...verso il Partito Popolare Europeo |
MAURIZIO EUFEMI è stato eletto al Senato nella XIV^ e XV^ legislatura già Segretario della Presidenza del Senato nella XVa Legislatura |
comunicati 2016 |
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Voglia di Democrazia, voglia di rappresentanza.
Con il risultato referendario del 4 dicembre, 19.419.507 elettori hanno scritto una pagina indelebile di democrazia. La straordinaria partecipazione al voto, pari al 65,5 per cento, è stata la più chiara dimostrazione che nel popolo italiano non c’è stanchezza di democrazia, ma voglia di democrazia.
Le condizioni erano difficili. Nonostante una data inusuale, quasi a ridosso del Natale, un quesito difficile da interpretare compiutamente, un contesto economico precario sul sistema bancario, una legge di bilancio di natura elettorale, una straordinaria sproporzione di mezzi di comunicazione tra i sostenitori del SI e quelli del NO, il ruolo abnorme del Governo nella competizione, sia nella progettazione della riforma che nella competizione elettorale, il risultato è stato inequivocabile, schiacciante. Il governo Renzi si è messo in gioco ed ha perso la partita.
Il popolo italiano ha rigettato operazioni oligarchiche, rifiutando deleghe in bianco. La difesa della Costituzione del 1948 ha prevalso rispetto a concezioni ardite sulla velocità, sulla rottamazione, sull’anticasta, sul taglio delle poltrone, sui costi della politica, sulla presunta semplificazione del sistema, sull’accozzaglia delle posizioni contrarie. Il voto popolare ha ritenuto tutto ciò ininfluente o marginale rispetto alla difesa del principio della sovranità popolare, alla possibilità eleggere i propri rappresentanti, ad un quadro riformatore sbagliato, lacunoso, precario Naturalmente c’è chi è uscito sconfitto. Non solo i principali protagonisti. Oltre questi anche quelli che ai diversi livelli di responsabilità non hanno saputo difendere la cultura democristiana, quella della rappresentanza, della partecipazione, delle formazioni sociali, dei corpi intermedi, pesantemente penalizzati da un progetto di riforma che cancellava il principio di sussidiarietà, cardine positivo del Trattato di Maastricht.
Escono sconfitti da questa vicenda coloro che, per pavidità e convenienza, nella coalizione del governo non hanno avuto il coraggio di agire per temperare gli eccessi della riforma, operando le necessarie, indispensabili correzioni non cogliendo la necessità di evitare forzature sul piano metodologico innanzitutto, ma anche sulle scelte che portavano ad disegno neoaccentratore lontano dalla cultura Sturziana delle autonomie locali. Anche mettendosi in gioco. Ne avevano la possibilità e non hanno saputo e voluto muoversi dentro il PD e nella coalizione per interpretare il “sovraccarico di domande” che salivano dalla società civile. Si erano illusi di essere moderni, veloci. Eppure proprio i giovani e la rete esprimevano un dissenso profondo una reazione a soluzioni imposte non condivise così come deve essere per le regole di tutti.
Le norme della Costituzione secondo Togliatti, non riflettevano i difetti dei legislatori costituenti, ma riflettevano luce per l’avvenire, per citare un verso di Dante “ come quel che va di notte e porta il lume dietro non giova a sé ma dopo sé fa le persone dotte”. Ecco gli italiani hanno voluto tenere accese le luci della democrazia, evitando anche prevalessero le tenebre, il mondo oscuro delle oligarchie.
Giuseppe De Rita alla vigilia del voto ricordava come siano saltate tutte le cerniere tra corpo sociale e poteri. E da lì che bisogna ripartire per dare ascolto al corpo sociale con scelte condivise e non imposte.
Roma, 4 dicembre 2016 |
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Documento dell’Ufficio Politico del 6 dicembre 2016 |
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"No": Conferenza nazionale sul referendum costituzionale"
Roma
mercoledì 16 novembre 2016 Mario Tassone (segretario nazionale, Cdu), Giuseppe Gargani (presidente del Comitato Popolare per il NO al referendum sulle modifiche della Costituzione), Giancarlo Travagin (presidente di Alleanza Democratica), Antonfrancesco Venturini, Renato Schifani (presidente del Comitato Parlamentare per il NO), Mara Carfagna (portavoce del Gruppo Forza Italia alla Camera dei Deputati, Fi), Giancarlo Giorgetti (deputato, Lega Nord), Maurizio Gasparri (Vice Presidente del Senato della Repubblica, Fi), Guido Castelli (sindaco del comune di Ascoli Piceno, Forza Italia), Luciano Ciocchetti (coordinatore regionale del Lazio, Conservatori e Riformisti), Franco Mencarelli (consigliere della Corte dei Conti), Angelo Gargani (magistrato), Enzo Mancini (segretario provinciale di Frosinone della Democrazia Cristiana), Leo Pellegrino (membro del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana), Mario Mauro (senatore, Grandi Autonomie e Libertà).
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Lo sfregio della Costituzione
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4 NOVEMBRE 2016 - DIBATTITO SU REFERENDUM COSTITUZIONALE
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La rottura al vertice europeo di Bratislava tra Renzi e il binomio franco tedesco Holland - Merkel è il segno della debolezza dei leaders europei di fronte ai problemi nuovi dell'Unione, come quella migratoria, e non può essere interpretata solo in funzione di questioni domestiche dei singoli Paesi, come quella referendaria per l'Italia, cercando di recuperare consensi per arginare i populismi che investono anche la Germania Federale come hanno dimostrato le recenti elezioni regionali e nella città-stato Berlino. È dunque molto di più. È innanzitutto l'incapacitá di guardare dentro lo Stato e la prospettiva dell'Unione dopo la Brexit, perchè l'uscita del Regno Unito si riverbera anche sui rapporti transatlantici con gli Stati Uniti. Naturalmente Renzi ha usato la rottura di Bratislava per cavalcare la questione immigrazione e i margini di flessibilitá rispetto alla legge di stabilitá 2017 per superare le difficoltá derivanti da bassa crescita che si riverbera sulla occupazione, con il crollo dei contratti stabili dopo la fine degli incentivi, sugli investimenti, sul debito pubblico e dunque sulle prospettive di sviluppo e di tenuta dello Stato Sociale.
Renzi, ha voluto richiamare un ipotetico modello Obama rispetto alla linea dell'austerity che sta dietro i trattati europei, ma sa bene che quel modello per l'Unione è improponibile perchè l'Unione non ha una Costituzione, non è uno Stato Federale, non ha un bilancio della dimensione di quello federale USA, ma di appena l' uno per cento del Pil, non ha quel sistema fiscale ha un più generoso modello sociale. Dunque il modello Obama degli interventi pubblici non è meccanicamente replicabile all'Unione che ha potuto muovere solo la leva della politica monetaria con risultati peraltro insufficienti sul fronte del livello dei prezzi. L'abbondanza di liquiditá non si è incanalata nel circuito della economia reale, alleviando i problemi delle banche, ma non è stato il carburante della crescita. Il piano degli investimenti di Junker non ha prodotto i risultati sperati restando un libro dei sogni. Dunque dopo Bratislava ci sará Bruxelles con le sue regole e i suoi trattati vigenti. Questa è la realtà e Renzi dovrá fare i conti con quelli e soprattutto con la legge di stabilitá 2017 che non consente troppi margini di intervento stretta tra clausole fiscali pregresse, bassa crescita, vincoli europei. Purtroppo il governo Renzi ha commesso molti errori. La questione dei decimali è stata usata per " galleggiare" piuttosto che imprimere una svolta sulle regole europee. Non è stato attentamente valutato l'impatto del bail in sul sistema bancario italiano che rischia di essere colpito mortalmente nel circuito fiducia-risparmio-ricchezza. La flessibilitá è dunque un falso problema se non si affrontano, come non è stato fatto in questi trenta mesi, i nodi strutturali del Paese, a partire dal risanamento finanziario dal debito pubblico alla spending review. Solo da un minore costo del servizio del debito e dai risparmi di spesa possono venire le risorse per rilanciare la crescita del Paese oltre i decimali. Guardare al modello Obama, oggi, significa aggravare i problemi dell'Unione anzichè risolverli. L'Unione si rafforza con più integrazione nella coesione e nella solidarietá senza strappi e "sedute vuote" di degaulliana memoria.
Roma, 19 settembre 2016 |
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Settembre è il mese delle promesse
Il mese di settembre è il mese della elaborazione della legge di bilancio che sará presentata a ottobre. Dunque settembre è il mese in cui si gettano in pasto alla opinione pubblica, attraverso media compiacenti, le proposte più disparate e dispendiose da inserire eventualmente nella legge di bilancio.
Se
ripercorriamo le tappe del governo Renzi attraverso la lettura del Def
dal 2014 al 2016 e dunque le indicazioni del quadro programmatico
triennale abbiamo numeri che non possono essere sconfessati.
Nel
Def 2016, il terzo documento del governo Renzi registriamo che nel 2015
il Pil reale è cresciuto di 0,8, quindi sensibilmente in meno rispetto
alle previsioni iniziali e stimando una crescita di 1,2 nel triennio dal
2016 al 2018.
Le costose riforme di Renzi non hanno funzionato perchè sbagliate. Così come è illusorio pensare che la riforma costituzionale sará una determinante della crescita economica. |
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Renzi a Ventotene da Mounier a Spinelli
La idea di Europa
federalista propugnata da Spinelli era profondamente diversa da quella
di Mounier sostenitore della Europa funzionalista.
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Incontro con Stefano Parisi Stefano Parisi ieri in un incontro promosso dal sindaco di Montalto di Castro Sergio Caci, preceduto da un articolo pubblicato su Repubblica, ha motivato in una affollata e partecipata assemblea, numerosi sindaci e amministratori locali dell'alto Lazio, stimolato dalle pungenti sollecitazioni di Sergio Rizzo, il senso del suo impegno politico e soprattutto le ragioni del No al referendum costituzionale. È partito dalla necessitá di combattere la disaffezione dalla politica sintetizzato dal dato di Milano: Albertini sindaco aveva ricevuto consensi superiori alla sommatoria dell'attuale sindaco Sala e dallo stesso competitore Parisi. La nuova politica secondo Parisi è riportare le persone all'impegno, soprattutto quelle che hanno esperienza, che sanno lavorare, che sanno amministrare con uno sguardo particolare ai giovani. È qui vien fuori il Parisi che ha formato le prime esperienze nella federazione giovanile socialista e il ruolo positivo svolto dalle scuole di formazione seppure aggiornato ai tempi nostri. Quindi nessuna rottamazione ma coinvolgimento di tutti. Parisi ritiene che non bisogna nascondere i problemi, soprattutto quelli legati alla immigrazione che stanno esplodendo. Occorre recuperare il rispetto delle regole. Così come non bisogna ignorare il problema del debito pubblico, oggi favorito da situazioni contingenti. Quanto alla riforma costituzionale il giudizio è stato impietoso. È una riforma confusa, con un procedimento legislativo farraginoso che cancella il principio di responsabilità è tutta la esperienza del federalismo, della concorrenza tra amministratori e della competitivitá. Su questo punto si è riscontrato il consenso forte dei sindaci presenti, che vedono condizionate le proprie scelte politiche. A titolo di esempio ha ricordato come Parigi, dopo Brexit, ha dimezzato la tassazione per le imprese e sul reddito per chi trasferisce le societá nella capitale francese. La piattaforma politica è ispirata ai principi liberali e popolari. Ha detto anche parole chiare sull'Europa respingendo le posizioni populiste e radicali. Il problema non è la flessibilitá del bilancio, ma il rispetto delle identitá culturalì e quindi una Europa più vicina alle nazioni. Ha annunciato per il 16 - 17 settembre a Milano una convention non di partito, ma aperta alle singole esperienze delle persone in cui costruire dal basso una piattaforma politica. Ha espresso favore alle primarie del centro destra. Si è impegnato a definire un progetto di partito che porterá alla valutazione di Berlusconi. Quindi questo punto è legato maggiormente alla vicenda di Forza Italia. Sono emerse molte cose interessanti. Innanzitutto un impegno costruttivo nella campagna referendaria, una ripresa del dialogo tra le forze del centrodestra per uscire dalle secche, ritrovando convergenze, una sfida riformista verso il PD non bloccata sul No, ma nella modernizzazione dello Stato e delle articolazioni, una visione dell'Europa nel solco dell'europeismo costruttivo. Siamo solo ai primi passi... Se sono rose fioriranno... Noi democristiani non pentiti guardiamo con interesse alle sfide democratiche del Paese con quella cultura e visione degasperiana che ha saputo determinare progresso economico, sociale e civile.
14 agosto 2016
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DOCUMENTO CDU SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE
La civiltà dei popoli si misura sul grado di consapevolezza che i cittadini hanno sulle problematiche civili e sociali e sul grado di protagonismo che essi esercitano nel governo di tali problematiche. Più sono soggetti attivi nella determinazione delle scelte politiche e più elevano il grado della democrazia dello Stato. In uno Stato che limita il potere dei cittadini nella elezione dei propri rappresentanti o nella iniziativa legislativa propositiva o abrogativa si può affermare che vi sia un deficit di democrazia. In uno Stato dove i poteri istituzionali sono bilanciati esiste un equilibrio istituzionale, mentre dove vi sia una prevalenza del potere esecutivo sugli altri poteri esiste uno squilibrio, che definisce un leaderismo supponente. In una democrazia l’autorità è il cittadino che delega il suo potere a rappresentanti liberamente scelti; il potere esecutivo è sempre sottoposto alla valutazione del cittadino, altrimenti si profila la figura del “despota” e si azzera la democrazia.
La nostra opposizione alla riforma costituzionale è totale
La Costituzione Italiana prevede la revisione della Costituzione alla Sezione II del Titolo VI - Garanzie Costituzionali - e non la riforma costituzionale, inserendo la revisione nel Titolo VI a tutela dei Principi costituzionali e dei Valori ispiratori, i quali sono tutelati anche dalla Corte Costituzionale, prevista alla Sezione I dello stesso Titolo. La Costituzione Italiana prevede un sistema parlamentare e valorizza il ruolo dei cittadini e dei loro rappresentanti istituzionali; la Riforma invece limita i poteri parlamentari e li accentra all’Esecutivo, creando un sistema leaderistico, e non presidenzialista, senza che ci sia possibilità di equilibrio con il potere legislativo; La Costituzione prevede il bicameralismo, che teoricamente viene confermato dalla Riforma, ma riducendo il Senato della Repubblica ad un simulacro delle Autonomie locali, senza che vi sia un effettivo potere sul Governo, né una parità con l’altra Camera, ancorché a compiti differenziati. Inoltre solo nelle Repubbliche Federali è prevista una Camera degli Stati e l’Italia non è una Repubblica Federale. La Costituzione intesta al Presidente della Repubblica il potere di sciogliere le Camere; la Riforma, di fatto, dà al Presidente del Consiglio e al Partito che lo sostiene il potere di durata della Camera dei Deputati, lasciando al Presidente della Repubblica la presa d’atto della necessità delle elezioni anticipate. La Costituzione prevede un procedimento legislativo equilibrato tra le due Camere; la Riforma relega il Senato al rilascio effettuale di pareri, senza alcun potere di modifica. La Costituzione prevede un potere legislativo per le Regioni e un potere amministrativo per i Comuni; la Riforma annichilisce tali poteri dando al Senato e riservando al livello nazionale le politiche di indirizzo e di programma di ogni materia. La pericolosità sociale di tale Riforma sta nel rischio evidente che tutto il welfare di competenza delle Regioni e dei Comuni verrà definitivamente annullato dalla programmazione nazionale, penalizzando le fasce più deboli dei cittadini e scaricando la responsabilità sugli amministratori locali.
La nostra opposizione alla Riforma è totale
Perché riteniamo che a fronte dei processi di globalizzazione, che procedono a tappe forzate verso l’accorpamento di ogni settore economico e finanziario, che prevede unità di governo e di gestione, oltre che di produzione standardizzante e omologante e la forte concentrazione del potere nelle mani di pochi individui, i sistemi di governo pubblici dovrebbero opporsi ad una trasposizione pubblica di tali metodi e dovrebbero garantire ai cittadini la massima capacità di espressione, nel rispetto dei fondamentali principi di democrazia, che hanno nel cittadino la prima e legittima fonte del potere del governo pubblico. La Riforma costituzionale, invece, mistificando l’idea di rinnovamento, la semplificazione dei processi, la riduzione dei costi, la necessità della politica e dei politici, disegna uno Stato alla stregua di una società per azioni, dove il Presidente del Consiglio è l’amministratore delegato e dove il Parlamento funziona come una assemblea societaria, dove basta il patto di sindacato di una minoranza per governare tutto.
Perchè non è una riforma coerente con i principi europei in tema di sussidiarietá.
Perchè il Senato delle Autonomie confligge con il principio di rappresentanza laddove la potestà legislativa del Nuovo Senato resterá per la revisione costituzionale, per materie di legislazione ordinaria e sull'impatto delle politiche dell'Unione Europea sia nella fase ascendente che discendente.
Siamo contro la Riforma, vogliamo rottamarla votando NO |
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Rottamare la riforma non la Costituzione
L'assemblea nazionale del comitato popolare per il No alla riforma costituzionale guidato da Giuseppe Gargani ha aperto la lunga stagione referendaria in vista del voto di ottobre dando forza e significato alle proprie ragioni con il conforto di eminenti ex presidenti della Corte Costituzionali come Riccardo Chieppa, Cesare Mirabelli e Ugo De Siervo.
Popolari e popolarismo stanno insieme perchè uniti nella difesa dei valori della rappresentanza e della partecipazione democratica, dei corpi intermedi, perni della nostra democrazia.
Sul piano del metodo è stata operata una scelta sbagliata con l'utililizzo dell'articolo 138 per interventi di così vasta portata, nonostante il giudizio della Corte Costituzionale sulla legge elettorale Porcellum che metteva in discussione il premio di maggioranza, piuttosto che un'apposita assemblea costituente. Occorreva necessariamente ridare la parola al popolo sovrano.
Sono state violate le garanzie costituzionali sull'articolo 72 della Costituzione che riservavano alla Assemblea una doppia lettura vera e piena, preferendo scorciatoie procedurali.
La Costituzione non può essere del Governo, come si è fatto, ma di tutti. Le Costituzioni sono fatte per unire non per dividere.
È una riforma ibrida perchè non sceglie nè la forma parlamentare nè quella presidenziale. È una riforma che non sta in piedi per quante sono le contraddizioni sul procedimento legislativo. Sono forti le preoccupazioni di chi vede che aumenteranno i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni perchè il regionalismo viene cancellato in favore di un neocentralismo sgangherato, senza peraltro individuare nuove forme di raccordo. Viene violentemente strappata la pagina del regionalismo colpendo il sistema autonomistico che si manifesterá nella compressione dello Stato Sociale e in maggiore tassazione locale. Dunque una riforma che non è coerente con i principi europei in tema di sussidiarietá.
Manca poi un principio di proporzionalitá per la rappresentanza regionale.
C'è il rischio che nonostante tante buone ragioni giuridiche, queste facciano fatica a essere recepite dall'elettorato e dalla opinione pubblica per il peso della propaganda che tenderá a spostare il giudizio sui falsi risparmi, non sui veri contenuti, ma sulla tenuta del governo.
Di fronte a una campagna referendaria che sará aspra, difficile, v'è il pericolo che si inseriscano soggetti esterni in grado di condizionare la competizione. Nei giorni scorsi l'agenzia di rating Fitch ha fatto sentire la sua opinione, paventando i rischi che deriverebbero per il Paese ove la riforma fosse respinta perchè il Governo sta garantendo la stabilitá.
Si tratta di una grave ingerenza su scelte che appartengono esclusivamente al popolo italiano. Non vorremmo che si mettesse in atto una autentica strategia di tensione sui mercati finanziari paventando pericoli sullo spread e sui tassi e quindi sulla sostenibilitá del debito o sulla tenuta del risparmio delle famiglie. Respingiamo fin d'ora qualsiasi ricatto sulle riforme. Chi vuole spostare la competizione su questo terreno sa che se rimane sui soli contenuti fa fatica a difendere una riforma piena di contraddizioni, incompleta e che se confermata dal referendum aprirá la strada ad una stagione di ulteriori pericolosi interventi correttivi e integrativi pieni di dubbi e di incognite per il futuro del Paese. Evitiamo dunque di correre rischi e avventure.
Preferiamo rottamare la riforma, non la Costituzione.
Maurizio Eufemi. Roma, 18 luglio 2016
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Il
Senato dei dopolavoristi Tra i tanti interventi dei giovani che hanno portato il loro contributo al recente consiglio nazionale merita di essere segnalato quello di Luigi De Palma prossimo laureando proprio sulla riforma costituzionale comparata con le migliori esperienze internazionali. Una riforma che definisce pericolosa, perchè altera l'equilibrio costituzionale senza contrappesi alla nuova diarchia tra maggioranza parlamentare e il Gvern, piena di contraddizioni dal Senato dei dopolavoristi perchè chiamati a svolgere il loro ruolo solo nei ritagli di tempo. Luigi De Palma ha ricordato che proprio la Corte Costituzionale con le sentenze n. 276 del 1997 e n. 277 del 2011 ha sottolineato come il doppio mandato parlamentare e regionale " potrebbe mettere a rischio l'adeguato compimento dei due uffici, alimentando il pericolo che si ledano i principi di efficienza e di imparzialità delle funzioni esercitate, contravvenendo così all'articolo 51, c. 3 della Costituzione stessa, il quale impone che chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche, ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento". Questo ha detto la Corte, ma è stato ignorato dal Legislatore. Tra le altre contraddizioni merita di essere ricordata quella del presunto semplificato iter legislativo attualmente disciplinato dall'articolo 70 quando se ne sono previsti ben 10 o 12 come individuati dalla dottrina, tutti diversi, complessi e problematici. Queste sono le ragioni bene argomentate che entrando nel merito i nostri giovani come De Palma si sono impegnati a divulgare per sostenere le ragioni del NO. |
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Intervista sul referendum costituzionale
- LEI E’ SCHIERATO PER IL NO ALLA RIFORMA
COSTITUZIONALE RENZI-BOSCHI-VERDINI. CI PUO’ SPIEGARE LE RAGIONI
PRINCIPALI? Le posizioni del comitato popolare per il no sono dettagliatamente espresse e motivate nel sito www.referendumnoino.it in piena attivitá.
È una riforma che nasce con la pesante ipoteca della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato la incostituzionalitá di alcune norme del Porcellum. Questo Parlamento non poteva intervenire con una riforma così profonda che altera il rapporto Governo-Parlamento. È una riforma che ha visto il pesante condizionamento del Governo che ha dettato ogni passaggio parlamentare impedendo il libero confronto tra le forze politiche. Non dimentichiamo che si arrivò perfino alla sostituzione dei commissari in commissione affari costituzionali.
- A SUO AVVISO, QUALI SONO I PUNTI PIU’ CRITICI DELLA RIFORMA? Sono molti. I più rilevanti sono il Senato ibrido, non di eletti ma di rappresentanti dei territori, il procedimento legislativo confuso e contraddittorio, il sistema delle garanzie piegate a vantaggio del partito vincente. I senatori perderanno di conseguenza il ruolo e la funzione di rappresentanti del popolo. Il Senato diventerá il luogo delle contrapposizioni e delle rivendicazioni. È fortemente indebolito il sistema degli istituti di garanzia. Si accentra tutto al governo. Viene meno il ruolo del parlamento che dovrá solo ratificare, senza possibilitá alcuna di incidere. La fiducia al governo sará un fatto meccanico. Chi vince con l'Italicum prende tutto. Ma una democrazia non può essere scambiata per il tiro a segno del luna park. Non è il bicameralismo il male delle Istituzioni. Le riforme sia del passato che quelle più recenti sono state realizzate con il bicameralismo paritario. Studi specifici hanno semmai confermato che il Parlamento ha migliorato i testi governativi. È dunque un falso che il bicameralismo ritardi i tempi della produzione legislativa. Con i voti di fiducia il Parlamento è giá disarmato.!
- RENZI E BOSCHI INSISTONO CHE SE NON SI APPROVA QUESTA RIFORMA, PER L’ITALIA PASSERANNO ALTRI QUARANT’ANNI PRIMA DI FARE ALTRE RIFORME. E IL NOSTRO PAESE RIMARRA’ FANALINO DI CODA DELL’EUROPA. SARA’ PROPRIO COSI? Meglio nessuna riforma, che una riforma pasticciata, confusa, pericolosa. L'Unione europea non ci chiede la riforma del bicameralismo, ma altro. Non dimentichiamo che alcune riforme costituzionali imposte dal Governo Monti sono inapplicate come il Fiscal compact. Non va dimenticato che la sinistra vuole correggere le modifiche al titolo V, introdotte con soli quattro voti scarto nel 2001. Quella riforma ha prodotto guasti nel sistema. Oggi il rimedio è peggiore del male. La ricentralizzazione dei poteri viene determinata senza un necessario raccordo con le Regioni. Senza un istituto adeguato aumenterá la conflittualitá, peggiorerá il Welfare State dei cittadini. Basti pensare alla sanitá di competenza regionale. C'è bisogno di dialogo e collaborazione, non di divisioni che accentuano le fratture della societá italiana. Vi sono poi altri pericoli, come quelli di aprire varchi per successive modiche costituzionali facilitate dalla legge elettorale con premio di maggioranza. Non si può dire intanto facciamo la riforma poi interverremo con correzioni, perchè i danni sarebbero irreparabili. In mancanza di una linea di riforma chiara, si correrebbero gravi rischi nelle fasi di completamento che richiederebbero tempi lunghi e risultati imprevedibili.
- LA COSTITUZIONE E’ STATA SCRITTA SETTANT’ANNI FA DA DIVERSE ANIME DEL PAESE RAPPRESENTATE PER MEZZO DI UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE ELETTA CON SISTEMA PROPORZIONALE PURO. L’ITER DI QUESTA RIFORMA HA INVECE VISTO MAGGIORANZE ALTERNE, CONTINUI CAMBI INCOMMISSIONE E L’IMPOSIZIONE DEI VOTI DI FIDUCIA. RITIENE CHE LA MODIFICA DI 1/3 DELLA COSTITUZIONE SIA TOTALMENTE RAPPRESENTATIVA DEGLI ITALIANI? Tutta la riforma è una anomalia sia rispetto all'utilizzo dell'articolo 138 che era ipotizzato per piccoli interventi modificativi piuttosto che un radicale cambiamento della seconda parte della Costituzione. Le forzature sono state evidenti, così come la presenza invadente del governo, in tutto l'iter, ben diversa da quella dei costituenti del 1946 che avevano un grande rispetto per il Parlamento. Il sedersi tra i banchi parlamentari era la rappresentazione plastica di uno stile che non abbiamo ritrovato.
- MOLTO DISCUSSO E’ IL COMBINATO DISPOSTO CON LA LEGGE ELETTORALE “ITALICUM”. CI SPIEGA QUALI SONO LE CRITICITA’ MAGGIORI? QUALI SCENARI POTREBBERO PROSPETTARSI? Riforma elettorale e riforma costituzionale fanno parte dello stesso disegno. La legge elettorale svuota il Senato del potere di rappresentanza. Solo la Camera esprimerá la fiducia, ma le leggi elettorali non possono essere costruite senza tenere conto della complessità della societá italiana e delle spinte pluraliste che salgono dal basso e come anche le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato. Con un sistema tripolare, una minoranza elettorale, aggravata dall'assenteismo, rischia di avere pochi consensi e tutto il potere. Con il rischio che si voglia imporre tutto, con conseguenze pericolose sull'equilibrio sociale e sul sistema delle garanzie. Si pensi soltanto ai regolamenti parlamentari congegnati per tutelare le minoranze e quindi il pluralismo. Permane poi il problema dei capilista e dei nominati accentuato per i partiti minori. Il punto di debolezza della legge elettorale è il premio di maggioranza al partito anzichè alla coalizione, impedendo la formazione di coalizioni omogenee nel programma e negli obiettivi di governo, cosa questa che favorirebbe la stabilitá e la governabilitá. - INFINE, LE CHIEDIAMO DI RIVOLGERE UN APPELLO PER VOTARE NO AL REFERENDUM. Siamo impegnati per il No, perchè non vogliamo far correre rischi al Paese. Manca un disegno complessivo dell'assetto del Paese.in una fase come quella attuale, dopo la Brexit, il Paese ha bisogno di indirizzare tutte le energie verso i problemi reali del Paese che sono la politica estera e comunitaria, lo sviluppo disuguale, la disoccupazione e il lavoro, il Mezzogiorno, la sicurezza, la immigrazione. |
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Articolo pubblicato su Formiche.net L'intervento di Maurizio Eufemi
Gentile Direttore, Ho letto solo ieri sera dopo una giornata dedicata ai corpi intermedi e, poi, alle strategie del comitato popolare per il No alla riforma costituzionale, l’interessante e puntuale articolo di Stefano Cingolani che riferiva sulla pregevole iniziativa della fondazione Formiche sul ruolo delle Fondazioni bancarie. È un tema che ho seguito e continuo a seguire. Cingolani scrive, rispetto a quanto affermato da Guzzetti… ” E di nuovo senza far nomi, ha condannato quelle che si sono svenate con investimenti sbagliati e con una esposizione eccessiva nella banca di riferimento anche se la legge prevede che non si possa concentrare in un solo investimento più del 30 per cento del proprio patrimonio. Il bersaglio, come è evidente, è il Monte dei Paschi di Siena“.
Nelle ricostruzioni è bene affidarsi al metodo Chabod. La storia economica e parlamentare ci danno una lettura diversa di ciò che è stato, di ciò che non è stato fatto e di ciò che è stato omesso, di chi ha agito in un senso o in quello opposto. Potrei portare fatti e testimonianze. Potrei ricostruire passo per passo, la dinamica della legge Ciampi sul citato limite al 30 per cento, sull’intervento in linea con quella disposizione, che svolsi come relatore alla legge 262 del 2005 relativa alla tutela del risparmio, introdotto con una spaccatura tra la sinistra, la successiva repentina cancellazione di quel limite con il Governo Prodi nel 2006, con una procedura parlamentare alquanto discutibile, fino alla situazione attuale che ha riportato al sostanziale rispetto di quelle indicazioni per evitare concentrazioni di rischio. Ma ormai molta acqua è passata, molti danni sono stati fatti, molta ricchezza è stata distrutta. Tutti gli amici di Siena sembrano scomparsi o silenti. Ci sono responsabilitá certo personali, politiche, e anche morali, di chi aveva ruoli e non ha levato la propria voce per tempo, non ha richiamato i rischi che si correvano. Mi preme solo difendere la veritá. Non basta fare affermazioni ora come se tutto fosse avvenuto per caso. Che cosa è stato fatto e detto allora? Quale è stato il ruolo della Associazione delle Fondazioni in quella vicenda che vedeva in prima linea una Fondazione associata? È stata svolta moral suasion? Questi sono interrogativi che non possiamo non porci in assoluta libertá. Posso confessarLe, caro Direttore, che in occasione della commemorazione di Nino Andreatta a Montecitorio, dissi personalmente, con grande amarezza a Giuseppe Guzzetti ciò che sarebbe successo al MPS per non avere aperto al capitale. Ciò forse avrebbe portato a scelte più oculate e soprattutto a maggiori controlli interni. Così come sottolineavo in passato il ruolo dannoso delle “foresta partecipata” delle fondazioni bancarie, così come non ho mancato di richiamare lo squilibrio del ruolo e della presenza delle Fondazioni tra Nord e Sud soprattutto dopo il consolidamento del sistema in una evoluzione del ” fare banca” che supera il concetto di spazio e di territorio, annullato dalle reti tecnologiche, e dunque tra la tradizionale forma di raccolta e di impieghi e dai risultati che determinano le erogazioni sul territorio, oggi dovremmo interrogarci sulla obsolescenza dei vincoli nei S ettori di intervento, sulla prevalenza di scelte rispetto a nuovi bisogni così come sulle partecipazioni produttive e sui salvataggi che possono diventare nuovi fattori di rischio. Sarebbe bene allora parlare oggi prima di registrare insuccessi futuri.
Grato per l’attenzione Maurizio Eufemi Senatore nella XIV e XV legislatura Relatore in Senato sulla legge 262 |
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Un pezzo di storia: BARTOLO CICCARDINI e I SUOI ANNI ALL'ENI intervistato dall'Archivio Storico ENI il 3 marzo2014 su “L' UFFICIO PUBBLICITA' di MATTEI ”
(Nota di Accorinti: BARTOLO ai tempi di MATTEI -che noi giovani AGIP chiamavamo IL PRINCIPALE - lavorava all'AGIP Commerciale a Roma -fu lì che ci conoscemmo alla metà degli anni '50; Lui, anche senza avere il grado aziendale, di fatto era il primo Collaboratore dell'Ing. MATTEI per la pubblicità settore che era uno dei tanti che l'Ing. MATTEI seguiva personalmente -sic!!- . Naturalmente l'ARCHIVO STORICO ENI che aveva poco materiale del tempo fu subito interessato ad intervistare BARTOLO: e grazie a Dio fece appena in tempo a registrare una lunga intervista pochi mesi prima che BARTOLO ci lasciasse. Per l'occasione BARTOLO si era presentato con un Suo testo-promemoria: alla fine dell'intervista lo lasciò all'ENI e questo che segue è proprio il testo che Lui si era preparato: la vera e propria intervista video è molto lunga e l'ENI poi ne ha mandato copia alla Moglie e ai Figli)
--------------------------------------------------------------- Nel 1953 due gruppi di giovani che avevano dato vita a due riviste (“Il Mulino” e “Terza Generazione”) organizzarono un centro di preparazione politico-amministrativa “CPPA” diretto da Gino Giugni e da Gianni Baget Bozzo con l’aiuto finanziario dell’ENI, dell’IRI e della Olivetti. Il “CPPA” è stato il tentativo di una scuola per “adviser” (una figura professionale non ancora ben determinata, che avrebbe dovuto preparare quelli che poi si sarebbero chiamati consulenti o manager). L’Italia si preparava ad una crescita impetuosa e brillante e i tre gruppi più importanti nella innovazione erano appunto la giovanissima ENI, la più stagionata IRI e la modernissima Olivetti. Il corso si teneva in Via di Porta Pinciana, nella sede della Olivetti. L’IRI stava a quattro passi, all’inizio di Via Veneto, e l’Eni era sistemato in una piccola palazzina dietro l’angolo di Porta Pinciana con Via Lombardia. Alle spalle della sede della Olivetti c’era l’albergo Eden dove Mattei risiedeva quando stava a Roma. Alla fine del corso gli organizzatori, che appartenevano al gruppo del filosofo Felice Balbo, che sarebbe andato poi a dirigere la formazione dei quadri dell’IRI, si resero conto che l’investimento di energie intellettuali, di capacità professionali e di mezzi finanziari per formare 15-20 quadri giovanili, era eccessivo e che sarebbe stato meglio studiare e realizzare una formazione dei quadri “domestica” all’interno delle aziende, cosa che si verificò puntualmente. Il gruppo del CPPA trovò sbocco alla Svimez, alla RAI, all’IRI, alla Olivetti. Nell’Eni non esisteva una vera e propria scuola, ma il gruppo dei giovani dirigenti selezionati personalmente da Mattei sarà sottoposto ad una forte politica formativa aziendale (anche con l’intervento della più grande società di formazione americana, la Booz-Allen). La riunione della liquidazione del CPPA, che fu anche la riunione che decise nuove iniziative, era presieduta dal Prof. Faleschini, matematico con ascendenza filosofica, discepolo di Wittgenstein, assistente di Mattei, che ebbe il merito di introdurre all’ENI la classificazione matematica. Era un personaggio straordinario, attivissimo, molto intelligente, molto colto, decisionista e simpatico ordinario di statica dell’Università Cattolica, allievo del Prof. Marcello Boldrini di Matelica, presidente dell’AGIP. Si esaminarono diversi progetti. Ad un certo punto Faleschini mi dette la parola, domandandomi se avevo qualche progetto in mente. Io gli risposi che mi sarebbe piaciuto dedicarmi ad una società per eseguire i sondaggi, cosa che ancora non esisteva in Italia. Era un mio sogno ed una mia fantasia, che piacque al Prof. Luigi Faleschini, il quale disse: “La faremo, ma nel frattempo vieni domani mattina da me, perché vorrei mettere in piedi l’Ufficio Pubblicità dell’ENI”. La storia ha talvolta delle casualità molto significative. Marcello Boldrini era di Matelica ed era professore all’Università Cattolica. Nel periodo della guerra aveva organizzato un gruppo di professori della Cattolica che si incontravano per studiare quello che sarebbe successo dopo la prevedibile sconfitta bellica. Il gruppo dei professori era composto da Boldrini, Fanfani, Dossetti, Lazzati, La Pira, che erano collegati anche con un gruppo di economisti valtellinesi (Vanoni, Saraceno, Paronetto). Questo gruppo poi dette luogo al Codice di Camaldoli, che sarà il programma di ricostruzione dell’Italia, adottato dalla DC, in cui si stabiliva anche la necessità delle Aziende di Stato per realizzare una economia sociale. Il giovane Mattei, che si occupava di una sua piccola industria a Milano, viveva nello stesso stabile del suo compaesano, Prof. Boldrini. Date le difficoltà di circolazione del periodo bellico, si prestava volentieri e gentilmente a portare in una piccola automobile il professore alle riunioni di quel gruppo. Arrivato l’8 settembre Mattei si trovò in questa maniera coinvolto nei gruppi democratici-cristiani e nella Resistenza. Per la sua bravura e per le sue doti divenne addirittura uno dei capi della Resistenza e membro del Governo CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia). Non c’è da stupirsi che De Gasperi e Vanoni scegliessero Mattei, giovane industriale e grande partigiano, per metterlo a capo di un’azienda petrolifera da liquidare. E non c’è da stupirsi che la sua “disobbedienza” provvidente e preveggente fosse, non solo tollerata, ma persino difesa dal gruppo dei “professorini” divenuti uomini di Governo. Boldrini diventò Presidente dell’Agip ed il suo assistente Faleschini fu per un certo periodo il braccio destro che mise in piedi l’Eni, come timpano della grande Agip. Io allora ero stato direttore di due riviste con un pubblico giovanile molto limitato,ma che avevano, in modo diverso, una bella veste tipografica. Del resto io avevo cominciato a quindici anni ad andare in tipografia la mattina all’alba del lunedì a comporre il giornale della mia città, dove facevo il liceo: Perugia. Allora era un lavoro molto artigianale: i titoli si facevano con i caratteri mobili, prendendoli da grandi cassette, il testo si fondeva su delle sbarrette di piombo con la linotype, i pezzi si componevano sul piano tipografico legandoli con degli spaghi, e l’impaginazione si realizzava come una costruzione dei Lego. Io andavo in tipografia a fare manualmente le mie due riviste e mi ero fatto una piccola fama di bravo impaginatore, copiando giovanilmente gli esempi francesi, allora di gran moda, ed i caratteri tipografici svizzeri, che allora erano una novità. (Ricordo le liti furibonde con i tipografi che non volevano usare il bellissimo carattere “bastoni” perché era quello con cui si scrivevano i manifesti funerari). In un’Italia come quella degli anni ’50, che stava esplodendo per vivacità ed attività, questa esperienza sembrava sufficiente per andare a mettere in piedi l’Ufficio Pubblicità di quella che sarebbe diventata la più grande azienda italiana. A parte l’azzardo del Prof. Faleschini di avere chiamato me, devo sottolineare la grande audacia di Mattei. Allora le aziende non avevano dei veri e propri uffici pubblicitari. Ed erano pochissime anche le agenzie pubblicitarie. Tutto si faceva all’interno delle direzioni commerciali, anche se la pubblicità degli anni ’30 e degli anni ’40 era caratterizzata dalla presenza di grandi cartellonisti, come Seneca, venuti dalle file del futurismo e della ottima propaganda del partito fascista. Al primo piano del palazzetto di Via Lombardia, c’erano il piccolo studio di Mattei (che aveva il suo ufficio principale in Via del Tritone) insieme alla stanza ribollente del Prof. Faleschini. Esattamente sopra in due stanzette ed in uno stanzone, prese posto l’Ufficio Pubblicità. Io scelsi per realizzare il progetto tre ragazzi: Armando Vedaldi, Giorgio Scalco, Enrico Ascione. Vedaldi era il capo redattore di Ricerca, rivista della Fuci ed è stato il primo copy-righter. Giorgio Scalco era un giovane pittore veneto, scappato di casa, rifugiato a Roma per fare il pittore, che aveva fatto delle illustrazioni per le mie precedenti riviste. Enrico Ascione era il redattore capo di una grande rivista: “L’Architettura”, diretta da Bruno Zevi. Giorgio Scalco dopo i primi anni riprese il suo cammino di pittore ed oggi è un grande pittore molto conosciuto in America. Vedaldi riprese presto la sua carriera di giornalista. Ed Ascione è stato un importante innovatore nel settore delle mostre dove l’Eni aveva sempre una presenza di grande prestigio e di forte innovazione. Si aggiunsero poi Marco Armani, che era un disegnatore realista, molto bravo; Dino Vignali, riconoscibilissimo per un suo disegno umoristico, fortemente caratterizzato; e Marco Pippa, grafico veneziano d’avanguardia, con grande personalità. Per prova d’esame facemmo il progetto generale della pubblicità delle aziende dell’Eni e presentammo in tutti i suoi particolari la campagna Agipgas. Quella prima campagna era molto sofisticata ed anche molto “disegnata” rispetto al livello della pubblicità di quegli anni. Tuttavia non piaceva a Mattei. In quel tempo Mattei voleva vedere personalmente i bozzetti, gli slogan e le realizzazioni. Ed aveva ragione perché aveva un grande istinto pubblicitario. Considerava la pubblicità un investimento. Diceva: “Se metto un miliardo e ne ricavo due, la pubblicità è buona”. Aveva anche un intuito pratico su quello che sarà poi chiamato marketing. Voleva dimostrare che la bombola del gas costava meno fatica e meno soldi di ogni altro tipo di cottura casalinga ed intuiva che da lì cominciava la liberazione delle donne. Nei carburanti sopravvalutava la potenza, a cui dava molta importanza secondo un’idea del motore tutta italiana, coltivata dai grandi assi dell’automobilismo. Ma questo piaceva agli italiani. Anche se il numero di ottani di cui ci siamo vantati, non era l’ottimo nei carburanti. Mattei era molto accurato nel seguire il lavoro dei dirigenti. Il nostro ufficio non aveva una struttura ben definita, dipendeva direttamente da Danilo Accivile, uomo di fiducia di Mattei che presiedeva al delicatissimo Ufficio Acquisti. Però io ho avuto l’occasione di presentare diverse volte le nostre proposte direttamente a Mattei. Mi è rimasta sempre l’impressione del modo di lavorare di Mattei: voleva appunti di poche righe, che approvava o disapprovava velocemente ed aveva la grandissima capacità di individuare l’errore nei progetti che sembrava avesse esaminato con noncuranza. Sulla pubblicità dell’Agipgas aveva un incontrastato dominio il Colonnello Argentòn, della squadra dei partigiani di Mattei, autoritario ed incontentabile. L’atmosfera di Via Lombardia era ribollente. Vi capitavano grandi giornalisti come Ruffolo, Pirani, Di Stefano, Maggini. Veniva Attilio Bertolucci, che era anche un graned poeta, a fare il “Gatto Selvatico”. Si serviva dei nostri disegnatori e noi sfruttavamo anche il suo intuito letterario. Talvolta portava il figlio Bernardo, che sarebbe stato poi un grande regista cinematografico, che aveva in mente grandi progetti cinematografici. Anche io ho scritto degli articoli per il “gatto Selvatico” ed un nostro collaboratore, Bertelli, faceva persino le parole crociate, suscitando grandi proteste perché talvolta erano sbagliate. Leonardo Sinisgalli era di casa, sempre pieno di idee e grande affabulatore. Sinisgalli poi diventerà anche direttore dell’Ufficio pubblicità dell’Eni. Dirigeva “Civiltà delle macchine” ed illustrò un grande romanzo di fantascienza (allora era una novità assoluta) intitolato “Sans Souci”, di cui era autore Giuseppe Vaccarino (filosofo della scienza), con i disegni del nostro Vignali. Sullo stesso piano ribolliva di iniziative il grandissimo ufficio stampa di Tito di Stefano, che dirigeva a colpi di cannone la battaglia impegnata contro Don Luigi Sturzo, il Giornale d’Italia e l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce nemici dichiarati delle Industrie di Stato. Lì bazzicavano anche quando venivano a Roma, Italo Pietra ed i Redattori de “Il Giorno”, il quotidiano più innovativo di questa epoca, che introdusse i fumetti nella cultura italiana: Jeff Hawke, Dan Dare, Linus van Pelt dei Peanunts, Jane. Franco Briatico era un focoso ed agitato tessitore di trame politiche, che teneva i rapporti con Marcora, partigiano di Mattei, con il gruppo di Vanoni e con tutti i difensori dell’impresa pubblica che avrebbe rovesciato l’economia italiana fornendola di energia. Ma allora ancora non lo sapevamo. Un capitolo a parte era costituito dal gruppo dei patiti dell’automobile, guidato da Petitti, il tecnico del Gran Premio Supercortemaggiore, anche se il sapido manifesto era stato disegnato da Vignali (ed è, per me, un capolavoro di quell’epoca). L’aspetto tecnico, i regolamenti del Rally Cortemaggiore- Sanremo, il concorso delle 50 giuliette che venivano estratte fra i clienti della nascente rete, era dominio riservato degli adoratori dell’automobile. Il geloso custode di questo paradiso tutto italiano era Petitti, che era capace di dirigere una grande corsa, di organizzare il festival di Sanremo, quello vero, dedicato al Supercorte Maggiore, di far sfilare le 50 Giuliette del concorso a premi per tutta Italia, superando con fortuna cadute di elicotteri, incidenti stradali e conflitti con le autorità locali. Io avevo da poco comprato una Topolino ed il grande storico dell’automobile Canestrini mi insegnò a posteggiare in retromarcia vicino al marciapiede, con una tecnica precisa che io chiamo ancora “la manovra Canestrini”. Nacque da lì un’amicizia che io sfruttai a fondo quando fece nel 1963, per la televisione italiana, una trasmissione televisiva in tre puntate intitolata: “La storia dell’automobile”, che ogni tanto ricompare sugli schermi, in piena notte. Devo dire con grande immodestia che l’Ufficio Pubblicità con pochissimi collaboratori, faceva un lavoro che io stento perfino a credere e che renderebbe ricchissima ogni agenzia. Si faceva la pubblicità dell’Agip e del suo prodotto migliore “la Supercortemaggiore”, il prodotto che ebbe un favoloso successo con il nome più antipubblicitario che si potesse immaginare. Il cane a sei zampe, che era opera di un disegnatore precedente all’Ufficio pubblicità, era allora l’emblema del carburante. Ci occupavamo dell’Agipgas che aveva come emblema un Gatto con la coda accesa a fiammella, evidente adattamento casalingo del cane a sei zampe che non ebbe lo stesso successo. Ma ci occupavamo anche dei fertilizzanti dell’Agip, del nuovo Pignone, il cui acquisto il sindaco Giorgio La Pira (per ordine dello Spirito Santo) impose al riluttante Mattei, della Snam e dei suoi futuristici ponti per gasdotti. Ci occupavamo delle cucine, dei frigoriferi e delle bombole dell’Ariston, omaggio filiale dell’Ing. Mattei alla sua valle marchigiana. Io mi glorio ancora di avere fatto, nello scetticismo generale, in obbedienza alla mia prima vocazione, la prima ricerca di mercato per un prodotto italiano. L’Eni aveva ereditato dal fallimento della Brioschi una margarina, che si chiamava Flavina. L’idea di mettere sul mercato una margarina, prodotta da una società che si occupava di petrolio appariva una “mission impossible” per molti, ma non per Mattei. Però ci parve necessario, copiando gli americani, di fare prima un sondaggio con la Doxa, che aveva rubato l’idea della società di sondaggio a Faleschini e a me. Ascione da solo faceva padiglioni per una serie straordinaria di Fiere a cominciare dalla Fiera di Milano e dalla Fiera di Verona. Facemmo un primo calendario, dedicato alla bomboletta di gas per i campeggi, calendario che poi ebbe una sua storia. Facemmo una serie di caroselli con Dario Fò e Franca Rame in cucina. Oggi sono raccapriccianti, ma in compenso uno dei due ha preso il Premio Nobel e l’altra, che non l’ha preso, se lo meritava ancora di più , per la sua bellezza. I caroselli su Super Corte Maggiore li faceva un registra di nome Luciano Emmer con Franca Valeri e Gabriele Ferzetti. Usavamo le immagini di Walter Chiari, di Mario Riva, di Eleonora Rossi Drago, di Silvia Koscina, di Rossana Podestà. Fred Buscaglione fece la parodia di se stesso sostituendo la sua canzone “Che bambola”, con una che diceva “Che bombola”. Sergio Levi, che poi diresse l’ufficio pubblicità per un qualche periodo, importò i Fréres Jacques, un sofisticato numero di mimi francesi, della scuola di Jean-Louis Barrault. A muoversi in mezzo a questa inestricabile selva di progetti era un mago della organizzazione come Jacopo Gaudenzi, che fu l’anima pragmatica delle gestioni di Sergio Levi, di Ruffolo e di Sinisgalli. Divenne famoso quando alla Fiera di Verona, Ascione immaginò che lo stand sorgesse in un prato verde. La mattina dell’apertura della Fiera ci si accorse che, in quella stagione, il prato era orribile e marrone. Gaudenzi fece sciogliere una vernice verde nell’acqua e con un innaffiatoio verniciò il prato, rimasto nella storia, come il famoso prato verde dell’Eni. La mia breve storia nell’ENI ebbe però delle conseguenze che qui voglio ricordare per dimostrare quanto grande fosse la capacità dell’Eni di rinnovare il Paese, anche nelle zone di non sua stretta competenza. La piccola fama che mi ero fatto suggerì a Dossetti di chiedermi in prestito a Mattei, come tecnico delle comunicazioni per la sua storica campagna alle elezioni amministrative di Bologna del 1956. Mattei memore delle riunioni degli anni ’40, disse di si ed io dove consumai a Bologna tutte la mie ferie. Al mio ritorno fui dirottato a seguire i lavori della Booz Allen, dove imparai un sacco di cose. Mattei aveva adottato la Booz Allen per rinnovare l’organizzazione dell’Agip, che poi di fatto rinnovò, ma a modo suo. Fra di noi girava una storiella: tutti i volumetti particolareggiati delle lezioni incominciavano con l’avvertimento: “Attacca la spina”. Infatti se non si fosse attaccata la spina non avrebbe funzionato la lavagna sulla quale si proiettavano gli schemi delle lezioni. Questa cosa divertiva moltissimo noi italiani che ci ritenevamo troppo intelligenti per non sapere che bisognava attaccare la spina. Nella vita, poi, mi dovetti rendere conto che c’è un sacco di gente che pretende di adoperare la lavagna senza attaccare la spina, anche fra gli italiani. Nel ’57, Fanfani chiese a Mattei che io andassi a vedere con Franco Maria Malfatti la campagna elettorale di Adenauer “Keine Adventure”. Preparammo così la campagna di Fanfani del ’58: “Progresso senza avventure”. Facemmo il primo sondaggio elettorale italiano, sempre con la Doxa (dei miei sogni), facemmo una campagna con i cinemobili, i film, i cartoni animati (di marca francese), le canzoni e “Votare” sull’aria di “Volare” di Modugno pattuita con Garinei e Giovannini. Per la scuola dell’ENI, anche in politica, eravamo diventati i più moderni. Bartolo Ciccardini |
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Risposta a un post di Giovanni Bachelet sul sito Facebook
di Padre Francesco Occhetta
scrittore di Civiltá Cattolica.
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Commemorazione di Bartolo Ciccardini
Ieri nella laboriosa Cerreto
d'Esi, sua cittá natale, è stata commemorata nel Teatro Casanova, la
figura di Bartolo Ciccardini. Per iniziativa del centro studi don
Giuseppe Riganelli e del suo Presidente Crialesi, ne hanno parlato
affondando la memoria dei ricordi personali e politici, l'assessore
Katia Galli, Francesco Merloni, suo conterraneo - erano nati a 3
chilometri di distanza - lo storico Francesco Malgeri e Gerardo Bianco,
presidente della Associazione ex parlamentari. Questa vuole essere solo
una breve cronaca di un sabato di provincia dove anziani e giovani si
sono ritrovati, un ponte tra passato e presente.
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Aldo
Moro e il Parlamento Gerardo Bianco* Sono passati trentotto anni e due giorni da quel 9 maggio del 1978, quando, come voi tutti ricorderete, apparvero le immagini dolorose di Aldo Moro in quella macchina rossa in via Caetani. Noi oggi, insieme con l’Associazione degli ex Consiglieri regionali, ringraziando il Presidente Bottin per aver accolto la nostra proposta, vogliamo fare un breve ricordo, che sarà una riflessione approfondita che può essere per noi una specie di indirizzo sul quale proseguire le nostre ricerche, il nostro studio, i nostri approfondimenti, con l’aiuto di tre storici che io ritengo tra i più eminenti che ci siano in Italia, rappresentati anche con severità storica, da diversi percorsi e anche diverse ispirazioni culturali. Parlo di Piero Craveri, autore di una magnifica storia su De Gasperi, parlo di Agostino Giovagnoli che ha dato pagine importanti, dopo quelle di Scoppola e De Rosa su tutta la storia del nostro movimento, parlo di Giuseppe Vacca che è riuscito perfino a scrivere un libro, che a me sta molto a cuore, dal titolo “Ma moriremo democristiani”. Storico secondo me di grandissimo valore. Ieri sera abbiamo presentato un piccolo libretto, molto interessante, stimolante, che è un modo di recuperare anche il pensiero politico. Farò qualche affermazione inevitabilmente azzardata, che vorrei venisse sottoposta a verifica storica, anche perché temo, come è avvenuto nei giorni scorsi, che la riapertura del caso Moro - che è giusto che sia avvenuta - perché nuovi elementi stanno emergendo. Chi ha letto la prima relazione della Commissione Moro, trova che non tutto è stato chiarito, sono troppi gli equivoci, gli interrogativi e le lacune che si sono accumulate, malgrado i numerosi libri e le inchieste giudiziarie e malgrado la più intensa attività di intelligence. Sono troppi gli interrogativi e anche i continui nuovi elementi che emergono, ma questo appartiene alla necessità di verifica e di approfondimento della verità storica di quello che è accaduto. Noi vorremmo cercare di recuperare, in un momento dove c’è “stanchezza “ della politica, “stanchezza” della democrazia, il filo di un discorso che può aiutare a rigenerare, se possibile, questa situazione che appare sempre più grave. Mi è capitato di leggere la recensione di un libro di uno storico francese il quale dice che entro dieci anni la democrazia sarà estinta, cosa che preoccupa parecchio. Spero che attraverso questa nostra attività, che dimostra come l' Associazione parlamentare degli ex deputati ha ancora parecchie cose da dire, si possa trovare un filo. Credo che c’è da concentrare, e lo dico agli storici presenti, l’attenzione sull’attività di Moro in un periodo molto particolare che di solito è studiato sotto il profilo del Moro costituzionalista, del Moro che sicuramente è uno dei padri della Costituzione, fa parte della Commissione dei 75, della Commissione dei 18, i suoi interventi sono fondamentali, basta pensare al primo intervento fatto nel marzo del 1947; si tratta di testi fondamentali. Ma io vorrei andare al di la di questi testi e diciamo pure portar dentro quella che è stata la mia lunga esperienza parlamentare. Credo che non si capisce bene che cosa significa percepire il Parlamento se non si è stato dentro il Parlamento e se non si intende quella che è la dialettica che mette in movimento la politica attraverso il ruolo del Parlamento. Ecco la centralità e l’importanza del Parlamento. Penso che, il periodo che va dal 1947 al 1955 sono anni nei quali Moro copre, non solo con la sua attività di costituente, ma anche una funzione che ritengo fondamentale per la sua esperienza e anche per lo sviluppo del pensiero successivo, che è quella di capogruppo. Quello è un periodo importante. A mio avviso Moro, che ovviamente aveva una visione, secondo me, ben chiara che la democrazia italiana aveva delle fragilità, perché c’erano partiti che non rientravano ancora completamente nel sistema, allora la sua preoccupazione, che per altro veniva da una esperienza come noto di costituente che aveva costruito, basta leggere i suoi discorsi straordinari, insieme con Togliatti, Marchesi ed altri, le basi della democrazia, sapeva bene comunque, che quella Costituzione era un elemento fondamentale sul quale si poteva costruire lo Stato italiano ed il futuro, ma c’erano delle fratture storiche e politiche che andavano sanate. Se posso fare una affermazione, direi che il pensiero di Moro dal 1947 fino alla tragedia del 1978 ha una sola idea guida: essere inclusivo. Lo fa con la politica del confronto, lo fa con la politica dell’attenzione, lo fa con la politica della solidarietà nazionale. Mi permetto di dire, questo per dare un mio convincimento e contributo, che questo sia stato il vero merito della politica della Democrazia Cristiana. C’era la necessità di determinare una serie di passaggi che consentissero via via, attraverso l’allargamento demografico del Paese di arrivare finalmente a chiudere la partita e a creare quella che si chiamava la democrazia compiuta. Moro fu uno stratega di questo. Ma come poteva avvenire, questo è il punto. A mio avviso Moro, da esperto parlamentare, da uomo che aveva vissuto nel Parlamento e che sapeva che era nel Parlamento e non nei talk-show dove oggi si annunciano i nomi dei nuovi ministri, ma là dove si svolgeva la vita parlamentare nel pieno della controversia dell’Aula si creava quella integrazione, quella forma progressiva di avanzamento verso una convergenza che poi doveva diventare anche, come ha scritto bene in una bella introduzione Martinazzoli, la koinè politica dell’Italia. Come? Non c’era altro strumento che il Parlamento. Spero di poter sviluppare questo discorso anche in altra sede, ma voglio, ha testimonianza di quello che mi sembra essere una prova di quanto affermo, leggere il discorso, di solito ignorato che Moro da capogruppo pronunciò per il governo Fanfani che come noto poi non ebbe fortuna. In quella sede chiede la parola l’on. De Martino e dice: “Signor Presidente, il gruppo al quale appartengo ritiene che sia sufficiente il fatto che non vi siano iscritti a parlare, perciò se il Governo non ha nulla da dire rispetto a questa situazione ritengo che si debba passare senz’altro alle dichiarazioni di voto”. Questa era la posizione, non si discute in Parlamento. Moro dice: “La richiesta dell’on. De Martino mi sembra estremamente inopportuna, siamo qui di fronte ad un incarico del Capo dello Stato e secondo le norme costituzionali, si è presentato il Parlamento e ha esposto un dettagliato programma di governo ed ha espresso la linea politica e sarebbe ben strano che in questo inizio di dialogo tra parlamento e governo, il Parlamento non rispondesse attraverso un sereno dibattito”. Poi prosegue sempre su questo tema del Parlamento come il luogo del rapporto. Bisogna tenere presente che la sua visione del gruppo parlamentare era anche quella di una visione dialettica, la sua idea era che il Parlamento era il luogo dove si svolgeva, in un certo senso la controversia politica, dove si creavano le integrazioni, perché aveva dietro alle spalle anche l’esperienza del costituente, ed era interessantissimo percorrere quella strada. Aveva capito che il Parlamento è il vero grande luogo nel quale si determinano i processi di unificazione culturale, politica e morale. Naturalmente se un Parlamento diventa soltanto un parlamento delle contese e dell’opposizione, tra l’altro con un linguaggio che diventa sempre più inaccettabile, evidentemente non rappresenta quella idea del Parlamento come il luogo nel quale confluiscono le varie tendenze che si integrano e in qualche maniera si influenzano l’un l’altra procedendo verso forme di integrazione. In un'altra occasione, con gli amici Angelo Rossi e Luigi Ferlicchia si è deciso di dedicare due giornate di studio, da svolgersi in Puglia, sull’approfondimento della personalità di Moro. Credo che se noi, come Associazione degli ex Parlamentari mettiamo bene in chiaro che senza il Parlamento, senza la vita nel Parlamento, senza la forza morale del Parlamento, senza la fede nelle strutture parlamentari, quale ebbe Moro, la democrazia declina. Se vogliamo salvare la nostra democrazia, che mi pare sempre più impregnata di idee decisioniste, le decisioni non sono sempre efficaci, se non sono supportate da un vasto consenso, se non sono supportate da strutture rappresentative. Nel primo discorso Moro lo dice con chiarezza: “La Costituzione se ha la sovranità popolare, nell’espressione parlamentare ha la forza di creare la democrazia in Italia”. Penso che a distanza di trentotto anni riprendere il filo del pensiero di Moro ci può aiutare a dare il nostro piccolo contributo al rafforzamento di una democrazia che ci sembra bisognosa di molti appoggi e di molti sostegni. Luigi Ferlicchia * Grazie Presidente Bianco per questa opportunità. Gerardo Bianco è la persona che ha contribuito alla presentazione del libro che si è svolta alla Camera dei Deputati. Io questo libro l’ho fatto sulla base di quella che vedevo essere la pubblicistica nazionale. Si parlava di Moro durante i cinquantacinque giorni del rapimento, dell’assassinio. Si parlava del grande Moro e del suo contributo alla Costituzione, ma si prescindeva da un contesto globale complessivo di una linea che in Moro è stata sempre costante nel portare avanti i propri principi. Quando abbiamo presentato questo libro, il presidente Bianco ha visto il futuro, mi è rimasta infatti impressa questa frase: “Chi si vuole occupare delle cose di Aldo Moro non può prescindere da questo libro”. Io pensavo fosse grande questa affermazione, però quel libro è stato preso come spunto anche da tanti professori universitari che hanno scritto su Moro. Devo inoltre ringraziare il Presidente Bottin del coordinamento nazionale delle Associazioni dei consiglieri regionali che mi ha indicato al presidente Bianco, per parlare di questo tema. L’esordio politico di Aldo Moro è stato difficile, perché quando nel 1947 fu invitato ad entrare il lista nella DC per la Costituente ebbe il voto contrario del Comitato provinciale della Democrazia Cristiana di Bari. Il Segretario provinciale dell’epoca Natale Lojacono, che veniva dai Popolari si oppose perché vedeva in Aldo Moro una impostazione che non riusciva ad afferrare, perché Moro era già professore universitario di filosofia del diritto, era già professore di diritto penale, era professore di procedura penale, era presidente dei laureati cattolici, era legato agli ambienti cattolici, era Tenziario domenicano, pensate come Moro aveva una globalità nella sua vocazione e nella sua impostazione come cristiano. Ma non faceva mai pesare questa sua anima profondamente religiosa e profondamente cristiana, perché lui agiva sempre da laico. Ma ha avuto l’avversità, ed è stato necessario, in quella fase, l’intervento dell’arcivescovo di Bari, Mons. Mimmi che telefonò a De Gasperi, così Moro entrò in lista in base ai due posti che la direzione centrale si riservava. Quella lezione fu dirompente perché Moro poi a Roma dimostrò la sua preparazione, la sua profonda capacità di conoscenza giuridica e durante i lavori alla Costituzione, ha preso la parola ben 304 volte in un anno e mezzo. Moro comunque ha sempre mantenuto un collegamento con la realtà periferica. Mentre a Roma operava in maniera competente e con grande approfondimento, in periferia le cose non andavano molto bene. Nel ’48 la DC fu commissariata, De Gasperi in omaggio a Moro nominò Dell’Andro Vice Commissario, ma tutto ciò non riusciva a far decollare, nel contesto locale, la Democrazia Cristiana. Ma Moro con i suoi giovani e sostenuto dai suoi ambienti, continuò e non si dette per vinto. Nel ’58-’59 diventa Ministro della Pubblica Istruzione e Capolista nel collegio Bari-Foggia, e Segretario Nazionale della DC. Nel contesto locale, Moro a Bari ha fatto tutto. Era presente nelle sezioni, si presentava da solo, chi lo conosceva per la prima volta ne rimaneva affascinato. Aveva gli ambienti cattolici che lo sostenevano. Gerardo Bianco mi ricordava qualche tempo fa, che Moro, anche da Ministro degli Esteri, mentre svolgeva questa funzione estremamente difficile e delicata, non dimenticava mai il collegamento con la sua realtà elettorale, con il suo collegio, con la sua dimensione umana della politica, perché Moro cercava il contatto con le persone e aveva una capacità di capire l’animo della gente. Io avevo diciotto anni quando l’ho conosciuto e noi giovani ci siamo sempre mantenuti fedeli alla sua persona, alla sua linea, alla sua posizione politica e quindi abbiamo vissuto questi momenti con grande partecipazione, con grande intensità. Rai Storia ha trasmesso un programma dal titolo “Aldo Moro e la fede”, mi sono visto tirato in ballo per una mia intervista di tre anni fa, dove parlo della morte di Aldo Moro e ricordando le parole di un giurista, penalista che sosteneva che in ogni reato ci deve essere la motivazione, ci si chiede: “ Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Qual è la motivazione politica per cui è stato ucciso?”. Su questo si è andati a tentoni. Io mi sono permesso di lanciare questo aspetto ed è stato colto. Ma che cosa sono le Brigate Rosse? Sono comunisti, combattenti del partito armato che si ritenevano i difensori della fede autentica, di quel tipo di marxismo e in questo senso hanno ucciso Moro, nonostante i tentativi anche del Vaticano che aveva messo 35 miliardi di lire per uno scambio. Non volevano soldi ma volevano il riconoscimento politico. Ma perché le Brigate Rosse hanno ucciso proprio Moro? Perché Moro era portatore, non di un dato partitico come poteva essere la Democrazia Cristiana, ma perché era portatore di determinati valori e dell’impegno politico che gli derivava dalla sua fede autenticamente cristiana e cattolica. Lui non citava mai questo aspetto ma lo si capiva e lo si percepiva dai temi che trattava e da come riusciva poi a fare la sintesi e a coinvolgere il più possibile gli italiani. Presidente: iniziamo allora con i nostri storici eminenti. La parola a Piero Craveri. PIERO CRAVERI*: Grazie mille al Presidente Bianco per avermi inviato. Permettetemi, come storico, di iniziare con una considerazione banale. Nelle democrazie i politici sono numerosi ed è bene che sia così. Ricordo un articolo di Camillo Benso di Cavour nel 48, quando si inaugurò il Parlamento subalpino, nel quale diceva “ i parlamentari devono essere molti, dobbiamo moltiplicare i colleghi perché il problema è quello del rapporto con l’elettorato e solo un ventaglio ampio di parlamentari può canalizzare …” ed è solo un’idea originaria della democrazia rappresentativa che risuonava in quelle parole. Di questi molti naturalmente sanno suonare il loro strumento, ma i direttori d’orchestra sono i più rari, rarissimi i grandi direttori d’orchestra. Se noi guardiamo la storia del 900 italiano possiamo utilizzare le dita di una mano per indicarli nello loro interezza e Moro fu certamente uno di questi. Aveva un temperamento peculiare. E’ stata accennata qui ora la sua formazione di giovane cattolico, i ruoli che ha avuto nell’organizzazione di laicato cattolico, ma anche in questo c’è un tratto di originalità. E’ diverso il percorso di Moro dal percorso di altri; il suo nipote storico Renato Moro ha fatto una ricostruzione di quella che è stata l’infanzia e la giovinezza di Moro che mette in luce la poliedricità, la peculiarità della sua esperienza religiosa, che fu profonda e che era diversa, nell’approccio, da quella che si perseguiva nelle file dell’azione cattolica. E poi la poliedricità delle sue esperienza culturali: non dimentichiamo che è stato un grande penalista, soprattutto si è occupato di problemi di teoria generale del diritto. E quando ci si occupava di problemi di teoria generale del diritto si finiva con il conoscere la cultura filosofica nella sua interezza. Quello che è peculiare in Moro, se posso dirlo in sintesi, è la sua capacità di regia del sistema politico. Aveva un’attenzione sempre costante. Aveva una preoccupazione, innanzitutto, che il sistema politico nel suo complesso, ed in particolare il suo partito che ne era al centro, mantenesse una presa costante ed effettiva sulla società italiana e sul sistema elettorale. Quindi aveva una peculiare attenzione a quelle che erano le modifiche che intervenivano nella società e negli atteggiamenti dell’elettorato italiano. Nessun politico italiano è stato così ubiquo nell’analisi di quello che è stato il 68 in Italia, che cosa ha significato in termini di mutamento degli orientamenti, della mentalità, che si riassumono in una frase quando lui dice che si è passati da un sistema verticale ad un sistema orizzontale. Ed è appunto sul sistema orizzontale che oggi più che mai stiamo, la discussione che ha preceduto questa tavola rotonda trae molti dei suoi problemi da questa orizzontalità e dalla difficoltà sempre maggiore di istituire rapporti di verticalità, che sono rapporti di carattere istituzionale, di valori politici, etc… Moro aveva anche quasi, come capita molto raramente agli uomini politici, una sensibilità quasi di veggente. Cito un caso, quello della politica estera. E’ stato Ministro degli Esteri dal I° Governo Rumor e poi anche nella legislatura seguente e si occupato moltissimo del Mediterraneo, e a lui si fa risalire, e così viene denominato nei documenti americani, il Lodo Moro. Il Lodo Moro faceva dell’Italia una zona franca per una serie di rapporti con i movimenti che nascevano nei Paesi Arabi. Tanto che la questione che sollevava dianzi Bianco, del continuo riaprirsi della vicenda tragica di Moro, riguarda una vicenda precisa in particolare il caso di Pifano, che fu uno che venne arrestato con dei missili. E vari documenti, tra cui anche il rapporto di Giovannone, fanno derivare vari attentati, tra cui anche quello di Bologna, proprio a questo fatto. Moro aveva una grande attenzione ai servizi. Sulla morte di Moro io sono della tesi dell’origina internazionale della sua morte. Fino a quando non avremo carte dalla Stasi, da Mosca, dalla Cecoslovacchia, e anche dagli americani non sapremo in fondo che cosa c’è dietro alla sua morte. Voglio infine mettere l’accento sul Moro capogruppo, che è una parte importante della sua formazione. Lui, che tra l’altro ebbe una posizione molto singolare con il gruppo dossettiano, passò a Dossetti la notizia che stavano per mandare la richiesta di adesione al Patto Atlantico. Cosa che De Gasperi non voleva si sapesse prima che si fosse preannunciato, perché noi presentammo questa dopo il messaggio natalizio del 1949 di Pio XII che allineò il mondo cattolico sulla posizione atlantica. Quindi De Gasperi mise l’ostracismo a Moro, tanto è vero che fece bocciare la sua proposta di capogruppo nel’ 52, passò Spataro. Poi nel ‘53, cambiate le carte, divenne capogruppo. Io ho anche pubblicato il diario di Moro sulle consultazioni di De Gasperi per il suo ultimo governo. E li si vede, perché era diventato nel frattempo molto “filodegasperiano”, tutta la sua preoccupazione per l’equilibrio politico, divenne centrale in lui il problema che occorresse tenere una linea che garantisse l’equilibrio politico. Ogni frattura dell’equilibrio politico determinava reazione che poi difficilmente potevano essere controllate. Ho sempre presentato due schemi, dal punto di vista istituzionale: uno è quello “de gasperiano” , che è lo schema classico di democrazia rappresentativa (Governo – Parlamento e maggioranza parlamentare che determina in Parlamento l’indirizzo politico - i partiti). La parabola di Moro che poi diventa segretario della Democrazia Cristiana, riesce a ricucire l’equilibrio politico e porta il sistema al centro sinistra formalizza un altro modello (i partiti – il Parlamento – il Governo), che è lo schema della cd. Costituzione materiale. La Costituzione materiale la consolida Moro, portando l’intera Democrazia Cristiana sulla posizione del centro sinistra. Il centro sinistra che poi fu un fallimento; la crisi del Paese ha in qualche modo lì una sua radice, perché non si sono affrontati i problemi che nascevano dalla trasformazione sociale. Non si mise in moto la struttura dello stato sociale, questo metterà in moto anche i meccanismi di conflittualità dopo il 68 . e soprattutto non si stabilizza il sistema economico. Già dagli anni 70 inizia un declino complesso di un Paese vitale. Siamo entrati nell’Euro, eravamo già un paese semi spacciato, tutto ciò che era rimasto della grande impresa scricchiolava, e il sistema dell’impresa pubblica era a pezzi., come si dimostrò nel 1992 con le vicende che conoscete benissimo. Moro si rende conto di questa situazione, è Presidente del Consiglio durante il centro sinistra, e capisce che il tipo di mediazione che aveva previsto non era andata al nocciolo, e avanza subito l’ipotesi di un’apertura. Moro non fu mai per il compromesso storico. Non è un caso che parli di democrazia incompiuta. Una delle sue riflessioni era che non era possibile che l’Italia fosse una democrazia nella quale il maggiore partito di opposizione fosse totalmente irresponsabile rispetto alla politica di bilancio. Questo nei sistemi alternativi non succede. Non c’era vincolo politico. Io voglio far notare tra l’altro che il partito comunista ebbe una parabola elettorale straordinaria in crescita fino al 76, ma portato alle responsabilità del governo, seppure indirettamente, dal 79 inizia una parabola di decrescita. Il contrasto era questo e molto probabilmente sarebbe riuscito a mediarlo perché Moro voleva al Governo i comunisti, così come li volle Mitterand nel passaggio dal 70 all’80. Questo è un punto che va credo sottolineato: la differenza profonda che c’era tra l’impostazione comunista e quella di Moro e quella che era la prospettiva di Moro. Voglio concludere brevemente: io credo che la morte di Moro segni virtualmente la fine della Prima Repubblica, perché dopo c’è stata la rottura craxiana perché Craxi ha fatto cose notevoli, però senza aver occhio a che tipo di maggioranza andava o a che tipo di schieramento politico, distruggeva il sistema centrista. Nella democrazia Cristiana non c’è stato più nessuno che abbia realmente avuto la visione prospettica e la sua capacità, perché una delle peculiarità della D.C. è sempre stata quella di essere al centro e di fare girare intorno al centro anche i partiti dell’opposizione. Bianco parlava di Parlamento centrista, certo che c’è stata una centralità del Parlamento, perché il Parlamento era il luogo in cui, fatta la mediazione di indirizzo, si determinava continuamente la mediazione politica. Il famoso consociativismo inizia con il centro sinistra, perché poi dovete andare a vedere la produzione legislativa delle commissioni parlamentari. Chiudo con questa immagine: la messa funebre in onore di Moro nella basilica S. Giovanni in Laterano. E’ una cosa impressionante, perché da una parte c ‘è tutta la classe politica italiana, il rito di questo pontefice sofferente ed è là che è morta la prima Repubblica, e poi è venuto quello che è venuto. Grazie. AGOSTINO GIOVAGNOLI. Ringrazio tutti per questo invito a ricordare la figura di Aldo Moro, questa figura così importante. C’è stato proposto di riflettere su un tema: quello del rapporto di Moro con il Parlamento, del suo atteggiamento verso il Parlamento. Sono state già dette delle cose importanti da Gerardo Bianco, Ferlicchia e Craveri. L’importanza del Parlamento per Moro è molto grande e questo non è scontato, perché Moro è stato contemporaneamente uomo del Parlamento e uomo di partito. Dovrebbe essere un’ovvietà, ma non lo è per due motivi principali. Primo: oggi è in corso un tentativo di ricostruire il percorso di Moro e tutto ciò che Moro ha rappresentato quasi al di fuori del partito, quasi a prescindere dal suo rapporto con la Democrazia Cristiana. Si dice che Moro era un democristiano, si, ma “atipico”. E’ singolare tenuto conto che Moro è stato Presidente del partito, Segretario Nazionale ecc. Che cosa vuol dire parlare di un Moro “atipico”? E’ questo un interrogativo che mi lascia perplesso, anche perché se ripercorriamo alcuni fatti - e Craveri ne già ha ricordato alcuni - l’uomo di partito emerge con grande forza e grande chiarezza. Secondo. Si deve riconoscere chiaramente che nella cosiddetta Prima Repubblica, la forza dei partiti non è stata alternativa alla centralità del Parlamento, le due cose sono andate insieme. La tentazione odierna è quella di pensare il contrario. A partire dalla stagione del 1992/1994, infatti, i partiti sono stati indicati come un elemento che indeboliva la forza del Parlamento. Si è andati quindi nella direzione di una riduzione retrospettiva di questo rapporto in sede di ricostruzione storica. Ma negli ultimi 20 anni – quando non c’è stato più il rapporto fra quei partiti e il Parlamento - abbiamo visto una diminuzione del ruolo del Parlamento, della sua centralità nella vita politica. Questo conferma che nel sistema di cui Aldo Moro è stato il massimo interprete, il massimo regista, c’è stata una saldatura tra la funzione dei partiti e il ruolo del Parlamento. La democrazia rappresentativa, nell’età dei partiti di massa, ha avuto forme diverse da quelle del regime liberale rappresentativo e tuttavia non si può e non si deve pensare, in sede storica, che il ruolo dei partiti sia stato negativo dal punto di vista della democrazia rappresentativa. Torno a ripeterlo, quel ruolo oggi non c’è più e la democrazia rappresentativa oggi soffre per una crisi, che non è solo italiana e che ha molto a che fare con il tramonto dei protagonisti politici che sono stati i partiti. A proposito del rapporto tra Moro e il Parlamento, vorrei fare due esempi che mi paiono particolarmente interessanti. Il primo è il discorso che fece Moro nel 1977 in occasione del processo Lockheed, in difesa di Gui e Tanassi. Fu accusato di arroganza del potere per la famosa frase: “non ci lasceremo processare nelle piazze”. Questo discorso è molto interessante perché – se lo si analizza a fondo - dimostra che la maggiore preoccupazione di Moro in quel momento non era quella di difendere comunque la classe politica a prescindere dal merito degli addebiti formulati, puntando ad ogni costo nel proscioglimento dei parlamentari che in quel momento erano accusati di corruzione. La sua preoccupazione principale era un’altra, quella cioè di impedire che il parlamento si rendesse responsabile di “processo politico”. Richiamò infatti i parlamentari alle loro gravi responsabilità. Indubbiamente, spiegò, essi non potevano non ascoltare l’opinione pubblica, preoccupata e critica verso la politica. Ma oltre la responsabilità di questo ascolto, c’era anche e soprattutto quella di non farsi condizionare da “un paese inquieto e impaziente”, come descriveva l’Italia di allora. I parlamentari dovevano ricordarsi di essere rappresentanti della nazione (insisteva su questa concezione che oggi viene messa in discussione dal dibattito sulle riforme costituzionali). Ciò imponeva loro una funzione di guida e in particolare era loro dovere non accettare dinamiche come quella del processo politico, del processo di piazza. L’altro esempio che voglio ricordare è quello dell’ultimo discorso pubblico di Moro rivolto il 28 febbraio 1978 a deputati e senatori della D.C., riuniti insieme per discutere l’atteggiamento da assumere di fronte al governo Andreotti che di li a poco, il 16 marzo, si sarebbe presentato alle Camere per la fiducia. Questo discorso è molto interessante perché Moro motiva, in maniera dettagliata, le ragioni di un voto di fiducia a favore del governo che comprendeva nella maggioranza anche il Partito comunista. Era quindi un passaggio molto difficile. I discorsi di Moro sono conservati non solo nella stesura definitiva, ma anche nelle stesure provvisorie e a volte queste stesure sono sei o sette prima di arrivare al testo definitivo. Moro infatti dava una tale importanza ai suoi discorsi, soprattutto quelli che lui pronunciava in Parlamento, da ritenere fondamentale la correzione della forma con cui esprimeva il suo pensiero, per renderla più possibile aderente alla verità cui gli sembrava di essere pervenuto dopo lunga ricerca. Per lui il discorso e l’azione politica doveva avvicinarsi il più possibile alla verità e ciò rende i suoi appunti molto interessanti, perché espressivi di una ricerca e di una vivacità di pensiero che nel testo definitivo sembrano talvolta mancare. Nel testo definitivo del 28 febbraio 1978 definì il risultato elettorale del 1976 – quello per cui egli stesso aveva parlato subito dopo le elezioni di “due vincitori” (P.C. e D.C.) - “una vittoria della Democrazia cristiana”. Nel discorso si parla anche di “un insperato successo” di questo partito. Questo discorso conferma che Moro non era affatto favorevole al compromesso storico. Indubbiamente, lo statista democristiano apprezzava l’atteggiamento del Partito comunista che non aveva infierito, dopo il ‘76, su una Dc in situazione molto difficile: non c’era più, infatti, in Parlamento una maggioranza politica perchè il centro-sinistra era finito per la volontà di De Martino. Moro era molto irritato coni i socialisti e De Martino per questa situazione e ciò traspare chiaramente anche da questo discorso. Ma nel complesso, nelle sue parole del 28 febbraio non c’è nulla di più di un apprezzamento per la correttezza dell’’atteggiamento comunista. C’erano invece un sofferto rispetto verso il Psi, l’attesa di una decantazione e la speranza che il Partito socialista tornasse indietro sui suoi passi. Insomma, la statua di Moro con l’ “Unità” in tasca è una forzatura. In conclusione che cosa propose Moro in questo discorso all’assemblea dei parlamentari, tutta preoccupata e perplessa per l’accordo con il partito comunista rispetto al quale restavano distanze culturali ed ideologiche profonde? Moro rassicurò i parlamentari democristiani anche se disse che, come politici, bisognava prendersi la responsabilità di scelte coraggiose. Concluse infatti con la proposta di un accordo che definì “non politico”, “misurato”, legato al momento specifico, utile “a dare un po’ di respiro”, per permettere a tutti, in particolare alla D.C., di continuare, di far valere la propria identità. Per Moro era il Parlamento il luogo di questo accordo non politico. Gli accordi politici, infatti, sono sottoscritti dai partiti in modo diretto e in altre sedi. Ci sono invece tanti accordi in quella che Lijparth chiama la democrazia consensuale che sono la sostanza della vita politica anche se non sono accordi politici in senso pieno come quelli che devono sostenere una coalizione di governo (tra il ’76 e il ’79, infatti, c’è stata in Italia una maggioranza parlamentare di emergenza tra forze politiche non convergenti su uno stesso disegno). La democrazia consensuale - e non c’è dubbio che Moro sia stato un grande protagonista della democrazia consensuale – è l’opposto di una democrazia maggioritaria esasperata e conflittuale. Per Moro, democrazia consensuale significava possibilità di una politica dinamica e non di una politica statica, possibilità di una politica che si sviluppa in tanti tipi diversi di accordi fra i partiti e il Parlamento è uno dei luoghi principali di incontro tra i partiti che rendono efficace e dinamica la democrazia rappresentativa. In questo modo il Parlamento diventa protagonista della politica nazionale. Il partito come lo intendeva Aldo Moro era insomma estremamente funzionale a una centralità, a una forza e a una dignità del Parlamento di cui oggi rimpiangiamo l’assenza. Grazie.
Prof. Giuseppe Vacca*
Grazie a voi. Solo qualche ricordo e una testimonianza. Io sono stato allievo di Aldo Moro, sia pure nell’ultimo corso di filosofia del diritto che ha tenuto all’Università di Bari nel 1956 - 57. Non fu un corso molto ricco di frequenze del Prof. Aldo Moro che era sovraccarico di impegni infatti poi passò alla Facoltà di Scienze politiche a Roma. Mi colpiva soprattutto la dispensa che ci faceva leggere. Parto da qui perché mi incuriosì fin da allora il pensiero di Moro. Man mano che mi inoltravo nel mio curriculum universitario che poi feci anche la tesi in filosofia del diritto su Benedetto Croce con Dell’Andro. Dovendo discutere con Dell’Andro che era figlio di una collega di mia madre sebbene più anziano, mi disse non riesco a seguire una tesi su Croce ma disse in qualche modo faremo. Soprattutto attraverso l’approfondimento degli studi di filosofia del diritto fui condotto alle dispense dei primi corsi di Moro sullo Stato. Perché parto da questo ricordo? perchè è quell’idea dello Stato. Si può usare la parola Stato come termine generico ma significativo, come ha esordito Gerardo, dello Stato democratico dell’inclusione e della circolazione verticale del rapporto tra dirigenti e diretti, tra rappresentanti e rappresentati che dá quel tono particolare anche al filo conduttore della strategia politica di Moro in una situazione che però dal ’47 è bloccata e che lui definisce di democrazia difficile. Ho detto che farò solo qualche ricordo e da questo punto di vista mi ha colpito il ricordo, che credo sia sul suo memoriale, di aver votato contro l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo nel ’47, credo appena nominato capogruppo. Questo perché Moro ha sempre considerato reciprocamente alternativi, il partito di ispirazione cristiana e il partito comunista, questo degasperiano, sostanzialmente, sia pure di quel De Gasperi di cui il centrismo cammina verso sinistra. Allora qual è il punto? È che c’è un’idea della parlamentarizzazione come unica risposta democratica alla complessità, alla debolezza, alla intensità e acutezza del conflitto sociale nella società di massa. Da questo punto di vista c’è una parentela chiara con Max Weber, il massimo teorico della parlamentarizzazione, però ha ragione Craveri la vicenda italiana per alcune particolarità che hanno a che fare con la natura peculiare sui partiti di massa della giovane democrazia italiana che vede sia sul versante dei comunisti, sia sul versante del partito cattolico rispondere al fatto che si eredita non solo quella catastrofe ma anche una straordinaria esperienza di mobilitazione psicologica e politicizzazione dall’alto delle masse in a cui non si può e non si deve tornare. Bisogna trovare una risposta democratica che sta nell’idea dello sviluppo della democrazia parlamentare nella direzione della Costituzione in senso materiale che include il sistema dei partiti. Naturalmente, io sono d’accordo con Giovagnoli, mi dispiace sia andato via, c’è un problema presente già allora. Ci sono scambi di lettera tra Nenni e Togliatti per esempio molto significativi. Come si fa, essendo una situazione di democrazia senza alternanza, ad evitare lo slittamento del sistema dei partiti via via fino a coincidere con il sistema istituzionale. Della continuità ininterrotta di chi sta al governo e non può essere alternato e dell’attrazione fatale ma anche della vocazione di chi si sente partito di governo, come quello comunista, ma che non ha mai potuto governare. non è esistita la conventio ad excludendum perché sapeva benissimo che avrebbe dovuto rinunciare ad essere un partito comunista nella sfida delle alleanze occidentali obbligate. Però voleva guadagnare il ruolo, anche con un’influenza sulle dinamiche dell’evoluzione istituzionale del Paese per essere sempre più un governo capace di governare all’opposizione creando questo strano fenomeno che è stato ricchissimo e poi non a caso quando nasce una crisi di governabilità, come nasce nel ’76, si innesca una crisi organica. Altro elemento che vorrei ricordare è che Dell’Andro, proprio all’inizio degli anni ’60, insieme al Preside della facoltà, a cui piaceva fare qualcosa che testimoniasse la sua attenzione per Moro che appunto era fuorché democratico, fuorché cattolico, era un vecchio fascista, però era una persona di spirito e diceva noi siamo gli eredi di uno spirito mercantile Lauro, di questa città. Stiamo molto attenti nei punti di forza e quindi prendiamo atto e rispettiamo chiunque. Questo lo diceva il capo della opposizione nella facoltá. Il capo di una forza non grande come era il Pci ma che aveva questo rapporto di lavoro. Per due o tre anni furono organizzati dei seminari sul pensiero di Giuseppe Capograssi. Pur apprezzando radicalmente il lavoro di ricostruzione che Renato ha fatto sulla formazione di Moro, continuo a ritenere, ma non ho sufficienti prove per dire se e in che misura c’è stata un’influenza di Giuseppe Capograssi nella formazione del concetto moroteo dello Stato. Già allora trovavo queste assonanze. Cominciando ad essere felicemente familiarizzato col pensiero di questo grande filosofo italiano, forse dopo Croce e Gentile, il più grande del novecento italiano. E lo trovo anche nel fatto che non credo che fosse per i buoni rapporti con Togliatti. Personali che si instaurano e che Moro testimonia nei memoriali ricordando anche come con Togliatti si era trovato assolutamente a suo agio più che con qualunquo altro capo politico negli anni difficili in cui era stato capogruppo della DC. Non ho fatto degli studi approfonditi su questo, con pochi documenti della storia della costituente e delle commissioni e sottocommissioni che ho visti, forse l’unico a parte Togliatti, qualche raro costituente comunista che è capace di assumere le innovazioni del pensiero portato avanti da Togliatti usa il termine democrazia progressiva. E l scrive. Ecco questi sono un po’ i miei ricordi, per cui cosa sia e quale sia l’importanza della centralità del Parlamento per Moro è stato già ampiamente ricordato. Agostino, parlando prima di me, ha fatto due esempi che anche io avrei voluto fare, cioè quella del discorso della Loockheed che io ascoltai e interpretai sin da allora nella chiave riproposta da Agostino. Il Paese era scosso dall’inizio dell’antipolitica e da un diffuso uso degli intellettuali per alimentare un clima di processo alla classe dirigente, di riduzione delle Istituzioni allo slogan del palazzo. era sacrosanta la risposta di Moro " non ci faremo processare" . Così come il discorso del 28 febbraio 1978 che è quello che ha ricordato in termini essenziali, Agostino Giovagnoli, col senno di poi, credo di poter dire che aveva ragione Giorgio Napolitano nel dire che il peggior limite del modo con il quale il PCI affrontò l’emergenza e la crisi di governabilità post 1976 fu quella di non essere quanto meno attivo nel cercare una forma limitata di accordo, una forma autorale di grande coalizione oppure un accordo transitorio, ma esplicito. Questa fu la grave responsabilità transitoria comunista dell’epoca. Questi sono un po’ i ricordi che volevo consegnare insieme a qualcosa che rimpiango perché sono totalmente d’accordo con Piero Craveri, e non da oggi, che con il fallimento di quella stagione finisce la prima Repubblica. E non finisce senza autori anche per ragioni valide oggettivamente di mettere fine ad una straordinaria anomalia. Perché un’anomalia era la DC rispetto agli altri partiti tradizionali di governo più o meno di ispirazione cattolica negli altri Paesi europei. Un’anomalia era il partito comunista né Comunista né socialdemocratico e soprattutto una correlazione di questi due attori era, per un’Italia scossa da una crisi senza soluzioni, un agente di diffusione di instabilità che non poteva che moltiplicare i suoi nemici a destra. Era un Paese senza amici in preda ad una crisi in cui era sorto un nuovo attore politico, Moro non a caso ha usato un particolare nel memoriale, la nozione di “partito armato” che non è l’equivalente di BR, non è l’equivalente di terrorismo. Vuol dire che c'è un altro attore politico che in qualche modo attraverso l’eliminazione dell’agnello sacrificale ma che è anche il perno di un equilibrio dinamico e di incerto futuro viene liquidato e viene liquidata anche l’anomalia che non è detto sarebbe stata liquidata allo stesso modo quando, nel giro di due o tre anni, cambiava di nuovo il contesto internazionale passando dalle contrapposizioni bipolari, c’era la nuova guerra fredda e ci sarebbe stata una nuova stabilità, ma l'Italia ci sarebbe arrivata in un altro modo. PRESIDENTE BIANCO: Ringrazio il Prof. Vacca e gli altri relatori. Penso sia stata una tavola rotonda molto interessante. Grazie per la vostra presenza. Faremo sapere il proseguo delle iniziative, a settembre riprenderemo i lavori. Vi faccio gli auguri di buone vacanze. * testo non rivisto dall'autore |
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Commemorazione di Aldo Moro
La commemorazione di Aldo
Moro in Via Caetani, si è svolta in tono minore, perché il Presidente
Mattarella ha scelto di andare alla tomba nel cimitero di Torrita
Tiberina e il governo era rappresentato dalla Ministra Madia. La Camera
poi è stata rappresentata da un presidente di Commissione. Dopo Via
Caetani sono andato a Montecitorio dove nell'Aula, alla presenza del
Capo dello Stato si è tenuta la commemorazione della giornata delle
vittime del terrorismo quali magistrati, forze dell'ordine, giornalisti,
economisti. |
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Assemblea nazionale comitato popolare referendum per il NoCon Giuseppe Gargani
Luigi Compagna, Mario Mauro, Mario Tassone, Carlo Giovanardi, Ugo De
Siervo, Cesare Mirabelli, Riccardo Chieppa, Giandranco Fini, Renato
Brunetta, Il sindaco di Ascoli Castelli, l'ex sindaco di Pavia Cattaneo,
nino Marinacci, Ivo Tarolli, Ettore Bonalberti, Pietro Giubilo, Raniero
Benedetto e molti altri ....
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IN RICORDO DI VINCENZO DI COSMO
Sull'ordine dei lavori e per la risposta a strumenti del sindacato ispettivo (ore 20,20).
PINO PISICCHIO - Chiedo di parlare.
PRESIDENTE - Ne ha facoltà.
Onorevole Presidente, è un intervento che è anche una piccola cerimonia degli addii, riferita all'onorevole Enzo De Cosmo, che è deceduto il 25 aprile all'età di 74 anni. L'onorevole De Cosmo è stato per due volte deputato della Repubblica, nella VII e nell'VIII legislatura, ed è stato anche senatore nell'XI legislatura, ricoprendo anche incarichi importanti all'interno del consesso delle due Assemblee parlamentari. È stato anche un valente docente universitario: apparteneva alla grande scuola di statistica dell'Università di Bari ed è stato professore ordinario, titolare della seconda cattedra di statistica economica, presso la facoltà di economia della dell'Ateneo barese. È stato anche sindaco di Molfetta. Si tratta di una personalità di grande prestigio, di grande rilevanza e voglio cogliere questa occasione, Presidente, che lei mi ha consentito, per rivolgere alla sua famiglia le condoglianze e i sentimenti di cordoglio della nostra Assemblea. |
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NON BASTA UNA CITAZIONE per fare di Renzi un nuovo Martinazzoli
Intervenendo in replica al Senato, ieri, il Presidente del Consiglio ha detto testualmente: “C’è un grande parlamentare, un Capogruppo, che negli anni Ottanta terminò un suo discorso dicendo: «la politica è altrove, noi vi aspetteremo là». Io credo che sia la stessa cosa che dobbiamo dire oggi.
La politica è rispettare chi governa, non urlare costantemente, facendo un’opposizione costruttiva, preparandosi a governare la volta dopo, rispettandosi – cosa che abbiamo cercato di fare con il patto del Nazareno – e non delegittimandosi vicendevolmente.
L’Italia è altrove, la politica è altrove; quando avrete finito con le vostre sceneggiate televisive, noi vi aspetteremo là”.
Qualche giornale - come huffingtonpost - ha dato un identikit al capogruppo indicato da Renzi facendo il nome di Mino Martinazzoli. Se così fosse, proviamo ad analizzare la questione. Prima di tutto va ricordato che Martinazzoli rifiutò un “Nazareno”, sotto forma di alleanza, nel 1994, preferendo scelte nette precise, anche costose sul piano elettorale a difesa del tratto identitario dei popolari e del popolarismo. Peccato che i ghost writer di indubbia origine democristiana del premier non abbiano ricordato le diversitá di Martinazzoli nel linguaggio, nello stile, nei comportamenti, nel rapporto con le Istituzioni. I king maker del PD ritengono che basti una citazione per incidere sulla sostanza delle cose che riguardano una riforma della Costituzione lontana mille miglia da quella di Leopoldo Elia. Sul piano politico, per Mino Martinazzoli, “fatica e speranza sono interamente situate nel fuoco del comportamento politico”. Per la Costituzione si poneva il “problema di un suo aggiornamento piuttosto che di superamento”‘ e che “se davvero sono in discussione i principi va ricordato e riaffermato che la Costituzione è antifascista e programmaticamente anti totalitaria” . Per il Parlamento auspicava “una forte specializzazione” piuttosto che una “radicale trasformazione che non garantirebbe un vantaggio, soltanto presunto, perfino dal punto di vista della tempestivitá delle decisioni”. Proprio perchè il Capogruppo ritenne che il punto di partenza doveva essere la riforma dei regolamenti parlamentari ponendo l’accento su tre questioni: decreti legge, questioni di fiducia, voto segreto (poi di lì a poco regolamentato). Propugnava una virtualitá del Parlamento al fine di realizzare una saldatura tra regole e strumenti. Anche allora Mino Martinazzoli si poneva il problema della distanza della gente, ma affidava alla politica il dovere del riscatto rispetto al qualunquismo che cominciava ad affacciarsi. E allora Martinazzoli fece una dotta citazione del Vieira che non era un calciatore, ma gesuita portoghese che nel 1662 fece il discorso sulla Torre di Babele. Con “uomini che nelle loro assemblee non chiedono che dobbiamo dare, non dicono faremo, ma facciamo”. Se si porta Mino Martinazzoli sul terreno di Renzi si rischia di confondere le acque. Evitiamo la confusione dei linguaggi e dei personaggi.
La politica non è altrove; è lá in Parlamento, nel luogo della centralitá parlamentare, nella sede alta della rappresentanza. Chi vuole spostare la sede del confronto altera il rapporto tra le forze in campo a vantaggio di poteri sottratti alla verifica e al controllo del Parlamento.
Sen. Maurizio Eufemi |
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LA
POLITICA ECONOMICA DEL GOVERNO
Siamo di fronte al
fallimento della politica politica economica del Governo fatta di bonus
elettorali anzichè di interventi strutturali sulla curva delle aliquote
IRPEF. Sen. Maurizio Eufemi |
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40 MOTIVI PER VOTARE NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE Cari amici, invio un contributo al dibattito sul prossimo referendum concernente la revisione costituzionale.
Come illustrato lo
scorso 6 aprile agli amici che intendono impegnarsi nella campagna
per il no al referendum, pur appartenendo, per formazione e
attività, ad una cultura che si rifiuta di circoscrivere argomenti
complessi, che meriterebbero adeguato approfondimento e dibattito,
in pillole e slogan, al fine di agevolare una divulgazione si è
tentato di riassumere in circa 40 messaggi brevi le molteplici
ragioni che inducono ad opporsi alla imminente riforma della nostra
Carta costituzionale. Si tratta dei motivi che inducono a votare no
al referendum sul disegno di legge costituzionale recentemente
approvato dal Senato e che si accinge ad essere approvato in via
definitiva dalla Camera dei deputati, (Atto Camera n. 2613-B, in
http://www.camera.it/_dati/
La presente nota, tuttavia, oltre che ai suddetti amici, è inviata anche ad altre personalità del mondo cattolico per svolgere un estremo tentativo di richiamare l’attenzione all’unità tra persone accumunate dalla fiducia, oltre che dalla fede, nei principi della Dottrina sociale della Chiesa, dalla convinzione che la riforma della Costituzione non costituirà un progresso per il Paese stante, da un lato, la confusione che ingenera nel riparto di competenze tra gli organi costituzionali e tra i vari livelli di Governo e, dall’altro, dalla consapevolezza del rischio di un’involuzione in senso autoritario che potrebbe derivare dallo smantellamento di una serie di pesi e contrappesi posti dai Padri della Repubblica, nonché, infine, dalla comune opposizione contro la legge Cirinnà e dal comune impegno per la tutela e la promozione della famiglia e, più in generale, del “Bene Comune”, così come definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa. Purtroppo, invece, a Roma e in altre parti d’Italia si rischia un “massacro” di liste e fra liste d’ispirazione cattolica che potrebbe condurre ad un’ulteriore accelerazione della secolarizzazione del Paese laddove servirebbe invece uno sforzo unitario per ricostruire l’Italia e, poi, l’Europa. Non lasciamo che l’attenzione per organigrammi, conte e posizionamenti tattici vari in vista delle elezioni amministrative impedisca questo grande sforzo unitario! Vengono alla mente le parole di Aldo Moro nel celebre discorso del 28 febbraio 1978, a poche settimane dal rapimento, “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere.” In questo caso il dovere di uno sforzo unitario delle persone di buona volontà per destare la speranza di una stagione nuova in un Paese in piena crisi, speranza che sarebbe frustrata per tanti, per tutti coloro che si stanno impegnando come candidati, per raccogliere le firme per le liste, per attaccare manifesti, per le iniziative che si vuol far seguire al Family Day, se da tante energie positive dovesse scaturire l’ennesima sequenza di risultati da prefisso telefonico: 0,3-0,5%. Seppure a Roma qualcuna di queste liste riuscisse a conseguire 20.000 voti, siamo consapevoli che non sono neppure l’uno per cento? Se continuiamo a dividerci, le liste del mondo cattolico e popolare - al di fuori dei principali partiti di governo e di opposizione - continueranno a prendere risultati intorno allo 0,3% (e se anche prendessero il triplo resterebbero fuori dal Parlamento …) e saremo condannati ad un mondo in cui ti dicono: “Sei matto a sposarti? Così perderai punteggio per l’inserimento dei tuoi figli in asilo!” “Sei matto a fare il capo scout? Così creerai dei disadattati!” “Sei matto a fare figli in un mondo come questo?” Se vogliamo difendere o ricreare un mondo che preservi la libertà di “essere matti” dobbiamo unirci! Tornando al referendum costituzionale, allego per comodità un estratto di alcune norme che disciplinano il relativo procedimento evidenziando che non sono ipotizzabili “quesiti parziali”, ai sensi dell’articolo 16 della l. 352, e che i cosiddetti comitati per il no costituiranno delle semplici associazioni private se non si costituiranno davanti alla Cancelleria della Cassazione per avviare la raccolta delle firme, ai sensi dell’art. 7. Ancorché la raccolta delle firme potrebbe rivelarsi non indispensabile per lo svolgimento del referendum, data la probabile presentazione della richiesta da parte di un quinto dei componenti di una delle Camere, il suo avvio potrebbe rivelarsi necessario sia come testimonianza politica dinanzi all’opinione pubblica, sia per costituire il comitato proponente come un pubblico potere riconosciuto e reso noto dalla gazzetta ufficiale (cfr. art. 7, comma secondo). Colgo l’occasione per inviare un cordiale saluto Marco D’Agostini “L. 25 maggio 1970, n. 352 Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo. Art. 4 La richiesta di referendum di cui all'articolo 138 della Costituzione deve contenere l'indicazione della legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata. La predetta richiesta deve pervenire alla cancelleria della Corte di cassazione entro tre mesi dalla pubblicazione effettuata a norma dell'articolo 3. Art. 6 Qualora la richiesta prevista dall'articolo 4 sia effettuata da membri di una delle Camere in numero non inferiore ad un quinto dei componenti della Camera stessa, le sottoscrizioni dei richiedenti sono autenticate dalla segreteria della Camera cui appartengono, la quale attesta al tempo stesso che essi sono parlamentari in carica. Non è necessaria alcuna altra documentazione. Alla richiesta deve accompagnarsi la designazione di tre delegati, scelti tra i richiedenti, a cura dei quali la richiesta è depositata presso la cancelleria della Corte di cassazione. Del deposito, a cura del cancelliere, si dà atto mediante processo verbale, facente fede del giorno e dell'ora in cui il deposito è avvenuto e contenente dichiarazione o elezione di domicilio in Roma da parte dei presentatori. Il verbale è redatto in duplice originale, con la sottoscrizione dei presentatori e del cancelliere. Un originale è allegato alla richiesta, l'altro viene consegnato ai presentatori a prova dell'avvenuto deposito. Art. 7 7. Al fine di raccogliere le firme necessarie a promuovere da almeno 500.000 elettori la richiesta prevista dall'articolo 4, i promotori della raccolta, in numero non inferiore a dieci, devono presentarsi, muniti di certificati comprovanti la loro iscrizione nelle liste elettorali di un comune della Repubblica o nell'elenco dei cittadini italiani residenti all'estero di cui alla legge in materia di esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all'estero, alla cancelleria della Corte di cassazione, che ne dà atto con verbale, copia del quale viene rilasciata ai promotori. Di ciascuna iniziativa è dato annuncio nella Gazzetta Ufficiale del giorno successivo a cura dell'Ufficio stesso; in esso vengono riportate le indicazioni prescritte dall'articolo 4. Per la raccolta delle firme devono essere usati fogli di dimensioni uguali a quelli della carta bollata ciascuno dei quali deve contenere all'inizio di ogni facciata, a stampa o con stampigliatura, la dichiarazione della richiesta del referendum, con le indicazioni prescritte dal citato articolo 4. Successivamente alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'annuncio di cui al primo comma, i fogli previsti dal comma precedente devono essere presentati a cura dei promotori, o di qualsiasi elettore, alle segreterie comunali o alle cancellerie degli uffici giudiziari. Il funzionario preposto agli uffici suddetti appone ai fogli il bollo dell'ufficio, la data e la propria firma e li restituisce ai presentatori entro due giorni dalla presentazione. Art. 16 Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: «Approvato il testo della legge di revisione dell'articolo... (o degli articoli ...) della Costituzione, concernente ... (o concernenti ...), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero ... del ... ?»; ovvero: «Approvate il testo della legge costituzionale ... concernente ... approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero ... del ... ?».”
IL NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE IN 40 TWEET Premessa Ragionamenti complessi come le riforme costituzionali, le regole fondamentali che disciplinano la convivenza di una comunità nazionale, difficilmente possono essere riassunti in slogan e ancor più difficilmente possono essere ricompresi nella dimensione dei messaggi tipici dei social media, che sono ormai diventati, purtuttavia, uno degli strumenti di comunicazione fondamentali per la società civile. Tra questi figurano i noti tweet, caratterizzati da una lunghezza massima di 240 caratteri. Pur appartenendo, per formazione e attività, ad una cultura che si rifiuta di circoscrivere argomenti complessi, che meriterebbero adeguato approfondimento e dibattito, in pillole e slogan, al fine di agevolare una divulgazione ci si cimenta tuttavia in un tentativo di riassumere in circa 40 messaggi brevi le molteplici ragioni che inducono ad opporsi alla imminente riforma della nostra Carta costituzionale. Si tratta dei motivi che inducono a votare no al referendum sul disegno di legge costituzionale recentemente approvato dal Senato e che si accinge ad essere approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati, il disegno di legge costituzionale approvato, in prima deliberazione, dal Senato della Repubblica l’8 agosto 2014 (v. stampato Camera n. 2613), modificato, in prima deliberazione, dalla Camera dei deputati il 10 marzo 2015 (v. stampato Senato n. 1429-B), modificato, in prima deliberazione, dal Senato della Repubblica il 13 ottobre 2015 ed attualmente all’esame della Camera dei deputati, recante disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione (Atto Camera n. 2613-B, in http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0034621.pdf ). I circa 40 tweet, ciascuno ricompreso nel limite di 240 caratteri, proprio di questa modalità di comunicazione, sono raggruppati in tre capitoli tematici: votare NO alla riforma costituzionale, per la tutela e lo sviluppo della democrazia; votare NO alla riforma costituzionale, per la chiarezza delle regole fondamentali; votare NO alla riforma costituzionale, per il buongoverno, l’efficacia e l’efficienza del processo democratico. Ciascun tweet potrà ovviamente essere oggetto di schede e documentazione di illustrazione e approfondimento e, perché no, apposite slides, che sembrano molto in voga … Votare NO alla riforma costituzionale, per la tutela e lo sviluppo della democrazia:
Votare NO alla riforma costituzionale, per la chiarezza delle regole fondamentali:
Votare NO alla riforma costituzionale, per il buongoverno, l’efficacia e l’efficienza del processo democratico:
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20 BUONE RAGIONI PER IL NO AL REFERENDUM 1 L’art. 138 della Costituzione prevede che il Parlamento approvi singole leggi di "revisione" della Costituzione per cui le “modifiche” che si intendono apportare debbono essere sempre limitate e riferite a singole norme, com’ è stato costantemente riconosciuto dalla dottrina. La proposta di modifica costituzionale N. 148 A e 261 Bc, approvata nelle quattro “letture” al Parlamento, non “rivede” singole norme ma modifica l’assetto costituzionale, riscrivendo totalmente più di 40 articoli della Costituzione. L’art. 138 non autorizza a scrivere una nuova Costituzione e in ogni caso questo compito non poteva essere attribuito ad un Parlamento eletto con un sistema elettorale riconosciuto incostituzionale dalla Corte Costituzionale che delegittima i deputati. L’ampiezza delle modifiche apportate dalla riforma sottoposta a referendum rende consistente l’obiezione relativa alla ammissibilità di un’unica votazione di approvazione di un complesso così vasto e articolato di innovazioni, sulle quali non possono non esserci valutazioni diverse e anche contrastanti. Gli stessi sostenitori del “Si” al Referendum ritengono che la riforma può essere perfezionata negli anni !e quindi qualche dubbio sulla bontà delle norme esiste! Si tratta di norme che non si ispirano a principi bene individuati ma fanno riferimento ad una generica visione semplificatrice che giustifica la formula del “nuovo Senato” e l’abolizione del CNEL, per il risparmio che si determinerebbe nel bilancio dello Stato. Ma su questo vi sono forti dubbi sul possibile risparmio.
L’esigenza di riformare il Senato è partita da una premessa, quella di superare il cosiddetto bicameralismo paritario, (l’approvazione delle leggi sia da parte della Camera dei Deputati che del Senato) che renderebbe artificioso e lungo il processo legislativo. Nel testo approvato si prevedono tante eccezioni alla previsione di far approvare le leggi da una sola Camera, creando incertezze ed equivoci che non ci possono essere in una legge costituzionale. E’ stabilito che la “fiducia” al Governo è competenza solo della Camera dei Deputati e questa è l’unica norma chiara, ma si prevedono varie ipotesi che impongono ancora la doppia lettura di leggi con una valutazione discrezionale e politica demandata ai nuovi "senatori" o ai Presidenti delle Assemblee. Viene meno la ragione principale a giustificazione della “riforma” perché per superare il bicameralismo bisognava avere davvero il coraggio di abolire il Senato e attribuire alla Camera dei Deputati in maniera chiara ed esclusiva la funzione legislativa come certamente è previsto in alcuni Paesi. La riforma approvata, dunque, non elimina il Senato, e il bicameralismo tanto vituperato continuerà ad esistere su tante leggi e in maniera non precisa e non chiara. L’insieme delle norme approvate crea un ibrido certamente pericoloso.
3 Un "Senato" continuerà ad esistere con tutte le sue strutture e la sua complessa organizzazione certamente costosa con "senatori" che non rappresentano il popolo italiano ma la struttura verticistica delle Regioni, e che non hanno compiti precisi e funzioni definite. E’ facile infatti prevedere che un "Senato" formato da rappresentanti delle Regioni (con un sistema elettorale ahimè! ancora sconosciuto), porterà ad dualismo parlamentare tra le stesse Regioni e lo Stato: i Senatori non eletti ma indicati dalle Regioni saranno inevitabilmente portati a difendere le "competenze concorrenti" con lo Stato e quindi a far prevalere criteri parziali e settoriali e non rigide regole costituzionali. Il Senato della Repubblica è stato creato come un mostro dalle varie teste: ha funzioni legislative; di iniziativa legislativa; di impulso legislativo (ma senza poteri deliberanti) per la conversione dei decreti legge; è destinatario di tutti i disegni di legge approvati dalla Camera, per i quali, entro termini brevissimi, può formulare proposte di modifica del testo, modifiche che la Camera può disattendere; è organo consultivo organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali e di verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Insomma il “nuovo Senato” ha funzioni addirittura più complesse di quelle attuali, ma incerte e confuse.
4 Le consistenti “modifiche” costituzionali configurano un diverso ruolo delle autonomie locali e delle Regioni, così come disciplinate dalla Carta Costituzionale, ed incidono sulla rappresentanza democratica e sulla unicità della Repubblica Parlamentare che in base all’art. 139 della Costituzione “non può essere oggetto di revisione Costituzionale”. Il nuovo "Senato", escluso dal rapporto di fiducia con il Governo, viene definito "rappresentante delle istituzioni territoriali" e ha funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri Enti costitutivi della Repubblica e tra questi ultimi e l’Unione Europea". Questa impostazione confligge con quanto stabilito dall’attuale art. 5 della Costituzione ("la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali"), che non è stato modificato e dunque la mancanza da parte del nuovo "Senato" di qualsiasi rapporto fiduciario con il Governo configura in qualche modo una situazione di alterità rispetto allo Stato e incrina la sua unitarietà. Se infatti il “nuovo Senato” rappresenta le istituzioni territoriali e opera una funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costituzionali e le autonomie locali nel loro complesso, non è più integrato nell’unità dello Stato come la Costituzione prevede. La indeterminatezza delle norme e la mancanza di un preciso rapporto tra Stato, Regioni e Senato, incide dunque sul principio di unità e indivisibilità della Repubblica, per cui le autonomie locali finiscono per essere interlocutrici dello Stato in modo paritario in molti settori, ivi compresi i rapporti con la UE. Di qui una palese violazione della riforma dell’art. 139 della Costituzione con la conseguenza che le disposizioni della riforma relative al Senato non potrebbero neanche esser ammesse al referendum.
5 Il modello di riferimento a cui il legislatore italiano si è ispirato per la riforma del Senato è quello dei Länder tedeschi, ma è un riferimento improprio perché in Germania i Länder sono piccoli Stati federati con una struttura autonoma, non "enti locali" come le Regioni e i Comuni facenti parte dell’ unità dello Stato. E’ per questo che il sistema costituzionale tedesco completamente diverso non può essere preso a modello per disciplinare il complesso sistema delle autonomie italiane ed è completamente fuorviante. La realtà è che gli elettori vengono spogliati del potere di eleggere i nuovi Senatori che risulteranno espressione verticistica dei Consigli Regionali. Il meccanismo di elezione, che non si può neppure definire di secondo grado, configura una sorta di mandato indiretto da parte degli elettori che votano per i Consiglieri Regionali o Comunali che restano tali come restano rappresentanti dei territori, ma diventano poi “senatori”: una doppia figura non in armonia con la funzione e il significato che la Costituzione dà degli Enti locali all’art. 5. Le nuove norme oggetto di verifica referendaria modificano radicalmente l’impianto delle Istituzioni democratiche previste dai Costituenti, alterando il principio dell’equilibrio dei poteri e non definiscono i compiti dei senatori. La riforma pretende di essere una sorta di rifondazione repubblicana ma è confusa ed incerta, e altera il rapporto tra ente locale e governo, tra periferia e centro, alterando la caratteristica peculiare del modello italiano del pluralismo istituzionale nell’ambito della unità della Repubblica
6 La Carta Costituzionale del 1948 fu scritta dai gruppi politici presenti in Parlamento che risentivano delle culture democratiche ritornate alla luce dopo il ventennio fascista e dopo conflitto mondiale; oggi invece le modifiche che determinano la sostituzione del Senato con un “Senato” con funzioni non chiare e imprecise, sono frutto della improvvisazione e anche della mancanza di partecipazione del Parlamento nel suo complesso alla scrittura di norme così impegnative, e certamente della assenza di un valido supporto della cultura costituzionale e giuridica del nostro Paese. Se non si è riusciti dal 1948 fino ad oggi a varare modifiche consistenti alla Costituzione è perché le grandi trasformazioni che si sono verificate in questi anni e le grandi contraddizioni presenti nella società non hanno consentito l’elaborazione di norme valide e condivise. I giuristi del secolo scorso ci hanno spiegato che le grandi codificazioni si possono ottenere nei periodi di pace sociale e di relativa stabilità, nei quali i valori e i costumi determinanti sono consolidati e condivisi nella società, oppure dopo particolari sconvolgimenti come i conflitti bellici che consentono di individuare un nuovo assetto di società e di Stato. Nel testo costituzionale sottoposto a referendum è assente qualunque disegno e qualunque modello di Stato e società e viene soltanto esaltata la eliminazione di una classe politica dei 300 senatori con le relative indennità. Non è vero che con la Nuova Costituzione si ridurranno i costi della politica. I deputati restano 630, le spese delle province ricadranno su altri enti, il Senato rimane a gravare sul bilancio pubblico con tutto il suo apparato, anche se viene ridotto ad un club per consiglieri regionali e sindaci che passeranno a Roma uno o due giorni alla settimana.
7 Una Carta costituzionale non chiara mette in crisi la democrazia, e modifiche così ampie, e non coordinate mettono in crisi la Repubblica parlamentare. Nel caso di risultato positivo del Referendum, non avremmo né una Repubblica parlamentare né una Repubblica Presidenziale che sono i modelli ricorrenti nelle democrazie moderne: ci troveremmo di fronte ad un sistema ibrido e confuso che non esiste in nessun paese a tradizione democratica. La Repubblica Parlamentare ha le sue regole e la sua armonia attraverso norme che ne garantiscono le funzionalità e la organicità; egualmente la Repubblica Presidenziale ha le sue regole e le sue prerogative diverse ma funzionali e coerenti. È pur vero che, come osserva acutamente Mauro Calise, in un recente e approfondito studio, “nella ricostruzione delle recenti evoluzioni delle principali democrazie soprattutto atlantiche, si nota un processo” che fa sì che “anche nei sistemi parlamentari vi siano caratteristiche tipiche di un sistema presidenziale”. Ma una coerenza normativa deve pur esserci per l’armonia dell’ordinamento e la funzionalità del sistema , che invece è assente nelle norme approvate. L’attuale forma di Governo parlamentare si trasformerebbe nella forma di Governo del primo ministro.
8 La Costituzione del 1948 disegna una Repubblica parlamentare con le sue peculiarità, con i pesi e contrappesi che hanno determinato dal 1948 ad oggi un sostanziale equilibrio dei poteri con un Presidente della Repubblica garante dell’unità del paese. La Repubblica presidenziale che ha le sue regole peculiari e certamente democratiche, risponde ad altre logiche e presuppone un presidente eletto dal popolo. Il Presidente della Repubblica che nelle proposte di modifica viene eletto dalla Camera dei Deputati e dal Senato delle autonomie locali, con una maggioranza dei 3/5 dei votanti e non dei componenti dell’assemblea, non ha una forte legislazione che lo metta al di sopra delle parti e ha poteri ridotti perché non potrà, nei casi previsti dalla stessa Costituzione "sciogliere" il "nuovo" Senato, e vede affievolito il suo potere di rinvio alla Camera delle leggi, in quanto si scontrerebbe con la posizione dominante del Presidente del Consiglio.
La legge elettorale detta “Italicum” e già approvata dal Parlamento che attribuisce al partito che ha il maggior numero di voti un premio di maggioranza vistoso e fuori da ogni buon senso, rafforza il potere del Presidente del Consiglio il quale “risponde” appunto solo al “suo” partito in grande maggioranza nella Camera dei Deputati ma pur sempre espressione di una parte minoritaria del corpo elettorale! Il Presidente del Consiglio governa con il “suo” partito la Camera dei Deputati ed ha il “controllo” della maggioranza dei deputati del “suo” partito. La legge elettorale, che ha chiari elementi di incostituzionalità perché non rispetta la sentenza della Corte Costituzionale, se collegata alle modifiche costituzionali farà della Camera dei Deputati uno strumento del partito che vincerà le elezioni con la maggioranza relativa dei voti, acquisita in virtù dello sproporzionato premio di maggioranza.
10 I cittadini che invocano sempre maggiori controlli e verifiche sulla attività delle Istituzioni e dei rappresentanti, dirigenti e funzionari, si trovano di fronte a una riforma costituzionale che elimina ogni possibilità di sindacato ispettivo sostanziale e lascia il Paese al libero arbitrio del partito di maggioranza ma soprattutto del Presidente del Consiglio che la rappresenterà. La riforma nei proclami dei suoi sostenitori, serve per procedere alle innovazioni e agli adeguamenti richiesti dalle nuove esigenze di rapidità ed efficienza della vita moderna; ma dobbiamo constatare che in realtà guarda al passato e non tiene conto in alcun modo della realtà costituzionale che si è andata configurando negli ultimi sessanta anni di vita repubblicana. Questa considerazione vale soprattutto per quanto concerne il ruolo dei partiti che è stato il vero collante del sistema in tutto il lungo periodo di vita repubblicana, in condizioni di funzionare soprattutto attraverso l’attività di coordinamento e di raccordo che ha svolto costantemente. I partiti, come è noto, sono in crisi e quindi appare del tutto irrealistico ritenere possibile che il ruolo unificante da loro svolto possa ancora di essere valido e operare con una diversa architettura strutturale che la riforma propone.
11 Siamo tutti consapevoli della crisi della democrazia rappresentativa e dello Stato sociale e dobbiamo essere consapevoli dei pericoli che corrono le democrazie. Il prodotto complesso della sindrome presidenzialista, della liquefazione dei partiti politici nella seconda fase della storia repubblicana, deriva, come dice un illustre costituzionalista Fulco Lanchester, da interessi personali di alcuni degli attori politici presenti nell’ordinamento, per cui – “è bene operare una valutazione fredda del contesto partitico in cui il meccanismo verrà ad inserirsi e dei pericoli potenziali che dallo stesso potrebbero originarsi. Il meccanismo approvato della legge elettorale, il cui successo risulta formalmente connesso con il destino della riforma costituzionale, è frutto di una situazione eccezionale, che non ha eguali in altri ordinamenti democratici stabili”. La conclusione da trarre da questo giudizio è che la riforma è una "costruzione" intorno al premier, che insieme alla riforma elettorale mette in discussione gli stessi principi e valori indicati dalla prima parte della Costituzione considerati finora immodificabili. Il Governo e per esso il Presidente del Consiglio assume poteri forti ed esclusivi senza controlli e contrappesi.
12 L’impianto della riforma si poggia essenzialmente sulla previsione di un sistema elettorale maggioritario per l’elezione della Camera dei deputati e grazie all’Italicum il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato invertito e ne costituisce il “perno”. E’ la riforma elettorale “Italicum” approvata per prima, ad individuare il vero obiettivo del combinato “legge costituzionale – legge elettorale”, e cioè “verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi” come dice giustamente L. Carlassare. Il sistema elettorale che allo stato appare implicitamente costituzionalizzato, in ogni momento potrebbe essere modificato, e in tal caso una legge elettorale comunque diversa potrebbe alterare profondamente i rapporti tra le due Camere, e il Senato privo in particolare dell’elemento fiduciario nei confronti del Governo, finirebbe con l’incidere pesantemente, sulla funzionalità del sistema, per la complessità e per la varietà dei procedimenti legislativi e per le problematiche relative alle nomine di rilevanza costituzionale: attraverso il gioco delle alleanze e i rapporti tra i rappresentanti del popolo e i rappresentanti del territorio , può essere limitata la stessa capacità della Camera di garantire la funzione di indirizzo politico e di controllo ad essa esclusivamente attribuita. E’ stato giustamente osservato da Giuditta Brunelli che “si dovrebbe immaginare un Senato non organizzato per gruppi trasversali, riconducibili ad appartenenze politiche; sarebbe stato dunque opportuno definire in Costituzione le modalità di espressione del voto nell’Assemblea senatoriale prevedendo che le “delegazioni” regionali debbano manifestare una posizione unitaria scevra da logiche politico- partitiche.” e poi aggiunge: “La partecipazione a un procedimento di produzione normativa differenziata per tipologia di leggi, infatti, segue logiche e dinamiche ben diverse se la seconda camera è autenticamente rappresentativa delle autonomie territoriali oppure se, invece, è pervasa da elementi di osmosi politica con l’altro ramo del Parlamento. Si tratta, quindi, di un punto cruciale per la ricostruzione dell’intero sistema delineato dalla riforma.”.
13 La riforma costituzionale e la collegata riforma elettorale possono essere utilizzate da formazioni antisistema e da leader populisti, con conseguenze facilmente immaginabili per l’assetto democratico del nostro paese. Le nuove norme non sono coerenti con le norme non modificate della Costituzione, e questo determina una disarmonia pericolosa per la funzionalità del sistema.
La crisi dei partiti, la grave crisi della rappresentanza e la conseguente personalizzazione della leadership capace di assumere in sé il ruolo dei partiti tradizionali, giustifica in qualche modo la ricerca del potere e del controllo del governo, da parte del leader di turno. Ci troviamo dunque in presenza di un progetto messo in atto per il passaggio da un presidenzialismo di fatto e approssimativo, quale quello praticato dall’attuale Presidente del Consiglio, ad un presidenzialismo formale ma anomalo. Non si possono modificare le istituzioni in maniera pasticciata, come non si possono alterare i principi fondamentali e fondanti senza una generale e maturata condivisione. Si deve avere la consapevolezza che siamo pur sempre in una transizione che ci porterà inevitabilmente ad un nuovo ordine ed un nuovo rapporto tra la società e lo Stato e dobbiamo operare per questa finalità, senza alterare questo corso con atti che compromettono il futuro.
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La realtà è che le modifiche
costituzionali per le quali ci sarà il referendum non preparano il
futuro, ma ripropongono un passato nel quale si è sempre immaginato da
parte di tanti che l’efficienza, con un uomo solo al comando, possa
garantire la stabilità. L’Italia e l’Europa ben conoscono le conseguenze
di questo equivoco. 16 Contrastare le improvvisate modifiche costituzionali non significa essere conservatori o oscurantisti e contro le innovazioni, ma al contrario essere consapevoli che, mantenendo in piedi l’insieme delle norme che hanno garantito la democrazia e la pluralità istituzionale, si può costruire il nuovo, adeguato socialmente e giuridicamente ad una società più matura e più unita.
17 Un principio – quello dell’estraneità del governo alla revisioni costituzionali – che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per 47 anni, (infatti quando si è discusso di riforme costituzionali i banchi del Governo sono rimasti sempre vuoti per rispetto al Parlamento), fino la tentativo di riforma costituzionale di Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “ premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’art. 138 della Costituzione; fino all’attuale riforma costituzionale. Non può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo. La riforma Renzi, come le due precedenti, è un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi ricordati.
“Non si possono dunque
sfidare gli elettori sul piano "personale" e affermare che nel caso di
voto negativo di quelle norme il Presidente del Consiglio si dimette. Il
Governo se non sfiduciato ha il dovere di governare, di operare per il
bene comune dei cittadini. 18 E’ ben chiaro che la “riforma” voluta fortemente dal Presidente del Consiglio mira ad accontentare quella parte di opinione pubblica che da tempo chiede non la "revisione" ma la modifica della nostra Repubblica Parlamentare. La "modifica" delle norme costituzionali, che, come si è visto, non sono una semplice “revisione”, insieme alla nuova legge elettorale detta Italicum già approvata consegnerebbero il Parlamento ed il Paese ad una minoranza, divenuta, per la "magia" delle modifiche, una "maggioranza fittizia, funzionale al Capo del Governo.
Il Presidente del Consiglio ha fatto della riforma un problema personale e ha fatto un uso scorretto della stessa Carta Costituzionale: ha stravolto i principi fondamentali della Costituzione Repubblicana con norme disarticolate. E’ necessario che si costituisca una larga aggregazione trasversale per difendere, attraverso il referendum, la Repubblica Parlamentare e a ripristinare l’armonia istituzionale, come avvenne in occasione del referendum del 2006 che bocciò una riforma costituzionale in qualche modo simile, votata da una parte del Parlamento e quindi non sorretta da un un largo consenso.
E’ necessaria la battaglia referendaria per dire chiaramente NO a questa riforma costituzionale ed implicitamente alla legge elettorale che sarà sottoposta ad uno specifico referendum dopo la raccolta delle firme: è un dovere per ogni cittadino italiano che ha a cuore il valore della “rappresentanza democratica” in una Repubblica Parlamentare. |
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I comitati popolari per il NO alla riforma Costituzionale e la federazione popolare La politica è sottoposta a fortissime tensioni dai temi etici sulle unioni civili alla riforma costituzionale, dalla crisi europea sui migranti alla difesa delle conquiste sociali sul welfare state. E’ in questa fase di così turbolenza che si avverte l’assenza di una forza politica in grado di esprimere la cultura di governo della DC unita ad un senso laico orientato a svolgere mediazioni piuttosto che imposizioni. E’ in questo difficile contesto che è nata la Federazione Popolare, frutto di un lungo percorso, di una approfondita serie di incontri sul territorio da Rovereto a Orvieto, da Torino a Bologna con l’obiettivo di arrivare alla formazione di una nuova forza politica aperta e plurale capace di riaggregare quanti si ritrovino nei valori del cattolicesimo democratico, superando le contrapposizioni per ritrovare la via della ricomposizione. Il primo momento di riaggregazione è stato la costituzione dei comitati popolari per il no al referendum sulle modifiche della Costituzione. E’ stato utilizzato lo strumento improprio dell’articolo 138 per interventi profondi anziché limitati e particolar come costantemente riconosciuto dalla dottrina. Il nuovo Senato, escluso dal rapporto di fiducia con il Governo, viene definito “rappresentante delle istituzioni territoriali” e ha funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica e tra questi ultimi e l’Unione Europea” . Questa impostazione confligge con l’attuale articolo 5 della Costituzione non modificato che afferma che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, perché la mancanza del nuovo Senato di qualsiasi rapporto fiduciario con il Governo, configura invece una situazione di assoluta alterità rispetto allo Stato Centrale e incrina la sua unitarietà, non essendo più inserito nell’ambito dello Stato come la Costituzione prevede. Vengono affievoliti i poteri del Presidente della Repubblica rispetto allo scioglimento del “nuovo” Senato e della Camera dei Deputati così come il suo potere di rinvio delle leggi che si scontrerebbe con la posizione dominante del Presidente del Consiglio. Gli elettori vengono spogliati dal potere di eleggere i Senatori che saranno espressione dei consigli Regionali. Siamo di fronte ad una Costituzione riformata con profonde criticità che mettono in crisi la democrazia rappresentativa. La mancanza di coordinamento mette in crisi la Repubblica parlamentare. Tutto ciò è strettamente collegato ad una legge elettorale che costruisce un premierato occulto perché ai più forti poteri del premier non configura i necessari, indispensabili contrappesi. Un sistema elettorale maggioritario mette a rischio tutto il sistema delle garanzie costruite nei decenni che rischiano di essere compromesse. Qui non è in discussione la conservazione o il rinnovamento, la modernità o l’arretratezza istituzionale del Paese. Si tratta invece di difendere quelle norme che hanno garantito democrazia e pluralismo oltre che una indiscutibile crescita economica e sociale del Paese. Dunque ritrovarsi nella difesa dei valori costituzionali è il primo punto di approdo per ricostruire una piattaforma politica che guardi alla ricostruzione di una area vasta delle forze che si riconoscono nel cattolicesimo democratico di impronta degasperiana. Di qui la esigenza di schierarsi convintamente nella battaglia referendaria per il no a questa riforma costituzionale e implicitamente alla legge elettorale rappresenta per noi un dovere irrinunciabile. (Articolo di Duranti pubblicato su "I democratici cristiani") |
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CONGRESSO NUOVO CDU-TORINO 27 febbraio 2016 Articolo di Dario Bego comparso sul giornale "La Nuova Periferia" il 2 marzo 2016
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30 gennaio 2016 - circo Massimo-ROMA FAMILY DAY foto e filmati dell'evento
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I VIDEO
RenatoGrassi: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464972807039428/ Il gruppo di Montalto di Castro: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464977967038912/ Nino Gemelli: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464973423706033/ Mario Mauro: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464971990372843/ Nino Marinacci: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464968533706522/ Mario Tassone: https://www.facebook.com/maurizio.eufemi.7/videos/464967817039927/
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Comitato popolari per il no (ANSA) - ROMA, 20 GEN - Per sostenere le ragioni del "no" nel referendum costituzionale di ottobre, nasce il "Comitato popolari per il no", che si rivole soprattutto al mondo di matrice democratico cristiana e popolare. L'iniziativa e' stata presentata in Senato in una conferenza stampa dai senatori Mario Mauro, Carlo Giovanardi e Luigi Compagna, e da alcuni ex parlamentari e presidenti di partiti e associazioni , come Mario Tassone e Peppino Gargani. All'iniziativa erano presenti anche i capigruppo di Fi, Paolo Romani e Renato Brunetta, e Loredana De Petris di Sel. La bocciatura delle riforme costituzionali e' senza appelllo: "Oggi non muore il Senato, muore la Repubblica", ha detto Mario Mauro. Sferzanti anche le parole sugli editorialisti che avevano definito "armata Brancaleone" il variegato fronte del "no": "sono 'maitre a' penser' servi". "HIn questi anni - ha detto Gargani - ho visto diverse leggi 'ad personam', ma e' la prima volta che vedo una Costituzione 'ad personam'". Il Comitato, ha spiegato Mauro, "partira' dal basso, parrocchia per parrocchia, oratorio per oratorio". Tassone ha lanciato un appello agli ex popolari ora nel Pd a unirsi al Comitato e votare "no" al referendum per "coerenza con i valori sturziani". Respinto anche il "ricatto" di Matteo Renzi con il suo annuncio di dimissioni in caso di sconfitta al referendum, definito da Compagna "un atteggiamento triviale". "Non accettiamo ne' questa minaccia - ha aggiunto - ne' il ricatto di essere accomunati a Bonsanti e Zagrebelski; le nostre biografie non lo consentono".
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