globalizzazione piuttosto che investimenti diretti capaci di generare nuova occupazione. Ho manifestato altresì preoccupazione per il disegno di riforma costituzionale che riduce i principi della rappresentanza e del pluralismo e comprime il ruolo e la funzione dei corpi   inintermedi quelli delle formazioni sociali.
Possiamo e dobbiamo ritrovare una identitá e una visione d'insieme senza farci contagiare dal qualunquismo. Dobbiamo avere il coraggio di uno sguardo lungo  e di un pensiero forte.  La nostra risposta deve essere coesione, rinunciando e sacrificando ciascuno in qualcosa,  per evitare di essere spettatori di una partita giocata da altri.

REFERENDUM STOP AUSTERITY

Oggi in Piazza Fiume in Roma, una torrida giornata estiva, con punte di 35 gradi, ho convintamente firmato per i 4 referendum sulla legge che ha recepito il fiscal compact e per cambiare la politica economica dell'Unione Europea finalizzati allo stop all'austerità, si alla crescita, si alla Europa del lavoro e per un nuovo sviluppo. Gli strumenti di democrazia diretta che il governo Renzi vuole comprimere elevando sia il quorum necessario per promuoverlo, così come ha alzato il numero delle firme per le proposte di legge popolari devono essere salvaguardati perchè rappresentano un modo efficace richiamare l'attenzione dei cittadini su temi che possono sembrare lontani, ma che incidono sulla carne viva del Paese. Se non vogliamo che le decisioni di politica economica sia guidate dal pilota automatico o dal navigatore di marca tedesca dobbiamo costringere i responsabili del Governo a misurarsi sulle questioni di fondo. Non dobbiamo essere sazi di democrazia per la quale hanno combattuto i padri costituenti.

Maurizio Eufemi


Nota di Mario Tassone    A proposito dell'emendamento Tosato alla Assemblea Costituente


Il mio amico Maurizio Eufemi commentando la proposta di riforma per l'elezione del Presidente della Repubblica fatta da Casini, che riprende un emendamento avanzato nell'assemblea costituente da Tosato, ricorda che contro tale emendamento votarono ,fra gli altri, Ruini e Moro. Il richiamo ad Aldo Moro non credo che possa creare difficoltà di alcun genere in P.F. Casini, impegnato a scrivere la sua storia .

Casini propone di allargare la platea degli elettori ai deputati europei italiani, fissare una soglia alta non solo per le prime tre votazioni (due terzi) ma anche per le successive tre (tre quinti) e, se anche queste dovessero risultare infruttuose, il presidente della repubblica sarebbe eletto dai cittadini che dovrebbero scegliere fra i primi due votati dai parlamentari nazionali ed europei.

Casini non si pone alcun problema riguardo alla riforma del senato e a quella elettorale, che sono una chiara linea di demarcazione tra democrazia vissuta sin dalla nascita della Repubblica e un riformismo a colpi di machete che prefigura una democrazia da partito unico con "alleati " vogliosi di vivere una esistenza serena senza scossoni e traumi.

Il mio amico Casini ha coniato un motto di adesione a Monti "senza se è senza ma", poi lo stesso motto, opportunisticamente, lo ha utilizzato per Letta, mentre oggi diventa una professione di fede per Renzi finché tiene le redini del Paese. E,allora,vorrei ricordare a Eufemi che è giusto ricordare Moro e i nostri valori,che comprendono i sacrifici e il coraggio.

Oggi si vive alla giornata, senza disegni, ma in un avventura senza pretese per gli altri ma per se' certamente si !

 

p.s. -  Sull'emendamento presentato da Tosato alla Assemblea Costituente, citato da Casini, si espressero contro Ruini e Moro a nome del Gruppo DC. Per la storia!.

O parlamentarismo o presidenzialismo. No il semipopolarismo 

Di fronte a una riforma istituzionale combinata con una legge elettorale incostituzionale e inaccettabile, e che giorno dopo giorno mostra profonde crepe e contraddizioni enormi emergono le proposte più strampalate per correggere gli errori più vistosi. L'ultima è quella del leader maximo dell'Udc Pierferdinando Casini che dalle colonne del Corriere lancia il semipopolarismo. Accorgendosi che con il sistema proposto, la elezione del Presidente della Repubblica è facile appannaggio della maggioranza pigliatutto che vince con una soglia bassa, propone di allargare la platea dei grandi elettori ai deputati europei e di alzare il quorum a maggioranze qualificate prima dei due terzi e poi dei tre quinti nelle prime tre e successive tre votazioni. 
Poi se si determina lo stallo parlamentare si procede con la elezione diretta del popolo con il ballottaggio tra i primi due. 
Il problema non è la maggioranza qualificata ma nella base parlamentare che è inficiata dal sistema elettorale italicum. 
Immaginate cosa succederebbe di fronte a difficoltá di raggiungere il quorum con la indizione di elezioni presidenziali in chissá quale periodo dell'anno ( anche d'estate) perchè non può essere programmabile la fine del mandato presidenziale in caso di impedimento. Sarebbe la paralisi istituzionale. 
Non si possono proporre soluzioni pasticciate per uscire da una proposta elettorale caotica. Si abbia il coraggio di abbandonare strade impervie e pericolose per la democrazia. 

Roma, 3 luglio 2014

Il partito dei sindaci e la revisione del catasto

 

C'è un partito invisibile che governa ormai il paese, quello dei sindaci. Questo partito sta portando avanti una precisa strategia di occupazione del potere in settori di governo e dell'apparato amministrativo, oltre che una linea che piega le linee di indirizzo politico generale ai desiderata dei sindaci. Si perchè non sono in discussione solo questioni locali ormai, ma questioni che hanno riflesso con le politiche economiche generali. 
L'ultima vicenda è quella relativa alla revisione delle zone censuarie, che viene svincolata da una visione generale dei problemi del Paese e non sará difficile prevedere che prevarranno le esigenze di incassare sempre di più rivalutando ciò che oggi è giá molto svalutato. Qui non è in discussione la correzione di evidenti squilibri nelle valutazioni che vanno certamente affrontati e come in parte giá è stato fatto. Qui è in discussione il patrimonio abitativo, la ricchezza immobiliare del Paese su cui si vuole mettere le mani senza controlli adeguati da parte del Parlamento e dei corpi intermedi. 
E la situazione peggiorerá inevitabilmente perchè aumentando la fiscalitá immobiliare i valori di mercato tenderanno ulteriormente e inevitabilmente a deprimersi. 
I cittadini saranno nudi e indifesi rispetto a decisioni che saranno imposte dall'alto. 
In passato ci siamo sempre battuti contro questa impostazione che oggi sta riprendendo vigore perchè l'opposizione è disattenta è distratta e la storia delle deleghe e dei decreti legislativi è quella di un parlamento piegato all'esecutivo, incapace di svolgere qualsiasi funzione di controllo. 
Abbiamo l'impressione che le sentinelle ancora una volta si siano addormentate.

Roma 23 giugno 2014

Giovanni Goria a vent'anni dalla scomparsa

Giovanni Goria viene ricordato oggi nella Sala della Regina a Montecitorio nel ventennale della sua prematura scomparsa.

Era entrato alla Camera nel 1976 a 33 anni nel segno del forte rinnovamento zaccagniniano. Furono infatti ben 98 su 262 i deputati che furono eletti alla Camera dei Deputati, con un tasso di rinnovamento del 37, 40 per cento, inferiore solo a quello degasperiano della grande vittoria democristiana del 1948 che con 147 su 306 deputati risultò del 48,04 per cento, ma erano condizioni diverse.

Giovanni Goria si affermò subito per la sua competenza in Commissione Finanze sulla finanza locale per un governo dei conti degli enti locali, sul bilancio dello Stato, sulle materie economiche. Fu ben presto chiamato a Palazzo Chigi dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti a svolgere un ruolo di coordinamento dei provvedimenti economici interfacciando con i gruppi parlamentari nella difficile fase della solidarietá nazionale, mentre si costruiva il piano Pandolfi, si modificavano le regole del bilancio con la innovazione della legge finanziaria 468/1978 e sul piano esterno si ponevano le basi dello SME in una scelta europea.

Proprio sulla finanziaria del 1978 intervenendo in Aula manifestò le sue preoccupazioni per i problemi strutturali del Paese. " La scelta europea, pur condizionata da atteggiamenti negoziali degli altri paesi membri, - affermò - significa pur sempre un utilizzo antinflazionistico della politica dei cambi; un severo rispetto delle compatibilità finanziarie; un rigoroso contenimento delle dinamiche dei fattori interni relativi ai costi di produzione; il tutto governato non in termini episodici, ma con prospettive certe di continuità di azione, continuità che diventa fattore essenziale per il recupero di una sufficiente spinta all’investimento complessivo.

Nella sua seconda legislatura, quella dal 1979 al 1983 Giovanni Goria divenne capogruppo in Commissione Finanze. Gerardo Bianco volle affidargli nell'ottobre del 1980 la guida politica dell'osservatorio di legislazione economica che realizzammo con Luigi Cappugi e tanti giovani che di sarebbero poi affermati con ruoli di responsabilitá.

Si trattava di una autentica innovazione. Il gruppo parlamentare si dotava di un autonomo centro di ricerca e di elaboraborazione dei dati, allora solo nelle mani del governo. Basti pensare che neppure la Camera disponeva del potente Ufficio studi che conosciamo ora o del servizio bilancio che verrá costruito successivamente.

Si offrì ai parlamentari democristiani uno strumento continuativo di approfondimento dei problemi economici all'esame del parlamento valutandone gli effetti sulla finanza pubblica e sul sistema economico e sociale del Paese.

Era un modo per affermare la centralitá parlamentare nel segno del consolidamento della democrazia ad un livello di qualitá e di maturitá più elevato. Furono prodotte più di cento schede, poi raccolte in volumi. Non ci fu mai censura neppure preventiva. Su una di esse vi fu uno scontro politico a villa Madama per i rilievi particolarmente critici che si sfiorò la crisi di governo per la irritazione di Giorgio La Malfa di fronte a misure che venivano considerate di difficile praticabilitá e altre "scritte sul ghiaccio"

Poi Giovanni Goria brucia le tappe. Un viaggio negli Stati Uniti preparato con cura sui vari problemi del Paese lo fa conoscere oltreoceano. Diventa sottosegretario al Bilancio nel dicastero Spadolini nel luglio 1981 e ministro del Tesoro nel v governo Fanfani nel dicembre 1982. Manterrá quel dicastero con il dicastero Craxi fino al 1987 fino a quando diventerá il più giovane Presidente del Consiglio, quando la legge finanziaria diventerá il momento dell'assalto alla diligenza, manifestando pericolose crepe nel funzionamento parlamentare fino al punto che Nilde Iotti la definì un "inghippo". Si inaspriva lo scontro tra parlamento e Governo. Alla centralitá parlamentare si contrapponeva la esigenza di governabilitá e di stabilitá.

Nel 1985 Giovanni Goria! ministro del Tesoro, elaborò il piano per il rilancio della azione programmatica con l'obiettivo di consolidare lo sviluppo e rilanciare l'occupazione nella sua finalitá prioritaria. Era necessario massimizzare la crescita creando 300.000 posti aggiuntivi all'anno per assorbire l'aumento naturale delle forze lavoro.

Giovanni Goria chiudeva quel suo documento con queste parole:" nel nostro domani forse non c'è il baratro perchè gli equilibri raggiunti ci mettono al riparo dal peggio, almeno nel breve ieri odo; c'è però sicuramente una ulteriore frantumazione delle speranze di chi cerca lavoro o ha paura di perderlo; in altri termini c'è l'ennesima prevaricazione della parte più forte del Paese su quella più debole".

Roma, 18 giugno 2014

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Gianni Goria nel ricordo di Pisanu, Scotti, Sacconi e Mattarella


Dopo una biografia di Marco Damilano che ha  tratteggiato i punti più importanti della vita politica di Gianni Goria sono intervenuti nell'ordine Giuseppe Pisanu, Enzo Scotti, Maurizio Sacconi e Sergio Mattarella che hanno affondato la memoria nel cassetto dei ricordi, dei momenti di incontro, delle vicende politiche di quegli anni.


Pisanu si è soffermato sulle   elezioni del 76 con  le parole di Aldo Moro sue  due vincitori in presenza di forte inflazione, un  Pil negativo e dall'emergere del terrorismo. Vera la  brutale alternativa del ricorso alle urne o della  intesa. Prevalse l' esigenza di dare governo al paese per riassestare il sistema politico con la formula del compromesso storico di Berlinguer o della solidarietá nazionale per Moro.
Superata la emergenza i due partiti sarebbero tornati alternativi senza più rischi per  la democrazia. Goria giunge a Roma in questo contesto. Nonostante la risevatezza e la sua sobrietá si impose subito per la serietá e per la sobrietá. Milo Rubbi lo sosteneva diffusamente apprezzandone le capacitá.
Era un tecnico  e un politico che sapeva fare analisi e pensieri lunghi. Aveva senso alto dello stato e della moralitá pubblica.


Per Enzo Scotti  si era nel pieno di uno scontro mondiale. Il segretario del PSI De Martino a Natale del 1975 si era espresso   sugli equilibri più avanzati. Ricorda le parole  di Moro ai gruppi parlamentari il 28 febbraio 1978: "   il futuro non è nelle nostre mani".
Goria svolge un ruolo importante a Palazzo Chigi con Cappugi e con lo stesso Scotti per il programma economico. Si scontrano due linee una di  riposizionamento e l'altra di tenere tutto in piedi accollando alla finanza pubblica che voleva un paese chiuso.  Ne discutono  con Chiaromonte e Napolitano.
Alla fine si liquida il governo di solidarietá nazionale come politica lassista.
Era un uomo allergico alle correnti. Ricorda come si riuscì ad intervenire sulla spesa previdenziale per 2.400  md. Lo scontro con il Pci avvenne  sulla invarianza dei salari reali.  Nel novembre del 1982  ci reincontrammo perchè  il 23 gennaio scadeva l'accordo sulla scala mobile. Fanfani, presidente del Consiglio,  ci affidò compito di trovare accordo generale che consentisse lo scambio sociale. Lavorammo intensamente per 20 giorni. Voleva il dialogo con i sindacati. Il tempo non è una variabile indipendente. Purtroppo rigore senza consenso e senza sviluppo ha fatto disastri inenarrabili.
Lo scontro era tra tre linee: accordo di potere con i socialisti; un accordo strategico con il PSI per fare le riforme;  Infine il ridimensionamento del PSI per guardare al Pci.


Maurizio Sacconi ricorda i momenti di dialogo con Gianni Goria come relatore di 3 finanziarie quando Goria era ministro del  Tesoro. Gli anni ottanta sono stati la  risposta agli anni 70.
Goria sapeva maneggiare i dossier, in modo diverso da Andreatta. Guardava con preoccupazione alla spesa operando una distinzione tra competenza e cassa soprattutto agli impegni presi negli anni settanta. Ricorda la vicenda del tetto a 50.000 con sfondamento a 75.000. Eredità della trojka Lamalfa Formica e Andreatta.  Sottolinea  negativamente il  parlamentarismo selvaggio, la vicenda  del divorzio Tesoro Banca d'Italia,  la finanza derivata di stammati e visentini. Negli anni  ottanta a Gianni Goria si deve una maggiore responsabilizzazione dei centri di spesa perchè  gli  enti locali avevano dilatato la spesa dal 6 al 13 per cento. Gianni Goria individuò la necessitá della riforma dello stato sociale contrastando la intermediazione. Individuando la famiglia come protagonista di un modello sociale sostenibile. In quegli anni  Gianni De Michelis e Goria puntano a ridurre  il tendenziale. Non si può infine dimenticare che con Goria, presidente del Consiglio nasce e   si avvia  la riforma della legge Amato sulle banche pubbliche e sulle sim.
Sergio Mattarella interviene ricordando il suo ruolo di Ministro dei rapporti con il Parlanento del Governo Goria. Goria era un uomo che studiava i dossier e quando li si esamina  non ci si annoia. In quegli anni si mise mano alle riforme regolamentari del 1988 Che interessarono anche la sessione di bilancio e  la tesoreria unica. In sedici anni ha svolto un intensa stagione parlamentare.
Il governo Goria  nacque sul programma di decantazione, di transizione. Gli avvenimenti vanno affrontati.
Fronteggiò problemi gravi.   Riteneva  necessario ridurre l'esercizio del voto segreto. Nel 1987 affrontò la  crisi del golfo persico su una missione all'estero superata  con 3 voti. A ottobre si prospettarono   l'insegnamento della religione dopo i patti madamensi e  la frana della Valtellina. I decreti legge ereditati ben 41.   Definì intesa tra maggioranza e opposizione. Nilde Iotti favorì lo smaltimento accorpando e smaltendo. Impostò riforme per guardare al futuro. L' avvio della  legge 362 e della legge 400 sulla presidenza, furono due grandissimi risultati.
Il suo governo aveva limiti obiettivi, ma  non fece nulla per allungare il termine. Aveva un forte  senso del dovere istituzionale e morale. La normalitá del suo linguaggio lo rendevano  semplice e comprensibile. Era spontaneo. Riduceva la distanza con gli interlocutori perchè era direttamente espressivo. Rispetto ai tempi che viviamo va ricordata la  concretezza del suo lavoro, la sobrietá dello stile di vita.

Roma, 18 giugno 2014

 

Bartolo Ciccardini

Stamani ci siamo ritrovati in tanti nella sua parrocchia del Buon Pastore alla Montagnola per rendere l'ultimo saluto a Bartolo Ciccardini. Erano presenti tra gli altri Arnaldo Forlani, Mario Segni, Michele Zolla, Cinzia Bonfrisco, Enzo Carra, Giovanni Bianchi, Alessandro Forlani, Fazio Bianco, in rappresentanza di Gerardo Bianco che si trova all'estero,  Pino Ferrarini, Flavia Nardelli, una rappresentanza di Francesco Merloni,  un commosso Marco Pannella e tanti altri che hanno voluto testimoniare affetto alla famiglia di Bartolo ricordando così il suo impegno politico per la  modernizzazione delle Istituzioni, per il cambiamento e per il rinnovamento generazionale, in una visione in cui la persona umana è stata sempre la espressione più alta.
La funzione religiosa è stata celebrata da vescovo Mons Schiavon che ha anche tratteggiato la figura dell'uomo politico Bartolo Ciccardini. Non vi è stato spazio per commemorazioni pubbliche. È per queste ragioni che sará individuato un momento per lumeggiarne adeguatamente la figura.
Bartolo era impegnato con la sua rivista on line Camaldoli, con l'attivitá dei partigiani cristiani, con l'Istituto Sturzo con la finalitá per non disperdere la memoria dei cattolici nella Resistenza.
Aveva costruito l'incontro del prossimo 24 giugno dedicato all'anniversario della scomparsa di Livio Labor, presidente delle ACLI. Aveva voluto una sede prestigiosa, densa di significati  come Palazzo Giustiniani, così come aveva fatto nelle recenti iniziative per Dossetti e la Costituzione e per il 70 anniversario del Codice di Camaldoli.
Ricordare gli avvenimenti per tenere viva la memoria soprattutto delle giovani generazioni.
Ci ha lasciati con un programma ancora vasto di idee e di appuntamenti. Abbiamo il dovere di portarlo avanti tenendo vive le parole di Padre Davide Turoldo che amava ricordare:
Riprendiamoci amici il nostro nome di battaglia e armiamoci di luce!.

Roma, 14 giugno 2014

Rapporto della Corte dei conti
 
La corte dei conti ha presentato un interessante rapporto sul coordinamento della finanza pubblica. 
La corte come magistratura contabile si è attrezzata rispetto alla evoluzione dei conti pubblici. Non sono valutazioni ex post ma anche valutazioni sulla loro dinamica anche tenendo conto di shock positivi sulla crescita. 
V'è un certo ottimismo nel guardare al 2018 in un quadro economico internazionale che non offre certezze. 
Troppe variabili rischiano di essere aleatorie. 
Tutto viene giocato sulla fiducia generata da annunci su riforme che sono solo sulla carta. 
C'è il rischio che le aspettative possano mutare se non si vedono riscontri positivi. 
Restano i numeri che indicano la particolare situazione del Paese. Ne ricordiamo alcuni: 
Una pressione fiscale nel 2013 pari al 43,8 quattro punti superiore al livello medio dell'Unione; l'eccesso di prelievo gravante sul fattore lavoro che evidenzia un cuneo orari al 47,8, quasi 6 punti superiore alla media di 21 paesi pari al 42 per cento; il funzionamento dell'Irpef falsato da due fenomeni come elusione ed erosione che influiscono sul livello e sulla distribuzione del prelievo; il fenomeno della erosione per dimensione 105 md e 176 agevolazioni su 720 configura una "fuga" dalla progressivitá dell'imposta; l'operare di tutte le agevolazioni produce un forte ridimensionamento della aliquota media effettiva che si riduce dal 27,3 al 19 per cento; l'operatività dell'Irpef viene condizionata dalla esplosione delle addizionali destinate al finanziamento di Regioni e Comuni, alterandone l'incidenza e distorcendone gli equilibri distributivi; scelte selettive rientranti nell'ambito proprio dell'Irpef se affidate a surrogati come prelievi di solidarietá, bonus e tagli retributivi sono all'origine di un sistematico svuotamento della base imponibile dell'Irpef, finendo per intaccare la portata e la efficacia redistributiva dell'imposta. 
Emerge poi la costellazione delle societá partecipate e degli enti strumentali che secondo un censimento determina la erogazione di ben 25 miliardi con sovrapposizione di compiti e duplicazione di funzioni e costi. 
Se l'Italia vuole raggiungere il rapporto spesa/Pil della Germania al 41 per cento dovrebbe tagliare 2 punti di Pil corrispondenti a 32 md come indicato dalla spending review. Questo obiettivo appare ambizioso rispetto al livello della crescita che appare troppo bassa rispetto a quella della Germania. 
Viene indicato il risultato positivo delle amministrazioni locali che hanno prodotto un avanzo primario di 3,6 miliardi ma ciò è stato possibile per gli effetti delle addizionali. 

Il percorso delle riforme appare ineludibile. È illusorio pensare che quelle istituzionali da sole possano determinare più investimenti e più crescita. È altresì illusorio immaginare che la crescita possa essere determinata da virtuosi comportamenti solo domestici e l'Europa non modifichi le sue politiche per una maggiore armonizzazione economica e sociale tra gli Stati dell'Unione. 

Roma, 4 giugno 2014

A proposito di Raiway 


Nell'ottobre 2001 ponevo la questione... Con una interrogazione esaminata congiuntamente a quella presentata dal Sen Passigli 

Oggi il presidente del consiglio la ripropone... 
 

    EUFEMI. – Ai Ministri dell’economia e delle finanze e delle comunicazioni.– Per conoscere:
            le sue valutazioni sulle notizie di stampa relative alla vendita della Raiway alla società americana Crown Castle di Houston – Texas;
            se tale vendita sia consentita dallo Statuto, trattandosi di impianti di diffusione radiofonica e televisiva che rientrano tra gli scopi sociali della RAI Spa;
            se sia stata approntata una gara di vendita e se non si ritenga che con tale operazione venga violata la concessione tra RAI e Ministero delle comunicazioni;
            se tale vendita sia stata sottoposta alla decisione del consiglio d’amministrazione della RAI e se siano state rispettate le procedure di vendita;
            le valutazioni del Ministro su tale operazione, sulla quale emergono pesanti ombre sia di legittimità giuridica che di valutazione economica;
            quali siano infine gli effetti finanziari dell’operazione sul bilancio della RAI Spa, anche per i riflessi sul canone radiotelevisivo.

 

        N.B. I testi di seduta sono riportati in allegato al Resoconto stenografico.

        
L’asterisco indica che il testo del discorso è stato rivisto dall’oratore.
        Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN; CCD-CDU:Biancofiore: CCD-CDU:BF; 

        
I lavori hanno inizio alle ore 15,40.

INTERROGAZIONI

        PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento di interrogazioni.
        Sarà svolta per prima l’interrogazione 3-00162, presentata dal senatore Passigli.
        GASPARRI, ministro delle comunicazioni. In riferimento all’interrogazione del senatore Passigli, (3-00162), sull’accordo tra la Rai e la società Crown Castle, il 26 ottobre ho assunto la decisione di negare la presa d’atto della cessione da parte della RAI alla CCR srl, società controllata dalla Crown Castle International Corporation, delle azioni rappresentative del 49 per cento del capitale di Raiway.
        E’ indubbio che la decisione spettasse – contrariamente a quanto erroneamente affermato dall’onorevole Passigli nel corso della sua intervista all’Unità del 28 ottobre – solo al Ministro delle comunicazioni.
        Ed invero 1’articolo 1, comma 
della Convenzione Stato-Rai prevede che la concessionaria possa avvalersi, per attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi (tra cui rientra l’installazione e l’esercizio tecnico degli impianti) di società da essa controllate, previa autorizzazione del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni (ora Ministero delle comunicazioni). La Rai venne autorizzata con atto a firma dell’allora Ministro in carica Cardinale dell’11 novembre 1999 ad avvalersi della società New Co TD (ora Raiway), dalla concessionaria interamente controllata. Nell’atto di autorizzazione era espressamente previsto che ogni variazione dell’assetto di controllo della New Co TD (ora Raiway) dovesse essere preventivamente autorizzata dal Ministero delle comunicazioni che si riservava di modificare ovvero di revocare l’autorizzazione in qualsiasi momento.
        Inoltre, l’atto di compravendita del 49 per cento della partecipazione a Raiway è stato dalle parti (RAI e CCR) condizionato risolutivamente alla mancata acquisizione della presa d’atto del Ministero delle comunicazioni.
        Da quanto precede consegue inequivocabilmente che solo il Ministro delle comunicazioni avrebbe potuto concedere o negare la presa d’atto. Il motivo della decisione del Ministro deriva dal contenuto del contratto, che il senatore Passigli potrà leggere. Il perché sia stato redatto in questo modo dovrà chiederlo ad altri ministri e Governi.
        Tuttavia, ho ritenuto doveroso informare della mia decisione – in base all’affidamento esclusivo della decisione a me – il Presidente del Consiglio ed i Ministri durante la seduta del Consiglio dei ministri del 26 ottobre. Ho ritenuto maleducato che il Governo assumesse questa notizia dalle Agenzie di stampa.
        Il Presidente del Consiglio si è limitato, quindi, a prenderne atto, senza che potesse minimamente esserne coinvolto a livello decisionale né, tantomeno, potesse darvi la propria approvazione, affatto prevista.
        Peraltro non ritengo, come ministro competente a prendere la decisione, che il diniego di presa d’atto abbia l’effetto di condurre la Rai sotto stretto controllo dell’Esecutivo né di incidere sull’autonomia, che, oggettivamente, deve conciliarsi con gli obblighi stabiliti in convenzione. Né ritengo che la Rai risulti dalla mancata cessione indebolita finanziariamente, posto che dalla relazione semestrale alla data del 30 giugno 2001 trasmessa al Ministero, emerge addirittura un risultato economico positivo ( + 78,1 milioni di euro), pur se inferiore rispetto a quello del corrispondente semestre del 2000. E’ evidente, poi, che la decisione presa non ha alcun collegamento con il tema della privatizzazione della RAI, che deve essere oggetto di ben diversa riflessione nelle opportune sedi parlamentari.
        Trattandosi dunque - ripeto - di atto adottato singolarmente ed individualmente da me, in qualità di Ministro delle comunicazioni competente, non ho rinvenuto in esso alcun profilo da cui potesse scaturire un conflitto d’interesse.

        PASSIGLI (DS-U). Il Ministro Gasparri più che alla mia interrogazione risponde, in realtà, a notizie di stampa, e cioè a mie osservazioni fatte all’indomani della sua lettera. L’interrogazione riguardava esattamente i rapporti intercorsi all’interno del Governo su questa decisione nella sua fase finale. Prendo atto di quanto ha detto il ministro Gasparri, ma ho qualche difficoltà a ritenere che questioni di tale importanza per l’emittente pubblica – con tale rilevanza economica – vengano decise solo da un Ministero, senza interpellare il Ministro del tesoro che della Rai è l’azionista. Prendo atto che il ministro Gasparri afferma che il Presidente del Consiglio nulla sapeva della questione. Nel merito, però, continuo a ritenere che la questione sia un po’ più complessa di come la presenta il Ministro. La presa d’atto del contratto tra Rai e Crown Castle, negata dal Ministro, era stata prevista all’atto della creazione di Rai Way, allora denominata diversamente, per assicurare il rispetto di tutti gli obblighi contemplati nella convenzione e nel contratto di servizio. Ciò non significa che il Governo abbia una totale discrezionalità, ma semplicemente che può negare la presa d’atto solo motivatamente, laddove le variazioni dell’assetto proprietario di RaiWay violino accordi previsti dalla convenzione o dal contratto di servizio. Questo non è il caso del contratto Rai-Crown Castle, i cui patti parasociali non incidono sugli obblighi di servizio pubblico della Rai. Il rifiuto della presa d’atto è infatti motivato, nella lettera del Ministro del 26 ottobre 2001 a tutti i parlamentari, non con una violazione del contratto di servizio ma ricorrendo a tre motivazioni totalmente estranee a tale contratto.
        La prima argomentazione è che i patti parasociali darebbero a Crown Castle un potere di indirizzo strategico sulle attività di RaiWay, addirittura superiore a quello della Rai. Non è così: nominare la maggioranza dei componenti il collegio sindacale è, infatti, prerogativa che la prassi dei contratti internazionali riconosce sempre all’azionista di minoranza; analogamente, il prevedere maggioranze qualificate sia per i voti di Consiglio che in sede di Assemblea straordinaria è nuovamente una prassi comune a tutti i contratti internazionali, a tutela di quella che si usa chiamare una minoranza di blocco.
        Anche l’affidare le funzioni di gestione del 
Tower business ad un dirigente nominato dal Consiglio di amministrazione, piuttosto che all’Amministratore delegato, non fa venire meno i poteri di indirizzo del Consiglio di amministrazione stesso. Quindi, a me sembra che il rifiuto di presa d’atto da parte del Ministro non possa essere motivato sulla base dei patti parasociali. Infatti, si ricorre a due ulteriori motivazioni: in primo luogo, il Ministro argomenta il suo rifiuto sulla base di una scarsa tutela del puro e semplice interesse commerciale (semmai, mi sembra che non si tratti di interesse commerciale ma economico); la seconda giustificazione è che il valore patrimoniale è superiore. A questo proposito, il Ministro fa riferimento ad una valutazione – di cui non ho avuto modo di prendere conoscenza – effettuata dall’IRI, circa dieci anni fa peraltro, non credo mai suffragata da stime esterne né, soprattutto, da verifiche di mercato. Nessuno, infatti, si fece avanti per acquistare il bene in questione.
        Pertanto, appare più attendibile la valutazione effettuata da una serie di 
advisors indipendenti, tra cui l’Arthur Andersen che giunge ad una valutazione massima per l’intero pacchetto azionario di 1.350 miliardi, cosicché gli 800 miliardi, che Crown Castle pagherebbe per una partecipazione del 49 per cento, quindi senza premio di maggioranza, rappresentano una cifra ben superiore. In ogni caso, l’azionista IRI holding (o ex IRI holding) è ricorso ad advisors ulteriori quali Rotschild e Lazard, di cui il Tesoro si serve abitualmente quando fa operazioni di offerta pubblica e di vendita delle proprie partecipazioni che hanno confermato la valutazione in questione. Non credo che abbiamo il diritto di ritenere che quanto è da più advisors internazionali considerato un prezzo congruo, anzi vantaggioso, non lo sia.
        Infine, vengo alla terza ed ultima motivazione offerta, dato che le motivazioni inerenti al contratto di servizio, le sole che competono al Ministro delle comunicazioni, non giustificano il diniego di presa d’atto. L’ultima è anche la giustificazione politicamente più significativa: infatti, la ragione addotta dal Ministro Gasparri per negare la presa d’atto consiste nella sua affermazione che le apparecchiature di Raiway assolvono – cito – «a delicatissimi compiti di sicurezza di cui solo una gestione realmente riconducibile, anche indirettamente, alla parte pubblica può garantirne la piena disponibilità». Tutto ciò conferirebbe al sistema che la Rai ha costruito un’importanza strategica. È evidente che, se si sottoscrive una simile posizione, Raiway e la stessa Rai non potranno mai essere privatizzate, come peraltro ancora dispone (o ancora auspica) un non da tutti dimenticato
 referendumpopolare.
        Ostacolare la privatizzazione della Rai, dalla quale prenderebbero vita nuovi soggetti attivi nel sistema televisivo; mantenere una Rai pubblica ma finanziariamente indebolita (dal momento che gli ultimi dati, con il calo avvenuto in tutto il mondo dei gettiti pubblicitari – salvo la grande capacità di Mediaset, che sembra risentirne meno di altre organizzazioni – porranno la Rai a fine anno in una posizione nettamente indebolita: questi sono i risultati del no posto dal Ministro; quelli di mantenere la Rai in una posizione finanziariamente indebolita, quindi meno in grado di competere con il monopolista privato e di evitare che gli impianti della RAI, attraverso la loro privatizzazione, possano essere affittati a terzi, rendendone accessibile l’uso a nuovi operatori.
        A questo punto si impone un interrogativo che riporta alla domanda iniziale: può un Governo, guidato dal proprietario del principale concorrente della Rai, assumere decisioni che favoriscono Mediaset ed indeboliscono la TV pubblica? A me sembra di essere chiaramente in presenza di uno di quei casi di conflitto di interessi per i quali domandiamo da tempo una legge. Queste sono le vere ragioni politiche che non sono attinenti a patti parasociali che rientrano negli 
standard internazionali (come qualsiasi professionista può dire), né a valutazioni economiche perché queste avrebbero consigliato un sì al contratto. Le vere ragioni ineriscono piuttosto, e sicuramente, a motivazioni politiche.
        Devo, pertanto, dichiararmi insoddisfatto dell’intervento del ministro Gasparri.

        PRESIDENTE. Segue l’interrogazione n. 3-00164, presentata dal senatore Eufemi.
        GASPARRI,
 ministro delle comunicazioni. I giornali e le radiotelevisioni nazionali e straniere, nella gran parte dei casi, hanno correttamente informato circa il diniego di presa d’atto dell’operazione di cessione alla Crown Castle delle azioni rappresentative del 49 per cento del capitale di Raiway da me comunicato alla Rai il 26 ottobre.
        Ciò tranne in alcuni casi, nei quali il contenuto degli articoli ha travisato la mia posizione e che mi sono premurato di rettificare, annunciando, per taluni di essi, di adire le vie legali.
        L’articolo 1, comma 5, della Convenzione Stato-Rai prevede che la concessionaria possa avvalersi, per attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi (tra cui rientra l’installazione e l’esercizio tecnico degli impianti) di società da essa controllate, previa autorizzazione del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni (ora Ministero delle comunicazioni).
         La Rai venne autorizzata con atto, a firma del Ministro 
pro tempore, dell’11 novembre 1999 ad avvalersi della società New Co TD (ora Raiway), interamente posseduta dalla concessionaria.
        Nell’atto di autorizzazione era espressamente previsto che ogni variazione dell’assetto di controllo della New Co TD (ora – ripeto – Raiway) dovesse essere preventivamente autorizzata dal Ministero delle comunicazioni, che si riservava di modificare ovvero di revocare l’autorizzazione in qualsiasi momento.
        Dunque, costituisce già una anomalia la circostanza che la Rai, anziché chiedere preventivamente l’autorizzazione alla cessione del 49 per cento di Raiway, abbia stipulato la compravendita condizionandone risolutivamente l’efficacia alla successiva mancata presa d’atto, entro sei mesi, del Ministero delle comunicazioni.
        Per l’individuazione dell’acquirente, la Merrill Lynch, 
advisor della Rai, ha svolto una procedura di selezione. I relativi atti sono stati forniti, su mia richiesta, dalla Rai solo il 16 ottobre, quindi pochi giorni prima della scadenza del termine per la presa d’atto. Alcuni aspetti dello svolgimento della gara non sono stati ancora sufficientemente approfonditi. Non sono a conoscenza di quali atti siano stati sottoposti al Consiglio di amministrazione.
        Le mie valutazioni sull’operazione di cessione sono quelle contenute nel diniego di presa d’atto e basate esclusivamente sui seguenti criteri: l’interesse a mantenere in capo alla Rai impianti di un così rilevante interesse strategico anche per la sicurezza; i dubbi circa la congruità del valore attribuito agli impianti, che risulta eguale a quello attribuito dall’IRI nel 1991; la pesante portata dei patti parasociali che assegnavano al socio di minoranza poteri di indirizzo addirittura superiori a quelli della Rai, socio di maggioranza.
        In proposito, riporto testualmente il contenuto della mia risposta alla Rai:

        «1 – Gestione della società.
        L’articolo 3, lettera c) dei Patti parasociali prevede per ben sedici tipologie di delibere, cioè per la totalità delle decisioni, l’adozione con il voto favorevole di due consiglieri di designazione del partner. Pertanto, la maggioranza (su un Consiglio di amministrazione di otto membri pari a cinque) viene ad essere annullata.
        2 – Collegio sindacale.
        L’articolo 4 dei patti parasociali prevede che la Rai designi un sindaco con funzioni di presidente e un supplente e che il partner designi due sindaci e un supplente, con la conseguenza che l’equilibrio del collegio sindacale è sbilanciata favore del partner.
        3 – Nomine.
        Il Business Development Officer (BDO) nominato dal Consiglio di amministrazione su designazione dei consiglieri nominati dal partner, previa consultazione con la Rai, secondo quanto previsto dall’articolo 6 dei patti parasociali, è figura centrale per tutto quanto attiene alla parte della società che dovrà operare in campi innovativi, di rilevante interesse strategico (i più soprarichiamati Tower business). Nei patti parasociali si legge che «l’amministratore delegato conferirà procura al BDO delegandogli pieni poteri, equiparabili ai poteri delegati all’amministratore delegato dal consiglio di amministrazione, limitatamente alla gestione delle attività della società nel Tower business. La Rai conviene che l’amministratore delegato non revocherà tale procura, salvo diverse istruzioni ricevute dal consiglio di amministrazione». È evidente che viene a mancare l’unità di guida della società; che tutta l’ampia gamma di affari del Tower business (elencati nei patti parasociali) è di competenza esclusiva del BDO, con pieni poteri e rischio di conflitto con l’amministratore delegato designato dalla Rai.
        4 – Maggioranze in assemblea straordinaria.
        L’articolo 5, lettera 
b), prevede una maggioranza del 67 per cento per le materie di competenza dell’assemblea straordinaria sia in prima che in seconda convocazione, elevata al 75 per cento (articolo 5, lettera d)) in caso in cui la società fosse quotata in borsa.
        Se ne deduce che il partner avrebbe un considerevolissimo potere di blocco sulle delibere dell’assemblea straordinaria.
        5 – Divieto di concorrenza.
        L’articolo 9, lettera a), dei patti parasociali prevede il divieto di concorrenza del partner per il periodo di un solo anno dalla perdita della qualità di socio.
        Il dato è tanto più significativo ove si consideri che nella prima stesura dei patti parasociali predisposti dalla Rai e distribuiti a tutti gli aspiranti acquirenti il periodo di non concorrenza era stabilito in cinque anni».
        Quanto, infine, agli effetti finanziari dell’operazione sul bilancio della Rai, non posso non sottolineare che la Rai appartiene al 100 per cento al Ministero del tesoro che avrebbe ricevuto, in definitiva, l’entrata connessa con la cessione.
        Il mancato introito non comporta quindi gravi effetti sul bilancio della concessionaria, che, peraltro, dalla relazione semestrale al 30 giugno 2001, sembrerebbe in lieve attivo.
        Quanto al canone Rai, è attualmente al lavoro la Commissione paritetica che deve formulare la proposta di variazione in base ad una serie di criteri, primo fra tutti quello dell’indice di inflazione. La proposta dovrebbe essere imminente e su di essa non ha alcun riflesso l’operazione Raiway.

        EUFEMI (CCD-CDU:BF). In primo luogo, desidero formulare un sentito ringraziamento al Ministro delle comunicazioni, onorevole Gasparri, per avere prontamente risposto al documento di sindacato ispettivo presentato sin dal settembre scorso; quindi in epoca non sospetta, prima che esplodesse la questione nella sua complessità e virulenza sino a toccare punte inimmaginabili.
        Mi dichiaro soddisfatto della risposta del Ministro anche se credo che egli abbia evitato di entrare nel merito dei tre quesiti finali riguardanti l’accordo finanziario in quanto tale, i patti parasociali e quant’altro.
        Tuttavia, al di là delle questioni propriamente tecniche, c’è un aspetto che ho mancato di sottolineare ed è l’atteggiamento del Presidente della Rai che, in quanto tale, risponde all’azionista, in questo caso al Tesoro, non per scelta di questo Governo ma per scelta dei Governi precedenti, i quali hanno pasticciato in merito all’equilibrio «assemblea-poteri di nomina.» La Rai Spa non appartiene né al professor Zaccaria né a quanti altri ricoprano cariche in virtù di un mandato temporaneo; costoro hanno solo il dovere di produrre risultati di impresa, compatibili con il servizio pubblico. Quest’ultimo, peraltro, è scivolato, proprio con la gestione attuale, sempre più verso i parametri di una televisione commerciale priva di qualità e di spessore, ponendo in essere, in definitiva, una progressiva ed inarrestabile perdita di identità del servizio pubblico.
        Ormai, il professor Zaccaria si muove in una logica di irriducibile e deprecabile battaglia, personale e di un gruppo funzionale a determinati interessi politici. La permanenza del professor Zaccaria alla guida dell’azienda rischia, quindi, di paralizzarne il presente e di comprometterne il futuro, così come sta accadendo per il bilancio che, a mio parere, finirà con il sacrificare la qualità attuale e futura del prodotto del servizio pubblico che dovrebbe essere l’interesse primario di un presidente della Rai.
        Bene ha fatto, dunque, il ministro Gasparri ad esprimere il parere contrario sull’accordo. A lui va il nostro plauso perché ha esercitato la sua azione nel rispetto delle sue prerogative, previste dalla stessa intesa del 27 aprile. 
        Entrambi i contraenti (la Rai ed il suo Presidente e la Crown Castle) erano a conoscenza della clausola risolutiva, attivabile entro sei mesi dalla stipula.
        Non vorremmo che il presidente Zaccaria si avventurasse in una lite temeraria agendo contro il Governo e, dunque, contro il suo azionista. Il professor Zaccaria è perfettamente a conoscenza di come stanno le cose, per la sua lunga esperienza di Consigliere di amministrazione prima e di Presidente poi.
        Abbiamo preso conoscenza del fatto che l’accordo, raggiunto tra Rai e Crown Castle, era stato proposto ad altre compagnie come Telecom o France Telecom, che lo hanno respinto perché inaccettabile e sfavorevole all’Azienda pubblica, soprattutto in tema di maggioranze qualificate per l’assunzione di decisioni strategiche, espropriando, di fatto, l’azienda Rai della gestione e perchè affidava al 
partner di minoranza poteri di indirizzo superiori al socio di maggioranza, nonché un potere di blocco sulle delibere delle assemblee straordinarie.
        Si trattava di un’autentica svendita di un’azienda strategica nel sistema degli impianti di trasmissione e diffusione televisiva e radiofonica.
        Per noi è francamente inaccettabile che nell’esercizio delle proprie funzioni e prerogative la decisione dell’autorità di Governo sia stata definita da un esponente politico una «libertà violata», proprio da chi ha nominato il vertice Rai che nasconde i propri disastri, inventando fallimentari battaglie personali ammantate da posizioni politiche. 

        PRESIDENTE. Lo svolgimento delle interrogazioni è così esaurito.

        
I lavori terminano alle ore 15,55.

Mario Tassone contro Report

La foga nel ricercare a tutti i costi responsabilità negative e comportamenti poco edificanti nel contesto politico a volte induce qualcuno a commettere un errore rispetto al quale chi non ha nulla da temere - ed ha sempre improntato la propria vita ed il proprio impegno pubblico e politico all’insegna della moralità - non può non reagire. Ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela nei confronti della trasmissione televisiva Report che - in ordine alla vicenda delle sedi facenti parte del patrimonio immobiliare della Democrazia Cristiana – ha fornito, per quanto mi riguarda, una ricostruzione lontana dalla verità e soprattutto priva delle risposte con le quali ho fornito ampia e documentata spiegazione.
La sede di Catanzaro ha rappresentato per noi tutti un punto di riferimento costante nel corso dei decenni, in quelle stanze si sono formate generazioni di politici ed in quegli spazi hanno trovato manifestazione le passioni e l’entusiasmo di migliaia di militanti nel corso dei decenni. Per noi tutti è un pezzo di storia, un luogo che se per un verso ci ricorda anni di coinvolgente militanza dall’altro ci anima in un impegno che continua. Proprio per tali ragioni posso affermare di essere orgoglioso di aver fatto quanto era nelle mie possibilità per rilevare quel cespite ed impedire che un patrimonio – non immobiliare ma storico, culturale e sentimentale – venisse perso e svilito del suo significato in una compravendita tra privati; ne sono orgoglioso e – a scanso di equivoci – vorrei anche aggiungere che lo rifarei subito.
Ho già fornito alle autorità competenti alcune esaustive spiegazioni ma proprio per evitare che questa circostanza diventi materia da campagna elettorale e continui ad essere strumentalizzata in modo becero e volgare aggiungo che appena l’intera vicenda sarà chiarita in tutti i suoi aspetti legali l’immobile di via San Nicola sarà ceduto ad una Fondazione. Si tratta di una scelta che era stata concordata sin dall’origine ma alla quale non si è dato seguito proprio per l’insorgere di problemi riguardanti la gestione complessiva del patrimonio immobiliare della DC.
Da ultimo vorrei aggiungere che rispetto a ciascuno di noi – ed in particolare al sottoscritto – è possibile dissentire sulle scelte politiche, è lecito giudicare positivamente o no una storia di impegno civico ma ciò che non è consentito a nessuno è mettere in dubbio la moralità dei comportamenti ed il rigore con il quale ho sempre inteso l’impegno politico. Un rigore che mi deriva dalla mia fede, da solidi riferimenti valoriali e dall’aver sempre inteso la politica come strumento orientato al bene comune e non certo all’interesse o alla convenienza personale.
La mia storia personale – anche in anni nei quali l’intero sistema politico è apparso segnato da comportamenti non certo irreprensibili – è lì a testimoniare ogni giorno come anche in politica l’onestà non è qualcosa da declamare ma da vivere e praticare ogni santissimo giorno.

Fanfani e Renzi storie toscane e forzati parallelismi

 

Molti frequentatori di piazze televisive, soprattutto di estrazione di sinistra, si sono avventurati nel paragonare il successo elettorale di Matteo Renzi alle elezioni europee del 25 maggio con quello di Amintore Fanfani del 1958.

È un confronto improprio su diversi aspetti.

Sul piano del risultato elettorale accostare le percentuali significa non leggere bene i numeri. Fanfani nel 1958 ottenne 12,5 milioni di voti con il 42,5 per cento dei voti che rappresentavano il 93,83 dei votanti che furono 30.434 milioni. La percentuale raggiunta da Renzi è del 40,81 corrispondente a 11.172.861 voti assoluti, ma con una percentuale di partecipazione al voto del 57,2 per cento!.

Quel valore del 40,81 è dunque gonfiato dalla massa degli astenuti.

 

Forse l'unica analogia rispetto a quanto scrive oggi Antonio Polito sul Corriere è il rinnovamento della classe dirigente che Fanfani da segretario politico della Democrazia Cristiana operò con le elezioni politiche del 1958. I deputati democristiani eletti per la prima volta a Montecitorio nel 1958 furono ben 94 su 273 con un tasso di rinnovamento del 34,43. Quel dato fu però inferiore a quello del Pci che rinnovo il gruppo parlamentare alla camera del 40,71 che corrispondevano a 57 deputati sui 140 dell'intero gruppo.

 

Fanfani veniva da un decennio di responsabilitá governative prima, nei dicasteri De Gasperi ai dicasteri del lavoro nel IV e V D e Gasperi e dell'agricoltura nel Vii De Gasperi , agli interni nell' VIII De Gasperi e di segretario della DC per un quinquennio. Realizzò quello straordinario piano casa con la costruzione di 300 mila alloggi di edilizia residenziale pubblica ancora visibile nelle cittá italiane. Poi divenne segretario della DC nel 1954, carica che tenne fino al 1959, quando logorato dai franchi tiratori, si arrivò all'epilogo della Domus Mariae e l'avvento della segreteria di Aldo Moro.

 

Non è neppure il caso di ricordare quel formidabile apporto culturale prodotto con testo in contrapposizione alle tesi di Max Weber, che fu " cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo" oppure la magistrale storia economica.

 

Matteo Renzi ha rappresentato una rottura ideologica all'interno del PD e il suo coraggio è stato premiato dall'elettorato. Ma evitiamo accostamenti impropri.

A meno che non si voglia anche accostare la Leopolda al Codice di Camaldoli.

 

Ad oggi è soltanto la provenienza dalla regione Toscana che li unisce.

Solo il tempo potrá consentire di esprimere un sereno giudizio e tracciare un bilancio politico di quanto realizzerá.

Roma, 27 maggio 2014

Difendiamo le radici dell'Europa

Condividiamo la ferma presa di posizione del segretario nazionale del CDU Mario Tassone dopo le dichiarazioni del candidato del PSE Schulz che vuole cancellare "l'anagrafe storica" dell'Europa.
Fa esplodere una grave contraddizione culturale.
Non vogliamo un Europa che sia soltanto un meccanismo politico amministrativo "senza anima".
Vogliamo una Europa con una precisa identitá culturale, una Europa dei valori, che non nasce da un relativismo senza princìpi, ma da quei valori che pongano la persona umana e la sua dignitá al centro della costruzione sociale verso cui orientare l'azione politica.
Vogliamo e dobbiamo reagire al pregiudizio "anti cristiano" con l'opposizione ai valori religiosi e alla ereditá giudaico-cristiana per affermare il principio della laicitá dell'Europa in cui ogni Stato vi appartiene in una confusa ideologia di libertá.
Non vi può essere il diritto all'amnesia delle proprie radici, a quei valori che hanno plasmato l'identitá europea nel corso dei secoli.
Il radicamento cristiano dell'Europa è un radicamento laico non confessionale. Benedetto Croce e Giovanni Gentile hanno avuto il coraggio di riconoscere i valori della civiltá cristiana.
Ci aspettiamo una presa di posizione da parte di quanti nel partito democratico si apprestano a sostenere il candidato Schulz.

Roma, 22 maggio 2014

La crisi della Unione Europea: come e perchè invertire la rotta

 

Oggi, promosso dalla Associazione ex parlamentari della Repubblica, presso la Sala delle Colonne si è tenuto un interessante incontro su "La crisi dell’Unione Europea: come e perché invertire la rotta".
"La crisi dell’Unione Europea: come e perché invertire la rotta".
I lavori presieduti e introdotti dall’on. Giancarla Codrignani, Vice Presidente dell’Associazione ex parlamentari, e conclusi dal Sen. Andrea Ma
nzella hanno visto gli interventi dell' Rocco Cangelosi e il Dott. Pier Virgilio Dastoli.
Sono state riflessioni che, fuori dalle quotidiane polemiche politiche elettorali hanno permesso di approfondire questioni che si presenteranno dopo il 26 maggio. Il diffuso sentimento anti europeo non deve interrompere la costruzione del progetto europeo di unitá nelle diversitá. Le forze politiche europee dovranno tenere in debito conto le indicazioni del voto correggendo la rotta, interpretando le aspettative del popolo europeo. Le elezioni serviranno a capire dove vuole andare l'Europa. 
I voti liberi, fuori dagli schieramenti tradizionali avranno purtuttavia la forza di entrare nel gioco politico anche portando alla elezione di un Presidente della Commissione fuori dalle indicazioni di partenza, senza che questo significhi lesa maestá o tradimento del Voto. 
Purtroppo il Trattato di Lisbona è stato concepito in un periodo profondamente diverso da quello conseguente alla crisi finanziaria che ha portato ad amplificare delle disuguaglianze tra gli Stati e all'interno dei singoli Stati. 
È diffuso il convincimento che la componente euroscettica sará molto forte e che una risposta fondata da larghe intese europee tra PPE e PSE diventi una risposta sbagliata perchè rappresenterebbe una difesa a riccio dell'esistente, privilegiando il groviglio tecnocratico e metodo intergovernativo. 
Le elezioni potranno essere uno shock positivo se portano a ritrovare la Politica. 
Non facciamoci troppe illusioni sul peso del semestre di presidenza italiana. Sará praticamente un semestre bianco perchè la fase di rinnovo delle cariche terminerá a novembre e in tutto questo periodo il governo europeo sará nelle mani del consiglio europeo e di van Rumpoy. 
Queste elezioni europee saranno di svolta perchè dovrá essere affrontata la emergenza sociale e non potrá farlo l'Europa mascherata per usare una espressione di Delors, non quella dei tecnocrati, ma quella dei volti scoperti. 
 

Le elezioni del 24 maggio dovranno servire a cambiare la politica dell'Europa non a sfasciarla. 


Roma, 14 maggio 2014

 

Il CDU presente con una delegazione a Via Caetani per il 36° anniversario di A. Moro

 Con il Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato e della  Camera, il Presidente della Regione ed il Sindaco di Roma, il CDU, con una folta rappresentanza, guidata dal Segretario nazionale On.le Mario Tassone, ha partecipato alla commemorazione di Aldo Moro in Via Caetani. Oltre all’on.le Gerardo Bianco, Presidente dell’Associazione degli ex parlamentari, erano presenti alcuni rappresentanti del PD. La  partecipazione del CDU (unico partito presente, tra tutti quelli che si richiamano alla Democrazia Cristiana), vuole essere non solo memoria del passato, ma testimonianza dei valori e dell’impegno dei cristiani in politica, avendo come esempio Aldo Moro.

Il senso profondo della democrazia, come momento di evoluzione dell’uomo, nella sua integralità maritainiana   ed il divenire della società in ogni sua componente generazionale e sociale  -  oggetto di analisi in ogni suo intervento o riflessione - danno a Moro una attualità ancor più valida oggi che,  gli istituti della democrazia,  sono in fase  di trasformazione sistematica, che tende a restringere le espressioni di democrazia.

Moro insegna che la ricerca della maggior ampiezza della democrazia è necessaria alla crescita dell’uomo.

Roma, 9/5/2014

Sconfitta politica del Governo sulla riforma costituzionale

Ieri in senato il governo ha registrato una prima pesante sconfitta politica sulla riforma costituzionale al momento del voto su un ordine del giorno Calderoli su un punto che era irrinunciabile per l'Esecutivo.
Oggi v'è il tentativo di ridimensionare il significato di quel voto che ha un valore certamente più politico più che tecnico.
Il regolamento del Senato, diversamente dalla Camera, impone di votare all'inizio del procedimento gli ordini del giorno che servono da orientamento alle fasi successive dell'iter.
La questione è la tenuta e la forza della maggioranza rispetto ad un testo che presenta molte criticitá.
Il governo ha sbagliato a presentare un testo arroccandosi su di esso con il tentativo di schiacciare la maggioranza e restringendo gli spazi del confronto parlamentare.
È un pessimo inizio. È molto rischioso perchè senza un libero e franco confronto sará difficile con i numeri dati portare avanti una riforma che richiederebbe larghe intese piuttosto che esigue maggioranze.
Non possiamo neppure immaginare che la sinistra voglia ripetere il film del 2001 con una riforma del titolo v approvata con soli 4 voti di maggioranza, che ha portato ai disastri sulla legislazione concorrente e al conflitto stato regioni che sono sotto gli occhi di tutti, oltre che al super lavoro della Corte Costituzionale.

Roma, 7 maggio 2014

Audizione del Presidente della Associazione ex parlamentari Gerardo Bianco presso la 1 commissione Affari Costituzionali nell'ambito della indagine conoscitiva sulle riforme istituzionali

 

PRESIDENTE FINOCCHIARO. Ringrazio per la sua presenza il Presidente dell'Associazione ex parlamentari della Repubblica, Gerardo Bianco, cui cedo la parola.
BIANCO. Signora Presidente, desidero anzitutto ringraziarla per aver accolto il nostro invito ad essere oggi ascoltati su un tema che, ovviamente, interessa direttamente la nostra associazione. Mi riferisco alla questione principale su cui abbiamo orientato la nostra attenzione, che è la cosiddetta riforma del Senato della Repubblica, sia nella sua impostazione, così come prevista dal disegno di legge del Governo, sia negli effetti che una eventuale diversa - ci auguriamo - elezione del Senato può avere sulla legge elettorale e sul sistema democratico del Paese. La riforma così come concepita non può non avere degli effetti anche sulla riforma elettorale, per una serie di considerazioni che per brevità non sottolineo, ma che credo non possano sfuggire e che riguardano l'assetto democratico del Paese.
Per quanto concerne il Senato, voglio subito fare una precisazione. Nella stragrandemaggioranza, noi siamo ovviamente favorevoli alla differenziazione. Da tempoabbiamo portato avanti un discorso che riguardava una differenziazione e - quindi - ilsuperamento del cosiddetto sistema bicamerale paritario. Mi permetto di dire chel'argomento è presente fin dagli anni Settanta, quando presentai in questa sede unaproposta legislativa che prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto (lei, signora Ministro, non era ancora nata, perché si tratta di una proposta presentata nel lontano 1975). Purtroppo questo ritardo sta dimostrare che è giusto l'impulso che il Governo ed anche le forze politiche danno affinché si affronti finalmente questo problema.
A noi sta molto a cuore capire sulla base di quale principio si imposta questa riforma.
A nostro avviso, per come è concepita, l'effetto disgregante - uso un termine forte - sul piano della Carta costituzionale è assicurato. Secondo il mio punto di vista, che è confortato da analisi di importanti studiosi, l'effetto sarà - paradossalmente - esattamente contrario a quello che il Governo desidera. Si tratta, cioè, di un classico esito storico della eterogenesi dei fini: si finirà inevitabilmente per incontrare una serie di contrasti di posizioni, soprattutto quando si tratterà di affrontare temi che riguardano la legislazione nella quale anche il Senato, così come riformato, dovrà intervenire.
Faccio questa affermazione per dire che la nostra preferenza è indirizzata - ovviamente - verso quello che a suo tempo, come noto, Leopoldo Elia definì bicameralismo procedurale. Si tratta di un bicameralismo che non affrontava il problema, che oggi si deve invece affrontare, dello squilibrio che viene a determinarsi tra le due Camere, con una asimmetria che inevitabilmente avrà degli effetti negativi,
ma anche con una serie di contraddizioni ed aporie interne che immediatamente emergono dalla lettura del testo del Governo. Senza andare molto lontano, mi permetto di osservare che quando si prevede che «Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato delle autonomie», ciò implicherebbe una sostanziale parità di funzioni. Tuttavia, non appena si passa al secondo comma, vi è già una differenziazione, con una serie di effetti, secondo me estremamente gravi, nel momento in cui si afferma che «Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione». Allora, se i componenti del Senato della Repubblica, che vengono eletti come previsto nel testo, non rappresentano la Nazione, cosa rappresentano? Inevitabilmente interessi particolari. Questa impostazione, peraltro, viene poi paradossalmente a scontrarsi - perché diventa un purus flatus voci, come dicevano i latini - con la definizione dell'articolo 5, che rivede l'articolo 67 della Costituzione, ove si sottolinea che «I membri del Parlamento esercitano le loro
funzioni senza vincolo di mandato». Ora, un presidente di Regione, o il sindaco di una città eletto senza che rappresenti la Nazione inevitabilmente finisce per sentirsi vincolato al mandato per cui è stato eletto, con effetti che non possono che essere quelli di rappresentare sostanzialmente una Camera delle rivalse, delle frustrazioni, delle contestazioni. Osservo ancora che il testo prevede che il Senato delle autonomie partecipa all'attuazione degli atti normativi dell'Unione europea, se non fosse che all'articolo 15 la Camera delle autonomie viene esclusa dalla ratifica dei trattati internazionali. Ad una lettura rapida ho contato 32 discrasie e contraddizioni. Tutto questo per una ragione molto semplice: lo stesso concetto del Senato delle autonomie, così come impostato, si scontra con l'assetto del nostro sistema istituzionale. La nostra Repubblica è «una e indivisibile», come sancito dalla Carta suprema: non è una Repubblica federale; non è la Repubblica dei Länder.
Visto che il Ministro ha richiamato anche l'attenzione ad un programma dell'Ulivo, del quale fui uno dei partecipi e fondatori, mi permetto di dire che in quel caso era abbastanza chiaro ed evidente che si voleva indirizzare il Paese verso la costruzione di uno Stato federale, peraltro collegato ad un sistema elettorale chiaramente indicato (che era quello del doppio turno), con una filosofia completamente diversa. Quindi, il richiamo alla coerenza rispetto a quel progetto non può essere rispecchiato in questo testo che, così com'è formulato, ripeto, avrà effetti assolutamente diversi da quelli che si vogliono raggiungere, ad esempio la rapidità delle decisioni. Vorrei ancora richiamare un altro elemento. La Camera delle autonomie può richiedere la presenza costante del Governo che, secondo una disposizione, è obbligato ad essere presente. Anche in questo caso, paradossalmente, così come è formulato, il progetto prevede una situazione asimmetrica all'interno della asimmetria del Parlamento, nel senso che c'è un Senato che da una parte perde ruolo e potere e diventa una Camera secondaria per tutta una serie di effetti, e dall'altra parte, finisce per avere poteri ed influenze tali, in una situazione di asimmetria, da determinare persino il blocco e quindi la difficoltà di procedere. Il groviglio, a mio avviso, invece di sciogliersi finisce per diventare ancor più gordiano, e non ci sarà nessun Alessandro a rompere il nodo con un colpo
di spada!
Questi sono una serie di elementi negativi ma ne cito anche un altro: la scelta della modalità di elezione, per esempio, dei giudici costituzionali, ovvero tre eletti da una Camera e due dall'altra, con una Camera che non ha un'investitura diretta. Anche qui c'è un problema rilevante che credo il Senato debba affrontare.
Vogliamo, come obiettivo, rilegittimare le istituzioni? Ebbene, la rilegittimazione delle istituzioni passa inevitabilmente attraverso una consultazione diretta di chi deve essere rappresentato; solo un bagno diretto di elezione del Senato, secondo logiche appunto tradizionali (che sono quelle dell'investitura diretta) può rilegittimare le istituzioni.
Il problema dei costi è facilmente affrontabile. La proposta di legge che, solo per memoria storica, ho citato risale al 25 novembre del 1975, e prevedeva una netta riduzione del numero dei parlamentari: metà deputati e metà senatori. Mi permetto di aggiungere che prevedere la riduzione dei membri della Camera dei deputati significa rendere la stessa più efficiente, perché è ben diverso gestire Commissioni con la metà dei membri o un'Aula che passa da 630 componenti a 315, o anche a 400. Questo renderebbe tutto più semplice, andando proprio nella direzione di ciò che il Governo giustamente insiste nel voler ottenere, ovvero la rapidità delle decisioni. Peraltro chi ha avuto lunghe esperienze alla Camera e al Senato sa che tale obiettivo sarebbe molto più facilmente conseguibile attraverso una seria revisione dei Regolamenti parlamentari: basterebbe utilizzare la sede redigente per poter accelerare i processi
legislativi e quindi ottenere risultati positivi. Detto questo, presenterò un dossier dove è contenuta della documentazione al riguardo.
Voglio concludere dicendo che a noi sembra rispondere meglio alle esigenze della giusta riforma del Senato il provvedimento presentato dal senatore Chiti, anche se, a mio avviso, deve essere corretto e rivisto soprattutto per le procedure. Mi permetto solo di osservare che il Governo, secondo una logica di celerità e di volontà dello stesso di attuare il proprio programma, sarebbe più facilitato dall'avere due Camere differenziate nelle competenze, senza l'obbligo della doppia lettura. Quest'ultima potrebbe essere realizzata solo se una delle due Camere, a maggioranza assoluta dei propri componenti, lo richiedesse per una correzione. Sappiamo, infatti, che spesso è lo stesso Governo ad aver bisogno di rivedere decisioni che sono state adottate. Chi ha lunga esperienza parlamentare sa bene che molte volte è proprio il Governo a chiedere all'altro ramo del Parlamento di correggere alcune delle decisioni adottate.
Tutto questo si otterrebbe molto più facilmente con la possibilità del Governo di scegliere l'una o l'altra Camera per l'approvazione di un provvedimento, senza bisogno di revisione. Aggiungo che c'è una piccola minoranza che aderisce all'idea di fare del Senato una sorta di Senato sul modello di quello francese (qui non siamo al Bundesrat, che è un modello completamente diverso, in un quadro diverso, in una coerenza diversa di Repubblica federale). Penso, in conclusione, che la cosa più importante sia cercare di ottenere l'obiettivo che il Governo si pone, proprio correggendo ciò che il Governo ha proposto.
PRESIDENTE FINOCCHIARO. Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione odierna.
Rinvio il seguito dell'indagine conoscitiva in titolo ad altra seduta.

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Audiovideo della audizione del Presidente della Associazione ex parlamentari on. Gerardo Bianco presso la Commissione affari Costituzionali del Senato nell'ambito della riforma istituzionale

http://webtv.senato.it/4191?video_evento=865

Dalla democrazia parlamentare alla democrazia popolare.

 

Il presidente del consiglio ha presentato, dopo il consiglio dei ministri odierno, le linee programmatiche di riforma della pubblica amministrazione. Senza entrare nel merito delle indicazioni, che restano tali fino alla presentazione dei documenti parlamentari, v'è un punto che merita attenzione. 
Il metodo certamente innovativo rompe gli schemi del passato. Vengono aperte dal governo le consultazioni sulla rete fino al 13 giugno. Si sta passando rapidamente dalla repubblica parlamentare ad una nuova forma di democrazia popolare. Sulle linee di riforma infatti si apre il confronto sulla rete. Il governo sostiene che vaglierá e recepirá i suggerimenti che perverranno. 
Di fatto sposta il luogo del confronto dal parlamento alla rete, senza nessuna garanzia e filtro democratico. 
Non saranno più i parlamentari i protagonisti delle scelte che in ogni caso avranno un ruolo residuale e secondario. Non sará più il Parlamento il luogo del confronto. 
Non saranno più i rappresentanti del popolo a interpretare le istanze della societá civile in quanto il governo dialogherá in modo diretto con gli attivisti della rete.

È un duro colpo che viene inferto al funzionamento delle regole democratiche su cui tutti dovrebbero meditare. 
È un duro colpo che viene assestato anche alle formazioni intermedie, all'associazionismo che non avrá più i tradizionali collegamenti. In nome del rapporto diretto con il popolo viene colpito il principio di rappresentanza.

V'è in definitiva il disconoscimento del ruolo dei partiti e dei sindacati. 
Un governo che ha una linea chiara presenta un decreto legge, affronta il parlamento e fa scelte su cui il popolo esprimerá al momento opportuno le sue valutazioni. 
La rete non può essere l'alibi per un consenso fittizio.

 

Roma, 30 aprile 2014

Il compromesso di basso profilo sul Senato: dalla abolizione del CNEL al nuovo Senato CNEL

 

Il compromesso che si profila sulla abolizione del Senato appare di basso profilo.

Dopo l’incontro al Quirinale, il Presidente del Consiglio ha rimosso le iniziali rigidità e appare disponibile ad una intesa che tuttavia serve soltanto ad evitare una sconfitta politica dopo che il Governo si era arroccato sulla immodificabilità del testo su quattro punti irrinunciabili: nessun voto di fiducia, nessuna indennità, nessun al voto sul bilancio e nessuna elezione diretta. Da quattro no si è passati a 2 no e due ni. E’ certamente saltato il crono programma.

Mentre per l’indennità si aggira la questione prevedendo che resti a carico delle Regioni. Si tenta poi di rivedere la questione della elezione diretta con una elezione attraverso il voto regionale, con un sostanziale entusiasmo della Lega che pensa di salvaguardarsi con una simbolica presenza marginale, e una piccola soddisfazione alla minoranza interna del PD, immaginando così di superare l’empasse.

Quindi né vincitori né vinti, ma al prezzo di un piccolo compromesso che prevede una soluzione che non definisce il ruolo e la funzione della seconda Camera. Essa appare la riproposizione del Cnel che si voleva abolire, sotto altre vesti. Si individua un Senato delle Autonomie che non diventerà il luogo del dialogo istituzionale, ma quello della protesta delle problematiche che non troveranno soluzione né nella Camera politica né nei territori.

 

Qui non è in discussione un ammodernamento del sistema. Nessuno è pregiudizialmente contrario ad un monocameralismo. Sta bene una sola Camera che voti la fiducia politica, ma quello che manca è un disegno organico delle funzioni del Senato. Le funzioni nuove e specifiche possono essere così definite: tutta la fase ascendente e discendente della normativa e dei rapporti con l’Unione Europea; l’azione di controllo sul governo; le funzioni di garanzia rispetto alle prerogative e immunità dei deputati che non possono decidere su se stessi soprattutto se si introduce un sistema elettorale maggioritario come l’italicum che viola pesantemente il principio di rappresentanza e di uguaglianza con soglie escludenti di ampie fasce di elettorato; competenza incidente sul bilancio perché è esso un unicum tra patto di stabilità interno, scelte di perequazione, consolidato nazionale, legge di stabilità e parametri di Maastricht.

Resta il nodo irrisolto della dell’equilibrio dei poteri che verrebbe stravolto con le modifiche che interverrebbero sul sistema di votazione degli organi costituzionali e delle authorities.

 

Il Senato va dotato di poteri pieni che possono concretizzarsi solo con un bagno elettorale. Non con elezioni indirette che porterebbe ad una grande lottizzazione di nominati, ma con una scheda elettorale che porti alla elezione dei senatori chiamati a quelle funzioni. Potranno essere anche abbinate alle elezioni regionali e acquisterebbe il significato di elezioni di mezzo termine perché non coincidenti con le elezioni politiche.

Se non si affrontano i nodi politici resterà il pasticciaccio brutto del connubio del Nazareno che servirà a far passare con finte tensioni la nottata delle elezioni europee. Resteranno i problemi di un sistema istituzionale del Paese che come configurato sarà poco rispettoso della Carta Costituzionale e dei suoi principi ispiratori.


 

Roma, 28 aprile 2014

Rilievi sulla posizione del Ministro Boschi

lettera inviata al "Corriere della sera"

Gentile direttore,

In una lettera al "Corriere della sera" il Ministro per le riforme on. Maria Elena Boschi per dimostrare la coerenza del progetto riformatore del governo Renzi, soprattutto nell'impianto costituzionale,  con la linea del PD richiama il programma dell'Ulivo del 1996. Non vi è dubbio che in quel programma che era di Romano Prodi e credo non sottoscritto da tutti i partiti che sostenevano la premiership, si faceva riferimento alla trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni.
Peccato che abbia dimenticato che il sistema elettorale previsto non era l'italicum ma un sistema uninominale con doppio turno alla francese! Non è cosa ininfluente rispetto all'architettura istituzionale.
C'è poi un altro punto di quel programma dell'Ulivo del 1996 che viene ignorato: un cambiamento di maggioranza di governo richiede lo scioglimento della camera e il ricorso a nuove elezioni, come non si è verificato con il governo Renzi e come si è verificato con la caduta del governo Prodi nel 2008!.

Maurizio Eufemi,
Giá senatore nella Xiv e Xv legislatura

Introduzione alla presentazione del libro di Paolo Acanfora “Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità Atlantica”

Il libro che oggi presentiamoMiti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità Atlantica”, di Paolo Acanfora ha suscitato in me una grande sorpresa.

Pensavo infatti di trovarmi di fronte un esame della politica estera DC nelle sue linee generali, più basato sulle idee che sugli avvenimenti. Invece nel libro c’è una documentazione così dettagliata e documentata, da fornire i resoconti anche di alcuni congressi e di alcuni avvenimenti di quei tempi fra i quali un Congresso delle N.E.I. tenutosi a Bad Ems nel 1951.

Ebbene a quel Congresso io c’ero: era a capo della nostra delegazione l’On. Mario Cingolani ed io ero stato invitato in rappresentanza del Movimento Giovanile della DC.

In un mio scritto ho raccontato un episodio che avvenne in quel Congresso. Mi sia permesso di far questa autocitazione:“Ho visto con i miei occhi di ragazzo rinascere la Germania.  L’ho raccontato in un libro. Ero a Bad Ems, piccola città termale che era rimasta  intatta in mezzo alle rovine della Germania. Era una riunione a cui doveva portare un saluto Adenauer. Ma Adenauer, nominato dagli alleati capo della amministrazione civile della Germania occupata, non era potuto venire, perché convocato a Parigi.

All’improvviso si sparge la voce: arriva Adenauer. Usciamo di corsa dal Kursaal: fuori c’è una pioggia fine fine, che si confonde con il colore ed il suono del fiume Ems. Non ci si vede molto, non c’è luce e non ci sono lumi. Arriva Adenauer, un signore alto, di quasi ottanta anni, con un volto asiatico impenetrabile, con un lungo cappotto ed un cappello grigio, grande, a lobbia.

Non entra nel Kursal, ma sale i pochi gradini di un gazebo che non ha più vetri, attorno al quale si é raccolta una piccola folla. Sono persone rattrappite sotto la fine pioggia, vestite con consunti abiti militari, con qualche cappelluccio di fatica dei soldati tedeschi . Adenauer, “Der Alt” dice poche parole, senza enfasi. Annuncia che i governi americano, francese ed inglese, ma non la Russia, hanno riconosciuto la Germania ed il governo tedesco. La Germania torna ad esistere. C’è grande sorpresa ed emozione, ma nessuno applaude. A questo punto Adenauer si toglie il cappello sotto la pioggia e con voce bassa, come in chiesa, intona la seconda strofa dell’inno tedesco, quella dedicata alla libertà. Un coro di voci sommesse  si alza fra la gente, un coro basso , straziante, ma unito, profondo e corale, come solo i tedeschi sanno fare. Le persone raccolte, la piccola folla ora è diritta, in piedi ed a me pare di vederli di nuovo vivi, più alti, quasi impettiti, con le lacrime agli occhi. Ho visto risorgere la Germania”.

Ma nella qualità di testimone più che nella funzione di recensore debbo anche ricordare che fui presente a Bad Ems in un’altra occasione per la riunione dei giovani della NEI. Fui incaricato di fare una relazione che è riportata in “Per l’Azione” del Novembre 1951, ovviamente sul tema europeo (scaricabile in pdf dal sito dell’Istituto Sturzo: http://91.212.219.213/RDB/Public/View/ViewIndex.aspx?idView=46). La relazione è presentata con un simpatico senso di autocritica. Infatti il direttore di Per l’Azione (che ero io) la presenta in questa maniera: “Quessta è la relazione che Ciccardini ha tenuto a Bad Ems, al Congresso della N.E.I. ed è la prima volta che fra giovani DC europei si parla di impostazioni storico-politiche e di scelte culturali politiche uscendo dal sentimentalismo unitario. La relazione non ha avuto alcun successo. accusato di teoricismo non ho avuto neppure l’onore della discussione, la quale invece si è soffermata sulla questione dei teorici e dei pratici”. Per maggior comprensione del commento autoironico devo ricordare che la “querelle fra teorici e pratici” era il tema del dibattito fra dossettiani ed andreottiani all’interno del movimento giovanile. Forse noi allora eravamo troppo teorici, anche se gli andreottiani erano troppo pratici.

Comunque la relazione è effettivamente molto astrusa. Parte dalla dottrina sociale della Chiesa, analizza e condanna il capitalismo esamina e seppellisce tutto quello che va dal marxismo allo stalinismo per riaffermare la necessità dell’Europa unita. La conclusione era questa che, seppur lodevolissima per la sua fede europea, appare indigesta per la sua formulazione.“La condizione per cui lo spirito democratico-cristiano può compiere la sua attuazione nel tempo presente, sta nel non esaurirsi nella funzione di governo, ma nel rimanere forza ideale, capace di rinnovarsi ogni volta. Tale funzione consiste nella elaborazione di una nuova conoscenza della società a cui devono fare il loro contributo la filosofia dell’essere e la teoria generale dell’economia. Su questa base è possibile fondare una conoscenza del mondo moderno e quindi un’azione politica integralmente nuova. Punto di partenza per questa elaborazione nuova è la coscienza europea, cioè la coscienza che l’Europa anche se incommensurabilmente più debole dei due colossi (americano e sovietico) ha una capacità di rinnovamento e di liberazione ad altri preclusa”.

Trovo il pezzo molto dossettiano, molto confuso, molto presuntuoso, ma anche molto rappresentativo della fortissima tensione dell’ideale europeo.

Dato questo mio contributo non essenziale all’atmosfera dell’epoca vorrei esprimere la mia sorpresa per il lavoro di Paolo Acanfora.

Sostanzialmente riscopre cose che abbiamo dimenticato essere importanti, ma che analizzate nel particolare acquistano un valore enorme. Particolarmente attuale il progetto della CED che a guardarlo oggi sembra un’utopia ma che allora, in tempi difficili, era un grande atto di coraggio e responsabilità.

Noi abbiamo dimenticato la cultura della crisi che seguì alla seconda grande guerra civile europea. L’Europa per due volte aveva suscitato un conflitto mondiale in cui morirono più persone che non negli altri conflitti della storia umana messi assieme.

Non solo fu una “inutile strage” ma fu anche il suicidio dell’Europa e la vittoria del male assoluto con i totalitarismi vincenti, con i loro campi di concentramento, con l’abominevole olocausto. In questa atmosfera era molto ardito pensare ad una comunità di difesa che era intesa più come un’assicurazione contro la possibilità di guerre future che non come una possibilità di veder rinascere la potenza europea. Nel rivivere gli atti concreti del sorgere dal progetto della CED si nota questa grande difficoltà e questa speranza utopica. E la si rivive. È molto interessante il punto di partenza culturale: la coscienza che al di là della sua sconfitta l’Italia fosse espressione di una civiltà ed avesse il dovere di salvare l’Europa. C’è all’origine nella visione di De Gasperi e nella visione di Gonella una forma di giobertismo cattolico e nazionale in cui il valore dell’Italia si riafferma come valore di civiltà europea.

È in questa fase che De Gasperi adopera per la prima volta, ed Acanfora ce lo ricorda, il concetto di “partito nazionale”, concetto veramente straordinario per i tempi. Il “partito nazionale” ricordava il Partito Nazionale Fascista e non per imitazione, ma per contraddizione. Infatti “partito nazionale” era unito all’ideale civile della nazione come formula giobertiana. Ma “partito nazionale” era anche un superamento del “partito popolare” e del “partito dei cattolici”. Era “nazionale” il partito che vedeva le nazioni nel contesto europeo. È in questa forma che l’europeismo diventa una connotazione, un DNA della Democrazia Cristiana.

È interessantissimo che questo processo, che chiamerei di “resurrezione”, vada di pari passo con la scoperta della democrazia americana, della sua funzione liberatrice e della sua leadership. Non in contraddizione con l’Europa, ma in collaborazione per una pace universale e per l’utopistico progetto delle nazioni unite, la cui definitiva realizzazione è ancora da farsi. Fu in quel momento che noi giovani scoprimmo il valore della guida americana alla democrazia. E ci apparve sempre strano l’antiamericanismo dei fascisti e dei comunisti che per motivi antichi e grondanti sangue seguitavano a dipingere l’America come il paese dei cowboy, degli sceriffi e della plutocrazia. Un pregiudizio che rimane ancora vivo in tutti coloro che si oppongono alle forme democratiche del presidenzialismo americano come fossero l’anticamera di un nuovo fascismo.

Ed è veramente interessante seguire il formarsi del programma della DC nella sua versione milanese, nella sua versione di Camaldoli, nella sua versione scritta da Demofilo.

Questo impianto fondativo cresce, diventa patriottismo europeo, diventa internazionalismo democratico-cristiano, ispira dopo il fallimento della CED un nuovo progetto di comunità fondata sull’economia e, proprio in conseguenza della grande crisi attuale, si ripropone come progetto di grande novità e di grande necessità.

Bartolo Ciccardini

Qualcosa si muove sulla riforma del Senato

Sulla riforma del Senato si sono levate oggi voci autorevoli. Innanzitutto quella del Presidente del Senato Grasso, poi quella del senatore a vita Mario Monti.

Aprono una breccia rispetto al muro alzato dai sostenitori dell'accordo Renzi - Berlusconi. Invitano ad un ripensamento rispetto alla soluzione prospettata. Hanno di fatto respinto il precotto che era immangiabile. Il presidente Grasso pone il Senato come sede dei diritti. Mario Monti individua un allargamento della composizione alle autonomie funzionali con una trasformazione in un Senato della Riflessione che guarda ai problemi di meglio lungo periodo proprio perché sganciato dalla fiducia politica e dalla decisione quotidiana. Non è invece chiarita dal senatore a vita la questione fondamentale della legittimazione dei senatori, che non potranno essere cooptati o nominati di secondo livelli ma di elezione diretta.

Solo con la legittimazione democratica il Senato potrá avere la forza per assolvere alle funzioni che sono state richiamate da Grasso e da Monti. Si tratta ora di respingere l'ultimatum renziano del prendere o lasciare che l'accordo sottostante vorrebbe imporre anche prendendo atto che posticipando la legge elettorale a dopo la riforma costituzionale di fatto l'intesa politica è giá stata stravolta impedendo qualsiasi ipotesi elettorale nel breve periodo a meno di non utilizzare il consultellum.

Roma, 30 marzo 2014

 CONGRESSO CDU

 

Il partito dei Cristiani Democratici Uniti terrà un congresso a Roma il 14 e 15 marzo per sancire definitivamente il distacco dall'Udc di Pier Ferdinando Casini e dare vita ad un terzo polo equidistante da Fi e dal Pd. È questa la prospettiva emersa da una conferenza stampa svoltasi stamane con il segretario del Cdu Mario Tassone ed altri ex parlamentari per la presentazione dell'assise. «Non possiamo accettare - ha detto il leader - che Lorenzo Cesa continui ad essere un partito disponibile al migliore offerente». IL Cdu è l'unico partito che ha ereditato di diritto lo storico simbolo scudocrociato con la scritta Democrazia Cristiana, perchè lo scudo dell'Udc ne è privo. Tassone ha ricordato che la storia del suo movimento «viene da molto lontano, dal '95: nel 2002 abbiamo fatto un patto costituente con Casini che è stato però politicamente tradito. Con il congresso riprenderemo a tessere l'aggregazione con tutte le associazioni, i partiti e i movimenti che vorranno lavorare per il centro». Tassone è stato molto critico nei confronti della «deriva plebiscitaria nata con l'accordo Renzi-Berlusconi che sta causando gravi danni al sistema elettorale solo per motivi di puro potere». Ovvie le critiche alla mancanza di preferenze nella nuova normativa. Maurizio Eufemi, ex senatore, ha detto che il congresso punterà «alla rigenerazione della politica rilanciando i valori di Luigi Sturzo per restituire a tutti il principio della partecipazione alla politica, ora negata da una legge elettorale che già si presenta peggio del porcellum».

Il congresso eleggerà il nuovo segretario del partito che ha 2.200 iscritti.

 

 

IV CONGRESSO CRISTIANI DEMOCRATICI UNITI “RICOMINCIAMO DALL’UOMO”

HOTEL SHERATON ROMA

14/15 MARZO 2014

 

Intervento Maurizio Eufemi (guardalo su YouTube)

 

 

Care amiche e cari amici del congresso del CDU,

Noi che oggi siamo qui non abbiamo cancellato le parole “democratici cristiani” dal simbolo, rivendicando le ragioni, la storia, la identità.

Dobbiamo ringraziare Mario Tassone che coraggiosamente ha voluto ricostruire la nostra casa. E’ stato violato il patto fondativo del 2002, distrutto da ambizioni personali, scelte ambigue, sconfitte clamorose; ricordate le candidature effimere di Emanuele Filiberto e Magdi Allam?. E’ stata progressivamente emarginata la classe dirigente del CDU, con la complicità di chi doveva difenderla e si è arreso alle convenienze.

Siamo stati traditi tutti noi che siamo qui.

E allora riprendiamoci la libertà di agire, ricostruiamo una casa più grande, dove possa sventolare il nostro vessillo. Portiamo avanti il nostro programma con le nostre idee, con la nostra gente.

Difendiamo la nostra storia così come avevamo difeso lo scudo crociato nel 1994 con laceranti scissioni quanto c’era chi si rifugiava sotto l’ombrello berlusconiano come Casini e chi rinnegava la nostra storia cercando una discontinuità infinita fino ad annegare nel partito socialista europeo.

Oggi Fioroni si accorge che l’elettorato cattolico rifiuta questa scelta!

E, quel che è peggio, nella cultura del personalismo renziano che lo porta ad esaltare il grandioso risultato della legge elettorale che non è una nota di merito ma di demerito perché è peggiore della legge Acerbo del regime fascista. L’Italicum è uno scempio costituzionale; è una vergogna!!!. Pone barriere all’ingresso, blocca l’esistente, garantisce un bipolarismo che non c’è per trasformarlo in bipartitismo forzato, vuole mettere una camicia di forza al sistema.

E’ un furto di democrazia perché i voti non sono uguali, quelli che valgono di più o meno.

Per contrastare il disegno dobbiamo mobilitarci promuovendo un comitato referendario per l’abrogazione dell’italicum.

Presenterò una mozione in tal senso alla conclusione dei lavori del congresso.

Cari amici c’è un virus che si sta diffondendo nella società contemporanea, il virus della sondaggiocrazia come ha detto Sartori e della videocrazia. È una miscela pericolosa che porta alla demolizione delle istituzioni rendendole inutili, superflue, costose. La democrazia non si taglia ma si difende,si rafforza, si consolida rendendo efficienti le istituzioni.

Il virus si combatte con la politica e la partecipazione!

Molti dell’area di centro hanno fatto prevalere posizioni di potere piuttosto che combattere la battaglia.

Questo è un congresso aperto senza filtri, libero. Vogliamo riscoprire la politica come motore delle aspettative della società, che include, che non rottama, che costruisce ponti familiari e intergenerazionali. La rete non può sostituire la rappresentanza. Un partito non è un social forum. Non siamo una aggregazione liquida dove stiamo insieme come quelli che lasciano il cappotto al guardaroba per il tempo dello spettacolo teatrale.

Noi stiamo insieme per storia, per ideali, per convinzioni, che vogliamo difendere e perseguire.

Il governo sottovaluta la situazione e i vincoli europei. Annuncia una manovra che alimenta illusioni, favorisce i lavoratori sindacalizzati ed esclude gli incapienti, i lavoratori delle partite IVA, i senza lavoro, gli autonomi, gli ambulanti. Introduce uno strano concetto di ceto medio più vicino alla sopravvivenza che non riferito ad una classe sociale produttiva che viene penalizzata. Si colpisce il risparmio orientato agli investimenti, vogliono colpire i pensionati.

Difendiamo la nostra identità perché affondiamo le radici nel popolarismo sturziano e nell’interclassismo degasperiamo.

Riscoprire quei valori del popolarismo significa porre attenzione ai più deboli, ai vessati, agli umiliati. Popolarismo è combattere le ingiustizie, è difendere la libertà; è riformismo;è partecipazione.

Non abbiamo visto gesti di solidarietà istituzionale verso quel giovane padre di famiglia titolare di una pizzeria, che si è suicidato per una sanzione perché la moglie lo aiutava.

Sono queste le questioni che dobbiamo affrontare a cominciare da Equitalia, per un fisco giusto.

Oggi vengono rimpianti gli strumenti per crescita come erano gli istituti di credito speciale, la cassa per il mezzogiorno e le partecipazioni statali.

Solidarietà significa fare non ciò che è bene per qualcun altro ma ciò che è bene per tutti noi ha detto Claus Offe, quel noi sta per solidarietà consolidata e identità condivisa.

 

Vogliamo una azione di recupero della partecipazione politica soprattutto dei giovani in una democrazia pluralista.

Noi siamo nella famiglia del popolarismo europeo, ma vogliamo cambiare una linea troppo schiacciata sulle tecnocrazie. Va riscoperta la solidarietà e la coesione europea per uno sviluppo armonico di tutte le regioni europee. L’obiettivo è costruire un partito transazionale popolare in cui i cittadini siano protagonisti delle scelte democratiche europee, per costruire un noi europeo che ancora non siamo. Dobbiamo riprenderci il nostro destino.

La Chiesa ha saputo guardare avanti; ha scelto la sua guida nella periferia del mondo, in uno stato dove il ceto medio ha vissuto una crisi profonda che lo portava al punto di chiedere sostegno alla Caritas. Credo che il Ppe nella scelta del presidente della commissione europea avrebbe dovuto fare una scelta diversa, non un rappresentante del paese più ricco d’ Europa come il Lussemburgo, che ha il PIL procapite diciassette volte maggiore di quello della Bulgaria.

Non è un caso che l’Ungheria ha appoggiato il candidato francese Barnier visto che il peso soffocante, quasi il 40% dell’economia è in mano alla Germania, è quasi una reazione.

Prevalgono le furbizie sia esse della Fiat che va in Olanda e a Londra sia di Depardieu che va in Belgio alla ricerca di sistema fiscali più favorevoli. La crisi del mondo contemporaneo ci impone di ripensare il modello di sviluppo troppo schiacciato sulla finanziarizzazione, recuperando invece i principi della economia sociale di mercato che combina i valori della libertà individuale, della solidarietà e della sussidiarietà, un capitalismo umano e una economia al servizio delle persone. Parlare dell’uomo come ci ha ricordato ieri Don Tommaso Stenico significa declinarlo su ogni aspetto della vita, dalla sanità alla giustizia, dal fisco alla produzione, dall’ambiente fino alle istituzioni.

Ricominciamo dall’uomo in economia significa anche un nuovo punto di incontro tra capitale e lavoro con la partecipazione dei lavoratori al destino delle imprese attraverso regole trasparenti.

 

Cari Amici,

quando con Mario Tassone abbiamo cominciato a riflettere se dopo una vita vissuta in politica valesse la pena rimettersi alla stanga non abbiamo avuto esitazioni.

Dobbiamo dare ai giovani che sono qui l’entusiasmo di riscoprire la politica, quell’entusiasmo che ci è stato trasmesso.

Ricominciamo dall’uomo è la sintesi di chi siamo, di con chi stiamo, di dove vogliamo andare.

Il congresso odierno non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza per superare la diaspora, fare ammenda degli errori, rinunciare a qualcosa, mettersi in gioco per favorire una più ampia riaggregazione per ricostruire una presenza nella società e nelle istituzioni, per raggiungere una massa critica che ci consenta di contare, di far sentire la nostra voce.

Voglio essere uno di voi, uno di noi.

Possiamo ancora scrivere una pagina importante della storia dei democratici importante se ritroveremo l’unità per partecipare al gioco politico, per difendere i nostri valori, altrimenti saremmo solo spettatori ai margini del campo di gioco.

Domani cari amici è un anniversario importante per tutti noi e per voi Mario e Marco in particolare.

Ricorre infatti il trentaseisimo anniversario della strage di via Fani. Rivolgiamo un pensiero alla memoria di Aldo Moro e della sua scorta, vittime del terrorismo che si sono sacrificati per la democrazia del nostro paese.


Roma, 14 - 15 marzo 2014

la registrazione audio dell'intervento di Maurizio Eufemi si trova nel sito di Radio Radicale all'indirizzo:

http://www.radioradicale.it/scheda/406026/ricominciamo-dalluomo-iv-congresso-nazionale-dei-cristiani-democratici-uniti-2-ed-ultima-giornata

 

 

 

Chi vuole la rinascita della Dc. Speranze, delusioni e progetti del Cdu di Tassone

15 - 03 - 2014 Edoardo Petti

La formazione guidata da Mario Tassone punta a creare un'ampia aggregazione cattolico-popolare. E lancia l’idea di un referendum abrogativo dell’Italicum.

 


È nato l’embrione di una nuova DC? L’interrogativo sorge spontaneo analizzando lo svolgimento e l’esito del 4° Congresso nazionale dei Cristiani democratici uniti celebrato allo Sheraton Hotel di Roma. Un’iniziativa in cui ogni elemento visivo, gesto e parola sprigionano lo spirito e l’atmosfera della Democrazia cristiana


Una forte impronta democratico-cristiana

 

Sul palco campeggia il simbolo dello Scudo Crociato con i volti di Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi

. E negli interventi aleggiano l’opera e l’insegnamento di Aldo Moro

. L’assemblea richiama più volte la visione dei padri fondatori popolari dell’Unione Europea, l’umanesimo cristiano contro l’egemonia della finanza e dell’economia, la stella polare del PPE

 alternativo ai populismi e al Partito socialista europeo.

 

L’avversione per Renzi e per il maggioritario

 

È in nome di questi riferimenti che le assise del CDU ricordano le gravi violazioni delle libertà fondamentali perpetrate dal governo chavista in Venezuela

Con lo stesso bagaglio ideale manifestano avversione per il “cinismo incarnato da Matteo Renzi nel liquidare l’esperienza del governo di Enrico Letta”, e ribadiscono l’ostilità verso la stagione maggioritaria avviata nel 1994 e culminata nel meccanismo di voto approvato dalla Camera

. Legge “che al contrario del proporzionale con preferenze mortifica la rappresentanza e la libertà di scelta dei parlamentari”.Gli ostacoli sul cammino della rinascita democratico-cristiana sono presenti nello stesso mondo cattolico. Perché il Congresso del CDU certifica in modo plastico una rottura traumatica con l’Unione di centro

Una rottura e tanti interrogativi

. La scintilla che la sancisce è l’ipotesi, avanzata da AgenParl

 e confermata da Renzo Lusetti, di una lista unitaria per le elezioni europee tra UDC, Centro democratico di Bruno Tabacci, Popolari per l’Italia diMario Mauro con l’esclusione del Nuovo Centro-destra di Angelino Alfano.Scelta che avrebbe provocato un vivace confronto tra Lorenzo Cesa e Pier Ferdinando Casini, contrario all’estromissione della formazione guidata dal vice-premier. E che archivia la creazione di un soggetto politico unico dell’area popolare per il rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo

 nell’orizzonte di una nuova casa conservatrice e moderata

. Provocando di riflesso lo smembramento dell’alleanza liberal-popolare

 che ha alimentato una tempesta nell’inquieta galassia dell’ALDE

 

La partecipazione di una parte del mondo DC

 

.L’unico punto fermo nella strategia dei Cristiani democratici uniti è il rifiuto del rapporto con Forza Italia in una riedizione della Casa delle libertà

. Curioso rovesciamento storico, visto che la causa scatenante dellacostituzione del CDU nel 1995-1996

 fu la spaccatura del Partito popolare

 attorno all’alleanza con la creatura politica di Silvio Berlusconi. La priorità ora è riunire la platea più ampia di gruppi e realtà di orientamento democratico-cristiano

. Lo testimonia la partecipazione al congresso di Publio FioriGianni FontanaAlberto AlessiLuisa SantoliniClemente MastellaMarco Follini e Gerardo Bianco e Renzo Lusetti.
 

Ricomporre la diaspora popolare
 

È l’ex “fratello nemico” Gerardo Bianco, segretario del PPI all’epoca della scissione, a porre

all’assemblea l’interrogativo di fondo: esiste lo spazio per una presenza incisiva dei cattolici democratici nella vita pubblica italiana prigioniera di un generale impoverimento politico-culturale? La risposta secondo l’ex parlamentare risiede in un ripensamento critico degli errori compiuti da tutti i democratici-cristiani negli anni Novanta. Compresi gli artefici del CDU, che per opera di Rocco Buttiglione scelsero l’accordo con il Cavaliere, “figura aliena dall’esperienza cattolico-popolare”.

 

Più fiducioso nel futuro è il ragionamento di Marco Follini, convinto che un forte riferimento democratico-cristiano possa costituire l’antidoto a una spirale plebiscitaria fonte di vane speranze e di cocenti delusioni. A suo giudizio è necessario recuperare lo spirito del Convegno di Camaldoli  e del ceto dirigente cattolico del dopoguerra, animato da un forte senso della missione internazionale dell’Italia, dal valore della coesione nazionale, dall’idea di società aperta, mobile e non notabilare-censitaria. Prospettiva, spiega l’ex segretario dell’UDC, che non può  ripresentarsi sotto le bandiere della nostalgia ma deve interpretare l’opinione pubblica inorridita dalla parabola di Berlusconi e riluttante a rintanarsi nell’orbita del PSE
 

Perchè Junker in Europa?

 

A scagliarsi contro il vertice dell’UDC e contro Casini “per aver distrutto il patrimonio democratico-cristiano a causa della fame di potere, delle ambizioni personali, e di candidature improbabili come quella di Magdi Allam e Emanuele Filiberto”, è Maurizio Eufemi. Ma i bersagli polemici sono numerosi. Rivendicando l’orgoglio dell’identità cattolico-popolare contro l’annullamento del cristianesimo sociale e democratico nel socialismo europeo

l’ex parlamentare del CDU punta il dito contro “la personalizzazione politica incarnata da Renzi, responsabile di una manovra fiscale che favorisce i lavoratori dipendenti sindacalizzati e colpisce investimenti produttivi e pensioni. Oltre a essere l’artefice del furto di democrazia chiamato Italicum

Un meccanismo di voto, rimarca Eufemi, peggiore della legge Acerbo che aprì le porte al regime fascista: “Perché calpestando le istituzioni rappresentative, punta a imporre il bipartitismo fondato su videocrazia e sondaggiocrazia, tipico di forze politiche liquide sviluppate nella Rete”. È in virtù di queste valutazioni che il CDU contesta la scelta compiuta dal PPE di candidare Jean Claude Junker, “esponente del ricco e privilegiato Lussemburgo”, alla guida della Commissione UE. E rilancia i valori originari dell’europeismo democratico-cristiano: economia sociale di mercato, capitalismo umano e solidale fondato sulla partecipazione dei lavoratori al destino delle imprese.
 

Un leader antico e nuovo

 

Artefice del rilancio del CDU a costo della rottura con l’UDC

è Mario Tassone. Rivolgendosi “ai vertici dell’Unione di centro che hanno tradito la parola data e i valori originari evitando di essere presenti al Congresso e agli amici ex PPI che hanno scelto di farsi inglobare nel PD entrato nel PSE”, l’ex vice-ministro dei trasporti parte da una consapevolezza: “Tutti i democratici-cristiani oggi sono sconfitti. Perché quando la storia ci diede ragione nella vittoria contro il blocco sovietico-comunista, altri ne approfittarono emarginando le culture popolari e privilegiando la svendita della coscienza”.

È per tale ragione che egli accetta di candidarsi a segretario del CDU per un arco di tempo brevissimo, “necessario per trovare al nostro interno un giovane espressione del fermento rinnovatore del cattolicesimo popolare”. Proposta che la platea accoglie per acclamazione. E all’unanimità approva due mozioni. La prima chiede un incontro con con Junker per chiarire il programma del PPE nella campagna elettorale europea. La seconda mira a promuovere un referendum abrogativo dell’Italicum.

Ripensare politicamente i rapporti tra Europa e Russia

 

Per chi volesse approfondire un tema di grande attualitá come la vicenda dell'Ucraina e i rapporti con la Russia segnaliamo questo articolo di Bartolo Ciccardini che non troverete sui quotidiani. È una memoria politica che non deve andare dispersa se si vuole comprendere meglio il rapporto Est - Ovest fuori da schemi preconfezionati. Un gigante della storia come Giovanni Paolo II aveva la capacitá di comprendere le dinamiche mondiali con largo anticipo rispetto agli eventi. Buona lettura. 

 

È incomprensibile come l’Europa pensi di annettere alla Comunità Europea i paesi che facevano parte della Unione Sovietica, senza trattare con la Russia. E’ stato già straordinario che i paesi, formalmente indipendenti ma praticamente dominati dalla Unione Sovietica, come la Polonia si siano potuti unire alla Comunità Europea. Diverso è il caso dell’Ucraina, della Georgia e di altre ancora, che facevano formalmente parte dell’Unione Sovietica.

La soluzione del problema ucraino non riguarda soltanto l’esistenza di una minoranza russa o di basi militari russe sul territorio ucraino. Ci sono problemi più antichi, più gravi e più gravidi di conseguenze che non si possono ignorare.

Il primo riguarda la vera natura della Russia. La Russia è il più grande dei paesi europei che ha anche una dimensione continentale in Asia. In pratica, nel periodo della grande espansione europea (XVIII e XIX secolo), ha conquistato le sue colonie nell’orto di casa, contigue e controllabili, e le ha conservate quasi tutte, a differenza degli altri paesi europei. Come del resto hanno fatto gli Usa con il loro West. Questa condizione le da una posizione di forza nei confronti dell’Europa e contemporaneamente la mette nella necessità di ricercarne la collaborazione, per la migliore qualità dei livelli tecnici europei e per la specializzazione del suo mercato. In questa situazione l’ Europa non può rinunciare allo scudo americano, ma, nel contempo ha un grande interesse a coltivare buoni rapporti fra Usa e Russia.

Un secondo problema è dettato dalle sue radici storiche. La Russia è un paese europeo di confine con molte etnie e molte religioni, conquistato alla civiltà europea dai Normanni, come lo furono la Sicilia e la Britannia e profondamente segnato dalla  conversione al cristianesimo per opera dei santi Cirillo e Metodio, inviati da Roma.

La Russia originaria, quella che aveva per capitale Kiev fu provata dall’invasione dell’Orda d’Oro, che divise il sud cristiano dei santi Cirillo e Metodio dal nord cristiano di san Sergio e del Kremlino. Era inevitabile che la Santa Russia di San Sergio e di Alexander Nersky, capace di resistere a tutte le invasioni, riconquistasse i territori dell’Orda d’Oro, e riunificasse i territori di San Cirillo e Metodio e cercasse di avere un ricongiungimento con la Costantinopoli dei patriarchi bizantini.

La terza Roma, così amava chiamarsi Mosca, si sentiva figlia della seconda Roma, ed aspirava ad essere europea e bizantina. Questo impero di confine profondamente legato all’Europa suscitava timore nelle Nazioni europee che spesso cercarono di limitarne l’espansione alleandosi con l’Impero ottomano. Ma non per questo  la Russia non prese parte da sempre agli eventi della storia europea. Anzi.  

La Russia, che aveva respinto Napoleone, dopo aver occupato (o liberato?) Milano e Parigi diviene protagonista del Congresso di Vienna, (a cui il Papa non era stato invitato), dove propone all’Europa una intesa cristiana, una Santa Alleanza per il mantenimento della pace e dell’ordine. A scuola ci hanno insegnato che la Santa Alleanza era reazionaria e illiberale e quindi destinata ad essere sopraffatta dall’incontenibile moto progressivo delle Nazioni. In realtà l’equilibrio proposto dalla Russia, finché durò, garantì il grande sviluppo economico dell’Europa dell’800 e persino la sua egemonia mondiale, senza per questo impedire la crescita liberale degli stati europei. Solo l’impeto aggressivo delle Nazioni, tracimato nei nazionalismi, riuscì a distruggere nelle due Grandi Guerre mondiali l’ordinamento equilibrato della Europa  e la stessa supremazia europea nel mondo.

Nella conferenza di pace di Versailles del 1919 erano scomparvero gli imperi tedesco, austriaco e russo. Nel capitolo successivo, nel 1945, scomparvero gli altri e la Russia si ripresentò di nuovo, nel 1945, come nel 1815, dentro i confini dell’Europa, come arbitro potente, alternativo alla egemonia americana, per il suo contributo pesantissimo alla disfatta di Hitler.

Abbiamo considerato sempre il comunismo come il momento più aggressivo della Russia verso l’Europa. In realtà il comunismo, proponendo un nuovo ordine incompatibile con la realtà europea, riuscì a tenere lontana la Russia dall’Europa e a contenerla nei suoi nuovi confini acquisiti. Una Russia non comunista avrebbe potuto svolgere in Europa un compito simile a quello svolto dalla Russia zarista nella Congresso di Vienna. Oppure una funzione paragonabile a quella svolta dagli Stati Uniti.

Chi ha pensato che la fine del comunismo significasse la fine della Russia ha sbagliato. La Russia, liberata dal comunismo, dopo aver superato la gravissima crisi del post-comunismo, è di nuovo in Europa con il suo peso e deve essere presa in considerazione come un elemento europeo di grandissima importanza.

Non si può immaginare la Russia come se fosse la replica della Unione Sovietica. Non si possono cambiare i confini nell’Europa che è compresa nella sua area vitale, senza convincerla e senza ascoltarla. Non dobbiamo illuderci che la Russia possa assistere passivamente all’attrazione che i territori che fanno parte del suo sistema economico passino all’Europa senza procurare conflitti, a meno che lei non sia coinvolta il questo passaggio. Non dobbiamo augurarci che la Russia perda il controllo dei territori asiatici che facevano parte del suo impero.  La cosa più saggia sarebbe  cominciare a pensare ad un qualche coinvolgimento della Russia stessa nella convivenza europea.

 Per questo la posizione della Russia in Europa va ripensata politicamente, tenendo conto anche della sua dimensione asiatica, della sua difficile posizione nei confronti della Cina, del suo dominio siberiano. Bisogna trattare con la Russia considerandola per quello che è: una potenza europea.

Bisogna trattare con la Russia considerando i suoi interessi asiatici come nostri interessi. Bisogna trattare con la Russia considerando che un rapporto costruttivo fra Russia e Stati Uniti, necessario alla pace di oggi ed ancor più necessario alla pace di domani, quando le potenze asiatiche alzeranno la voce, è l’unica prospettiva praticabile per conservare la pace e l’ordine mondiale.

Temperare il potenziale conflitto fra gli USA e la  Federazione Russa sarà il compito primo dell’Europa. Infine bisognerà anche farsi carico di una divisione, sempre sottovalutata, di cui bisogna tener conto. Questa faglia sotterranea ha origini remote e risale alla divisione fra la Chiesa di Roma e la Chiesa Orientale.

Probabilmente non vi sarà una vera trattativa fra Europa e Russia finchè non sarà eliminata la ostilità fra i due cristianesimi. Era questo il desiderio di Papa Giovanni Paolo II e la spiegazione del suo sogno di recarsi a Mosca a parlare di pace. Diventa quindi importante in questo quadro politico che i primi a parlarsi siano proprio i cristiani, ricordando che in Ucraina, prima ancora di una guerra fra etnie o fra ideologie, c’è stata una guerra fra Chiese.

Ritengo che questo compito posa essere portato a termine, sul piano politico dai democratici ispirati al cristianesimo che hanno i medesimi ideali, che vivono sia nell’Europa occidentale, sia nell’Europa orientale, e che, purtroppo, non si parlano. Per questa latitanza, il vuoto politico dei cattolici italiani appare disastroso perché causa una drammatica ignoranza dei problemi fondamentali della pace europea.

Bartolo Ciccardini

*P.S. Anni fa a proposito della politica europea scrissi un articolo “L’Europeismo dopo Giovanni Paolo II”. In quelle pagine narravo questo episodio, che mi sembra ancora attuale, avvenuto nel 1979, quando la Russia era ancora un potente stato comunista. “Nel Natale del 1979, quando ero Sottosegretario ai Trasporti, il Papa Giovanni Paolo II venne a celebrare il Natale, di notte, con i ferrovieri, allo scalo di San Lorenzo. Il ministro Preti, ottimo socialista democratico che aveva in uggia preti vescovi e papi, mandava me. Io riaccompagnai il Papa in treno, dallo scalo San Lorenzo alla Stazione di San Pietro. Eravamo soli, nel belvedere che allora i rapidi avevano sulla fronte del treno e ci veniva incontro, nella notte, una Roma insolita. Il Papa mi parlò con passione e nostalgia del natale degli Uniati, i cattolici ucraini di rito greco che erano stati cacciati dalle loro chiese fin dai tempi di Stalin, dei difficili rapporti con la Chiesa Ortodossa che quelle chiese ora occupava, della dura persecuzione a cui erano tuttora sottoposti, gli uni e gli altri, con affetto e comprensione per le persecuzioni, di cui non si parla mai, che anche i fratelli ortodossi avevano subito. Io non sapevo nulla degli Uniati, non ero in grado di considerare la gravità di quei problemi. Mi rimase solo il ricordo della straordinaria testimonianza di un papa polacco che nella notte natalizia traversava Roma in un treno tutto per lui, accompagnato da un ignaro precario della ferrovie, che ascoltava stupito il suo sogno di andare a Mosca per sanare l’orribile ferita nel corpo di Cristo: il peccato della separazione dei fratelli cristiani”.

EMILIO COLOMBO

In occasione della presentazione del volume " per l'Italia per l'Europa" conversazione di Arrigo Levi con Emilio Colombo ne è stata ricordata la figura. Questo è l'intervento di Gerardo Bianco alla cerimonia che ha visto la presenza del Presidente della Repubblica. 

 

La biografia politica di Emilio Colombo attraversa per intero la nostra storia repubblicana. In tutti i decisivi passaggi della nostra tormentata costruzione democratica egli è presente, da protagonista.

Ha solo 26 anni quando viene eletto all’Assemblea Costituente. L’Italia ha fatto la sua scelta ed è repubblicana. Fu anche questo l’orientamento del giovanissimo Colombo in un ambiente sociale e partitico ancora intriso di nostalgie monarchiche.

Egli apparteneva a quella nuova generazione di giovani formatisi nelle parrocchie, che avevano sperimentato la difficile convivenza tra organizzazioni cattoliche  e regime fascista che suscitava rigetto e spirito di libertà. Fu militare durante la folle guerra del fascismo e ne uscì fortunosamente e con amaro dissenso.

Di questa insofferenza verso il clima oppressivo dell’epoca ci dà testimonianza Emilio Colombo, rievocando i suoi anni giovanili, nella bella intervista ad Arrigo Levi. Il sentimento di libertà era comune ai giovani cattolici di ogni parte d’Italia. La Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici, costituì la cinghia di trasmissione di questo disincanto che non fu di ribellione, ma di consapevolezza della distanza che separava la mitologia fascista, fondata sulla violenza, dalla concezione cristiana della vita, dall’umanesimo di Maritain autore di culto dei giovani cattolici. Colombo apparteneva a quella schiera di fucini, da Dossetti a Moro, a Zaccagnini, ai redattori del Codice di Camaldoli, che diventeranno la classe dirigente dell’Italia repubblicana. Ma non poca influenza sul bisogno di libertà e di riscatto politico dové esercitare su Colombo lo stesso ambiente potentino e lucano.

Già la scuola da lui frequentata, intitolata a Luigi La Vista, il giovane ucciso dalle truppe svizzere del Borbone nella repressione scatenata contro il Parlamento partenopeo, nel 1848, e che era diventato un mito nella coscienza popolare della Regione, evocava a Colombo valori di libertà.

Ma era tutta la più fervida e feconda cultura lucana, da Giustino Fortunato, a Francesco Saverio Nitti (che Colombo commemorò il 24 febbraio 1953 con un breve, ma penetrante intervento alla Camera, nel momento della scomparsa), a Don Giuseppe De Luca, l’acutissimo interprete della pietà popolare, a influire sulla formazione del giovane Emilio Colombo.

Altra influenza determinante, come dichiara lo stesso Colombo, fu quella di Monsignor Bertazzoni, uno straordinario vescovo che alla spiritualità religiosa univa forte sensibilità civile e sociale, e che non poca parte ebbe nella ricostruzione di Potenza e della Basilicata colpite da pesanti bombardamenti.

È in questo contesto che si va formando la personalità di Emilio Colombo che alla profonda fede religiosa coniugherà una visione laica dell’agire politico che gli studi universitari, alla scuola Carlo Arturo Iemolo, contribuiranno a consolidare. Scelse appunto il partito di De Gasperi e non i comitati civici di Gedda, sui quali espresse riserve politiche.

Egli perviene, a me pare, alla intuizione del popolarismo, come dottrina e metodo di governo, soprattutto attraverso la riflessione sulla realtà delle parrocchie, la conoscenza del mondo contadino locale che amava visitare come giovane dell’Azione Cattolica, sulla struttura giuridica delle proprietà ecclesiastiche, le chiese ricettizie, sulle quali elaborerà la sua tesi di laurea.

L’argomento, può sembrare lontano da tematiche più pregnanti ed attuali, ma, esso, consentiva a Colombo di capire meglio l’incidenza delle proprietà ecclesiastiche che, come ha chiarito Gabriele De Rosa, avevano avuto notevole impatto sulla storia sociale del Mezzogiorno, gli permetteva di capire, inoltre, gli assetti proprietari, la natura dei contratti agrari, le condizioni dei contadini, in definitiva il mondo agricolo del Sud.

Colombo si troverà, quindi, culturalmente attrezzato quando assumerà, appena ventottenne, la prima responsabilità di governo, come sottosegretario all’Agricoltura nella prima legislatura, nel quinto governo De Gasperi. Comincia, così, la formidabile carriera governativa di Emilio Colombo, deputato per XI legislature, oltre la transizione costituzionale, per tre senatore a vita, con 39 incarichi di Governo. Fu anche sindaco di Potenza.

Alla Costituente egli restò piuttosto in ombra, ma affrontò subito il problema della grande sete, il problema antico dell’acqua che tormentava le regioni del Sud. La sua opera diviene intensa nella prima legislatura, rivelando la sua innegabile capacità di mediazioni alte e di governo.

A Colombo viene affidata la difficile missione di riportare la pace a Melissa in una rivolta che aveva causato vittime e grave turbamento in tutto il  Paese. Colombo riesce nel suo compito, acquista prestigio e diventa il braccio destro di Antonio Segni nell’attuazione della riforma agraria, una questione irrisolta da secoli, che rappresentava, all’epoca, il più grave problema sociale dell’Italia unita.

Sono anni di grandi scelte, ma anche di minuti provvedimenti. I resoconti parlamentari raccontano questa storia e ci dicono del vasto impegno di Colombo su numerosi atti legislativi  tra i quali spicca il risanamento dei “Sassi” di Matera che era la promessa di Alcide De Gasperi, sconvolto nel suo viaggio in Basilicata dal degrado umano di quelle realtà abitative.

È un noviziato che rafforzerà la competenza legislativa e amministrativa di Colombo anche per l’esperienza acquisita come sottosegretario ai LLPP, preparandolo al salto con il primo Governo Segni, nel 1953. Segni gli affiderà il Ministero dell’Agricoltura dove andava completato il disegno riformista con le leggi per la proprietà contadina e soprattutto con la revisione dei patti agrari che Colombo affronterà nel gennaio 1957.

In quegli anni, la popolarità di Colombo era notevolmente cresciuta non solo tra la sua gente, ma nel Paese e nel Partito. Resta nella memoria di tutti noi che lo ascoltammo, il celebre discorso pronunciato nel Congresso della Democrazia Cristiana a Napoli, nel 1954che segnò anche il passaggio generazionale da De Gasperi a Fanfani alla guida della D.C.

Quel discorso, limpido ed argomentato, che disegnava una suggestiva linea di orizzonte politico per il Paese e per il Sud, consacrò Colombo tra i maggiori leader della Democrazia Cristiana.

Egli divenne anche l’interprete più autorevole, nella D.C., di quel pensiero politico che concepiva la questione meridionale come il fulcro della politica nazionale.

È del  7 febbraio 1951 un suo ampio discorso sul Mezzogiorno, pronunciato come Ministro dell’Industria e del Commercio, dove alla profondità delle conoscenze specifiche nelle singole materie si accompagna il respiro della grande politica da attuare egli afferma per un “autentico rinnovamento” di tutta intera la vita nazionale.

Sono 18 pagine di resoconto parlamentare che raccolgono il suo intervento seguito da un lungo dibattito di alto profilo, caratterizzato da una dialettica vivace ma sempre corretta e dialogante di cui Ella Signor Presidente fù incisivo protagonista.

Di questa attenzione al tema e di questo stile non trovo più traccia nelle recenti sessioni delle nostre Assemblee parlamentari.

Gli anni sessanta sono anni di grandi riforme. Si susseguono quelle della scuola media, della legge costitutiva delle Regioni, della riforma universitaria, dello Statuto dei lavoratori (1970), della nazionalizzazione dell’energia elettrica che porta la firma di Emilio Colombo, ma l’elenco potrebbe continuare.

Colombo è alla guida di Ministeri che portano a compimento l’ancoraggio dell’Italia alle economie più avanzate d’Europa.

Il Paese cresce a tassi di sviluppo inaspettati, mentre il Sud supera il Nord (il 5,8 contro il 4,3), con il divario economico che si riduce, per la prima volta, tra le due aree del Paese.

È la stagione del cosiddetto miracolo economico. Emilio Colombo è dentro questi avvenimenti ma cominciano a manifestarsi in quegli anni anche i primi segni di malattia che la stessa impetuosa crescita economica va determinando. L’inflazione incalza, il deficit commerciale aumenta, la lira traballa. Al capezzale viene chiamato Emilio Colombo. Egli diventa Ministro del Tesoro con Leone e poi con il I e II Governo Moro, e affronta, con determinazione e severità, il problema dell’inflazione, invertendo la rotta negativa della bilancia dei pagamenti. Nel 1965 la lira ottiene l’Oscar come la migliore moneta corrente.

Egli diventa candidato naturale per la guida del Paese. Appare infatti come l’uomo giusto per situazioni difficili, e complicatissima risulta la situazione con le dimissioni dal II Governo Rumor, alla vigilia dello sciopero generale proclamato dai sindacati. Colombo scioglie i nodi e subentra a Rumor come Presidente del Consiglio. Il suo Governo durerà 527 giorni in un clima di gravi tensioni con la guerriglia urbana delle città calabresi, con una precaria maggioranza nella quale il PSI propone “equilibri più avanzati e meglio garantiti”, con la fine della convertibilità del dollaro annunciata da Nixon, che determina instabilità dei cambi, crisi economica, causa di profondi dissensi con il PRI che esce dal Governo, con le inquietanti notizie di tentato colpo di Stato, confermato dal Ministro degli Interni Franco Restivo, con atti di terrorismo rosso e nero, con  l’incombente iniziativa del referendum sul divorzio che spacca il mondo cattolico.

Non fu un anno felice per  Emilio Colombo che guidava un Governo non molto diverso da quello precedente. Pure non mancarono efficaci provvedimenti che fronteggiarono la situazione economica e affrontarono gravi problemi come quello del Mezzogiorno con una legge lungimirante, rimasta purtroppo inapplicata.

Colombo ritorna nei Governi Andreotti, come  Ministro del Tesoro e poi per l’ONU avviando così un’esperienza internazionale che lo vedrà, tra la fine degli anni 70, e nel decennio successivo, protagonista della politica europea.

Da Presidente del Parlamento europeo con elezione indiretta, tra il 1977 e il 1979, traghetta il passaggio all’Assemblea eletta con suffragio universale che vedrà alla guida una straordinaria figura dell’europeismo: Simone Veil.

Il 1979 è anche l’anno del conferimento a Emilio Colombo del premio Carlo Magno attribuito in precedenza solo ad Alcide De Gasperi. Seguirà un altro grande europeista:Carlo Azeglio Ciampi.

Sono gli anni 80 a consolidare la fama di Emilio Colombo a livello europeo e a renderlo particolarmente popolare negli ambienti politici del Continente.

Sono stato testimone diretto  a Berlino e poi a Strasburgo dell’alta considerazione di cui godeva Emilio Colombo.

La sua capacità di impostare in modo lungimirante  la politica europeista  è dimostrata da quell’intesa con Genscher del 1981 che sbloccò una situazione  impantanata, aprendo nuovi percorsi, che portarono all’Atto Unico del 1986 e poi alla moneta unica, grande conquista dell’Europa.

In quella linea v’era il timbro dell’eredità de gasperiana, creativamente vissuta.

Toccò ancora a Colombo far ratificare dal Parlamento, nel 1992, il Trattato di Maastricht  che era conseguenza dello storico accordo sancito con Genscher.

Colombo, nel 1992, era diventato Ministro degli Esteri dopo le dimissioni di Enzo Scotti che non volle rinunciare al mandato parlamentare accettando le regole fissate dal partito di incompatibilità tra le due cariche. Colombo non era affatto convinto della bontà di quella decisione e lo espresse in una lettera, ma si adeguò alla direttiva del partito perché ad esso era profondamente legato.

Visse con tormento la prima scissione della D.C., ma quando fu il momento della scelta, da che parte stare, non ebbe dubbi e si schierò con il PPI. Lo ebbi così al fianco pienamente solidale nella stagione dell’Ulivo (quello con il trattino) e fu la nostra bandiera a livello europeo per dimostrare che il PPI era l’autentico erede della Democrazia Cristiana, di quella storia di cui Colombo aveva scritto pagine importanti, di quella storia che non è stata affatto compresa, che viene costantemente mistificata. Circolano stereotipi, come quello del doroteismo, dalle accezioni negative (lo è diventato ormai lo stesso termine “democristiano” nell’odierna vulgata giornalistica e politica) che rappresentano la grande falsificazioneinterpretativa della cosiddetta Prima Repubblica che ha costruito una grande democrazia e non un “doppio Stato”.

Colombo fu doroteo, ma forse la sua biografia può far meglio intendere quel movimento interno alla DC che non fu solo immobile palude, come si tende a definirlo, ma anche sapienza di governo.

Anche a noi, nella lotta politica interna, appariva troppo statica l’opera dei dorotei, ma in quell’andare avanti, quasi indietro, come i gondolieri di Venezia, c’era la non infondata preoccupazione di non essere seguiti da un elettorato più arretrato rispetto alla classe dirigente democristiana. Ma se una certa passività di azione del doroteismo è innegabile è da respingere la tesi di puro conservatorismo, quasi reazionario, di quella componente che non fu affatto una palude ma anzi la base per le politiche di centro-sinistra che rappresentò il primo allargamento dell’area democratica.

Era la natura stessa della D.C. a escludere la collocazione a destra del partito. Emilio Colombo ribadisce questo concetto in modo netto, nell’intervista ad Arrigo Levi rivendicando la vocazione  egli dice, “ non conservatrice e riformistica della Democrazia Cristiana”.

Egli visse come un dramma la dissoluzione anche delle speranze del popolarismo nate con l’Ulivo e tentò un infelice esperimento. Non fummo generosi con lui, e sentì il gelo dellasolitudine e soffrì il silenzio, come mi disse, del telefono che non più squillava!.

Ciampi gli rese giustizia, nominandolo senatore a vita. Ha avuto la ventura di aprire questa XVII legislatura ed ha parlato da Costituente, richiamando quel primo tempo della Repubblica per una rinnovata ricostituzione dei grandi valori collettivi, quelli che furono a fondamento della ricostruzione post bellica.

Con Raffaele Garramone ho incontrato Colombo nella sala del Senato non molto tempo prima della sua scomparsa. Era visibilmente contento. Si apprestava a partire per Torino per presentare il suo libro – intervista, intrigante dialogo con Arrigo levi ricco di ricordi e di riferimenti storici che rivelano l’ampio respiro dell’azione politica di Emilio Colombo. Egli amava conversare e raccontare e così fece con noi, lasciandoci poco spazio. Ma era amabile ascoltarlo nel lucido argomentare con la sua voce calda e melodiosa con la quale, in un tempestoso congresso della D.C., che egli presiedeva, riportò alla calma i delegati surriscaldati intonando improvvisamente con piglio allegro, la nota canzone popolare “vola, vola, vola lu cardillo” coinvolgendo l’intera platea. Perché Emilio Colombo era anche questo: amico gioviale, signorile e popolare.

Egli aveva chiesto ai familiari di volere uscire in penombra dalla vita terrena, e così fu, tra la folla commossa e silenziosa della Chiesa di S. Emerenziana, ma illustre e luminosa, malgrado debolezze, gelosie competitive, inevitabili errori propri di ogni essere umano, illustre e luminosa, ripeto, resta la sua storia personale, quella di una vita spesa, come recita il titolo del suo libro intervista, per l’Italia e per l’Europa.

 

Gerardo Bianco

 

Convegno: “Costituzione e legge elettorale”

Roma, 5 marzo 2014; h. 9,30 – 14,00
Camera dei Deputati - Auletta dei Gruppi parlamentari - Via di Campo Marzio 76 (leggi l'invito)

 

Costituzione e legge elettorale

 

In questa legge elettorale sembra prevalere più la data della entrata in vigore piuttosto che i contenuti.
 

Se nel biglietto da visita che è, poi, la relazione Sisto che accompagna l'italicum si arriva a strumentalizzare le parole Aldo  Moro alla legge de Gasperi  Scelba  del 1953, allora, le cautele sono d'obbligo.


Qui infatti il premio può scattare con il 35 per cento e non con il 50,1 quindi una maggioranza relativa che si trasforma in assoluta. Tutto ciò in un quadro aggravato dal forte astensionismo che attraversa oggi il corpo elettorale.

Lo sbarramento viene combinato con lo sbarramento del 4,5 per cento (secondo le intese non ancora formalizzate) annullando intere rappresentanze senza scorporo dei voti apportati alla coalizione dai partiti che non raggiungono la soglia elettorale.

Non viene previsto il divieto di candidature multiple su tutti i collegi così si perpetuerá il gioco delle opzioni e non si eviterá senza la introduzione delle preferenze, il malcostume dei nominati.


Molti voti sarebbero un conferimento gratuito senza incidenza nella coalizione, "cancellando diversitá e articolazioni della nostra vita politica e nell'ambito stesso della maggioranza che permettere di togliere ogni mortificante uniformitá della maggioranza"  come affermò Aldo Moro.

Vi sono rischi che il sistema degeneri così come avvenne con il fenomeno della desistenza rispetto al Mattarellum. Per raggiungere più agevolmente la soglia  del premio di maggioranza, i leader dei partiti più forti non faranno fatica a incoraggiare liste o listarelle senza speranza, voti gratuiti rispetto all'alternativa di contrattare qualche posto sparso. I partiti dovrebbero andare da soli, come ha affermato il prof. Sartori, per evitare maggioranze false.

C'è poi la questione dei collegi. Su questo il Parlamento è stato tagliato rispetto a quanto previsto dal Mattarellum con la commissione parlamentare, con esperti presieduta dal Presidente dell’Istat, nella definizione compiuta dei criteri socio- economici e in ordine alla popolazione che è aumentata di 3,5 milioni di abitanti, con contrazione demografica in alcune regioni. Potrei portare gli esempi proprio di Firenze e di Torino.
La soppressione del Senato, così come indicato e la sua trasformazione in Camera di secondo livello, pone una serie di problemi in particolare sulle funzioni, sulla revisione costituzionale riferita all’articolo 138, sulle autorithies con le perplessità manifestate in modo puntuale da Manzella, in ordine a meccanismi delicati quali i rapporti tra Regolamenti e fonti legislative, sulla elezione del CSM e della Corte costituzionale e dello stesso Presidente della Repubblica.

Andreotti nel 2005 vedeva il pericolo di creare un "ectoplasma con un lieve turismo interno di presidenti di regione o di altri (i sindaci) che vi parteciperanno di tanto in tanto".
 

V'è la suggestione del monocameralismo. Il bicameralismo perfetto si può abbandonare, trasformando la seconda camera in quella per la legislazione europea, delle autonomie delle grandi formazioni sociali come auspicava Dossetti.

Il Presidente del Consiglio ha affermato che il Senato non dovrá votare i bilanci, ma la politica di bilancio si compone dei saldi di finanza pubblica che devono essere garantiti a livello di consolidato nazionale e delle regole di ripartizione degli stessi saldi. Ci deve essere un raccordo. C'è un unicum  tema patto di stabilitá interno, scelte di perequazione e legge di stabilitá, che verrebbe spezzato senza un raccordo e una interconnessione.

Dunque ci si avvia alla eutanasia del senato. Viene imposto un criterio economicistico, ma la democrazia non si taglia. Si corregge. I tagli sarebbero modesti. Molta spesa è incomprimibile. Certamente non è quella ipotizzata di 1 md di euro.
Non vogliono indulgere su amarcord felliniani ma due aspetti meritano un ricordo.

Nel 1981 venne in Senato da Amintore Fanfani, lord Hailshan di St. Marylebon presidente Camera dei lords.

Si pose l’interrogativo: quale deve essere una seconda camera in un sistema moderno?.

Deve riflettere le funzioni per le quali l'organismo viene eletto senza violare il principio della universalitá dei diritti, della rappresentatività, del completamento del lavoro sui codici, ma soprattutto non essere impotente e dotato di poteri reali per farsi ascoltare.

Quelle indicazioni andrebbero sapientemente attualizzate rispetto alla armonizzazione della legislazione europea sia nella fasce ascendente che discendente, al rapporto tra legislazione statale e regionale, alle funzioni di controllo.
 

IL Senato dovrebbe far funzionare il motore legislativo bene attraverso un regolatore di velocità o di lubrificanti idonei.

Nel 1975 Bianco presentò una p.d.l. Con la riduzione del numero dei parlamentari si raggiungerebbero fortissime economie non solo un migliore rapporto eletti/ abitanti che passerebbe a 122 mila, migliore di quello tedesco rispetto ad una popolazione di 83 milioni e 699 parlamentari.
 

Con il monocameralismo si avrebbe alterazione del corpo  politico legislativo, dittatura maggioranza con Parlamento che diventa mediocre canale di decisioni prese altrove, ha scritto efficacemente Manzella.
 

Abbiamo bisogno di un parlamento funzionante, con razionalizzazione delle attivitá con alcune materie bicamerali e altre monocamerali se approvate a maggioranza assoluta, con possibilità di richiamo su specifiche materie.
 

Un Parlamento con la previsione di una Camera con 380 membri e un Senato con 185 porterebbe ad un totale 565 membri quindi un numero  inferiore perfino alla Camera che si vuole tenere in vita e al complesso dei parlamentari della Germania. Si determinerebbero notevoli concreti risparmi di spesa.
 

Quale sarà dunque il destino dell’articolo 138 rispetto alla revisione dell’impianto costituzionale; con quali regole sarà governato il procedimento se viene imposto un monocameralismo maggioritario in cui si afferma la dittatura della minoranza andando ben oltre i pericoli percepiti alla Costituente da Tosato sull’assolutismo democratico?.

Cerchiamo di non accompagnare il Senato al suicidio assistito.

 

Roma, 7 marzo 2014

 

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La costituzione e la legge elettorale è stato il tema del convegno promosso dalla associazione ex parlamentari. 
La condanna del parlamentarismo è la condanna della democrazia affermò Kelsen. 
Si è svolto mentre nell'aula di Montecitorio si affrontava il cosiddetto italicum dopo gli ultimi accordi politici che hanno mutato il quadro politico. Che senso ha ormai affrontare una legge che riguarda il solo sistema della camera se non si affronta la riforma costituzionale del senato dopo l'annuncio della soppressione e trasformazione in camera delle autonomie di secondo livello senza conoscere allo stato legittimazione, funzioni e competenze. Sono stati posti in luce i rilievi di ordine costituzionale rispetto al principio di rappresentanza e proporzionalità. 
Una legge che fa acqua da tutte le parti e che merita correzioni profonde. Si forza oltre misura il sistema rispetto ai principi costituzionali del pluralismo e della rappresentativitá. 
Un monocameralismo come quello ipotizzato non porta solo all'assolutismo democratico come ipotizzato da Tosato alla Costituente,  ma con questa legge elettorale, alla dittatura della minoranza. 
La sondaggiocrazia sta portando il Paese alla oclocrazia con tutti i rischi conseguenti. 

 


Il Presidente

Roma, 24/2/2014


Caro Amico/a,

per intensificare il confronto sui temi di comune interesse, stiamo attivando una serie di servizi on line, da oggi è già operativo il nostro account twitter, all’indirizzo @cduitalia, che sarà la nostra base operativa per il Congresso e per la futura attività del CDU, a breve entrerà in funzione anche il sito internet ufficiale www.cdu-italia.it (già consultabile in dominio). Ti ricordo, inoltre, che è sempre attivo il mio profilo facebook (mariotassone), dove puoi continuare a seguire e commentare la mia attività. Aspetto i Tuoi contributi, un caro saluto.

Mario Tassone

Presentazione libro di Gerardo Bianco "La parabola dell’Ulivo"

In una splendida cornice di pubblico che ha affollato la Sala Perin del Vaga di Palazzo Baldassini è stato presentato il recente volume di Gerardo Bianco la parabola dell’Ulivo (1994 .-2000) che integra e completa il precedente La Balena Bianca, l’ultima battaglia 1990-1994. Moderati da Gianfranco Astori, si sono confrontati Marco Follini, Arturo Parisi, lo storico Agostino Giovagnoli, il padrone di casa Giuseppe Sangiorgi.

Non hanno mancato all’appuntamento, Mario Segni, Giorgio La Malfa, Gennaro Acquaviva, Bartolo Ciccardini, Arnaldo Forlani, Nicola Mancino, Sergio Zoppi, Bruno Tabacci, Flavia Nardelli, Ernesto Preziosi, Alessandro Forlani, Francesco D’Onofrio.

Nel corso di tutti gli interventi sono riecheggiate le parole dello storico Piero Craveri, autore della postfazione e che erano scolpite come pietre nell’invito “ Tra le culture politiche che hanno sorretto l’esperienza politica della Repubblica quella dei cattolici democratici avrebbe certamente potuto dare un contributo politico nella fase di transizione apertasi con il 1992. Meno ideologica, più fondata su semplici principi di socialità, essa aveva dalla sua una lunga esperienza capace di coniugare i problemi di mercato con la solidarietà sociale, forte di un senso concreto dell’azione politica di un empirismo, senza vincolo ideologico, di volta in volta meditato.

L’aver abbandonato questa premessa di capacità di sintesi è stato un inutile cedere alla radicalizzazione della lotta politica, che ha impoverito così tanto la capacità di pensiero e di azione politica. Bianco ci racconta la storia di una sconfitta in cui il senso della storia è andato oltre senza lasciare riferimenti. E su questi presupposti occorrerà tornare a riflettere se si vogliono aprire nuove prospettive”.

Marco Follini si è soffermato sulla importanza del “trattino”, anzi sulla sua crucialità, nella evoluzione dei rapporti tra il centro e la sinistra. In quella distinzione v’era la difesa del mondo del cattolicesimo democratico distinto dalla sinistra e distante dalla destra.
V’era la difesa di quella civiltá evitando quel progressivo amalgama, quella idea della politica che va di moda e che porta alla semplificazione con tutti i rischi conseguenti se l’alternativa a Renzi dovesse essere Giorgia Meloni. Dunque referendum sulle persone piuttosto che confronto sulle politiche.

Marco Follini si è posto il problema di quale tributo pagare alla modernità e pur nella difesa della democrazia parlamentare ci si deve interrogare sulla introduzione del semipresidenzialismo e
poiché siamo alla reversibilitá dei partiti introduciamo contrappesi necessari ad evitare forzature. Rispetto alle vicende di attualità non ha mancato di richiamare l’azione di Moro sempre impegnato in uno sforzo costante di ricucitura ma anche capace di giudizi severi. Era la regola della politica.
Ha concluso con un twitter sintetico che sembrava una preoccupazione a mode giovanilistiche e un richiamo a Renzi e alla sua squadra di governo: “gallina vecchia fa buon brodo”.
Poi è intervenuto lo storico Agostino Giovagnoli che ha apprezzato il lavoro di Bianco riprendendo e sviluppando le parole di Piero Craveri. Ha voluto sottolineare le indicazioni di Pietro Scoppola ai convegni di Orvieto e di Chianciano, sulla necessità del trattino come esigenza ineludibile della diversità tra il centro e la sinistra. Lo storico, purtroppo, non si è calato nell’attualità e non ha ricordato i passaggi delle laceranti divaricazioni che si sono consumate a metà degli anni novanta all’Ergife e che hanno progressivamente accentuato la diaspora democristiana. Giuseppe Sangiorgi si è posto il problema del “trasloco della memoria” che come con Johann Gutemberg i manoscritti furono superati con la carta stampata che oggi, è detronizzata dalla rete. Ha sottolineato come l’Istituto Sturzo con Francesco Malgeri e lo stesso Agostino Giovagnoli sia impegnato in questa fase di ricostruzione storica degli avvenimenti che si svilupperà con un portale che metterà in risalto molti particolari nascosti ben oltre quelli riportati da Alan Friedman sulla vicenda Monti.

Infine Arturo Parisi che non è voluto mancare all’appuntamento nonostante i postumi influenzali, è stato generoso sul piano personale con Gerardo Bianco. Ne ha riconosciuto la linearità della condotta.
Ha inquadrato gli avvenimenti attuali con una lettura sociologica Quella attuale è la generazione, quella di Renzi, figlia decisionismo maggioritario perché nati nel 1975.
Si è spinto ad affermare che ha letto il libro con sofferenza, ma che la umanità del tratto ha alleviato la lettura.
Ritiene che Bianco rivendica il proporzionale assoluto ma che si accontenta del mattarellum rifiutando il presidenzialismo.
Renzi è il primo sindaco  che  diviene sindaco Italia affermando una cultura della pluralità.
Parisi ammette che faceva sogni diversi da Bianco pur vivendo nelle stessa e nello stesso letto - a castello - . Il pensiero Parisi torna alle vicende del governo Prodi del 1996-1998 e riconosce delusione e illusione. Si garantiva il dominio ma non il predominio. Il maggioritario imponeva realtá nuova. Ecco dunque l'Ulivo che non era riconducibile alla quercia. Il trattino era stato cancellato perché il paese era cambiato rispetto all'isola che non c 'è. Dalla segreteria Bianco si passò a Marini e poi alla segreteria Castagnetti. Impazienza e ansia di recuperare portarono alla crisi.


Bianco ha replicato agli intervenuti difendendo le ragioni storiche della DC sia nella fase della ricostruzione degasperiana che in quella tragica del terrorismo, la capacità di coniugare l’euroatlantismo con l’eurocomunismo berlingueriano anche grazie alla sapienza di Arnaldo Forlani, Ministro degli Esteri, così come di fronte alla crisi finanziaria dei primi anni novanta le risposte di rigore della DC con le scelte nel solco dell’europeismo.

Ha rivendicato l’orgoglio della difesa di quel “trattino” distintivo che oggi assume ancora più importanza di quanto non ne avesse nel 1998. Dietro quel “trattino” non c’era lo scontro tra innovatori e conservatori, tra la cultura del proporzionale e del maggioritario, Dietro quel trattino c’era una fiammella di ideali che l’Istituto Sturzo ieri ha tenuto accesa.
 

PS. Non è stato possibile aprire un dibattito. Avrei voluto chiedere a titolo personale, come cittadino, ad Arturo Parisi se è ancora convinto della bontà delle primarie aperte, laddove una lobby può scalare un partito sponsorizzando una candidatura e se alla luce dei recenti avvenimenti come la sostituzione di Letta con Renzi non si determinino le condizioni per possibili future scalate puntando più sulle persone che sulle politiche. La domanda resta nell’IPAD e dunque è senza risposta. Speriamo di non fare brutti sogni, soprattutto di non fare i sogni di Parisi.

Maurizio Eufemi

Roma, 27 febbraio 2014

Il disastro dell'Udc

Finalmente ci sono riusciti. Ci hanno messo un pò ma sono riusciti nell'impresa di distruggere un partito. È quanto avvenuto con il congresso Udc all'auditorium della Conciliazione trasformato in dissoluzione. Al di lá della vicenda della elezione del segretario riconfermato per una manciata di voti, che non ha avuto il coraggio di rimettere il mandato dopo i disastri politici ed elettorali di questi anni, emergono le macerie lasciate sul piano politico. Come valutare diversamente la rottura operata con i popolari per l'Italia sulla vicenda del governo Renzi. Viene sacrificato il Ministro della Difesa Mauro per lasciare spazio a Galletti esponente del cerchio magico bolognese, in nome di chissá quale competenza ambientale. Viene sacrificato il ministro D'Alia nonostante l'impegno profuso nella P.A e bruciato nella battaglia congressuale non per la persona in sè, ma perchè i delegati hanno visto tra i supporter della candidatura D'Alia l'ombra del leader che ritengono il responsabile principale della crisi politica esplosa in quel che resta dell'Udc. Come può pensare di ricomporre le fratture multiple?
Mario Tassone aveva indicato una strada intelligente.
Si è preferito l'arroccamento per conservare briciole di potere.
Resta un partito, l'udc, spaccato a metá, paralizzato nella linea politica e nelle linee di movimento per la diffidenza che ormai incontra con tutta l'area dei Popolari.
Noi del Cdu rivendichiamo libertà, perchè è stato tradito il patto fondativo del dicembre 2002. Il congresso del 14 marzo sará l'occasione per fare il punto e prendere decisioni importanti e conseguenti.
Siamo stati traditi nei valori e nei comportamenti.

Roma 23 febbraio 2014

Il governo Renzi tra etá e rappresentanza territoriale

Grande attenzione è stata posta dai media all'etá del governo Renzi, soprattutto alla etá media. Se analizziamo i valori per classe di etá scopriamo però che il valore modale, quello che indica la maggiore frequenza sta nella classe tra 50-59 anni con 6 unitá, poi segue la classe 40-49 con 5 unitá, quindi 4 unitá in quella tra 30-39 e 2 unitá tra i sessantenni. Valore modale e etá media non coincidono.
Minore attenzione è stata posta al contrario alla distribuzione territoriale dei ministri che assume un valore significativo in ordine alla rappresentanti geografica in seno al dicastero. Scopriamo allora che le due regioni più rappresentate sono il Lazio e Emilia Romagna con 4 unitá ciascuna, segue la Toscana con 3, quindi Liguria e Lombardia con 2, Sicilia e Calabria chiudono con 1 solo rappresentante.
L'anomalia di questo governo sarà nella frattura territoriale che viene determinata con l'assenza di rappresentanti di regioni come il Piemonte, il Veneto, Friuli Venezia Giulia, le Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Campania e Sardegna. È un vulnus grave avere privilegiato la dorsale appenninica del Paese (Lazio, Toscana ed Emilia) con 11 ministri su 17, comprendendo anche il Presidente del Consiglio. Ancora più grave è la sottorappresentazione del Mezzogiorno con soli due ministri su 17. È un indice di pericolosa marginalizzazione.
Non sappiano se si correrá ai ripari ma certamente le scelte operate non appaiono sufficientemente meditate, soprattutto perchè nei pronunciamenti del Presidente del Consiglio si guarda alla soppressione del Senato con relativa trasformazione in Camera delle autonomie. Per il momento constatiamo un segnale di incoerenza perchè vediamo la cancellazione della rappresentanza governativa di interi territori che assumono rilievo non solo per il Pil prodotto, ma per la ricchezza di valori morali e civili.


Roma, 22 febbraio 2014

Moro e la legge elettorale

 

La crisi del governo Letta dopo la sfiducia della direzione del PD ha rallentato l’iter della legge elettorale.

Il ritmo a tappe forzate sembra essere svanito. Quello che doveva essere la priorità, ciò che si doveva realizzare in pochi giorni sembra diventare una clausola dell’accordo di governo che ne vedrebbe la approvazione solo dopo le riforme costituzionali del titolo V^  e della soppressione del Senato. Nella lettura della relazione Sisto che accompagna il testo della riforma elettorale all’esame dell’Aula di Montecitorio colpisce una citazione di Aldo Moro, decontestualizzata, inappropriata, parziale.   Viene riportata una frase di Aldo Moro pronunciata l’ 8 dicembre 1952 durante la discussione della modifica al testo unico sulle elezioni della Camera dei Deputati, quella che la sinistra definì “legge truffa”.

 

In quella seduta Aldo Moro intervenne come vicepresidente del Gruppo, per le precarie condizioni di salute del Capogruppo Giuseppe Bettiol,  contro le pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Togliatti, Basso, De Martino e Ferrandi.

 E’ vero che Moro paventa il pericolo di un’alleanza di opposizioni per impedire alla maggioranza di assolvere alle sue funzioni, ma si tralascia di ricordare che Moro guardava “ad una maggioranza di coalizione unificata saldamente ancorata ad un principio comune. V’era la esigenza riconosciuta dalla legge è che sia raggiunta la metà , che sia superata la metà dei voti… cioè  che l’opinione pubblica si deve essere espressa con una chiara indicazione. E che non è già una maggioranza relativa che si trasformi in una più o meno solida maggioranza assoluta. E’ una maggioranza assoluta già conseguita che viene integrata in qualche modo per assicurare quella funzionalità della quale abbiamo parlato”.

E’ esattamente il contrario di quanto sostiene il relatore Sisto.

Nel testo Sisto  di riforma elettorale il premio di maggioranza scatterebbe con il 37 per cento dei voti. Il premio di maggioranza viene poi combinato con lo sbarramento al 4,5 per cento annullando intere rappresentanze. Non viene poi previsto lo scorporo per i partiti della coalizione che non raggiungono la soglia elettorale.  Molti voti sarebbero un conferimento gratuito e dunque a perdere perché senza incidenza sulla coalizione, “ cancellando diversità e articolazioni della nostra vita politica e nell’ambito stesso della maggioranza che permette di togliere ogni mortificante uniformità della maggioranza” come afferma Moro nello stesso intervento dell’8 dicembre, ma di queste parole di Aldo Moro l’On. Sisto si guarda bene dal citarle. 

 

Aldo Moro chiudeva il suo intervento così “il supremo giudizio sulla validità della legge sarà dato dal popolo italiano in quanto sarà il popolo italiano che attribuendo più del 50 per cento dei voti alla coalizione democratica  dimostrerà di accettare la legge e di voler difendere con essa i supremi principi di democrazia e di libertà”. (vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra – moltissime congratulazioni).

 

PS. Il disegno di legge presentato ad ottobre 1952 fu approvato dalla Camera dei Deputati il 21 gennaio 1953 e dal Senato il 29 marzo 1953. ( legge 31 marzo 1953 n. 148). Tempi adeguati, senza forzature.

 

 Roma, 21 febbraio 2014                                                                             Maurizio Eufemi

Le giravolte di Casini

Casini anticipa una linea politica che dovrebbe appartenere alla sacralitá congressuale mostrando disprezzo per le regole e per i delegati. Si converte tardivamente al bipolarismo che attraverso la legge elettorale renzusconi cancella il pluralismo e il popolarismo.

In nome delle elezioni europee finisce per allearsi proprio con i maggiori critici dell'europeismo dimostrando ancora una volta un cinismo politico senza limiti. È una scelta che rappresenta il fallimento della politica partecipata e il tentativo goffo di ritagliarsi unicamente uno spazio personale sacrificando ogni valore insito nel progetto politico che stava alla base dell'Udc.

Roma, 4 febbraio 2014

L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA ED IL PROGETTO ANPC

Importanza della memoria

Ci sono tre indirizzi nella storiografia della Resistenza di cui celebreremo il 70° anniversario, proprio in questo triennio. Tre indirizzi che ci propongono tre diversi atteggiamenti fondativi della nuova identità della Patria italiana. Il primo indirizzo ispira una storiografia che guarda con maggiore attenzione alla Resistenza armata, con forte contenuto ideologico, e perciò portata a condannare l’attendismo, parola che contiene già un giudizio sfavorevole ad ogni forma di autogoverno responsabile. Il secondo indirizzo ispira la storiografia della guerra civile e della zona grigia: due minoranza politiche si sono affrontate in una guerra civile, mentre la maggioranza della popolazione era la “zona grigia” che cercava soltanto di sopravvivere.

Il terzo indirizzo ispira la storiografia della Resistenza civile che guarda con attenzione, accanto alle importanti e decisive operazioni armate, anche alla resistenza  morale, che va dal sacrificio dei soldati  che si immolarono anche senza avere ordini precisi, dall’internamento di militari che rifiutano l’arruolamento, al rifiuto della barbarie da parte delle popolazioni, del clero, delle donne e di tutta la società che accoglieva i perseguitati ed i sofferenti.

Come scrive Pietro Scoppola: “Il prendere le armi non si può considerare l’unica forma di partecipazione e coinvolgimento senza cedere proprio a quella concezione della Resistenza che i comunisti proponevano con la loro accanita polemica contro gli attendisti. È il concetto stesso di Resistenza che va ripensato recuperando il significato originale di resistere. Insomma il fenomeno della lotta armata, che conserva tutto il suo valore, non può essere isolato dalle innumerevoli forme di resistenza civile”.

L’Associazione dei Partigiani Cristiani ha preparato  per il 70° anniversario della Resistenza un programma di studi e di ricerca dedicato al particolare significato di questo terzo indirizzo storiografico che spesso è stata tralasciato per l’egemonia esercitata dalla cultura politica dominante.

Il Progetto di ricerca dei Partigiani Cristiani

Partiamo dal contenuto formativo: il progetto, senza dimenticare gli avvenimenti conosciuti, si soffermava su tre aspetti ancora inesplorati:

Le stragi delle popolazioni inermi: gli episodi “apocalittici”, punto massimo della follia ideologica che colpiva la civiltà umana, indicato da Dossetti come “segno dei tempi”da non dimenticare; (Dossetti, partigiano disarmato, è sepolto tra le vittime di quelle stragi!).

Il sacrificio dei sacerdoti. Tutte le località che hanno vissuto l’esecuzione del suo prete lo ricorda e lo commemora. Ma nessuno ha studiato il perché di questa particolare persecuzione, fortissima nel numero delle vittime e nelle modalità atroci delle esecuzioni. Forse per una disconoscenza voluta, forse causata dal fatto che i sacerdoti erano ritenuti dai tedeschi i capi naturali della Resistenza civile.

Il contributo delle donne: non solo il contributo nobilissimo delle combattenti e delle dirigenti di movimenti politici, ma anche il contributo umile, quotidiano, nella pietà cristiana, delle donne che nascondevano i perseguitati, curavano i feriti, seppellivano i morti e dividevano il pane, i vestiti e le speranze con i disperati. La pietas di un popolo, l’amore delle mamme che si sostituiva ad un’altra mamma lontana.

Il progetto ha, proprio per questo, partnership importantissime: una Università, (la LUMSA); un Istituto di ricerche storiche, l’Istituto Luigi Sturzo); un Istituto di ricerca politica, l’Istituto Alcide De Gasperi di Bologna; un’Associazione di promozione popolare, le Acli; un ufficio storico di un grande gruppo:l’ENI, fondato da Enrico Mattei, capo dei Partigiani Cristiani e fondatore dell’ANPC.

E, per la prima volta, per la parte riguardante l’eccidio dei sacerdoti, abbiamo ottenuto il patrocinio della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Chiediamo aiuto a tutti gli uomini ed alle donne, ai giovani,  che credono nella Resistenza, nella Costituzione e nell’Italia per realizzare questo progetto. Aderite ai Partigiani cristiani e lo porteremo a termine tutti insieme, ispirandoci al verso di una poesia, che ricorda la lettera di Paolo ai Romani di questa prima Domenica di Avvento, dedicata alla Resistenza da Padre David Maria Turoldo, partigiano cristiano:“Riprendiamoci, amici, il nostro nome di battaglia ed armiamoci di luce”.

 

Partigiani in convento di ENRICO MATTEI

(dai Discorsi di Mattei)

 

Dicembre 1945 – pubblicato da Mercurio

Quello che hanno fatto i religiosi in questa guerra ha dell’incredibile. In quasi tutte le formazioni partigiane c’erano cappellani, ufficiali e volontari. Non c’è stata una brigata, una divisione che non abbia avuto l’assistenza religiosa, il conforto agli infermi, ai moribondi. Il sacerdote partigiano era il fratello che confortava il fratello ammalato, ferito, il morente.

Fuori di quell’ora solenne, in cui la creatura ritornava al creatore, il sacerdote viveva la vita di stenti di pericoli coi partigiani.

Spesso assumeva il compito di ufficiale di collegamento, preoccupato di far giungere alle formazioni armi, cibarie, vestiario. Altre volte erano i sacerdoti che facevano da intermediari per lo scambio degli ostaggi.

Più guerriero che sacerdote

Accanto ai cappellani i parroci. Nelle zone occupate o battute dai partigiani il parroco era sempre il primo partigiani che si incontrava. Sfidando sospetti, rischi, perquisizioni, deportazioni, i parroci erano sempre pronti ad apprestare il loro aiuto.

Solo in una zona del parmense 15 sacerdoti vennero fucilati per favoreggiamento. La storia delle barbarie e delle sofferenze dei partigiani e del clero dovrà essere narrata. Si vedrà allora quanto hanno potuto l’amore cristiano e l’amore di Patria.

C’era un prete, anima di tutte le formazioni, che nell’adempimento dei suoi compiti sembrava più guerriero che sacerdote, Padre Carlo delle formazioni del Nord Emilia.

C’era una suora (Suor Cecilia di Como) che non dubitò mai di sfidare la sorveglianza dei poliziotti pur di portare notizie delle famiglie ai detenuti. Essa era in collegamento col servizio assistenza del comando generale, e recava ai partigiani alimenti e la parola soave del suo cuore.

Dal cappellano del carcere (Don Castelli), tutto dolcezza e comprensione, attendevamo ansiosamente la Messa. Fra il freddo invernale della tetraggine del luogo sentivamo il calore della sua parola. Vedevamo nel cappellano un partigiano senza distinzione politica. Era il fratello nostro maggiore, era il padre che confortava tutti, facendoti intendere fugacemente, durante la Messa, sotto gli occhi dei carcerieri nuove situazioni. Quando, dopo 37 giorni di detenzione, riuscì a fuggire dal carcere di Como, sorse contro Don Castelli una accanita diffidenza. Di fatti fu imprigionato e poi liberato grazie all’intervento del suo Vescovo. Un altro brutto giorno fu quando si seppe che il “posto andò bruciato”. Avevano arrestato il Colonnello Palumbo (Pieri) e Sogno (Franchi).

Dovevamo trovarci insieme da Monsignor Paolo, la cui casa era piena di documenti compromettentissimi. Era il luogo di riunione del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà e di tutti i capi delle formazioni democratiche-cristiane, il nostro quartier generale.

Vi si discutevano i piani, vi venivano decisi i colpi di mano, impartiti gli ordini.

Arrivavamo uno per volta con andatura circospetta, con le borse ricolme di “gravi carte”.

“Conferenza di San Vincenzo di Paoli” era la nostra parola d’ordine. Maria, la sorella di Monsignor Paolo era la nostra sorella maggiore, tutto cuore, tutta ansietà per noi. a Monsignor Paolo confidammo che Cadorna era con noi. era stato capitato degli alpini nella guerra 1915-18: egli volle essergli presentato. Era commosso per la nostra attività e volle lui pure fare qualcosa per l’Italia. e quanto ha fatto! Un giorno chiesi al mio fedele amico “Gino” di trovarmi un rifugio. Si doveva cambiare il posto di riunione del comando. “Gino mi presentò a Padre Edoardo”. Trovai in lui un’accoglienza più che fraterna. Non l’avevamo mai veduto. La sua alta figura, il suo viso sorridente, la sua accoglienza aperta, mi accertarono subito che potevamo contare su di lui come su di un grande amico. Fu molto lieto di aiutarci, di mettere a nostra disposizione i locali del suo laboratorio. Padre Edoardo volle conoscerci tutti. La sua affettuosità, il suo interessamento per la nostra attività, conquistò, commosse tutti. Di sopra, Padre Edoardo, nel suo ufficio lavorava per i giovani randagi, per gli ebrei nascosti, per gli scappati, per i perseguitati dalla polizia, ma di fuori il nemico cominciava a ronzare. Furono date le segnalazioni ammonitrici e “Gino” dovette ricercare un altro sicuro rifugio. Ci portò in un convento di suore, un grande e vecchio edificio poco distante dal punto dove, il 26 ottobre 1944 Saletta fece di noi una grossa retata.

 

Una grande impresa

“Gino” ci presentò a Madre Rosa Chiarina, la superiora generale, due occhi lucenti, intelligenti, vivacissimi. Appena ci vide la sua faccia si illuminò. Non sapeva chi fossimo. Sapeva da “Gino” che “cospiravamo” per liberare l’Italia dal tedesco. Fu felice di concorrere alla nostra impresa, dandoci tutto il suo aiuto. Dalle nove del mattino alle venti di sera restavamo in una stanza a lavorare senza sosta. La prima volta, verso sera, Madre Rosa Chiarina, non vedendoci uscire si preoccupò e venne a picchiare alla porta. Un bel giorno Madre Rosa Chiarina si trovò innanzi a noi, non più cospiratori, ma a comando generale militare del CVL. Le chiedemmo di ospitarci per la notte e di metterci a disposizione il telefono e qualche locale per mettere in piedi degli uffici. Madre Chiarina fu colta da evidente sorpresa, confusa di trovarsi impensatamente dinanzi al Comando. Avendo obiettato che non poteva darci ospitalità per la notte ,essendo un monastero femminile sottoposto alle leggi canoniche, le rispondemmo che noi eravamo da quel momento il Governo dell’Alta Italia e come tale investito di tutti i poteri in virtù dei quali proseguimmo alla requisizione di una parte del monastero. Quell’atto mise in pace la coscienza di Madre Rosa Chiarina. Era il pomeriggio del 25 Aprile. Partito l’ordine dell’azione in breve il monastero diventò quartier generale del CVL e vi alloggiammo comandanti, ufficiali di collegamento, staffette.

A nostra disposizione avemmo alcune suore che furono preziose nostre collaboratrici. Occupata la prefettura, la mattina del 26 Aprile vi trasferimmo il nostro comando, lasciando, non senza nostalgia, l’ospitale monastero. Subito dopo la Liberazione, il Generale Cadorna inviò alla superiora generale la lettera che mi piace qui riportare: “Milano 5 Maggio 1945. Reverendissima Rosa Chiarina Scolari, superiora generale delle suore della Riparazione, Corso Magenta, 79 – Milano.

Reverendissima Madre Generale,

il Comando Generale Militare desidera esprimerle i più vivi ringraziamenti per la cordiale ospitalità datagli nei giorni che precedettero la Liberazione, e nella memoranda notte che segnò la fine della tirannide. In quel giorno da codesta casa generalizia, di decisero le sorti di questa preziosissima parte dell’Italia, affidata al Corpo Volontari. Per noi queste ore di intenso lavoro, svolto nella serena quiete del suo monastero, rimarranno nel nostro più caro ricordo, come un giorno gli italiani conosceranno che da codeste mura partirono gli ordini per la resurrezione della Patria”.

Ricordando oggi questi fatti fra i tanti episodi della Guerra di Liberazione penso con ansietà ai rischi ed ai  pericoli corsi dai tanti generosi e silenziosi collaboratori dell’azione partigiana. La loro opera non sarà dimenticata.

 

Enrico Mattei

Cronaca della riunione dei partigiani cristiani (a cura di Bartolo Ciccardini)

 

Si è tenuta a Roma, presso l’Istituto Sturzo, la riunione del Comitato Scientifico e delle Associazioni partecipanti al programma: “Resistenza civile oggi”.Il programma nasce dall’impegno dei Partigiani Cristiani  a trasmettere ai giovani la memoria ed i valori civili della Resistenza.

Esso segue l’iniziativa già presa dalle Acli e dai Partigiani Cristiani per costituire Gruppi di Lavoro “Resistenza e Costituzione”, affinchè i giovani traggano dalla storia motivazione ed ispirazione ad un impegno politico  

Il fatto centrale, trascurato dalla dalle due storiografie contrapposte, quella dell’attendismo e quella della zona grigia, è stata la scelta morale della Resistenza civile, la scelta di una opposizione morale al nazifascismo, comportamento conseguente fino all’eroismo quotidiano. La Resistenza civile fu il comportamento, non di una minoranza, ma di una vasta massa popolare, in cui si distinsero i cattolici, le donne ed i sacerdoti, il cui operato non è stato ancora studiato e spiegato. Questo ritrovare il significato della scelta morale, che è tutt’altro dalla zona grigia, è necessario oggi perché i giovani escano dalla “non politica” odierna.

Ha aperto la riunione il Presidente dei Partigiani Cristiani, On. Giovanni Bianchi: “La Resistenza come esperienza di rinascita e di rinnovamento proposta ai giovani non come esempio, ma come valore per il nostro futuro”. Ha ricordato il programma dei Partigiani Cristiani dell’anno2013 (Giuseppe Dossetti, 13 febbraio 2013; La particolare Resistenza di Roma, Aprile 2013; il documento della rinascita a Camaldoli, Luglio 2013; l’inizio della Resistenza cristiana, la Battaglia della Montagnola, il 9 settembre 2013). Bianchi ha citato il pensiero storiografico di Pietro Scoppola ed ha ringraziato i partecipanti al presente programma, il Comitato scientifico con i maestri Malgeri, Giovagnoli, D’Andrea, Ciampani ed Acanfora, che esporranno il tema storiografico ed i partner del programma: le Acli (con la presenza del Presidente Nazionale, Gianni Bottalico; l’Istituto Sturzo, con Giuseppe Sangiorgi; l’Università LUMSA, il cui Magnifico Rettore Giuseppe Della Torre ha inviato un suo saluto; l’Eni, con la presenza della Dottoressa Lucia Nardi; l’Istituto Alcide De Gasperi di Bologna, con la presenza del Prof. Domenico Cella; ed infine la Rivista Civitas con la presenza del Direttore, Amos Ciabattoni.

Il Professor Giovagnoli ricorda la intuizione di Chabod a proposito dei cattolici nella Resistenza che paragonò Pio XII a Gregorio Magno, per il ruolo svolto dalla chiesa nella transizione dal fascismo alla democrazia in Italia.

Non fu soltanto un ruolo di rifugio e di accoglimento (in Laterano si era rifugiato il futuro governo democratico italiano), ma furono soprattutto le due scelte fondamentali che dettero il via alla transizione: la scelta della pace contro tutte le guerre nel messaggio del 1939 e la conseguente scelta della democrazia contro i regimi totalitari che vogliono la guerra, furono il fondamento di  un antifascismo morale che interpretò l’attesa di pace dei popoli. Questo fu l’atto di nascita di un’opposizione tra cattolici e nazismo che Hitler capì benissimo, quando affermò: “Finito il lavoro con gli ebrei toccherà ai cattolici”.

Bisogna rivedere la storia della persecuzione dei sacerdoti, che apparentemente avviene per motivi casuali e locali, che fu invece la reazione degli occupanti ad una opposizione passiva ma forte che tutti i documenti delle autorità fasciste testimoniano. Questo antifascismo morale contrasta il giudizio di De Felice sull’opportunismo degli italiani. Certamente ci fu anche opportunismo, ma non solo quello. Bisogna recuperare la storia dei sacerdoti come posizione “non grigia” ed il desiderio di pace come elemento coagulante. La scelta per la pace precede la coscienza di condanna del fascismo a causa della guerra e porta alla scelta della democrazia, perché vuole la pace. E questo avrà conseguenza anche successive che sono state disconosciute anche per la fine della militanza comune. La spaccatura dei blocchi mise fine alla collaborazione fra antifascisti che era arrivata fino alla Costituente. Se si parla di zona grigia non si capisce quello che avvenne dopo. E troppo spesso si è indicata la DC come zona grigia, misconoscendo i valori che interpretava. Non a caso, nei difficili anni, ’70 Moro torna a parlare di “antifascismo morale” diverso dall’antifascismo politico, nel momento in cui la Resistenza veniva invocata per colpire il cuore dello Stato.

L’interpretazione partitica della Resistenza ha perduto questo significato dell’antifascismo morale e dell’antifascismo popolare. Si è cosi indebolito il significato della Resistenza civile   

Importantissimo è seguito il contributo del Professor Francesco Malgeri. Egli ricorda la storiografia ideologica dei primi anni, che trascurò i valori della Resistenza civile. Nel ’70 ricomparvero nella nuova sinistra la tesi di una Resistenza tradita. Però, nel contempo, ci furono molti studi, non solo sul fenomeno della lotta partigiana, ma anche sulla situazione politica reale nei tempi della Resistenza. La crisi politica indebolisce i valori della identità nazionale. Non ci rendiamo conto di come l’aver messo in discussione l’unità ha cancellato il comune sentire della Resistenza. Malgeri si richiama all’importante lavoro di Claudio Pavone del 1991, che induce ad una nuova comprensione della Resistenza. La crisi politica provoca una forte caduta dei valori resistenziali.

In riconsiderazione dei temi: de “la morte della Patria” e della “zona grigia”. Il nostro compito è quello di riscoprire il momento della scelta. Fu il momento in cui ogni “italiano restò con sé stesso” ed ognuno singolarmente prese nei giorni difficili la decisione di cosa avrebbe dovuto fare. Lla Resistenza fu anche una decisione morale personale. Ed è questo il significato dei giorni difficili. Per risalire dal baratro bisogna ritornare ad una scelta personale.    .

Il Prof. Andrea Ciampani della LUMSA inizia subito con una affermazione di speranza. Non è vero che i giovani non vogliono partecipare, anzi sono in attesa di una spiegazione di quello che sta avvenendo.  

La comunicazione con i giovani deve avere quattro momenti. Un momento della scelta: ognuno si chiede la cosa per cui vale la pena di vivere. È un momento che non si può più rinviare. Il secondo momento è il contatto con la realtà: cosa c’è di possibile, cosa c’è di buono e cosa c’è di alternativo alla nostra scelta. Il terzo momento è il momento educativo: nel ricordare la storia della Resistenza dei cattolici e del grande risultato degli anni successi ci si è dimenticato di quale fu l’enorme sforzo educativo della Chiesa negli ’30 e negli anni ’40. Quarto momento è l’animazione sociale. La scelta ed il lavoro successivo devono trovare uno sbocco naturale nel servizio agli altri. Il punto più alto dell’animazione sociale è la politica. Il Prof. Ciampani propone di prolungare il programma dello studio del ’44 e del ’45 fino al ’46 per giungere alle soluzioni politiche proposte dalla Resistenza: la Repubblica e la Costituzione.

Il Presidente delle Acli, Gianni Bottalico,  rinnova l’impegno delle Acli a portare nel territorio con i suoi circoli di riflessione sui temi proposti con la traduzione in termini di azione sociale che sarà possibile attuare nei nostri giorni.

A nome delle Acli parla il Prof. Paolo Acanfora. Ricorda che bisogna sottolineare non tanto la visione cattolica della Resistenza quanto l’azione dei cattolici nella Resistenza condivisa. Il programma deve insistere sulla scelta: che sia propriamente una scelta sulle ragioni del vivere. E riprendere quindi come strumento di formazione il testo prezioso, purtroppo dimenticato delle Lettere dei condannati a morte della resistenza.

L’On. Flavia Nardelli ha portato il saluto dei deputati impegnati nella battaglia parlamentare, fra cui l’On. Preziosi e D’Andrea, e ha ricordato il grande lavoro svolto dall’Istituto Sturzo, con l’edizione dei sette volumi sui “I cattolici e La Resistenza”del Mulino.

Stefano Corsi delle Acli romane, è promotore di un gruppo di Lavoro “Resistenza a e Costituzione”: interviene sulla importanza del lavoro formativo per la preparazione politica dei giovani.

Interviene anche Ruggero Orfei per sottolineare l’iniziativa della ricerca personale da parte dei giovani sui testimoni della Resistenza, una sorta di luogo di incontro, in forma epistolare tra “Caro Nonno” “Caro nipote…”, ricordando l’importanza degli episodi conservati nella memoria della sua famiglia. Ricostituire così le memorie personali e singole di quegli anni.

La riunione del Comitato Scientifico allargato si conclude con la dimostrazione di un primo impegno mediatico, che sarà importante per coinvolgere i giovani: Maurizio Eufemi agita il suo i-pad annunciando che la notizia della riunione è già on-line.”Siamo appena nati e siamo già in the cloud. Nella nuvola".
 

Roma, 4 febbraio 2014 

Sistema elettorale e adempimenti

 

La questione elettorale è materia incandescente. I contrasti tra le forze politiche aumenteranno. E’ in gioco la sopravvivenza di intere formazioni politiche. Sono state introdotte soglie troppo alte all’ingresso in Parlamento mentre la soglia per il premio di maggioranza è troppo bassa rispetto alla dimensione del premio stesso. Anche partiti o formazioni politiche di 3 milioni di consensi fuori da coalizione rischiano di stare fuori. Tutto ciò è contro la Costituzione repubblicana che ha privilegiato pluralismo e partecipazione.

 

Il passaggio dal porcellum, sistema proporzionale con premio senza soglia minima all’italicum, sistema plurinominale con liste bloccate senza preferenze, non è cosa banale da potere essere liquidata in nome della semplificazione del sistema elettorale.

Intanto va detto che non è cosa fa dare in pochi giorni come si intenderebbe prendendo il modello Firenze come dimensione di popolazione.

 

Va ricordato infatti che allorquando si introdusse il Mattarellum con le leggi 276 e 277 del 4 agosto 1993 all’articolo 7 fu data una delega al Governo di quattro mesi per determinare i collegi elettorali uninominali con precisi principi e criteri direttivi, in base alla composizione economico-sociale e alla popolazione di ciascun collegio. Lo schema di parere veniva poi sottoposto all’esame delle Camere, con l’obbligo di motivare eventuali difformità dalle indicazioni del Parlamento.

Il ruolo rilevantissimo del Parlamento veniva inoltre consolidato con i poteri affidati ai Presidenti delle due camere di provvedere all’inizio di ogni legislatura alla costituzione di una Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali. Ma v’è di più veniva anche previsto all’articolo 7 della legge 277/93 che dopo ogni censimento generale o ogni volta che ne avverta la necessità la Commissione formulava le indicazioni per la revisione dei collegi.

Il governo nella predisposizione del decreto delegato doveva tenere conto delle indicazioni della Commissione composta dal Presidente dell’Istat e da dieci docenti universitari ed esperti nelle materie specifiche.

Il rispetto dei tempi naturali, come il tempo di 4 mesi per l’esercizio della delega dopo la approvazione della legge, ancora all’esame della Commissione della Camera in prima lettura, impedirebbe qualsiasi soluzione che porti alle elezioni anticipate.

 

Chiediamo sommessamente se all’inizio della corrente legislatura i Presidenti delle Camere hanno provveduto a costituire la Commissione indicata dalla normativa indispensabile per procedere alla definizione dei collegi elettorali, anche in ragione del 15° censimento generale della popolazione italiana che è del dicembre 2011. Non va dimenticato che dal precedente censimento del 2001 la popolazione è passata da 56,996 milioni a 59.434 milioni di abitanti con un incremento del 4,3 per cento con incremento della popolazione straniera e contrazione demografica di quella italiana che riguarda il Mezzogiorno, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia per il Nord, Toscana e Umbria per il centro. La popolazione della Toscana, tanto per fare un esempio, si riduce di 174.396 unità.

Sono tutti elementi che dovrebbero portare ad una qualche meditazione evitando rischi di legiferare su una materia che richiede ponderazione e non superficialità.

 

La polemica su chi deve definire i collegi non è secondaria rispetto alle decisioni da assumere perché i collegi di possono fare in tanti modi. Allungare un collegio alla forma di una salamandra, inserendo un comune o più comuni con particolari composizioni socioeconomiche, può determinare il successo si una coalizione o meno. Il ruolo del Ministero degli interni è fondamentale, così come è altrettanto indispensabile il ruolo del Parlamento e della relativa commissione che deve essere prontamente istituita ove non sia già stato fatto dai Presidenti delle Camere

 

Roma, 25 gennaio 2014

Disegniamo insieme il nostro futuro

(intervento del sen. Eufemi al convegno)

 

Non celebriamo con questa iniziativa di Gianni Fontana e della Associazione Democrazia Cristiana, solo l’anniversario dell’appello di Luigi Sturzo ai Liberi e Forti.

E’ anche l’anniversario della diaspora del 1994, di speranze deluse di attese di una ricomposizione che hanno portato alla scomparsa nel 2013 dpi una presenza organizzata dei cattolici in parlamento.

Non va dimenticato che al primo punto del programma sturziano figurava la integrità della famiglia.!

Lo diciamo oggi proprio perché sembra si apri una deriva rispetto al tema della famiglia, anche di terzo genere, delle unioni civili confondondendo i desideri con i diritti.

Abbiamo il dovere di difendere quel grandioso patrimonio che trovava ancoraggio nella ispirazione religiosa pur nella laicità, che poneva la persona innanzi a tutto, che guardava ad un riformismo coraggioso, che rifiutava il conservatorismo e il moderatismo, che si ancorava ai territorio attraverso la sussidiarietà e la solidarietà.

Vediamo abbandonata la strada indicata da Sturzo di guardare alle classi intellettuali e medie che formano la spina dorsale della struttura del paese e che hanno fatto la storia del Paese fin dalla unità e in tutti i passaggi compreso quello negativo del 1922.

Purtroppo oggi le classe medie sono progressivamente penalizzate vessate fiscalmente ridotte nel loro corpo dinamico della società, progressivamente ridimensionate, preoccupate non solo per il presente ma per il futuro dei propri figli e per le insicurezze crescenti.

Gabriele De Rosa fedele interprete del pensiero sturziano sollecitava ripetutamente a riprendere quel termine popolare inteso come società delle condizioni umane dove i ceti sociali sono riferiti alla condizione giovanile, femminile, operaia, degli anziani . Quelle categorie andrebbero attualizzate ai giorni nostri rispetto ai dati della disoccupazione, ai giovani al precariato, alle insicurezze.

V’era nella idea sturziana l’obiettivo di federare le diverse realtà.

Ecco noi pour venendo a esperienze diverse, dobbiamo dare voce ad un movimento in cui i cattolici possano riconoscersi e ritrovarsi per affermare quelle idee e quei principi.

Oggi sembra prevalere la svolta generazionale senza peraltro conferme elettorali.

E’ una questione fuorviante. Si può essere giovani incapaci e anziani saggi, lungimimiranti e coraggiosi come De Gasperi.

Non c’è bisogno di fratture generazionali, ma di costruire un ponte generazionale per uscire insieme dalla crisi.

I problemi non si risolvono by magic. Lo diciamo perché si affacciano nuovi leaderismi, nuovi personalismi dove prevale lo spirito della democrazia decidente piuttosto che quella partecipata.

Il giovane Renzi ha lanciato idee approssimative molto confuse come per l'abolizione del Senato. Si fa passare il messaggio che con una sola camera che da la fiducia al Governo si risolvono tutti i problemi. Non è così. Non è in discussione l’articolo 94 della Costituzione. Verrebbero travolti gli articoli dal 55 all’82.

Ne cito alcuni: deliberazione dello stato di guerra, trattati internazionali, approvazione dei bilanci e del perimetro della PA, elezione del presidente della Repubblica, il capo dello Stato provvisorio, la composizione del csm e della Corte costituzionale, il meccanismo del 138 di revisione della costituzione. Tutti i meccanismi di nomina delle autorithies.

Come non ricordare quanto affermato da Giulio Andreotti che vedeva il pericolo di creare un “ectoplasma con un lieve turismo interno di presidenti di regione o di altri che vi parteciperanno di tanto in tanto".

Abbiamo visto che quando la politica è debole entrano in gioco gli interessi forti. Basti pensare che nel silenzio generale degli organi di informazione è stata operata la cessione delle quote della Banca di Italia.

Dobbiamo riaffermare le ragioni del popolarismo come modo di essere nella società, come presenta critica, come interpreti delle attese della gente.

La cultura della partecipazione deve guardare alla stella polare della economia sociale di mercato in cui il modello renano prevalga su quello anglosassone, in cui i dipendenti siano coinvolti nella vita e nel destino della impresa. La scelta di allocare le azioni di Poste ai dipendenti è una idea giusta ma realizzata nel modo sbagliato. Non si fa nel chiuso del comitato privatizzazioni. Si fa con linee guida precise. Dobbiamo guardare alla affermazione dei corpi intermedi, alle formazioni sociali per sviluppare un quel welfare community complementare e alternativo a quello universalistico, costoso e inefficiente.

Per l’Europa dobbiamo essere rivoluzionari. Il Ppe non può avere la sola ambizione di essere il primo partito europeo, di essere quello più numeroso per prendere le cariche più importanti. Dobbiamo abbandonare il metodo intergovernativo applicato ai partiti e agli stati nazionali. Nel PPE dobbiamo avere un solo corpo elettorale, realizzando un partito transazionale. L’Europa deve riscoprire i valori della solidarietà e della coesione sociale.

Sturzo guardava agli Stati Uniti di Europa come espressione di popoli che tendono alla unificazione perché legati da tradizioni di civiltà, da aspirazioni comuni.

Dobbiamo essere chiari ed evitare equivoci. Non vogliamo sentire parlare di popolarismo di chi in questi anni non lo ha praticato e non è stato coerente con quei valori. L'ipotesi della legge elettorale sul modello spagnolo non convince perchè non garantisce il pluralismo e il principio di rappresentanza.

E’ tempo di nuove sfide per una nuova stagione di impegno e di responsabilità.

E’ tempo che la famiglia dei cattolici ritrovi unità e identità partendo dai programmi ma diceva Sturzo “un programma politico non si inventa si vive e per viverlo deve seguire nelle sue fasi evolutive precorrere le attuazioni determinare le soluzioni nel complesso ritmo delle affermazioni nella fermezza delle negazioni".

Riprendiamo coraggio dalla lezione di Sturzo.

Il vascello che stiamo costruendo deve essere robusto, con equipaggio coeso e convinto nel procedere nella rotta del popolarismo. Non abbiamo bisogno di capitani Fletcher e di ammutinati del Bounthy pronti ad impossessarsi del nostro vascello e modificare la rotta che qui, oggi stiamo definendo.

 

Maurizio Eufemi

18- 19 gennaio 2014

Riflessioni del sen. Eufemi sulla lettera dell'on. Gerardo Bianco

 

La lettera del Presidente Gerardo Bianco su due argomenti come la riforma del Senato e la legge elettorale, offre lo stimolo ad alcune riflessioni in particolare sulla soppressione del Senato e conseguente cancellazione del bicameralismo.

L’idea enfatizzata dalla riduzione dei costi istituzionali appare semplicistica non sufficientemente meditata.

Non è sufficientemente chiara la legittimazione dei componenti del Senato trasformato in Camera delle Autonomie.

Non è in discussione solo l’articolo 94 relativo alla concessione o revoca della fiducia al governo come potrebbe apparire, perché la riforma del Senato coinvolgerebbe direttamente o indirettamente tutto il titolo I Sezione I, relativo al Parlamento quindi gli articoli dall’articolo 55 all’82.

Basti pensare agli articoli 56 e 57 che disciplinano il sistema di elezione del Senato,

l’articolo 67 sull’assenza dei vincoli di mandato, l’articolo 69 la disciplina dell’indennità, l’ articolo 78 sulla deliberazione dello stato di guerra, l’articolo 80 sulla ratifica dei trattati internazionali, l’articolo 81 relativo alla approvazione dei bilanci.

Non va poi dimenticato che Il Parlamento come seggio elettorale procede alla elezione del Presidente della Repubblica e che l’articolo 86 disciplina il ruolo di supplenza affidandolo al Presidente del Senato.

Anche gli articoli, 104 relativo alla composizione del CSM, e il 135 relativo alla composizione della Corte Costituzionale verrebbero ad essere coinvolti.

Riflesso ancora più importante riguarda l’articolo 138 relativo al meccanismo di revisione della Costituzione che verrebbe ad essere inficiato rispetto all’idea dei costituenti.

Non va infine dimenticato tutto il sistema stratificato delle nomine nelle Authorities che vengono affidate talune ai Presidenti di Camera e di Senato e altre alla elezione di ciascuna Camera. Senza dimenticare che i regolamenti parlamentari stabiliscono che gli organi collegiali bicamerali, per le indagini conoscitive l’intesa fra i due presidenti è fonte di diritto parlamentare e è anche fonte di diritto legislativo perché dalla intesa fra i due presidenti dipende la nomina di membri di Authorities.

Nel momento in cui è la Costituzione e non il regolamento non una legge organica a fissare la procedura per fare le leggi da quel momento non ci possono essere intese presidenziali che possano cambiare o derogare l’ordine costituzionale delle competenze.

Il passaggio dal bicameralismo perfetto ad uno asimettrico limita il Senato rispetto alla formazione delle leggi tra queste rientrano anche i bilanci e la legge di stabilità. La politica di bilancio si compone dei saldi di finanza pubblica che devono essere garantiti annualmente a livello di consolidato nazionale e delle regole di ripartizione sul territorio degli stessi saldi. Il problema è se tutti gli aspetti della politica di bilancio debbano passare alle due Camere o meno Ci deve essere un raccordo tra di esse nel perimetro di Maastricht cioè sul consolidato della PA. E’ impensabile non tenere conto delle autonomie territoriali e funzionali.

Patto di stabilità interno, scelte di perequazione e legge di stabilità rappresentano un unicum costituito dal saldo complessivo che verrebbe spezzato tra due Camere con competenze differenziate rispetto invece ad una unitarietà e a una intrinseca interconnessione tra centro e periferia.

Come funzionerebbe infine un Senato delle autonomie senza bilancio e senza risorse?.

Non vorremmo assistere a una fase della storia in cui il Senato voti l’eutanasia del Senato stesso o non si corra il rischio di creare quello che Andreotti definì “un ectoplasma senatoriale sia pure con un lieve turismo interno di presidenti di Regione o di altri che vi parteciperanno di tanto in tanto”.


La riduzione del numero dei parlamentari sia della Camera che del Senato appare la via più ragionevole, seria, efficace.

 

Roma, 14 gennaio 2014

LETTERA APERTA DELL'ON. GERARDO BIANCO SU RIFORMA DEL SENATO E DELLA LEGGE ELETTORALE

 

Caro/a Collega,

in un panorama piuttosto confuso ed agitato che riguarda, peraltro, il delicatissimo assetto del nostro sistema istituzionale, mi sembra “cosa buona e giusta” intervenire per dare il nostro contributo con osservazioni e suggerimenti, per evitare un definitivo “appannamento” della nostra Carta Costituzionale.

Sottopongo pertanto alla tua attenzione alcune considerazioni maturate nei nostri convegni e negli scambi di idee con numerosi colleghi sulle quali ti sarei grato se volessi farci pervenire un tuo argomentato commento.

All’ordine del giorno dell’agenda politica sono stati prioritariamente proposti i due delicatissimi temi della riforma del Senato e della legge elettorale.

È bene che soffi un vento nuovo e forte sulla vita politica italiana, ma è bene anche vigilare se esso sia orientato nella direzione giusta, e così non sembra con la prospettata riforma del Senato.

La questione del bicameralismo perfetto e della revisione del numero dei parlamentari si pose già al tempo dell’approvazione dell’ordinamento regionale. Un gruppo di deputati affrontò la questione presentando una puntuale proposta di legge (20 novembre 1975, nr. 4127), ma le condizioni politiche dell’epoca, di forti divisioni ideologiche, ma di grande cautela costituzionale non consentivano di esaminare e di approvare una così innovativa riforma.

La questione, benché rilevante, è rimasta irrisolta.

Il superamento del bicameralismo perfetto è un passaggio obbligato per dare  efficienza al sistema istituzionale, ma non sarebbe affatto lungimirante procedere tout courtcon la soppressione del Senato e della sua funzione deliberante.

La ultra-decennale esperienza parlamentare dimostra come sia spesso necessario intervenire in corso d’opera per correggere errori della prima deliberazione o anche per accogliere ripensamenti dello stesso Governo, fatto tutt’altro che raro.

La strada da seguire è dunque un’altra, già indicata da eminenti costituzionalisti, ed è quella della differenziazione delle competenze e delle funzioni, con la possibilità di richiamo delle leggi da parte della Camera esclusa dalla prima lettura su richiesta di una maggioranza qualificata o dal Governo.

Sulla fiducia all’Esecutivo e su alcuni limitati atti legislativi o su materie di particolare rilevanza le Camere potrebbero deliberare insieme, come avviene per la elezione del Presidente della Repubblica e altre cariche elettive. È questo il modello del Parlamento procedurale che supererebbe i limiti del bicameralismo perfetto, senza annullare la possibilità del secondo esame correttivo.

Nella discussione politica in atto è stata prospettata l’ipotesi di un Senato formato da rappresentanti delle Autonomie locali, già eletti.

Non si comprende quali competenze e funzioni potrebbe avere un Senato così formato, squilibrato rispetto alla Camera eletta con votazione nazionale  che non può che svolgersi sulla base di programmi riguardanti l’intero Paese.

Non mi sembra infondato prevedere contrasti, frustrazioni, rivendicazionismi localistici e continue polemiche antigovernative poiché questa Camera, (non più Senato) non potrebbe avere altro ruolo se non quello di provocare risonanze mediatiche. L’obiettivo sacrosanto di una revisione del costo della politica non sarebbe peraltro conseguito, mentre si ridurrebbe lo spessore della nostra democrazia.

È evidente che una soppressione del Senato o la sua trasformazione in Camera dei già eletti nelle amministrazioni locali, comporterebbe come conseguenza il mantenimento di un numero comunque alto dei Deputati (se non proprio l’attuale), con l’effetto di non rendere, come è auspicabile, più snello e penetrante il procedimento legislativo che si otterrebbe, appunto, con la riduzione dei componenti della Camera.

Per coniugare rappresentatività, efficienza, qualità legislativa e anche risparmio economico, senza indebolire l’assetto democratico, è necessario battere altre strade, che passano, appunto, per la differenziazione, e insieme per la parità istituzionale dei due rami del Parlamento, per il dimezzamento del numero dei Deputati e Senatori (315 e 130), per l’adozione di innovativi regolamenti parlamentari, cominciando a privilegiare il metodo redigente in commissione.

V’è, infine, un ulteriore aspetto che mi lascia perplesso e riguarda il prospetto dei tempi per come si accavallano, con paradossali conseguenze.

E’ indubbio che la riforma della legge elettorale sia una assoluta priorità, ma affrontarla subito significa intervenire anche sulla parte che riguarda il Senato.

Che cosa accadrà se, poniamo, tra la nuova legge approvata, e quindi in vigore, dovesse seguire la soppressione o trasformazione del Senato in Camera delle autonomie dei già eletti?

Sul sistema della legge elettorale si va sviluppando un dibattito inappropriato poiché ispirato da calcoli di parte.

Ciò accade perché la premessa del ragionamento è, a mio parere, sbagliata. Si cerca non la buona legge (e i modelli non mancano), ma quella che garantisca il bipolarismo che in Italia non c’è, e difficilmente ci sarà.

Si cerca in sostanza di creare una “camicia di forza” invece di elaborare una legge inclusiva che sia in grado di determinare il massimo di coinvolgimento (come è accaduto con il proporzionale che è stato il sistema elettorale che ha favorito il superamento dei partiti        antisistema e quindi il rafforzamento democratico dell’Italia) con l’obiettivo di dare stabilità ai Governi.

Il mattarellum fu concepito con  questo metro, dopo il referendum sulla legge elettorale proporzionale.

Seguirne l’ispirazione potrebbe essere un buon filo di Arianna per la necessaria riforma del porcellum, senza l’illusione di garantirsi per legge il bipolarismo che è in crisi perfino nella stessa Inghilterra. Basta leggere un po’ di bibliografia in proposito per rendersene conto!

La legislazione che regola la vita democratica si scrive sotto un “velo di ignoranza”, senza chiedersi: “a chi giova?”. È questo il metodo giusto per fare una buona legge elettorale.

Ed ora un personale auspicio: che non si imbocchi la strada fuorviante del presidenzialismo sul cui tema sarà comunque necessario ritornare ove dovesse profilarsi all’orizzonte con forme improprie o distorte (come il sindaco d’Italia),  che di fatto alterano la Costituzione.    

Scusatemi se l’ho fatta piuttosto lunga, ma era necessario ripercorrere i vari punti in esame, anche esprimendo la mia opinione, proprio perché tu li possa esaminare criticamente, facendoci pervenire al più presto le tue considerazioni.

Colgo l’occasione per rinnovarti con l’augurio per il nuovo anno il mio affettuoso saluto.

 

Gerardo Bianco

L'appello sturziano per riprendere il cammino

 

Si avvicina la data del 18 gennaio. Non è solo la celebrazione del novantacinquesimo anniversario del partito popolare di Luigi Sturzo con il suo manifesto programma "a tutti i liberi e forti, che in questa grave ora sentono il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi nè preconcetti, facciamo appello perchè uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertá".

 

Quella data coincide anche con il momento più aspro della diaspora cattolica. In quegli stessi giorni del 1994 si ricostituiva con grandi aspettative il nuovo Partito Popolare, prima all'Istituto Sturzo, poi con una grande Assemblea.

Purtroppo quelle speranze sono andate deluse, così come le attese di una ricomposizione che invece è stata sopraffatta da una progressiva frantumazione della presenza organizzata dei cattolici fino alla scomparsa, nel 2013, di una formazione politica di riferimento in Parlamento. Rispetto alle polemiche e al dibattito di questi giorni non va dimenticato che al primo punto del programma sturziano figurava la integritá della famiglia.

V'era nel 1994 la consapevolezza di dovere resistere ai pericoli derivanti dal cedimento dei grandi partiti popolari che per Mino Martinazzoli avrebbero fatto entrare direttamente in gioco gli interessi forti e la politica sarebbe diventata la parodia di se stessa; così come la esigenza di riaffermare le ragioni del popolarismo inteso come modo di essere nella societá, come costante presenza critica nella societá.

È stata purtroppo progressivamente abbandonata la strada indicata da Sturzo di guardare alle classi intellettuali e medie che formano la spina dorsale della struttura di paese civile moderno e che hanno fatto la storia del Paese fin dalla unitá di Italia e in tutti i passaggi cruciali, compresi quelli negativi.

Come non ricordare le parole di Gabriele De Rosa che nel 1994 sollecitava a riprendere quel termine popolare inteso come "societá delle condizioni umane" dove i ceti sociali sono riferiti alla condizione giovanile, femminile, operaia, degli anziani, attualizzandola al precariato e ai mondi insicuri dei giorni nostri.

"Chi si stacca dalle radici - affermò Gerardo Bianco nel 1994 - non ha altro orizzonte se non quello del bazaar".

 

Si tratta ora di operare un reset, di ricominciare, recuperando i principi della identitá sturziana in una ritrovata unitá per dare senso ad una presenza politica nelle Istituzioni e per non disperdere il patrimonio del popolarismo soprattutto in un momento in cui dopo un ventennio si affacciano nuove forme di leaderismo, nuovi personalismi, dove sembrano prevalere le spinte della democrazia decidente piuttosto che quelle della democrazia partecipata, più soluzioni imposte dunque che quelle condivise. Persino il Partito Democratico nato sulla difficile fusione di due culture, quella post democristiana e quella postcomunista sembra essere travolto nella sua identitá fondante sui valori originari, marginalizzando presenza e cultura dei cattolici democratici.

Le rievocazioni del 18 gennaio che si terranno all'Istituto Sturzo e alla Pontificia Universitá Lateranense diventino allora occasione per meditare e riflettere sugli errori e sulle responsabilitá e al tempo stesso per porsi di fronte ai tempi nuovi nel solco della profonditá del pensiero sturziano che appare ancora come una luminosa stella polare del popolarismo rispetto alla parodia della politica dei giorni che viviamo con tristezza ma senza rassegnazione.

 

Maurizio Eufemi

Roma, 10 gennaio 2014

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