...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

ARTICOLI E comunicati 2022

Un pensiero su Papa Benedetto XVI  - Joseph Ratzinger Papa Benedetto XVI

La scomparsa di Papa Benedetto XVI mi  riporta alle occasioni di incontro in cui ho potuto vederlo da vicino, ascoltarne direttamente le parole, osservarlo nei movimenti, sentirne il timbro della voce, in tutte quelle occasioni e in quei particolari momenti che solo il tuo occhio al momento ti sa dare.
La prima grande occasione è stata nell'ottobre 2004 a Palazzo Rospigliosi quando per iniziativa del centro di formazione politica di Gaetano Rebecchini il cardinale Ratzinger svolse una relazione colloquiando con Ernesto Galli della Loggia. Riporto alcuni passaggi:

... Così l'uniformazione crea anche la parzializzazione delle culture del mondo e l'opposizione tra queste culture.
Questa cultura è considerata occidentale, l'occidente è identificato con il cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l'occidente, ma diventa anche un'opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo. E poi ... Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro, che ci separa dalle altre culture e non crea una possibilità d'incontro ma esprime l'arroganza di una ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste.

Poi per iniziativa del Presidente Marcello Pera il cardinale Ratzinger svolse una relazione nella sala capitolare della Minerva  il 13 maggio 2004 sull'Europa e i suoi fondamenti spirituali oggi e domani. La sua preoccupazione per una Europa sulla via del congedo. La mancanza di voglia di futuro. I figli che sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente. La difesa incondizionata della dignità umana e dei diritti umani come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. L'identità europea fondata sul matrimonio e sulla famiglia. L'Europa per sopravvivere ha bisogno di una nuova - certamente critica e umile - accettazione di se stessa, se vuole sopravvivere. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l'Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio della intera umanità. Quelle parole così forti e coraggiose mi restarono impresse nella mente e mi guidarono nei momenti difficili dell'iter della Costituzione europea e delle ratifiche dei trattati internazionali. 
Poi non posso dimenticare la partecipazione alla solenne cerimonia di intronizzanizzazione in Piazza San Pietro dopo la elezione al Soglio Pontificio.
In seguito vennero gli approfondimenti del Suo pensiero su che tiene insieme il mondo e sulle basi morali e prepolitiche dello Stato con il confronto con Jürgen Habermas il filosofo considerato il più puro, il più noto esponente della visione laicista dello Stato. Ciò avvenne per iniziativa della Accademia Cattolica della Baviera.

Non possiamo dimenticare la celebre lectio magistralis di Ratisbona del 2006 su fede, ragione e università e la famosa citazione di Manuele il Paleologo, con tutte le polemiche che ne derivarono.

Poi ce n'è un altro di episodio che meriterebbe di essere ricordato, ma sembra essere rimasto nascosto in queste ore dalla stampa. Mi riferisco alla impedita inaugurazione dell'anno accademico del 2009 prevista per il 27 gennaio, ma annullata!

“Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità”. Questo avrebbe detto nel suo discorso il Papa che non ha potuto pronunciare alla Sapienza, impedito dalla intolleranza dei laicisti universitari. Li sarei andato volentieri ad ascoltarlo.

Con Papa  Ratzinger, con Papa Benedetto XVI , scompare un interprete profondo della civiltà europea che ha portato avanti con convinzione e coraggio un pensiero intellettualmente forte a volte scomodo per una società cedevole.

Maurizio Eufemi

Roma, 31 dicembre 2022

Gerardo Bianco 


Non è facile  raccogliere in pochi pensieri  il ricordo di una personalità come Gerardo Bianco. 

Ringrazio la signora Tina, i figli, gli amati nipoti  per avermi consentito ieri alla camera ardente nella Sala Aldo Moro, come gesto di grande attenzione , di stare tra le fila dei familiari nel momento in cui Sergio Mattarella rendeva l'omaggio istituzionale alla salma. 

Oggi per una prolungata indisposizione non potrò partecipare ai funerali a San Gaetano, nella sua parrocchia. Ma oggi voglio ricordare il presidente Gerardo Bianco come se fossi lì in una cerimonia solenne che vede la partecipazione di Autorità e di tanti amici che ieri, e ancora di più oggi, hanno voluto stringersi intorno alla sua amata famiglia manifestando pubblico cordoglio. 

In me prevalgono oggi i tanti momenti che ne illuminano la figura. Non ragionamenti complessi, ma pensieri semplici, quelli su Gerardo; non i valori forti che hanno guidato la sua grande passione e storia politica,  ma soprattutto la sua umanità, il suo essere ricco di generosità e di idee. 

In questi ultimi tempi insisteva nell'affermare che ciò che accade nella nostra storia democratica non è capito. Lo aveva detto con vigore alla cerimonia dei novantenni in cui era stato festeggiato un anno fa. 

I ricordi si intrecciano poi sui tanti momenti del passato! 

È difficile ricordare un amico, soprattutto in un momento come questo, dove la estrema debolezza del pianto prevale sulla razionalità . È stato il nostro, un rapporto cinquantennale ed era  come un fratello maggiore. Non è stata solo una intensa collaborazione, personale politica e culturale, ma una amicizia profonda fondata sul rispetto e su valori comuni fatta di momenti intensi che solo la politica alta e bella sa dare. 

Ogni momento che illumina il passato ha rappresentato un arricchimento, perché mai vi è stata presunzione o imposizione ma sempre disponibilità al libero dialogo. 

E nutriva sempre un grande e profondo rispetto per le opinioni degli altri. E Gerardo Bianco veniva rispettato dagli avversari per la forza delle idee che ne riconoscevano il valore.

L’approccio culturale era prevalente. Consentiva di volare alto. Era moderno nelle intuizioni e nei progetti. Guardava alla globalizzazione della cultura, perché solo con la circolazione delle idee si accresce e si migliora. Era motivo di grande soddisfazione avere creato da Presidente dei deputati Dc l'Osservatorio Economico affidato a Gianni Goria e a Luigi Cappugi, con tanti giovani ricercatori che si sarebbero affermati nella vita, così come i seminari di politica estera a Firenze, per affrontare i temi della pace in Palestina, quello dei blocchi e degli euromissili, e dei trattati internazionali. 

Poi in un momento di forte disagio politico, quasi un esilio, e come risposta alle amarezze della politica, a cui sapeva rispondere non con rassegnazione, ma con sempre più forza e determinazione, fece la bella, elegante rivista monocratica Fondamenti, con la casa editrice Paideia di Brescia, il suo orgoglio, dove chiamó a collaborare Premi Nobel e i più grandi studiosi del mondo, sui temi del contrattualismo, del classico, dell'economia, della religione, dell'utopia, dell'immaginario. 


Non c’era mai in Gerardo il sentimento del rancore, né invidia verso gli altri perché amava la sfida - non degli interessi o del potere fine a se stesso, - sul terreno culturale, quello dove era capace di duellare senza paura. 


Una delle ultime uscite è stata a settembre all'istituto Sturzo in occasione del convegno sui cattolici. Voleva essere presente per capire e orientare. 

Nei mesi scorsi volle partecipare con sentimenti di grande amicizia al trigesimo per Ruggero Orfei. Quella sera sul sagrato della chiesa de là Salette a Monteverde fece una lezione di storia sull'impegno e sul fermento che animavano giovani della Universitá Cattolica di Lazzati negli anni della ricostruzione e del dossettismo. Una rievocazione che non era solo la storia dei giovani universitari De Mita, Misasi, Carta e Orfei, ma era la sua storia tanto si intrecciava gli uni con gli altri e conclusasi, per alcuni di quel gruppo, nel 2022 con un destino comune. ! 


Non c’è solo la difesa della nostra storia, ma il sistema democratico del Paese che sembra orientato a cercare il deus ex macchina capace di risolvere tutti i problemi del Paese e che vi sia un grande pericolo. Ripeteva costantemente. Abbiamo il compito di difendere la democrazia.! Il suo europeismo degasperiano più convinto trovó espressione nella elaborazione del programma elettorale della Dc per le elezioni politiche del 1992 che Arnaldo Forlani volle affidargli.

È stato riferimento politico per molti, un fascino, un faro. 

Gli studi su Orazio, quelli su De Sanctis erano le sue passioni intellettuali non ostentate, così come il popolarismo sturziano e il meridionalismo con la presidenza dell’Animi che fu di Leopoldo Franchetti e Giustino  Fortunato dove ha dedicato le ultime energie. La guida della associazione ex parlamentari ha rappresentato un momento di grande vitalità come occasione per la difesa, con coraggio, del parlamento e della Costituzione. 

Aveva un amore forte, per il parlamento come luogo di elaborazione e di confronto dialettico e democratico. 


Rispetto alle recentissime vicende, delle ultime frasi è stata:" tutti abbiamo commesso errori. Indicare un solo responsabile non è giusto.!" Qui c'è tutta l'umiltà dell'uomo, del Cristiano, del saggio. 


In un recente incontro volle portarmi in regalo una foto di noi insieme, a festeggiare con sobrietà il successo di ciò che è stato il simbolo di una sua, nostra battaglia parlamentare! 


Poi gli ultimi colloqui che mi spronavano  ad andare avanti, a raggiungere alcuni obiettivi, soprattutto quello di difendere la storia, la nostra storia con la cura del pensiero forte. Insisteva perche completassi un libro con le storie della vita di tanti amici parlamentari di ogni angolo del Paese che aveva stimato e rispettato. 

Perchè quella era per Gerardo la storia vera della Dc! 

La Sua  storia, la nostra Storia! 


Maurizio Eufemi 

Roma, 2 dicembre 2022 

Nicolini: ecco come Moro mi spiegò le “convergenze parallele”

Per la prima volta la spiegazione argomentata della famosa formula attribuita letteralmente a Moro, lo statista Dc espresse questa tesi ma non con questo slogan. La figura di Renzo Nicolini, esponente della Dc umbra e nazionale

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online “beemagazine” del 6 Dicembre 2022

 

Parliamo oggi con un “giovane” di 89 anni, protagonista di una vicenda sociale e politica di primo piano, vissuta dal dopoguerra in diversi settori di impegno. Un ruolo importante nella Democrazia Cristiana di Terni e dell’Umbria; da avvocato ha espresso una presenza professionale efficace sul territorio.Giovanissimo è stato Consigliere ed Assessore al Comune di Terni, dal 1960 al 1970, con una parentesi parlamentare durante la quinta legislatura.Ha ricoperto l’incarico di Presidente nazionale del Credito Sportivo dal 1975 al 1991. Poi, esperienze bancarie nella BNL, nella Cassa di Risparmio, nella Camera di commercio, nel Rotary di Terni, nel settore sportivo, nelI’associazionismo.

Insomma, un legame profondo e attivo nella comunità territoriale.

 

Come è avvenuto l’incontro con la politica?

Le mie prime esperienze le ho fatte neII’Azione Cattolica di Terni, con un impegno a carattere diocesano. Verso i miei 18 — 19 anni, il Vescovo di Terni Giovanni Battista Dal Prà (Vescovo di Terni dal 1948 al 1973, dopo la grande parrocchia operaia di Padova, n.d.r.) al quale ero molto legato, mi disse ch’era giunto il momento di impegnarmi nella vita pubblica, nel servizio pubblico.

Gli risposi che mi trovavo bene neII’Azione Cattolica. Sì – mi spiegò – nelI’A.C. tu servi la comunità ecclesiale, mentre, se ti impegni nella vita politica, servirai la comunità dei cittadini. Rimasi colpito da questo suo invito, perché già nel movimento studentesco, al Liceo classico, partecipavo ai dibattiti ed alle iniziative culturali.

 

E l’ingresso nella Democrazia cristiana?

Mi sono iscritto alla D.C. di Terni nel 1952. In quel tempo, a Terni, un politico molto popolare era l’on. Filippo Micheli. Feci la prima campagna elettorale e devo dire che la vita politica di quel periodo era molto diversa da quella di adesso. Il confronto serrato era soprattutto sui valori e sui programmi, non su una visione individualistica dei problemi sociali.

 

Il periodo universitario fu una esperienza importante?

Mi iscrissi aII’Università “La Sapienza” di Roma. Venivo da una famiglia molto modesta, mio padre era operaio e non c’erano le risorse per la frequenza dell’Università. Quindi, soltanto in virtù dei voti che avevo riportato al liceo, ebbi diritto di accedere alla Casa dello studente.

 

Come si presentava politicamente il mondo universitario?

Era un periodo contrassegnato dal confronto acceso soprattutto tra comunisti e democristiani sulla questione dei prigionieri in Russia che non ritornavano. Si tenevano dibattiti molto aspri anche nell’ambiente studentesco. C’erano gruppi che si scontravano: alla facoltà di legge dove ero iscritto prevaleva la destra; a Lettere prevaleva l’lntesa, perché c’erano molti Sacerdoti e Suore; ad Architettura i comunisti; a Matematica i radicali. Era l’epoca di Pannella e di Craxi.

 

Fu un periodo un po’ turbolento nel mondo della scuola.

Ricordo un incontro – scontro sulla scalinata di Giurisprudenza. Mi permisi di intervenire. Mi chiesero: Tu chi sei? Risposi: Sono una matricola, sono un cattolico! La loro replica fu: Voi siete tutti …. E aggiunsero una parola volgare. Ad uno di loro mollai un pugno che Io fece rotolare per le scale. Comunque, era tutto un fatto di spintoni. Non si usavano ancora le spranghe e le chiavi inglesi.

 

Non c’era da aver paura per tali episodi violenti?

Finita la manifestazione, mi diressi verso la Casa dello studente. Mi accorsi che mi stava seguendo una persona. Mi fermai e gli chiesi, con una certa grinta: “Cerchi me?” Rispose: “No, Collega. Sono Andrea Damilano, il Presidente della FUCI a Roma”. Era il padre del giornalista Marco Damilano. Meno male, perché pensavo fosse una persona minacciosa.

 

Forse sarà rimasto sorpreso per il tuo atteggiamento di poco prima.

Aggiunse: “Ho assistito alla scena dello scontro a Giurisprudenza. Tu devi essere più calmo, hai detto di essere cattolico e poi gli hai mollato un ceffone”. Mi disse ancora: “Noi ci riuniamo in previsione delle elezioni universitarie. Ci presentiamo come Intesa Universitaria. Siamo insieme alle Congregazioni Mariane, i democristiani, l’Azione Cattolica, la FUCI e gli studenti del Massimo. Ci riuniamo a Piazza Sant’Agostino, vicino al Senato. Se vuoi venire, io ti invito”.

 

Era una Unione delle Organizzazioni cattoliche.

Sono andato alla riunione. Mi chiesero se mi volevo presentare alle elezioni per la facoltà di Giurisprudenza. Dissi loro: “Io vengo da Terni e non posso fare una presenza di facciata. Se mi devo candidare, farei il capolista”. Forse una pretesa la mia e il loro commento fu: “Ma questo chi si crede di essere!”. A Terni, avevo già una posizione: ero membro del Comitato provinciale della D. C.

 

Cosa decisero quelli dell’Unione?

Mi telefonó successivamente Damilano, per dirmi che avevano accettato la mia richiesta di candidatura perché “a Legge – disse lui – ci sono i fascisti e potrai essere un osso duro per loro”. Mi misi in movimento e andai a trovare i delegati provinciali della D.C. di  Chieti, Rieti, Latina, Viterbo e Terni. Li sollecitai a venire tutti a Roma a votare. Feci una vera e propria campagna elettorale.

 

In quale modo?

Ho organizzato i pullman. A Giurisprudenza, votarono molti giovani Cattolici e riuscii il primo eletto e diventai, per due anni, il Segretario del Consiglio di Facoltà. All’epoca, Franco Maria Malfatti era il segretario del Movimento giovanile nazionale democristiano.

 

Dopo l’università, è iniziato l’impegno a Terni?

Sì, è cambiato il mio impegno, non più nell’Azione Cattolica, ma nella Democrazia Cristiana locale e regionale. Dicevano che parlavo molto bene e mi mandavano a fare i comizi in provincia. Avevo il sostegno e l’amicizia dell’On. Filippo Micheli al quale debbo moltissimo. Era un esponente autorevole del Partito ed è stato fondatore della D.C. In Umbria. Deputato per 11 legislature, dal 1948 al 1994. Più volte sottosegretario all’Industria e alle Finanze. E successivamente, Segretario Nazionale amministrativo del partito.

 

Dei personaggi politici di allora chi ricordi in particolare?

Ecco, appunto: Filippo Micheli. Voglio vivere in grazia di Dio, quindi parlerò solo di chi ho conosciuto sino in fondo e ho stimato. Micheli era un interprete della carità cristiana. Ha dato tutto se stesso alla azione politica. Era un personaggio inattaccabile. Per esempio, partiva da Roma per andare a Cerreto di Spoleto a giocare a carte con il Sindaco. Parlo dei primi anni ’50, un Sindaco che mandava telegrammi al Presidente della Repubblica di questo tenore: “Qui piove che se fina. Chi ce dà i quattrini per riparare il tetto?” Micheli è stato veramente un uomo di popolo, vicino alla gente. In campagna elettorale, faceva anche 4 – 5 comizi al giorno.

 

Quale la prima candidatura a livello nazionale?

Nel 1968, giocai la carta di candidarmi alla Camera dei Deputati. Il comitato provinciale di Terni si espresse pressoché alla unanimità. Quasi, in quanto Micheli si astenne. Ebbe timore della mia presenza in lista. A Rieti – disse – c’era Malfatti che avrebbe fatto il pieno; a Perugia Radi e lui, Micheli, a Terni dove la D.C. faticava a prendere i voti. Gli spiegai che il mio impegno era finalizzato ad avere, a Terni, il secondo Deputato.

 

Non prese bene la tua presenza in lista.

Con i Dorotei si lamentó dicendo: “Perché mi avete fatto lo scherzo di candidare Nicolini, che ho creato io?”

Lo rassicurarono: “Nicolini, seppure con il sostegno della sorella, molto attiva nel CIF, prenderà al massimo 2 – 3 mila voti”.

 

Invece come fu il risultato?

In quella occasione, presi quasi 17 mila preferenze. Successivamente, circa 27.000. I voti da me riportati erano, in gran parte anche di Micheli. Comunque un importante suffragio. Ottimi risultati su Perugia e Rieti e ben 11.000 a Terni che è piccola come provincia. Non potevo non presentarmi: la concorrenza era forte e, mi dissi, se faccio passare qualche altro anno, io sparisco, perché non ho nessuno alle spalle. Ero moroteo e lo sono ancora. Moro mi voleva bene. Ai miei figli non lascerò eredità economiche, ma una lettera autografa di Moro nella quale dice: “Caro Renzo, la tua eccezionale dirittura morale non potrà non dare, prima o poi, un forte contributo a soddisfare le esigenze dei giovani”. Mi disse ancora: “Troviamo qualche cosa che ti impegni nel campo della organizzazione”. Fui nominato dal Governo Presidente dell’Istituto per il Credito Sportivo, dove sono rimasto per 16 anni.

 

Una esperienza di notevole responsabilità.

Dopo 12 anni, il massimo consentito dalla legge, decisi di lasciare, ma comunisti e democristiani vollero che rimanessi. Apportai molte novità con la legge che attribuiva risorse finanziarie. Quando lo presi, il Credito aveva un capitale di 10 miliardi; quando l’ho lasciato, la capacità operativa era di 700 miliardi. Puntavo non allo sport come oggi, ma alla pratica sportiva. Ebbi un forte scontro con il Governo Craxi, in occasione dei Campionati del mondo di calcio del 1990, quando si voleva caricare all’Istituto la spesa per la costruzione o ristrutturazione degli stadi.

 

Cosa accadde?

Venne da me il Ministro ad illustrare il progetto, gli dissi: “Il Credito Sportivo finanzia solo gli impianti per la pratica sportiva”. Mi fu riferita una frase pronunciata nel Consiglio dei Ministri: “Ma chi è questo Nicolini?” Qualcuno rispose: “È un democristiano, ha De Mita dietro”. Allora fecero una legge speciale – la n. 65 del 1997 – nominarono Carraro Ministro (Turismo e Soettacolo, dal 28 luglio 1987 al 6 febbraio 1990, n.d.r.) per amministrare soprattutto i fondi speciali per gli stadi, perché mi ero opposto ad utilizzare quelli del Credito. I comunisti hanno sempre condiviso le mie scelte. I morotei godevano di ampia stima. Oggi, personaggi come Moro e Berlinguer non ci sono più.

 

Hai vissuto la fase della Azione Cattolica. Anche quella del tormento, quella di Carretto e di Rossi?

Condividevo la linea di Carretto. Fu un confronto molto difficile. Io ero già impegnato in politica quando a Terni si fece un dibattito sul divorzio in merito alla proposta di legge Fortuna, non c’era nessuno della D.C. mentre erano presenti i rappresentanti di tutti i partiti divorzisti. Mi chiamò il vescovo Dal Prá il quale mi stimava molto. Mi disse: “Renzo vai a rappresentare la nostra tesi”. Una sala gremita.

 

Come si svolse la discussione?

Spiegai che ero venuto a parlare non a nome della DC, ma come cittadino. “Perché – sottolineai – quelli in discussione sono valori morali valori etici che riguardano la società non deve essere una questione partitica. Parlo anche come padre, come marito e come avvocato. E come appartenente all’Azione Cattolica che è contraria al divorzio. Sono favorevole a una legge che aumenti i casi di nullità o di annullabilità del matrimonio. Soprattutto riguardo la parte più debole e impegnata della famiglia. Lo prevedeva pure il diritto romano. Io ritengo percorribile questo itinerario”. La stessa cosa dissi in un’assemblea di parlamentari: il divorzio non è negativo in quanto tale. È negativo invece perché creerà una mentalità di costume e un modello di vita che farà dire alla gente prima la sposo e poi se non va bene ci separiamo.

 

Si potrebbe considerare un matrimonio uso e getta.

È una questione che seguo attualmente. Soffro quando mi accorgo che, in TV, non si trova un cattolico che risponda con coraggio, con logica quando si parla della famiglia, dei diritti civili di famiglie, di due uomini e due donne.  La famiglia sono secoli che è un istituto tra marito moglie e figli. Se se ci sono due uomini o due donne che si piacciono, affari loro. Chiamatele unioni civili, ma non famiglia. È un rapporto di amore che mi pare strano, ma rispetto.  Peró non si può chiamare famiglia. Io in  Parlamento votai contro il divorzio.

Quando fu approvata la legge sul divorzio, Andreotti fece intervenire in Aula tutto il gruppo Dc, 265 deputati e venne pubblicato il libro “In opposizione al divorzio”.

Il Vaticano si impose a Fanfani, il quale in sede di referendum non ebbe il coraggio di De Gasperi che rifiutò l’operazione Sturzo per una alleanza con la destra fascista nelle elezioni per il sindaco di Roma. De Gasperi ci ha sofferto,  ma non ha ceduto. Mi commuovo quando ricordo questi fatti. Uomini che hanno dato la vita per l’Italia. Moro è morto perché stava aprendo una prospettiva politica diversa, di riforme nell’azione culturale e di governo.

 

Quale è stato il rapporto con Aldo Moro.

Di stima, rispetto e l’amicizia. Ricordo una sera a cena. In risposta alla mia domanda riguardante il principio delle “convergenze parallele”, disse : “Renzo tu conosci come funziona il binario ferroviario. Ha due rotaie. Se due partiti – la DC e il Pci – condividono i valori della libertà e della democrazia perché non operare per l’affermazione di quei valori? Questa è una fase in cui il socialismo reale sta dimostrando il suo fallimento; per lo stesso Berlinguer il comunismo ha perso la sua carica rivoluzionaria. Ognuno – DC e PCI – può restare nella propria valutazione della politica, ma le rotaie ti possono portare insieme alla stazione. Le rotaie non si incontrano mai, possono essere utili per raggiungere la stazione. Il PCI prende il 34 per cento dei voti: possiamo ignorarlo secondo te? Oppure scontrarci nelle piazze?”.

 

Una tesi forte e di difficile lettura per gli elettori democristiani.

Sottolineó: “Un binario che vuole andare alla stessa stazione ha due rotaie. Noi abbiamo due visioni diverse. Vedremo se si impegnano nella difesa di alcuni valori fondamentali, quali la libertà di opinione e di stampa di democrazia”. La scomparsa di Moro e Berlinguer ha segnato la fine di una prospettiva politica che fu denominata compromesso storico. Ha segnato una grave perdita pure la morte di Papa Montini che fece notevoli interventi per salvare la vita a Moro. Pronunciò la famosa frase: “Dio, mi domando perché non hai voluto ascoltare la mia voce”.

 

Abbiamo parlato della GIAC il movimento giovanile della azione cattolica lo hai frequentato?

Poco, perché, nel 1952 dopo il contatto con il vescovo del quale ho parlato, mi sono impegnato nell’attività politica e dell’intesa universitaria a Roma.

 

Terni, l’Umbria, l’industria, le vicende dell’acciaieria, le privatizzazioni chi difende oggi questi interessi rispetto alla crisi della rappresentanza?

Micheli ha difeso sempre Terni e l’Umbria a spada tratta. Però due cose non le ha potute spuntare. La  prima, far entrare il nostro territorio nelle aree svantaggiate del Centro Nord per gli interventi della Cassa del Mezzogiorno. Ci si poteva arrivare perché vi inserirono parte della provincia di Rieti. L’amarezza fu poi più cocente quando fu nazionalizzata l’energia elettrica e la società Terni venne privata del suo enorme patrimonio di centrali. Ci furono Lombardi e Nenni che dissero “se non prendiamo anche il settore elettrico della Terni,  noi facciamo la crisi in quanto l’Enel senza la Terni non parte”.

 

Fu fatto un gravissimo errore in tale occasione.

Ci fu un emendamento Anderlini – Radi, purtroppo, accolto dalla maggioranza e Lombardi e Nenni diedero avvio alla nazionalizzazione e al centro sinistra. L’emendamento venne inserito nel testo dell’articolo 5,  comma 5, nella seduta della commissione speciale del 14 luglio 1962. Gli stessi presentatori Anderlini, Radi, Riccardo Lombardi, Battistini, Isgró, Oronzo Reale presentarono in Aula un ordine del giorno sulla destinazione dell’indennizzo allo sviluppo della siderurgia della soc. Terni il 7 agosto 1962 accolto dal ministro dell’industria Emilio Colombo. La questione della situazione economica dello sviluppo dell’Umbria fu esaminata con specifiche mozioni nel febbraio 1960.

 

Dovevano fare la “Irizzazione”.

È un discorso troppo lungo. Dico solo che salvarono la Fiat, la Edison e altri perché erano autoproduttori. Significava che l’energia prodotta, per la maggior parte era consumata dall’azienda stessa, così come avveniva per la soc. Terni. L’altra amarezza, legata a questa vicenda, riguardo all’indennizzo dei 600 miliardi che dovevano andare alla società Terni. Che ti fanno il governo, i socialisti e l’Iri? Fanno la fusione tra la soc. Terni e la Finsider e i  600 miliardi finiscono a Taranto. Diventai  matto per trovare una o più azioni della soc. Terni e contestare in sede legale la fusione che era palesemente truffaldina. Le azioni erano introvabili. Hanno fatto di peggio: presi 600 miliardi hanno rincorporato la soc. Terni che è diventato operativa soltanto nel settore siderurgico.

 

Attualmente l’economia ternana come va? Prima era una one town company.

Ha avuto alti e bassi. Adesso sembra che l’acciaio della soc. Terni  sia di altissima qualità e valore. Feci una conferenza al Rotary di Terni nel 1992 e  dissi: “Attenzione che se la globalizzazione si affema senza un governo mondiale, con poteri forti nel mondo della finanza e dell’economia industriale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Ci sarà una concorrenza non più solo italiano ed europea, ma anche mondiale e sarà dominata dalla finanza”. L’ acciaio cinese e coreano vale la metà rispetto a quello dell’attuale Acciai Speciali Terni, ampiamente più diffuso in Europa. Questo non va bene nella concorrenza mondiale. Solo chi ha il potere politico può influire.

 

Chi difende oggi il territorio con questa legge elettorale che ha ridotto la rappresentanza e, in Umbria, ancora di più?

Nessuno. Stanno facendo cose assurde. La Regione, prima sempre dominata dei comunisti, con i democristiani che si accontentavano delle briciole, ora è  ferma. Il mondo cattolico non ha più voce in capitolo. Non c’è un leader in questa regione, né cattolico né laico. Il  professor Luca Diotallevi, Presidente dell’Azione Cattolica di Terni in un articolo di fondo del 27 ottobre 2022 sul Il Messaggero parla di geopolitica. Lui è un uomo di fede, ma la politica non la vuole fare perché ritiene che non esistano le condizioni. Le condizioni però non devi aspettare che esistano, le devi creare. Si sta battendo per una presenza diversa, ma è difficile. L’Umbria non ha nessuno che la rappresenta al governo oppure nelle sedi decisionali. C’è Arvedi, il nuovo proprietario della A.S.T che sembra innamorato di Terni. Speriamo bene!

 

La grande azienda siderurgica ternana, verso la fine del secolo scorso era in crisi.

Nel 1994 ero presidente del Rotary che aveva un certo peso propositivo nella comunità locale. Quando la Finsider decise di vendere l’acciaieria che perdeva, ogni anno, diversi miliardi, organizzai un convegno al cinema Fiamma. Parteciparono tutti i principali operatori del settore dell’acciaio: Arvedi, Marcegaglia, Agarini, la Thyssen Krupp. Ed anche il ternano Enrico Micheli, allora direttore generale dell’Iri. L’azienda è stata venduta per 600 miliardi, ma valeva di più perché l’IRi aveva fatto, nell’azienda, notevoli investimenti.

 

Esistevano altre proposte di rilancio?

C’era un progetto per fare una finanziaria con partnership tra diversi investitori industriali e cioè Riva, Falk, Agarini,  Thyssen Krupp. Sollecitai perché nella operazione ci fosse la presenza della comunità locale, ternana e umbra. Si dissero aperti alla proposta, ma, a Terni, non c’è la cultura della leadership.

 

Stai ponendo ancora molta attenzione alle vicende attuali ed a quelle del passato.

La mia fortuna è stata che portai l’Istituto per il credito sportivo a un elevato livello finanziario e operativo. Quando fu approvata la legge che aumentava il contributo del Totocalcio (c’era Spadolini), lo feci con un’azione complessa. Invece che al fondo contributo e interessi, il  maggiore contributo veniva destinato al patrimonio, per cui le capacità di emissione obbligazionaria aumentarono enormemente. Avevo portato una norma a stabilire che il Credito Sportivo poteva emettere obbligazioni fino a 50 volte il suo patrimonio. Una potenza finanziaria enorme. Per esempio se il montepremi del Totocalcio era di 35 milioni, il 3 per cento dell’Istituto era calcolato non su 35, ma su 90, in quanto il montepremi settimanale era un terzo dell’incasso totale del concorso. Ricordo che scendendo le scale del Senato dove ero  andato a spiegare queste cose, mi chiedevano: “Che cosa ci vuoi fare con tutti questi soldi?”

 

Insomma, quasi una rivoluzione.

La mia aspirazione era ampliare l’intervento del Credito Sportivo all’edilizia turistico – alberghiera. In futuro con quel fiume di denaro si poteva finanziare anche l’edilizia abitativa popolare. Quando celebrammo il  50º anniversario dell’Istituto al Teatro Eliseo di Roma, il nuovo presidente – bontà sua –  disse: “Abbiamo l’onore di avere tra noi chi ha fatto il Credito Sportivo, non il sottoscritto”. Scoppiò un grande applauso che mi commosse. Ho lasciato, quell’incarico e volevano farmi fare il direttore generale. Dissi a Carraro che dopo 16 anni, avevo  bisogno di altre motivazioni professionali. A me piace più creare e attivare iniziative che gestire per tanto tempo quelle realizzate anche con successo. Sono tornato a Terni a fare politica come Assessore comunale.

 

Quella attuale è l’etá delle soddisfazioni familiari.

Ho fatto studiare i miei figli perché non volevo che stessero a Terni per avere né i vantaggi e né gli svantaggi. Un figlio ha frequentato Harvard, fa l’avvocato internazionale, scrive di alta finanza. Un altro  è astrofisico e sta in Brasile. Ha scelto una strada piuttosto “gandhiana” quella di stare dalla parte dei poveri. Ce l’ha con il mondo ingiusto e pieno di disuguaglianze. Infine una figlia che ha vissuto in Svizzera poi a Milano. Per effetto della globalizzazione ho figli sparsi per il mondo. Figli e anche nipoti – cinque – che hanno studiato  a Parigi, Londra, Cina e Canada.

 

Si potrebbe dire una famiglia internazionale.

A Natale, ci riunivamo prevalentemente all’estero, tra Miami e New York. Ora però la mia età mi ha fatto dire basta: incontriamoci dalle mie parti.

Maurizio Eufemi

Competitività, il rilancio del Sistema Paese.

Spunti da un dibattito sul libro Antonio Fazio e i fatti italiani

 

L’ex Governatore di Bankitalia ricorda i travagli che precedettero l’entrata nell’euro.

Articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 29 novembre 2022

 

Sistema Paese” è stato il tema dominante di un incontro di studio alla Lumsa tra esponenti di culture ed esperienze diverse come Bonanni, Papi, Di Taranto e Bechis. L’occasione è stata la presentazione del libro di Ivo Tarolli su Antonio Fazio e i fatti italiani. Un libro che illumina vicende di un passato non troppo lontano e che sono ancora vive per gli effetti che hanno prodotto sul sistema economico.

 

Era uno scontro di poteri”, come ha detto Franco Bechis, “e la storia dá ragione a chi aveva visto giusto”. Il prof Di Taranto si è soffermato sulla assenza di regole scientifiche per i due parametri europei del deficit al 3 per cento e del debito al 60 per cento sul Pil, così come sia cambiata la politica europea sugli eurobond perché molti protagonisti, come Angela Merkel, hanno lasciato la politica. L’Italia era un terreno di investimenti (e di conquista ndr) per le banche estere per la forte propensione al risparmio del nostro Paese.

Enzo Paci ha guardato agli scenari geopolitici internazionali soffermandosi sulla forza della Cina, con quote rilevanti del commercio mondiale e sulle lotte per i minerali rari e le terre rare che sono le materie prime della transizione, sulla debolezza degli Stati Uniti che si sono riempiti di finanza e svuotati di lavoro e la spinta alla ristrutturazione interna che è alla base dello scontro tra Repubblicani e Democratici con una presenza di una Unione Europea frazionata dai sovranismi.

 

L’euro è servito a paesi con grande disciplina ma richiede interventi sulla giustizia, sulla flessibilità, sulle professionalità, sulle infrastrutture, sulla università in connessione con il mondo produttivo e quello della istruzione tecnica con il mondo del lavoro. Ha portato la sua esperienza diretta di manager dell’industria privata e di aziende pubbliche delle Ppss che hanno saputo trovare successo con un nuovo modello di relazioni industriali nel rapporto tra lavoratori, manager e azionisti.

 

Raffaele Bonanni ha richiamato, insieme alla critica per misure assistenzialistiche come il reddito di cittadinanza, misura contro il buon senso, la necessità di premiare la produttività del lavoro come direzione di marcia per lo sviluppo in cui il lavoro sia protagonista insieme agli altri fattori produttivi.

A questo punto fa notare che ci sono 400-500 miliardi di pil tra area cassa depositi e prestiti, municipalizzate e parte considerevole a gestione diretta della PA che non fanno produttività.

 

Sullo sfondo le teorie economiche che guardano alla dottrina sociale della Chiesa, muovendo dalla tomistica fino a Keynes e ai diffusori del suo pensiero più autentico, un mondo lontano dalla ubriacatura del liberismo selvaggio e dalla globalizzazione del profitto. Il Panel ha posto le premesse alla entrata in scena di due assoluti protagonisti come Paola Savona e Antonio Fazio. Un passato di entrambi che illumina il presente.

 

Paola Savona sottolinea come dalla lettura dei grafici con indici che piegano in giù, c’è però la Bilancia dei Pagamenti negli ultimi sette anni sempre strutturalmente in attivo, una cosa in passato, con Fazio, che abbiamo sempre sognato e mai ottenuto. Se il tema è la competitività il giudizio non può essere negativo e tranchant. Se il resto del mondo è cresciuto, noi non siamo andati indietro. Fare attenzione perché le cose non vanno così male; non si fanno gli investimenti perché manca una sufficiente fiducia per impegnare la imprenditoria privata mentre ci sono enormi pressioni per impegnare la imprenditoria pubblica in un contesto in cui sono arrivati due problemi esogeni: l’inflazione e il debito pubblico. L’inflazione non può essere affrontata con gli strumenti classici con la stretta monetaria o fiscale ma con un giusto mix evitando il rischio di sbagliare la dose per non aggravare i problemi. Il recupero salariale dovrà avvenire in un modo o in un altro.

 

La storia ci insegna che l’inflazione ha eroso i risparmi e il potere di acquisto del patrimonio immobiliare a disposizione nell’equilibrio tra politica monetaria e attività fiscale devono entrare i salari. Come restituiamo la fiducia? Si possono mettere insieme le esigenze della imprenditoria capace di competere mantenendo surplus nella Bilancia dei pagamenti. Siamo uno dei tre paesi che ha avanzo nelle partite correnti. Significa che viviamo al di sotto delle nostre risorse. Il resto del mondo considera il contrario. Non è vero! Ci rappresentiamo all’estero molto male con gli strumenti di comunicazione e politici.

Larga parte del nostro risparmio defluisce all’estero e non riesce a saldarsi con la volontà di crescita. Il primo modello econometrico della Banca d’Italia e altri strumenti non funzionano più con la intelligenza artificiale avendo ignorato l’affermarsi di strumenti virtuali come i cryptocurrencies e molte altre forme. Strumenti che sono legati ai derivati, cioè il Nulla che garantisce l’Incerto, perché le formule per la valutazione di mercato dei derivati non esistono. Il nostro maestro Guido Carli ci insegnava che i ritardi delle decisioni costano di più di decisioni sbagliate prese immediatamente.

L’annuncio che le banche centrali interverranno per dare liquidità e non si tirano indietro di fronte alla situazione di crisi sistemica consentirebbe di risparmiare moltissimo di fronte a una crisi come quella affrontata nel 2008 quando si decise di portare avanti la decisione e si finì per far fallire Lehman Brothers e salvando il resto, investendo cifre gigantesche. Proprio quelle che Carli avrebbe detto erano eccessive rispetto a ciò che sarebbe costato l’intervento immediato per rispondere alla possibilità di rimborsare il risparmio che incautamente si è infilato in una situazione con il consenso delle autorità.

Per l’inflazione bisogna approntare programmi di intervento.

 

Poi entra in scena Antonio Fazio il matematico, l’economista, quello che dopo gli studi al Mit di Boston con grandi maestri, su spinta di Guido Carli ha realizzato in Banca d’Italia il primo modello econometrico e lo fa con il rigore dei numeri, con una lettura profonda dei dati, per cogliere in ogni indicatore, gli andamenti e i movimenti dell’economia. Parte dal lontano 1974, dalla crisi valutaria del primo shock petrolifero con la quadruplicazione dei prezzi del petrolio, Carli e Ossola decisero di dominare la situazione del mercato dei cambi con la missione a Washington con Paolo Savona, Carlo Santini e Stefano Lo Faso, presso il FMI camuffata da una partecipazione ad una conferenza sull’energia. Vi fu un uno scontro lungo e durissimo tra le delegazioni, con la richiesta di svalutare fortemente la lira e di mettere a posto i conti pubblici. Con la regola che al dinner non si discuteva al primo piatto, ma solo dopo. Alla fine accettano, solo dopo molte simulazioni nonostante il jet lag, con il modello econometrico di BI, fu possibile arrivare alla approvazione del nostro Piano e alla lettera di intenti firmata Guido Carli.

Il salvataggio dell’Italia e della lira funzionó alla perfezione. Furono messi dei vincoli molto stretti e per le banche che non li avevano osservati, Carli fece un cicchetto a 3 – 4 banchieri. C’era un clima molto freddo e i membri della delegazione comprarono un colbacco. E qui Antonio Fazio non può fare a meno di ricordare, con orgoglio, qualche tempo dopo i tecnici del FMI gli proposero di andare a lavorare da loro ma rifiutó facendo sempre prevalere il sentimento di preferire servire le Istituzioni Italiane come la Banca d’Italia, insieme all’attaccamento profondo per i legami familiari.

Questo discorso si è ripetuto con il governo Andreotti, quando si doveva fare un intervento pari al 4 per cento del Pil. Anche allora la simulazione con il modello funzionò. Abbiamo alle spalle un certo numero di frenate dure che hanno funzionato, però bisogna anche costruire. Ho raccontato in altre occasioni la stretta dell’anno 2005 con lo spread a 900 punti. I titoli decennali tedeschi rendevano il 5,5 per cento i titoli italiani arrivarono a rendere in alcuni giorni il 14, 5 per cento. Chiamai i banchieri ed esortai a comprarli. Fecero un guadagno. In altre occasioni c’è stato qualche fenomeno che hanno fatto dei macelli politici.

Fazio non può neppure fare a meno di rilevare che per l’Italia avere perso la Banca centrale nazionale è un impoverimento delle capacità di intervento rispetto ai passato.

Poi ripercorre alcuni passaggi del 1995-1996 con l’azione fatta per fermare l’inflazione sul percorso di entrata in Europa monetaria, sulla credibilità di una banca centrale. Fu un punto rilevante. ” Ero preoccupato sui rischi di una stretta che avrebbe fermato l’economia. Con Ciocca parlammo delle attese dei mercati sulla riduzione dei prezzi per rilanciare l’economia e dell’influenza della teoria delle aspettative razionali rispetto all’andamento dei prezzi che erano intorno al 6 per cento anche se non c’erano le condizioni per partecipare. Vincemmo. Cominciammo a vedere che le previsioni diminuivano fin poco sopra il 5. La crescita degli investimenti e dei consumi non fu toccata. “

Ero considerato euroscettico

Poi Fazio ricorda le trattative sulla moneta comune.

Si resta in 11 paesi dopo le auto esclusioni di Regno Unito Danimarca e Svezia. Dissi : non posso firmare il rapporto e che se il rapporto diventerà pubblico e l’Italia non è in grado di partecipare domani salta la lira e salteranno appresso il franco qualche altra valuta, salterà il sistema.

Verso le 23, William Duisemberg disse mettetevi d’accordo. Uscì la dizione l’Italia farà gli sforzi per raggiungere i rapporti di convergenza europei. Vengo chiamato in Parlamento.

Dissi: “Non ci sarà un terremoto monetario, ma ci sarà un bradisismo!”

Poi Fazio con una lettura approfondita di numeri e di tabelle analizza la situazione della competitività dell’industria italiana prima e dopo l’entrata nell’Euro e offre quanto già affermato nel marzo 1997, una sintesi lungimirante, ma inascoltata, eravamo di fronte ad un bradisismo economico, l’abbassamento lento e progressivo del suolo come a Pozzuoli!

Non senza una amara ironia evidenzia come Il debito pubblico è passato da 106 a 136 per cento del Pil con i consigli della Commissione! Spesso le indicazioni al taglio dei disavanzi di traducono in tagli al Pil!

Ma Antonio Fazio non si ferma. Pubblicherà prossimamente un saggio di 40 pagine: “Le conseguenze economiche dell’Euro! “, ci saranno molti argomenti che oggi sono stati anticipati.

Poi si sofferma su ultimo dato, quasi come un saggio ammonimento. Il problema della scarsa crescita è un problema dell’Europa. Ricorda sul piano storico le vicende del Gold Standard e le conseguenze economiche di Winston Churchill quando furono delineate come perdita di competitività. Molti paesi rimasero per orgoglio con i cambi ancorati al 1913 fino al 1938. Questo è il fenomeno del trasformarsi della crisi congiunturale del 29 nella prolungata crisi degli anni 30 rimanere con il cambio del 1913.

Poi nel 1944 verranno gli accordi di Bretton Woods.

Un invito a guardare la storia per evitare errori dannosi e pericolosi!

 

Maurizio Eufemi – Già senatore nella XIV e XV legislatura

Speranze e declino. La Sicilia degli anni Ottanta

Mannino e Buttafuoco sul libro di Calogero Pumilia e Vito Riggio

 

Articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 22 Novembre 2022

 

Chi ha avuto l’occasione di partecipare al dibattito sul libro di Calogero Pumilia e di Vito Riggio presentato al Centro Studi Americani può dire di essere uscito con la consapevolezza che il confronto è stato di grande livello tra personaggi con storie diverse all’interno della Dc, ma convergenti nella ricostruzione di vicende siciliane che si intrecciano con quelle nazionali.

 

Ne hanno parlato con profondità di analisi gli autori, con il prefatore Calogero Mannino e Pierangelo Buttafuoco

 

Sullo sfondo l’interrogativo di Marco Follini, presente in sala, se i Dc abbiano saputo raccontare la storia oppure no! Poi ci sono i fatti. Si dice che lo storico è il becchino della storia. V’è stato un attacco sistematico dei media con i due processi Andreotti e Mannino in Sicilia e Tangentopoli in Italia.

 Il maxiprocesso di Palermo si è concluso con successo con la condanna del Gotha mafioso; eppure, nonostante la vittoria dello Stato viene fatto il processo alla Dc che governava il Paese. Eppure, quella vittoria è stata possibile perché la Dc e il Pci presentano documenti paralleli sulle conclusioni della commissione antimafia del 1979 che delineano la strategia antimafia. La convergenza viene meno per il congresso Dc del preambolo che privilegia la scelta dell’intesa con i socialisti e la fine della solidarietà nazionale. Poi venne la legge Rognoni-La Torre che recepisce quelle indicazioni. L’altro elemento è la nomina di Giovanni Falcone alla Direzione generale Affari Penali. 

In un tempo in cui le fiction si trasformano in verità manipolate finendo per prevalere sulla realtà e sui fatti storici, l’attenzione è stata posta, con un orgoglio misurato, sui successi nella lotta alla Mafia che dopo la estromissione di Ciancimino al congresso di Agrigento del 1983, hanno visto la stagione del rinnovamento politico e morale di quella che fu definita una “primavera senza frutti” con la celebrazione del maxi processo e nel pieno sostegno a Giovanni Falcone, con le leggi antimafia sulla custodia cautelare (con l’opposizione della Pds e della Rete ndr) e la istituzione della direzione nazionale antimafia.

Poi verranno i due processi penali e politici di Andreotti e di Mannino; fatti ed episodi vengono ricordati e documentati. Eppure il mainstream racconta una storia diversa che i protagonisti hanno rivendicato! Teoremi – non va dimenticato – che contribuirono alla distruzione del sistema politico e in definitiva alla sconfitta della democrazia.

Vengono rammentati gli attacchi e gli insulti a Leonardo Sciascia con termini mafiosi dei giovani del coordinamento antimafia. L’attacco mediatico a Giovanni Falcone compreso quello nel CSM, con accuse che lo isolavano e lo mettevano a rischio. Poi tutto si tramutò in realtà con la strage di Capaci!

Accuse che lo avevano fatto soffrire fino alle lacrime, come testimoniò Cossiga. La fotografia di Palermo dopo anni di governo dello stesso sindaco è la contronarrazione sul deficit di sviluppo della città con vuoti incolmabili che la società civile delusa e distratta fa fatica a vedere.

Nel dibattito Pierangelo Buttafuoco, giornalista, scrittore, letterato siciliano dà il meglio di sé come lettore critico, con una rappresentazione effervescente e con un indirizzo metaforico. Da siciliano racconta la Dc che vedeva nei paesi, nelle parrocchie, nell’Azione Cattolica, nelle Acli, nella espressione del potere con cortei di vetture di esponenti politici locali che si mobilitavano per essere presenti ai comizi dei leader.

Le pagine su Leoluca Orlando sono degne di un romanzo e il letterato Buttafuoco traduce tutto in una visione cinematografica, immaginaria di grandi registi del passato come l’episodio della raccomandazione di Lima al sindaco di Palermo sul traffico cittadino oppure l’aneddoto dell’ambulanza che giunge a soccorrere le fantasticherie sulle ambizioni personali dei protagonisti. Non può, poi, fare a meno di ricordare la fase della narrazione che ha visto sulla scena anche il Presidente Crocetta.

La stagione della antimafia ha finito per mettere la maschera della Mafia sulla Dc colpendo anche un grande Presidente come Rino Nicolosi con i suoi progetti innovativi. La vocazione liberale di Buttafuoco non può fare a meno di rappresentare il dilemma che attanaglia un esponente Dc di fronte all’avvento di Berlusconi e al conseguente dilemma elettorale con un lapidario “Un Dc di sinistra tace anche quando mente!”

Ho raccontato un tardo pomeriggio di interesse letterario e politico. Un libro che merita di essere letto nella sua interezza.

 

Maurizio Eufemi

Calogero Mannino, enfant prodige della politica

 

"Rileggere i discorsi di Moro". Con il suo assassinio si volle sconfiggere la capacità, il ruolo della Dc di mediare, fare sintesi. Quando Vassalli comunicò la scelta di Falcone direttore degli Affari penali, Andreotti domandò: come nasce questa cosa? Risposta di Vassalli: La vuole Cossiga Nazionalizzare l’energia elettrica fu un errore gravissimo. Bastava irizzarla. Quando Gorbaciov mi ringraziò.


intervista di Maurizio Eufemi tratta dal giornale online "beemagazine.it" del 2 novembre 2022
 

Oggi parliamo con Calogero Mannino, enfant prodige della politica, essendo stato eletto giovanissimo in tutte le istituzioni, da quelle locali a quelle nazionali. Leader politico della Dc, deputato e senatore, più volte ministro della Agricoltura, dei Trasporti e della Marina Mercantile. Non parliamo delle sue drammatiche vicende personali, della tragedia giudiziaria che lo ha visto vittima di un trentennale calvario, neppure della sua profonda cultura musicale o dei suoi hobby enologici coltivati nell’ amata Pantelleria, ma di Politica, quella vera, autentica, di un impegno culturale e politico lungo tutta una vita rileggendo gli avvenimenti attraverso i suoi ricordi.

 

Partirei da molto lontano. Il primo esordio in politica?

La mia avanzata adolescenza, gioventù, si caratterizza per la militanza attiva nella Gioventù italiana di azione Cattolica (Giac) all’interno della quale assumo delle responsabilità, sia a livello diocesano sia regionale. L’esperienza della Giac, in una fase storicamente molto importante, quella del trapasso dalla Presidenza di Carlo Carretto e Mario Rossi alla presidenza di Enrico Vinci.

 

Con tutte le polemiche e le tensioni che c’erano state negli Anni Cinquanta!

Sì, con tutte le polemiche, con quel fervore di idee e con quell’entusiasmo, la partecipazione attiva a tutte le forme di organizzazione della vita e dell’Azione Cattolica. Ricordo proprio sotto questo profilo, con qualche nostalgia, le occasioni molteplici di conoscenza, di esperienza, e di formazione, strettamente legata a questa è l ‘esperienza della Fuci. (Federazione universitari cattolici italiani)

 

A Palermo?

Sì, la Fuci aveva a Palermo una presenza fortemente caratterizzata. Dovrei ricordare tutti i grandi professionisti e i politici che sono usciti dalla Fuci di Palermo.

 

Chi ricorda di quel periodo?

Ferdinando Russo e Lello Rubino che sono gli esponenti politici di qualche anno più grandi di me, con i quali compiró l’esperienza politica che porta dentro la Democrazia Cristiana. Siamo  già al 1956 – 58 quando la Segreteria di Fanfani,  rompendo l’equilibrio della classe dirigente democristiana che si era formata attorno a De Gasperi,  provoca l’immissione di giovani energie. Noi siamo più giovani, siamo più ragazzi, ma siamo al seguito di questo movimento che si va formando e che porta al rinnovamento generazionale delle elezioni politiche del 1958. Il Movimento Giovanile della Dc diventa la piattaforma di accoglienza di tutte queste esperienze che si sono formate nella Giac e nella Fuci. Il movimento giovanile guidato nel passaggio che va da Franco Malfatti a Celso de Stefanis.

 

Chi ricorda in particolare?

Vorrei ricordare tutti gli amici che si sono formati e costituiti politicamente come soggetti importanti nella vita e nella storia della DC. È un dovere ricordare tantissimi nomi, tantissime esperienze, ma io voglio ricordare soprattutto il clima culturale in cui attraverso l’arrivo di Fanfani alla Segreteria della Dc, la formazione di quella classe dirigente che si richiama a una corrente, Iniziativa Democratica,  rappresenta però la saldatura con tutte queste esperienze culturali che dal dossettismo e accanto al dossettismo – che non è l’unica esperienza all’interno del mondo cattolico, sia  della Giac sia della Fuci – e che è una delle più importanti e una delle più attive. Questo è il paesaggio all’interno del quale vado costituendo e organizzando il mio impegno politico. In quello stesso contesto, quando poi terminati gli studi universitari, siamo nel 1961, passo all’Università di Torino come assistente volontario di Siro Lombardini nella cattedra di Politica Economica, insieme a Francesco Forte, c’è un salto di livello nella mia formazione, nella costruzione, nel mio essere soggetto di pensiero politico e quindi di diventare in qualche modo un soggetto attivo. È il tempo in cui inizio a collaborare anche con la Cisl.

 

A Torino?

Sì, si, ma intanto in Sicilia, perché non perdo mai i contatti, è diventato deputato Peppino Sinesio che viene dalla Cisl e quindi quando sto a Torino stabilisco rapporti con Donat- Cattin e attraverso Donat- Cattin, proprio perché collaboro con Siro Lombardini, divento un collaboratore di Vincenzino Saba.

 

Che poi diventerà presidente della Fondazione Pastore?

Sì, in quel tempo Giulio Pastore è ministro dell’intervento Straordinario nel Mezzogiorno. Vincenzo Saba era il dirigente dell’ufficio formazione del centro studi della Cisl.

 

La Cisl  era molto attiva a Torino?

Sì. Io mi vado collocando nell’arco di rapporti anche personali. Non posso non ricordare,  anche per l’esito purtroppo incidentato della sua vicenda politica, Celso de Stefanis, che fu dirigente del movimento giovanile della Dc con le caratteristiche di un vero e proprio leader,  di un vero e proprio caposcuola, di un vero e proprio capofila. Questa è la stagione in cui nel Movimento Giovanile Dc c’è una frangia; ricordo Franco Mazzola e tante persone che non ci sono più. È appena uscito Bartolo Ciccardini, ma rimane collegato a quel livello di esperienze politiche. Altri amici che non ci sono più. Arriviamo alla fine di questo percorso in cui c’è Mario Tassone, Gilberto Bonalumi.

 

E Giuseppe Gargani!

Il Vescovo di Agrigento nel 1960, un vescovo molto, molto forte, importante nella storia della Chiesa Italiana, è Mons GiovanBattista Peruzzo, un autentico Maestro di vita,  innanzitutto religiosa, di vita morale, ma al tempo stesso un animatore di esperienze politiche. È un Vescovo che già alla fine degli Anni Trenta ha introdotto nella organizzazione degli studi in seminario l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa. Siamo ancora in un tempo molto primitivo della elaborazione della dottrina sociale della Chiesa. Il documento più importante con la Rerum Novarum e la Quadrigesimus  Annus, però Mons Peruzzo, piemontese, nominato vescovo di Agrigento dopo essere stato ausiliario di Mantova. era stato mandato prima in Calabria, poi ad Agrigento perché a Mantova era stato ucciso dai fascisti un giovane dirigente dell’Azione Cattolica e dirigente del Partito Popolare e il vescovo ausiliario era insorto, si era ribellato a quel triste eccidio. Aveva preso una posizione molto forte, polemica nei confronti dei fascisti, del movimento fascista nella fase avanguardista, quindi era un Vescovo di carattere e di tempra molto forte.

 

Era anche un formatore?

Nel 1960 mi obbliga a candidarmi alle elezioni provinciali. Lo ricordo ancora con devozione e affetto. Vorrei dire anche con qualche intento didattico, Mons Peruzzo mi manda a chiamare in Vescovado e mi dice “allora sei candidato nella lista della Dc”. Rispondo “ma eccellenza non avrei alcuna speranza di essere eletto”. “Tu non devi essere eletto; tu devi stare in lista per essere un canale dei giovani che devono scoprire la Democrazia Cristiana e la devono votare”. Il risultato invece fu straordinario perché fui eletto secondo in provincia di Agrigento quindi con un suffragio quasi clamoroso,  la sua sfida era stata  in una lista per essere un canale di dialogo con i giovani elettori. Ecco l’importanza, la sua visione molto didattica; come tutti i grandi maestri non rinunciava ad essere un docente di piccole esperienze. Esperienze meno rilevanti che risultavano le più significative.

 

Quindi con la elezione alla Provincia termina la esperienza alla università di Torino alla facoltà di economia e commercio in Piazza Albarello?

No, continua ancora per alcuni anni. Tra l’altro, coltivavo la speranza di essere ammesso in uno dei rari concorsi per assistente ordinario, occasione che invece non mi si presentò e in un tempo successivo dovendo fare i conti con la vita, cominciai a partecipare ad alcuni concorsi, li vinsi quasi tutti, poi scelsi l’Amministrazione Finanziaria, dove mi calai,  perché era giusto,  come pretendeva mio padre. Ricordo a proposito uno scontro con mio padre. “Io non ti impongo di non fare politica, perché non potrei, però ti impongo innanzitutto di trovarti un lavoro, una sistemazione dove la tua vita non dipenda dalla politica anzi dimostri di essere autosufficiente e autonomo. E vinsi  il concorso nell’ Amministrazione Finanziaria!

 

Dopo la esperienza alla provincia?

Si presentarono le elezioni regionali del 1967. In quel tempo gli amici della CISL erano entrati in arco di collaborazione politica con la sinistra di Bbase, anzi il titolo Forze Nuove è il titolo che riassume questa nuova aggregazione della sinistra Dc componente Cisl, una rinnovamento democratico che faceva capo e riferimento a Donat -Cattin e la componente Base faceva riferimento a Albertino Marcora; due leader, due maestri della vita politica italiana, due combattenti e anche due eroi. Proprio voglio dirlo ricordando di Donat -Cattin, la tempra di sindacalista moderno, di sindacalista capace di affrontare anche il confronto con la CGIL, e con il Partito comunista su un terreno non più  caratterizzato dal ricorso al populismo, ma sul terreno della capacità di interpretare le linee e le esigenze del mondo del lavoro in rapporto al mondo produttivo, al mondo industriale, e anche al mondo agricolo.

 

Quindi attento ai problemi e al dinamismo della società!

Quindi un sindacalismo non piu paternalista, ma un sindacalismo altamente politico, altamente maturo. La battaglia di Donat- Cattin dentro il sindacato era una battaglia anche difficile perché esistevano altre linee interpretative del ruolo e della funzione sindacale, però io mantenendo sempre il rapporto con l’ufficio studi della Cisl ormai ero nell’agone politico. D’altra parte, avendo un lavoro autosufficiente, compatibilmente con il lavoro, operavo in politica. Si presentarono le elezioni regionali del 1967. Nel 1967 il segretario nazionale della Dc era Mariano Rumor. Ricordo che Donat- Cattin e Peppino Sinesio erano orientati a lanciarmi nell’agone elettorale. Avevo maturato la mia disponibilità, ma certamente non era facile, ero molto giovane. La Dc in quel tempo aveva delle presenze politiche molto forti, per esempio a livello delle elezioni regionali in provincia di Agrigento gli esponenti Dc erano tutti di primo piano, di grande livello. Deputati regionali erano stati Peppino La Loggia, poi Presidente della commissione Bilancio alla Camera, l’On Angelo Bonfiglio che verrà anche in Parlamento nel 1983, quindi esponenti politici molto qualificati. Per la verità la Dc di Agrigento e quella siciliana non mi inclusero nella lista e ricordo per darne merito, per sottolineare il valore di certe leadership nella Dc, l’on. Rumor segretario nazionale della Dc il giorno in cui era riunita la Direzione per approvare le liste della Sicilia chiamando la lista di Agrigento per prima per ragioni di ordine alfabetico, in questi termini testuali, il segretario organizzativo  allora era Nino Gullotti, un leader politico, molto temprato soprattutto ad esercitare qualità organizzative e forte anche della sua inclinazione e natura diplomatica, però non ero stato inserito in lista né ad Agrigento né a Palermo.

Allora l’On Rumor chiamando la lista di Agrigento disse “Gullotti introduci la lista di Agrigento. Mannino è in lista; ovviamente è il numero 1”.Non ci fu discussione. A Gullotti non fu possibile dire “ma no la proposta della commissione provinciale, della commissione regionale … etc perché Mariano Rumor aveva deciso che Mannino fosse in lista. Mariano Rumor era il leader dei Dorotei, Donat -Cattin non gli aveva neppure parlato. Aveva fatto un cenno. “Non vorrei che ci fossero delle difficoltà. Il problema noi lo porremo”. Rumor anticipò tutto. C’erano le correnti, ma non erano paratie stagne che non comunicavano tra di loro.

 

Come possiamo valutare l’atteggiamento di Rumor verso il movimento giovanile e il pluralism interno?

Un segretario come Rumor guardava all’insieme delle esperienze, dei valori delle persone delle rappresentanze che la Dc doveva raccogliere. E Rumor non si faceva mancare l’occasione di mettere accanto a grandi personaggi politici come Bonfiglio, un ragazzo di 25 anni appena. Lo sottolineo per dire come in quel tempo già molto difficile,  perché stiamo in una stagione di centro sinistra avanzato con il Governo presieduto da Moro con rapporti sempre più difficili, conflittuali contraddittori con il Partito Socialista con una società italiana , siamo nel 1967 che accenna già e anticipa quello che esploderà l’anno appresso con il 1968.

E con intelligenza politica anticipatrice Rumor indica nella candidatura di un giovane di 25 anni l’apertura della Dc al mondo giovanile la capacità di raccordarsi alle giovani generazioni. Una battaglia complessa quella della mia elezione. Poi accadono le cose paradossali della vita politica. Fui addirittura il primo eletto con diecimila voti di differenza sul secondo che era un personaggio politico importante:  l’on. Angelo Bonfiglio, peraltro in quel tempo era l’ assessore regionale ai lavori Pubblici. Quindi ero il piccolissimo Davide senza che Bonfiglio fosse Golia, perché era una personalità politica di grande rilievo però rappresentava il potere, il potere tradizionale, tra l’altro già suo padre era stato deputato regionale e presidente della Assemblea Regionale siciliana, quindi era un mondo consolidato, un mondo sociale,  un ceto integrato dentro la Dc contro un giovane outsider, un giovane che rompeva le fila.

Quello che esploderà nel 1968 sul versante che i partiti politici non furono in condizione di potere interpretare perché, non dobbiamo dimenticarlo,  il problema più importante era la linea che seguiva il PCI, di preservazione intransigente della politica del Partito e quindi tutti I tentativi di irruzione esterna non venivano minimamente accolti benché mai mediati.

 

Infatti in quel periodo c’è la stata la scissione del “Manifesto”

Senza volere dare giudizi storici che meritano approfondimenti particolari cosa fu la scissione del Manifesto?: la chiusura del gruppo dirigente togliattiano in una  difesa intransigente della tradizione storica. Valore politico degno di grande rispetto, ma che non poteva ignorare l’istanza, l’iniziativa di quel gruppo politico di dirigenti, di giovani. Il più giovane era Lucio Magri che proveniva da una storia del movimento giovanile Dc.

 

Dal movimento giovanile di Bergamo!

Aveva nei suoi precedenti anche questa esperienza, questa militanza dentro la Dc. Magri è uno di quegli esponenti di quel frammento di mondo cattolico che in quel tempo, non più appagati dalla storica linea del “Centro”, del rapporto con il Psi, vagheggiava ipotesi politiche anche diverse come si usava dire in quel tempo “più avanzate”. Ma nel mondo comunista l’istanza del Manifesto era molto diversa rispetto alla semplice esigenza di ricambio generazionale, perché era l’istanza fondamentale della affermazione della libertà, l’esperienza del Manifesto da noi giovani Dc fu seguita con simpatia. Devo ricordare questi aspetti perché in quel tempo c’era una linea di confronto, di comunicazione con i giovani del Psi e del Pci e soprattutto con i giovani che partendo dal ci animavano spinte che più in avanti di rileveranno purtroppo tragiche, quelle che portano a movimenti terroristici.

 

La presenza e il ruolo del Manifesto di Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellana, Rossana Rossanda, Valentino Parlato rispetto al Pci era più intellettuale che non numerica.

Esercitò una influenza, una “impressione” sull’area giovanile democristiana e socialista. Si forma la sinistra socialista che avrà come leader Claudio Signorile che stava dietro a Riccardo Lombardi, che è un protagonista del centro sinistra di Moro. È uno degli autori di un provvedimento importante.

 

La nazionalizzazione della Energia Elettrica! C’è un articolo di Gianni Riotta che recensisce un libro di Gotor sulla generazione Anni Settanta. Sui misteri inconfessabili di quegli anni da Piazza Fontana a Calabresi. C’è il ricordo della coincidenza tra strage di Piazza Fontana e approvazione in Senato dello statuto dei lavoratori!

Stiamo conducendo un ragionamento che non coincide con la tesi di Gotor, ma nella Dc stessa c’è un fermento politico molto intenso soprattutto nelle fasce giovanili che per la loro esperienza anche culturale a volte sono sul confine della Cisl, sul confine delle Acli che avranno una funzione particolarissima. Di li a qualche tempo ci sarà il movimento di Livio Labor (Acpol e MPL ndr) per il secondo partito cattolico.

Però al di sotto di questo subbuglio giovanile che esploderà dopo nel 1968,  il paese che aveva realizzato compiutamente gli esami del grande  miracolo economico, gli altri  dieci anni del centro sinistra, che aveva rivoluzionato quello che aveva potuto rivoluzionare; certo il Psi era sempre inappagato con il governo Moro che viene accusato spesso di essere un governo lento. Moro come capo di governo non ha avuto molti apprezzamenti e molti applausi anzi è stato contestato,  ma invece il suo merito è stato quello di fare le cose che si dovevano fare per l’accordo e l’intesa politica con il PSI  dentro una certa misura che tuttavia ha impegnato la finanza pubblica in una maniera esorbitante.

 

Che giudizio si può dare dopo tanti anni di quella scelta?

Sessanta anni dopo, ragionando, possiamo dire che la nazionalizzazione della energia elettrica,  con quella procedura, con quella modalità fu un errore gravissimo. Sarebbe bastata, come volevano alcuni democristiani, ma anche alcuni dirigenti dell’Iri, la irizzazione. Sarebbe bastato preservare un’area, uno spazio di coabitazione della iniziativa privata, anche all’interno di un’unica struttura perché la funzione dell’Enel come ente nazionale era quella di unificare la rete elettrica e il sistema di produzione in una fase in cui l’Italia  era in una fase di paese industriale avanzato. Sono giudizi storici. Tutto questo risveglio, tutto questo subbuglio del mondo giovanile si presta – questa è la tesi di Gotor – a infiltrazioni. Sessanta anni dopo con qualche documento che è venuto fuori possiamo certamente concordare. L’interrogativo è che portata abbia avuto questa infiltrazione esterna che palesemente ha due origini, periferiche: la Russia, l’URSS e i paesi di oltrecortina che nel sistema comunista erano parte essenziale anzi erano la parte  più intransigente, tedeschi orientali e cecoslovacchi, per non parlare poi dei bulgari, che erano gli operativi molto attivi, si davano da fare per attraversare, per infiltrare le aree sociali e culturali del dissenso e stabilire dei fili che non erano solo di riflessione e di pensiero politico e di dialettica politica; purtroppo erano dei fili che portavano a iniziative anche strumentali.

Di pari passo, dall’altra parte,  il sistema occidentale, non si fidava più, sicuramente della Dc, a questo punto è giusto ricordare una cosa, caro Maurizio: sono gli anni purtroppo della guerra del Vietnam e della esplosione di un dissenso in tutta Europa, ma in Italia particolarmente, di un  dissenso giovanile e non solo giovanile nei confronti degli Stati Uniti.

 

E della Nato !

È un tempo in cui l’Italia si distacca psicologicamente dagli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, in Italia, nel ’46-’47 si era presentati come il paese campione della libertà e campione della democrazia. Gli Stati Uniti erano coloro che avevano sconfitto il nazismo, sconfitto il fascismo, gli Stati Uniti ci portavano un modello di vita, i film di Frank Capra tutti ispirati all’ottimismo proprio di una società che vive in libertà e che vive di libertà e che si dà  degli obiettivi di felicità umana. Ho ricordato i film di Capra, ma non soltanto, i film di quel tempo, la cinematografia americana  è importante in quella stagione, in termini culturali,  perché creano un modello degli Stati Uniti in quegli anni.

E invece presso i giovani del 1968, gli Stati Uniti per effetto del Vietnam,  non sono più i campioni della libertà e questo cosa provoca l’apertura di quel gioco di fuoco,  quell’intreccio  purtroppo mostruoso che coinvolge il deepstate cioè Sezioni, segmenti degli apparati di stato.

Sono cose delicate, anticipo una mia opinione, che ci portano al 1992. Anzi che nel 1992 trovano un loro tragico epigono. Nel momento in cui è caduto il muro di Berlino queste forze si devono ritirarsi dal campo, ma per ritirarsi dal campo non possono abbandonare reclutati, alleati, mercenari, truppe varie,  anche ideologiche. Il 1992 è la conclusione di questo processo che si apre proprio  in quegli anni ‘67-‘68, negli anni del dissenso, della attacco alla politica, ma quale  si va sviluppando,  tra l’altro,  in una condizione in cui l’economia italiana adesso ha delle necessità di essere difesa e protetta, il che avviene molto spesso anche in ragione delle negoziazioni sindacali con  il ricorso al debito pubblico. C’è una polemica sempre sul debito pubblico, ma non c’è una ricostruzione storica molto onesta perché se ci fosse, dovrebbe mettere li in quegli anni l’avvio delle politiche deficitarie di bilancio di formazione del debito pubblico, perché bisogna  affrontare la spesa previdenziale in termini emergenziali. C’è un intreccio-Il quadro di tutto,  il quadro del dramma è ancora aperto in questo Paese.

Nel 1992 si è rotto l’equilibrio che era già posto in crisi e si era sostanzialmente dissolto e questo equilibrio non è stato più ricomposto. La condizione storica dell’Italia proprio  è dentro questa voragine, la voragine  non del debito pubblico, ma la voragine  del sistema, la voragine dei valori al punto tale che la forma politica dominante è ormai quella del populismo cioè della irresponsabilità!

 

La rottura dell’equilibrio viene cifrata con la morte di Moro?

La morte di Moro è la sconfitta che le forze del deepstate proprio in collegamento e in collaborazione con questi segmenti della società che si sono costituiti in organizzazioni terroristiche vogliono infliggere alla iniziativa della democrazia italiana di mediare, di  recuperare e sintetizzare.

 

Quindi vogliono bruscamente interrompere questo percorso?

Vogliono interrompere un processo in cui bisognerebbe veramente a volte rileggere i discorsi di Moro e rileggere anche frammenti delle nostre riflessioni. Ho sempre stabilito una relazione molto stretta tra lo sviluppo del discorso politico di Moro e le premesse politiche, che sono date dai convegni di San Pellegrino.

Chi ha partecipato ai convegni di San Pellegrino può ricordare una delle cose che impressionò tutti che in nomine patris filii et….  l’apertura del primo convegno di San Pellegrino era dato da alcune relazioni sulla formazione dell’unità di Italia sui processi politici che avevano trovato compendio nella unità di Italia e che questa unificazione non fosse un dato definitivo, ma un dato da cui ripartire perché l’unità di Italia andava ricomposta, ricostituita innanzitutto a livello delle classi sociali con la ragione compromissoria  del centro sinistra e la strategia dell’attenzione, immediatamente dopo, cioè un processo unitario che ha  conquistato e dato la forma Stato Unitario nel 1860 sul piano politico deve ulteriormente compiersi.

Credo che questo criterio metodologico sia sempre una costante in Moro, ma è una costante che la Dc da De Gasperi in poi ha avuto: comporre la società italiana e ricomporla rispetto alle divisioni ideologiche alle divisioni di appartenenza – non ignoriamo – a sistemi che si contrappongono. A quel tempo la divisione del mondo era un fatto reale e la divisione del mondo autorizzava l’Italia. Apro un’altra parentesi. Oggi qualche storico ha incominciato ad esplorare. In quale momento durante la seconda guerra mondiale le forze antifasciste e antinaziste, cioè Stati Uniti e Regno Unito e URSS stabilirono che l’Italia potesse rimanere unita? Noi abbiamo dati documentali, cronache precise, dell’interesse dell’Unione Sovietica a prendersi un pezzo d’Italia, non soltanto Trieste, dell’interesse di De Gaulle, addirittura, in uno dei vincitori, a mettere le mani anche su Savona oltre che sulla Val d’Aosta.

 

Chi ha difeso l’unità  d’Italia?

L’Unità di Italia fu difesa da Roosevelt contro gli stessi Inglesi. Roosevelt difese la unità d’Italia escludendo che si potesse anche dividere l’Italia pur di salvare la Monarchia. In Roosevelt ci fu un disegno, poi morì nel 1945, piuttosto preciso sull’Italia che riguarda poi la funzione dell’Italia in Europa perché fu proprio andando dagli Stati Uniti a Casablanca, viaggiando insieme, che Roosevelt disse a Churchill, come è scritto in una bellissima biografia pubblicata l’anno scorso- : “Noi ci dobbiamo porre il problema dell’Italia perché se non risolviamo il problema dell’Italia i francesi e i tedeschi ci faranno la terza guerra mondiale”. E li Roosevelt che era il capo della massoneria mondiale fa una scelta in favore del cattolicesimo addirittura non ipotizza la formazione della Dc ma dice occorre che l’Italia con il Vaticano rappresentino il ponte di congiunzione tra la Francia e la Germania perché si faccia l’unità europea. Purtroppo i Presidenti degli Stati Uniti successori di Roosevelt non ebbero la stessa linea. La ebbe Truman che infatti fu un presidente molto favorevole all’Italia, molto favorevole a De Gasperi non la ebbe più Eisenhauer, non la ebbe Kissinger con Nixon.

 

I pessimi rapporti di Kissinger con Moro sono noti!

Arriviamo poi ai Clinton, i signori Clinton nominati da alcuni circoli pseudo intellettuali che hanno sempre giocherellato con le cose politiche dell’Europa e hanno considerato la Unità Europea un problema, considerato l’Euro un nemico, sono tutte cose che hanno contato nel 1992.

 

Questo ci riporta a chi ha voluto la fine della Dc nel 1992?

È questo il quadro nel quale la Dc viene assassinata!

 

C’è qualcosa da aggiungere. Di Donat- Cattin abbiamo parlato, poi De Mita e i rapporti con Andreotti.

Comincio da De Mita. Dopo il congresso del 1982 ho messo in crisi il mio rapporto con Donat- Cattin. Ero convinto che non si dovesse operare sulla logica chiamiamola “rigoristica” del preambolo, per una ragione tattica, per non lasciare alla sinistra Dc coltivare un feticcio che non c’era nella realtà: il rapporto con il partito comunista. L’assassinio di Moro è la liquidazione – e questo fa capire gli interessi all’assassinio di Moro – di ogni possibilità che in l’Italia il Pci vada al governo con la Dc ed è la fine di ogni possibilità che la Dc prenda i comunisti e li porti al governo. Per realismo politico bisognava pervenire a questa conclusione e a questa conclusione perviene il Preambolo. Però la concezione con cui viene gestito il Preambolo anche nelle alleanze dei tre frammenti, purtroppo dico una cosa molto dolorosa, molto affettuosa, Donat Cattin è un uomo che ha sopportato nella vita  una tragedia più grande della tragedia che la politica può a volte riservarti e la tragedia di una situazione che riguarda la sua esistenza, la sua vita personale, perché riguarda la vita di suo figlio e non è una cosa secondaria. È una cosa che merita riconoscimento e l’onore che si deve a Donat- Cattin che non è più il Donat- Cattin degli Anni Settanta è un Donat- Cattin che gioca in chiusura, in difesa.

 

E quindi?

Questa situazione porta la Dc a diventare il partner possibile del Partito Socialista, il coprotagonista con il Psi della sfida al Pci. Questo è un punto delicato. Nel 1982 ho tentato di trovare un accordo tra Donat- Cattin e De Mita. Non ci fu questa possibilità. Ma nel 1983, dopo le elezioni politiche al congresso di Agrigento, mi spiace usare questo pronome personale Io, io ho assunto la responsabilità della esclusione di Ciancimino dal comitato regionale Dc e dalla vita politica regionale della Dc siciliana. Nel 1983 non fui confermato al governo. Non è un mistero per nessuno che De Mita spiegava questa esclusione di Mannino dal governo Craxi in questo modo: Craxi voleva a ogni costo che rimanessi all’Agricoltura e quando De Mita pose un problema surrettizio che non esisteva e che cioè il Nord volesse il ministro dell’Agricoltura, Craxi aveva offerto una alternativa. Allora mandiamo Mannino al Mezzogiorno. De Mita scelse di mandare Salverino De Vito. Mi dispiacciono queste cose. Dopo il congresso di Agrigento in cui Io sono il responsabile della cacciata di Ciancimino non vengo confermato al governo. Però la storia è più grande delle miserie degli uomini! Nel 1984-1985 maturano le condizioni politiche per cui il Pool antimafia guidato da Falcone. Anche se il giudice istruttore era un galantuomo da Firenze venuto a Palermo, porta a compimento l’operazione che porterà al Maxiprocesso. Grande trauma, grande shock. De Mita è costretto a sciogliere gli organi di partito in Sicilia e chiede a me di fare il commissario della Dc regionale siciliana. Avrei potuto rispondere come si dice in siciliano “dove hai fatto l’estate, fai l’inverno”.

 

Beh si dice dappertutto.

Ho fatto un atto di amore alla Dc, ma anche – e adesso posso parlarne – un atto che mi è stato sollecitato.

 

Da chi?

Da Giovanni Falcone che, leggendo sui giornali che non avevo accettato la nomina a commissario regionale della Dc mentre al comitato provinciale era stato nominato Martella, mi chiese un incontro e in questo incontro mi incoraggiò a prendere questa responsabilità facendo un discorso molto importante: “Noi abbiamo l’occasione di sconfiggere ‘Cosa nostra’. Voglio che su questo la Dc faccia l’operazione che ha fatto con il terrorismo; la Dc e il PCI sul terrorismo non hanno giocato a strumentalizzarsi e a strumentalizzare la lotta contro il terrorismo. Così bisogna fare con la mafia, perché la mafia ha una capacità di intrigo, una capacità di utilizzazione di risorse occulte che richiedono invece una grande assunzione di responsabilità politica da parte di partiti importanti”. È stato questo discorso che mi ha convinto ad accettare! Come segretario regionale ho fatto le elezioni amministrative del 1985 con quasi tutti i Comuni della Sicilia con le liste rinnovate tranne Palermo, dove Mattarella trovò la sua linea di ricomposizione. In tutti i comuni Catania, Messina le liste furono rinnovate. Alle elezioni regionali ho levato 32 deputati uscenti della Dc, quindi ho fatto una operazione di ricambio complessivo del Partito.

 

Generazionale!

Ha consentito alla Dc di vincere le amministrative del 1985 e delle regionali del 1986, al punto tale che il risultato consenti a De Mita di gestire l’operazione Presidente della Repubblica con forza perché non era più il De Mita che aveva perduto 6 punti alle politiche del 1983. Quindi il risultato del 1987 in cui la Dc recupera. Ho fatto l’errore di rimanere sul luogo della mia responsabilità perché avrei dovuto capire che De Mita non sarebbe stato più nelle condizioni di rappresentare le linee di una leadership politica progettuale soprattutto con l’insuccesso del suo governo. Chiamiamo le cose con il loro nome.

 

Un anno di governo, il doppio incarico di presidente del Consiglio e segretario di Partito.

Se avessi avuto buon senso avrei dovuto in quel tempo comunicare le mie dimissioni dal Parlamento e il mio ritiro dalla vita politica. Invece ho portato a compimento il 1992 perché nel 1992 l’obiettivo importante per me non erano le elezioni politiche,  ma la conclusione del maxi processo che è stata possibile per tutta una serie di operazioni politiche. Qui do atto ad Andreotti di un grande atteggiamento di lealtà. Quando Giuliano Vassalli, ministro della Giustizia ha portato ad Andreotti la proposta per la nomina di Falcone a Direttore Generale degli Affari Penali, Andreotti con la carta in mano alzando gli occhi verso Vassalli chiede “ma dove nasce  questa cosa?”. Risposta testuale di Vassalli (qualcuno potrebbe dire ma come la sai?)

Me l’ha raccontata lo stesso ministro socialista. Vassalli rispose: “Me la sta imponendo Cossiga, ma è una cosa che sta gestendo Mannino”. Avevo molta confidenza con Giuliano Vassalli con cui avevo preparato – Maurizio dovresti ricordarlo – la memoria di difesa di Donat- Cattin nel processo che gli avevano fatto i comunisti in Aula. Ero vicepresidente del Gruppo.

 

Ricordo  infatti che il penalista,  l’avvocato Vittorio Chiusano venne  al Gruppo Dc nell’ufficio di Mannino, dove ascoltó attraverso la radio d’Aula la seduta comune di Camera e Senato per la messa in stato di accusa di Francesco Cossiga presidente del Consiglio pro tempore per il collegamento alla vicenda di Donat Cattin (quaranta anni fa non c’erano ancora il web,  né le trasmissioni in diretta, né televisori in tutti gli uffici, ma solo un piccolo altoparlante negli uffici dei dirigenti politici dei gruppi parlamentari ndr)

Sei prezioso perché eri un politico maturo e completo. Andreotti ha tenuto la linea di governo nella fase finale in cui con la nomina di Falcone e con l’assunzione da parte del governo dei provvedimenti che sono stati una sfida alla mafia e sono stati l’elemento di sostegno all’indirizzo che la Cassazione poi avrebbe preso di conferma della sentenza di condanna da cui la reazione. Ma questo è un altro capitolo. Alla domanda, cui mi risponderai: io con gli andreottiani non andavo d’accordo.

 

Certo!

Però devo dare atto ad Andreotti di avere convalidato anche silenziosamente, perché dopo quell’incontro con Giuliano Vassalli, Andreotti non ha mai chiesto a me nè ha mai cercato Falcone. Non ha mai chiesto a me dove nascesse questa iniziativa. Punto e basta. Come devo dare ad Andreotti atto quando come ministro dell’Agricoltura non aveva responsabilità dirette nel sistema difensivo, che sono del ministro della Difesa e collateralmente del ministro degli Interni. Il ministro della Agricoltura aveva l’Aima e l’Aima era uno strumento della Difesa. La preghiera che ti do: tira fuori il verbale della commissione di inchiesta sui Consorzi Agrari presieduta da un magistrato di origine agrigentina  (Melchiorre CIRAMI, seduta del 6 giugno 2000 in parte segreta ndr) nel quale ho raccontato tutta la vicenda dell’Aima e ciò che aveva nell’ambito della Difesa perché doveva mettere da parte…

 

Le scorte strategiche!

Esattamente quelle per l’esercito e per il popolo tedesco. In commissione di inchiesta ho raccontato un episodio del 1982. Governo Fanfani. Fanfani mi manda a chiamare una mattina. Mi dice: “Devi incontrare l’ambasciatore sovietico”. Mi metto in allarme, era un tempo difficile, il governo in quelle settimane doveva formalizzare la decisione di installazione degli euromissili. Era un momento molto travagliato. Incontro riservatamente l’ambasciatore sovietico che mi fa una richiesta molto strana. Mi dice “Noi abbiamo un problema sanitario gravissimo in due Stati, in particolare in Georgia”, il ministro degli Esteri Shevarnadze era georgiano. Abbiamo bisogno della fornitura del latte a lunga conservazione UHT che ci potete dare perché abbiamo una mortalità infantile che non possiamo controllare’’. Tornai da Fanfani a portare questa richiesta. “Benissimo, Tu cosa vuoi fare?”

“Non io, ma cosa decide Lei!”. Abbiamo dato questo latte. Una cosa che ha del romanzesco perché il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica mimetizzò  due Hercules  con la bandiera della Croce  Rossa e portò questo latte al Cairo. Al Cairo fu fatto il travaso. Quando Gorbaciov venne in Italia preliminarmente chiese a Cossiga di incontrare il ministro Mannino. Cossiga era meravigliato: “Gorbaciov vuole parlare con te”, il cerimoniale sovietico chiede questo incontro. Al momento del ricevimento al Quirinale rompendo il rigido protocollo Gorbaciov mi viene incontro e mi abbraccia con grande meraviglia generale. “Ho ritardato un ringraziamento personale “disse Gorbaciov. Poi fui coinvolto in tutti gli incontri ufficiali. Quel documento della commissione di inchiesta va divulgato perché è significativo del modo di governare dei democristiani. Sapevano distinguere.

 

Abbiamo parlato di Aldo Moro, dei rapporti con Donat Cattin, come leader di Forze Nuove, con De Mita, segretario nazionale della Dc, con Andreotti, presidente del Consiglio, ma c’è un’altra persona con cui ha collaborato da vicino al Tesoro, Nino Andreatta. Che personaggio è? Che giudizio si può dare?

Un personaggio notevolissimo, grande intelligenza. Un liberal senza debolezze cattoliche – non gli tolgo niente – senza debolezze verso la esperienza politica dei cattolici. Era intellettualmente il meno disponibile alla esperienza Dc.

 

Era il più laico di tutti?

Si, ho sempre pensato che al momento della scissione della Dc e la nascita dei popolari  che portò alla Margherita e poi al Pd l’apporto intellettuale di Andreatta sia stato notevole. Ricorderai che con Nino Andreatta – gli sono grato, perché mi ha fatto fare delle esperienze grandissime- quando era al Tesoro ho gestito le leggi finanziarie in Parlamento.

 

Andreatta è stato un grande pensatore, eclettico. È riuscito a portare in politica le sue idee o sono naufragate?

Ha ripiegato sempre. Da liberal, nel senso inglese della parola, era decisamente contrario a tutte le forme di assistenzialismo, a tutte le forme compromissorie, aveva una concezione della politica aliena dalle preoccupazioni e dalle mediazioni di incontro. Ricordo che la prima volta che mi ha affidato la legge finanziaria in Parlamento mi disse: “Io ti autorizzo con uno scarto di 500 miliardi, se mi porti un centesimo in più troverò il modo di fartela  pagare”. Aveva questo modo, era strano. Gli portai uno scarto solo di 5 miliardi. Quando fui nominato ministro della Marina Mercantile piantò un casino perché voleva che rimanessi al Tesoro. Intervenne su Pertini, su Maccanico, su Andrea Manzella con cui aveva confidenza. Disse: “Mi faccio dare io le dimissioni e rimane sottosegretario”. Tutti a spiegargli che non era possibile!

 

Quanto manca oggi al sistema politico un partito come la Dc

Manca l’Italia, il problema più angoscioso. Questa stagione di tenore e di livello culturale che non ha trovato forme di identità anche antagonistiche ma capaci di dare una anima a una politica che è diventata soltanto amministrazione e alcune volte amministrazione delegata.

 

Manca una strategia del progetto Paese?

In questa crisi si riflette il venire meno non tra la Chiesa e la Dc, ma tra la Chiesa e la politica nella forma più alta come avrebbe detto Paolo VI, la forma della carità. Perché una parte del mondo cattolico ha ripiegato nell’alleanza con il PD per darsi un’anima che non ha, perché il PD è un partito radicale di massa, quindi il cattolicesimo anche democratico dentro il partito democratico si è annullato.

Il grande inganno - Controstoria della (cosiddetta) seconda Repubblica

articolo di Maurizio Eufemi tratto da giornale online “beemagazine.it" del 17 Ottobre 2022

Nei tempi piccoli della informazione radiotelevisiva solo la presentazione di un libro diventa occasione per ragionare più diffusamente e con un pensiero più articolato. Così è stato per l’ultimo libro di Paolo Cirino Pomicino Il grande inganno”.

La prefazione di Ferruccio De Bortoli tratteggia il lato umano dell’autore, e sullo sfondo,  le questioni, soprattutto economiche, ma lo fa in piena libertà senza acquiescenza, senza fare sconti, ma evidenziando, con eleganza, la sua opinione divergente su vicende rilevanti come le valutazioni sul ruolo dei poteri forti, della magistratura, sulle scelte per le privatizzazioni e sul debito pubblico.

Paolo Cirino Pomicino scrive una storia dei “vinti” diversa da quella raccontata dai “vincitori” in questi ultimi trenta anni.  Nella cornice del circolo Aniene si sono confrontati, con la presentazione di Luigi Compagna, Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo. Un intreccio tra passato e presente, una confronto tra il realizzato e il raccontato, una visione non provinciale del Paese ma in una dimensione internazionale.

Pagine toccanti, quelle finali, in cui le vicende politiche si intrecciano con quelle personali e le tante sofferenze e i dolori superati dal dono della fede e degli affetti familiari, che escono dal privato per essere proiettati sia in quelli del prossimo più vicino che in quelli più lontano! In tutto questo, sullo sfondo c’è il ruolo della politica di quella vissuta intensamente da Paolo Cirino Pomicino come luogo e capacità di affrontare e promuovere passioni e generosità e non avidità di potere.

Luigi Compagna ha affermato che il libro è una Storia, non una controstoria soffermandosi in particolare sui due capitoli della trattativa Stato- Mafia – con la lunga sofferenza di Calogero Mannino – su cui la procura di Palermo non ha dato risposte. Riconosce altresì l’eleganza letteraria dell’autore verso De Gennaro. Riconosce come Cirino Pomicino, pur essendo stato sempre Dc, non abbia nostalgia tanto è che si tenne fuori dal disastro della lista Monti, guidata da chi non aveva statura politica pur sostenuta dalla comunità di Sant’Egidio. Nel libro, per Compagna, ci sono tutti i sentimenti di chi non si rassegna e coglie i sintomi del disastro nella vicenda Tangentopoli del ‘92-‘94. Esprime un giudizio amaro: l’antipolitica ha giocato contro la politica e ha stravinto.

Luigi Compagna scorge una concezione degasperiana della storia d’Italia, lo statista che non solo vinse le elezioni del ’48, ma rifiutò “l’operazione Sturzo” in polemica con il Vaticano dimostrando una fermezza di laicità che non ha avuto più nessuno. Un libro degasperiano perché si arrampica sulla tragedia della democrazia italiana alternando argomentazioni moderne e dà un quadro della catastrofe con la vittoria scintillante dell’antipolitica sulla Politica. Poi ricorda che sono state sciupate tante occasioni soprattutto nelle elezioni del Capo dello Stato con Cossiga prima e con Scalfaro poi quando per l’avversione di De Mita verso Craxi, Forlani ha subito ingiuste umiliazioni.

Francesco Merlo ritiene che sia un libro di letteratura con una formazione importante dell’autore. Riconosce il rapporto speciale di Cirino con Andreotti. Ritiene che sia un romanzo scritto bene che racconta di un grande complotto ai danni della Dc e dei partiti al potere in cui ci sono importanti quotidiani, la magistratura. Mancano solo gli ebrei, afferma sarcasticamente. C’è tutto il codice della controstoria! Offre come immagine una tela di Borges dove negli ultimi capitoli appare Lui quando con una forza straordinaria ha uno sguardo verso i più deboli con le pagine sulla morte che sono le più vive.

Poi interviene Galli della Loggia che valuta le pagine scritte in nome di un cristianesimo misericordioso. Non è la storia dell’antipolitica, ma quella di un vero e proprio complotto politico scritto da chi rivendica il cattolicesimo politico, con la svendita al capitalismo finanziario di settori bancari e produttivi facendo perdere al Paese posizioni importanti. Galli della Loggia pone allora interrogativi su come si è svolto il complotto, chi sono i protagonisti politici, quali rappresentanti del Pci che poi ha riscosso? Si sofferma sulle responsabilità gravissime di Scalfaro che sciolse le Camere quando c’era una maggioranza.

Che successe intorno al groviglio politico? Come si è articolato quel nodo di eventi?

I Dc hanno sempre avuto riservatezza. Su questo non c’è una parola! Gerardo Bianco nei suoi libri rivela alcune cose su questo. L’Italia ha perso eccellenze, il sistema finanziario è stato ceduto, i tedeschi non hanno fatto il minimo investimento in Italia, ma solo la Francia. L’opinione pubblica deve riflettere.

Convince meno la immagine idilliaca della prima Repubblica (terrorismo a parte) la crescita del debito pubblico. Il problema era invece far pagare le tasse a tutti. Per Galli della Loggia  il dramma era che la Dc doveva vincere ogni cinque anni. C’era il malgoverno Dc, con il risultato più visibile nella Scuola, perché l’elettorato non pensa ai grandi ideali comuni.

Cirino Pomicino ha replicato con forza, come un leone ferito, alle tesi degli intervenuti, soprattutto come la Dc fosse una garanzia repubblicana, come la narrazione fosse fatta dai “vinti” dopo la caduta del Muro e come non ci fosse stata a sinistra quella evoluzione auspicata. Ha rivendicato i meriti della Dc nella lotta alla Mafia con provvedimenti anche d’urgenza, che hanno trovato opposizione nel PCI e nella sinistra, come Falcone nella sua competenza e responsabilità non abbia mai inquisito esponenti Dc. Ha poi messo il luce il grande disegno politico teso a rompere la unità della Dc con lo strumento della legge elettorale maggioritaria.

Ora però è il momento dei giudizi. Il duello degli argomenti è stato profondo, ma ognuno è restato nei propri convincimenti. Merlo non ha voluto affrontare le questioni politiche restando in ambito letterario, soprattutto non ha voluto scavare sul ruolo della informazione e dei giornali nella caduta della Prima e nelle vicende della cosiddetta Seconda repubblica.

Galli della Loggia all’elenco dei problemi non ha fatto seguire l’analisi della crescita del debito pubblico che non viene per caso. Oltre il cosiddetto “divorzio” Tesoro Banca d’Italia (Draghi nel 2007 riconoscerà che “gli effetti del divorzio sulla politica di bilancio non sono quelli sperati”, NdR) c’era la questione fiscale che al Nord aveva favorito la esplosione della Lega, c’era l’onda lunga della spesa sociale, sia sanitaria sia pensionistica (adeguamenti trimestrali e prepensionamenti che servivano alle aziende pubbliche e private per ristrutturazioni ndr) con effetti sul bilancio.

C’erano poi le sentenze della magistratura e della Corte Costituzionale (con la sentenza n.1 del 1966 si apriva la strada alla approvazione di leggi di spesa senza copertura. Ne arriveranno 317! Ndr) alle quali il Parlamento si doveva adeguare. Galli della Loggia ha dimenticato poi la pressione della piazza in un clima di violenza e quindi sulle forze politiche parlamentari che spingeva per la stabilizzazione dei precari e dei docenti della scuola e della Università!  “Si difese l’ordine esistente” affermarono Mario Sarcinelli e Vincenzo Milazzo.

La spesa pubblica passò dal 34 per cento del Pil nel 1970 al 55 per cento del Pil nel 1985. La spesa per interessi dal 5,3 al 10 per cento!

Resta scolpita nella mia mente una frase di Guido Carli del 1982:” in tutti i paesi industrializzati si è compiuta una rivoluzione nella distribuzione del reddito fra i gruppi sociali e di e compiuta pacificamente perché la funzione redistributiva è stata assunta dagli Stati”.

Dimenticare tutto ciò è un grave errore da matita blu!

In ogni caso, va dato atto a Cirino Pomicino di lottare ogni giorno è con ogni energia per difendere la storia della prima Repubblica e ben vengano occasioni culturali come queste se servono a tenere vivo il dibattito e soprattutto a riscoprire il ruolo della Politica e dei partiti nella società italiana.

Giuseppe Gargani, paladino della giustizia contro il protagonismo della magistratura

 

Moro? Era una mente superiore, irraggiungibile, una figura sacrale. Riforma elettorale: Se avessi qualche anno in meno mi legherei al palo della luce elettrica davanti alla Camera dei Deputati!

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online “beemagazine.it” del 13 Ottobre 2022

 

Giuseppe Gargani è stato eletto Deputato per sei legislature dal 1972 al 1994, poi  Parlamentare europeo dal 1999 al 2019 per tre legislature. È nato a Morra de Sanctis nel 1935, quindi concittadino del grande storico della letteratura Francesco De Sanctis. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: In nome dei pubblici ministeri 1998; Le istituzioni dilaniate 1994; Diritto e giustizia 1997; L’identità politica condizione per la democrazia 2019; La storia fatta con le manette 2021; Io e il partito 2015. Come Presidente della Commissione Giustizia, nel luglio 1993, ha promosso il convegno: Giurisdizione e cultura della legalità. Poi in questi ultimi anni con spirito giovanile si è dedicato alla vita dell’associazione ex parlamentari nella difesa dei valori costituzionali coordinandone le attività giuridiche.

 

Partirei dal momento in cui, giovanissimo, sei entrato nella Dc nel movimento giovanile.  Quando è stato? 

Tra il 1959 e il 1960.

 

Quindi nella fase di passaggio tra Celso De Stefanis e Luciano Benadusi?

Esatto, ero vicedelegato nazionale del movimento giovanile e delegato provinciale di Avellino.

 

Chi ricordi di quel periodo?

C’era Giancarlo Perrone, c’era Attolini che era una grande organizzatore, Gianfranco Sabatini di Fano, Ettore Bonalberti, c’era Gilberto Bonalumi  che era giovanissimo ed è intervento in una fase successiva, ma le prime esperienze le ha avute con noi. Stavamo nell’esecutivo che funzionava; per il movimento giovanile era una fucina di classe dirigente. Di tutti quelli che in quel periodo erano con me, nessuno si è perduto per strada. Ognuno si è fatto strada in Italia, c’è chi è diventato parlamentare, chi è diventato dirigente, era una fucina di classe dirigente. Ricordo che Fanfani si occupava del movimento giovanile, molto di più con Celso de Stefanis che era suo amico personale, poi ha avuto purtroppo un destino molto crudele perché al Congresso di Firenze del 1959 fu costretto, per l’accusa fatta ad Antonio Segni di volere fare un intervento militare a fianco degli anglofrancesi  sulla crisi  di Suez, per aiutare Fanfani,  si è messo un po’ fuori e quindi purtroppo Celso de Stefanis …. era una bella mente, era una bella intelligenza.

 

Secondo te, lui s’è preso tutte le responsabilità di quell’intervento?

Si, si è preso tutte le responsabilità per fare un favore a Fanfani che allora aveva contrasti con Segni perché in pieno congresso ci fu un subbuglio – io me lo ricordo come se fosse adesso – si fermò il congresso per le accuse di Celso de Stefanis e alla fine, Fanfani dovette prendere le distanze.

 

Qualcuno sostiene che ci fosse Fanfani dietro le accuse di Celso De Stefanis a Segni?

Assolutamente sì! Però anche Fanfani, come era inevitabile, aveva preso le distanze. Poiché era amico personale di Fanfani aveva fatto queste accuse a Segni pensando di poter mettere a segno un punto, ma Segni era pure considerato un mammasantissima del Partito e quindi sbagliò.

 

Da allora Celso De Stefanis sostanzialmente lo abbiamo perso?

Lo abbiamo perso, si è ritirato, poi ha fatto una fine,  poi è morto in condizioni anche povere!

 

Davvero?

È morto in una condizione che abbiamo fatto una piccola colletta per aiutarlo.

 

Addirittura?!

Assolutamente sì. Era rimasto senza punti di riferimento in Italia. È morto in povertà! L’hanno dimenticato e ha avuto una fine proprio che non meritava per la sua intelligenza. Avevo telefonato ai suoi amici e tutti demmo un contributo per aiutarlo.

 

Ho riletto recentemente alcuni scritti veramente penetranti che aveva fatto sull’industrializzazione del Mezzogiorno, sulla siderurgia, sulla acciaieria di Taranto, quando era allo Iasm, portato da Pastore.

Chi era un intellettuale, in quel tempo poi c’era Francesco Mattioli, che dirigeva la rivista per l’Azione e noi in questa rivista ci esercitavano a scrivere saggi, articoli lunghissimi, perché venivano da esperienze intellettuali e quindi scrivevamo molto, poi allora non c’era altro per comunicare. Bisognerebbe rivisitarli i numeri di Per l’Azione che erano veramente testi di grande approfondimento culturale di quel periodo, che era di grande contrasto al marxismo, quindi c’erano due ideologie molto forti che si contrapponevano e quindi c’erano i problemi della filosofia, del vivere, della scienza, della letteratura e quindi noi che venivano freschi di studi abbiamo avuto una palestra veramente incredibile. Sono particolarmente grato a Benadusi che mi volle vice, perché Benadusi era una persona un po’ radicale, un po’ meno democristiano…

 

Infatti aveva simpatia, – come un lettore attento – per gli orientamenti del Mondo di Pannunzio.

Sì, era una persona di assoluta qualità e una persona sul piano personale molto dignitosa, molto seria. L’ho sempre ricordato. Se potessimo rivederci sarebbe per me una giornata indimenticabile.

 

Vedró di organizzare questo incontro con quanti maturarono quelle esperienze politiche giovanili.

Ti invito fortemente a farlo.

 

Quali congressi del movimento giovanile ricordi di più?

Quello di Perugia. Fu un congresso molto bello.

 

Però poi Attolini, successore di Benadusi, si è perso politicamente ? Non era molto attivo come Benadusi e i predecessori?

Aveva l’organizzativo del movimento giovanile. Era fanfaniano. S’è perduto, non abbiamo avuto più tracce. Si era inserito in una multinazionale. Ha lasciato la politica. De Stefanis aveva sofferto perché era stato rifiutato dal mondo cattolico.

 

Nel movimento giovanile c’era una posizione prevalente di sinistra in un clima unitario?

Nel 1961-62, in quegli anni, avevo aderito alla corrente di Base di De Mita, di Galloni, di Marcora avevo dato un orientamento di sinistra, basista; la discussione molto forte era di recuperare i socialisti,  di allargare la base popolare, di fare entrare – una frase che ripetevamo  – “le masse popolari nello Stato”, perché le massi popolari erano fuori dello Stato, contestavano lo Stato i comunisti; in quel periodo noi volevamo lo sganciamento dei socialisti con Nenni da parte del Pci, di modo da poter diventare autonomo. C’è stata tutta una premessa culturale  per il fare centrosinistra. Allora la parola centro aveva una sua importanza, oggi è screditata. Abbiamo lavorato tanti anni per arrivare a questo risultato. Non è che si ottenne dalla  sera alla mattina, ma si ottenne attraverso una lunga discussione sulla stampa, sui congressi, e che a Napoli al congresso del 1962 al teatro San Carlo,  Aldo Moro fece un grande passaggio con una relazione di sei ore e alla fine nelle ultime cartelle dopo avere spiegato tutto, disse “dobbiamo allearci con il Partito Socialista” tutti in piedi. Finalmente l’aveva detto esplicitamente in modo chiaro. (Napoli 27-31 gennaio 1962 ndr) Poi si fece il centro sinistra.

 

C’eri al congresso di Napoli. ?

Perbacco.

 

Aldo Moro che cosa è stato per te?

Moro era al di là di qualunque fantasia. Mentre Fanfani lo consideravano il leader, il capo della Dc vera, però Moro era sullo sfondo come se fosse stato un po’ irraggiungibile; lo consideravano una mente superior,  Fanfani lo vedevamo di più, Moro non lo vedevamo mai, per cui c’era questa aria sacrale che ha sempre conservato questo mistero della persona; ricordo che non è stato mai un organizzatore.

 

Però Moro era molto attento ai giovani !

SìSì, molto attento. Fanfani era fissato sulla organizzazione del movimento giovanile, mentre Moro si occupava dei giovani, della prospettiva, del lavoro, della presenza della leadership sul piano nazionale. Si curava dei giovani in questo senso. Lo vedevamo più vicino e più lontano al tempo stesso. Moro è stata una figura sacrale e ha continuato ad esserlo purtroppo dopo che è stato ucciso; per noi è sempre una persona superiore, al di sopra, un Papa della Democrazia Cristiana, se posso essere irriverente rispetto alla religione cattolica.

 

Al tempo del movimento giovanile, molti dirigenti portavano poi in sede locale le iniziative i convegni, stage?

L’attività del movimento giovanile era anche più assidua e puntuale rispetto anche a quella del Partito. Facevamo incontri dappertutto. Facevamo convegni nazionali oltre i congressi periodicamente. Avevamo tutta una attività come se fossimo stati un partito inserito nel partito più grande. Però eravamo noi i protagonisti. Negli anni Sessanta e Settanta fino agli Ottanta, non c’è un dirigente che non venga dal movimenti giovanile e non si sia affermato attraverso il movimento giovanile.

 

Era il luogo dove la gente si esprimeva e dove potevano fare emergere le personalità.

C’era una grande attenzione della Dc verso i giovani anche sul piano della formazione culturale. Noi andavano alla Camilluccia (al centro studi politici Alcide De Gasperi ndr) a fare convegni, la scuola di partito anche se non la chiamavano così. Periodicamente andavano a sentire relazioni, alla Camilluccia facevamo interventi, dibattiti che duravano tutto il giorno.

 

Il convegno del Sestrière promosso da Luciano Benadusi nel 1957  affrontò con lungimiranza il problema della scuola e delle sue riforme, invece nei convegni degli anni Sessanta quale era il tema dominante, lo sviluppo unitario, il mezzogiorno, la industrializzazione?

La Scuola, la ideologia cattolica, il significato delle varie encicliche, contro il marxismo, contro la lotta di classe, la idea sublime e forte del Pci di allora era la lotta di classe, quindi in quegli anni la Dc ha maturato l’interclassismo, perché con l’interclassismo è stata sconfitta la lotta di classe, quindi il Pci è stato sconfitto negli anni Sessanta  proprio in forza di questa cultura interclassista che il movimento giovanile portava avanti. L’interclassismo ha sconfitto la lotta di classe, e la lotta di classe che era il leit motiv del Pci ha perduto proprio in quegli anni. Perdeva mordente perché la solidarietà sociale che era  nata allora fra le varie classi sociali, che non esistevano più, perché i contadini e i padroni cominciavano a essere una cosa sola dopo la riforma agraria, avevano creato una solidarietà, anche perché la situazione economica, l’ascensore saliva, portava che i contadini studiavano con la scuola obbligatoria; tutti siamo diventati uguali in Italia  perché una cosa di grande importanza,  che non c’è negli altri paesi europei, è questa unità. Perché non c’è più il servo e il padrone, non c’è più il borghese e l’operaio. Siamo tutti uguali. Questo è diventato un dato costante anche nell’ultimo periodo che è sorto il personalismo, il rancore, il contrasto tra classi tra le varie persone, ma in quegli anni, questa è la storia vera della Dc, che non si può dimenticare. Tutto aveva un significato culturale che poi cadeva sulla politica quindi la politica era una cosa seria ed era sostanza culturale che portava ad una attuazione dei problemi e alla risoluzione: il problema del Mezzogiorno, della scuola, della identità dei cattolici. Se andiamo a rileggere per l’Azione o i primi anni della Discussione o tutti questi convegni, al Sestrière o altrove, il congresso di Perugia dove discutemmo di tutte queste cose. Sarei felice di rileggere quegli atti. Quando il movimento giovanile faceva il congresso per tre giorni seriamente e poi evidentemente faceva le liste quindi si eleggeva la nuova dirigenza, ma abbiamo avuto una continuità;  chi diventava grande e lasciava il mondo giovanile aveva una esperienza alle spalle, capisce di poterlo candidare in posizioni di responsabilità al Parlamento, al Senato, e via di seguito.

 

Il congresso di Perugia quando si tenne?

Nel 1962. (10 congresso del Mg 27 – 30 luglio 1962 Sala de Notari palazzo dei Priori ndr)

 

Tu hai conosciuto tutti i grandi leader Dc, Fanfani, Forlani, Moro, Zaccagnini, Marcora, Piccoli  Donat-Cattin, De Mita, chi quello che ti ha lasciato di più?

Sono due ovviamente: Marcora sul piano di questa grande efficienza, di questa grande spinta, perché l’intellettuale De Mita o l’intellettuale Galloni, il vibrante Granelli, perché era vibrante e pieno di entusiasmo, non si sarebbero organizzati se non ci fosse stato Marcora. Marcora era un grande politico e un grande organizzatore. Naturalmente per me questo è il ricordo più importante. Ho vissuto tutta la vita con De Mita  per cui poi inevitabilmente con De Mita sono stato amico personale, e ci siamo accompagnati fino alla fine che purtroppo è capitata nel maggio scorso.

 

Nei giorni scorsi c’è stata questa polemica di Nando Dalla Chiesa contro De Mita.

Ho visto. Volevo intervenire poi ho capito che bisognava far sbollire questa cosa perché ero al Governo allora, al Ministero di Grazia e Giustizia. Avevo contatti con Dalla Chiesa e il figlio sbaglia e non ha nessuna ragione per dire questo. Lui non si lamentava dell’aiuto. Venne a trovarmi nel mio ufficio credo una ventina di giorni, un mesetto prima, quando era stato assegnato a Palermo. Ha un rapporto con me perché mi occupavo proprio di brigatismo, dell’emergenza di quel periodo che portó all'”arresto” di Aldo Moro. Lui era soddisfatto…

 

Scusa, hai detto all'”arresto” di Aldo Moro”? Volevi dire altro?

Volevo dire rapimento di Aldo Moro. Beh fu arrestato dai brigatisti! Fu rapito e arrestato! Certo, hanno fatto pure il processo! Dalla Chiesa non si è mai lamentato. Lui mi faceva dei discorsi problematici rispetto alla comprensione del fenomeno mafioso e brigatista e quindi era insoddisfatto della analisi che noi facevamo e della comprensione. All’inizio del fenomeno che chiamiamo brigatista noi eravamo sconcertati, immaturi, non avevano un retroterra.

 

Poi l’abbiamo acquisito?

Sono stato con Tommaso Morlino, in tutto questo periodo, il periodo migliore della mia vita, dove noi abbiamo studiato il fenomeno brigatista e abbiamo fatto la prima legge che ha risolto il problema con la legge della dissociazione, che poi hanno copiato per la mafia, dove non ha nessun valore perché li ci stanno i pentiti prezzolati, mentre là c’è una dissociazione ideologica  che portava allo scardinamento del fenomeno. È come la casta. Se uno viene meno,  fa la delazione di come è organizzata, l’organizzazione si frantuma. Tra i tantissimi meriti della Dc è che noi abbiamo frantumato il brigatismo non solo con i grandi personaggi come Dalla Chiesa,  ma anche con le leggi intelligenti che avevamo  fatto e che poi sono state malamente copiate.

 

Nei giorni scorsi è uscito un libro di Miguel Gotor “generazione settanta”

Sì l’ho visto, ma non letto.

 

Si parla sempre di misteri, segreti inconfessabili …

Questa letteratura la rifiuto. Nell’ambito dello Stato ci saranno pure piccole zone d’ombra come inevitabilmente c’è in tutte le zone della vita, ma immaginare tanti complotti sulla storia di Aldo Moro… ! Si è fatta una commissione, poi un’altra, non arriva nessun risultato perché non c’è il risultato. Questo è il punto.  E quindi si va a immaginare fantasmi e che non diventano mai concreti perché non esistono. Sono fantasmi! Mi fa piacere dirlo a te!

 

Però c’è un problema. Anche ieri è stato commemorato Gingio Rognoni, con opinioni divergenti, paventando opacità.

Sono tutti fantasmi. Retropensieri che poi non si realizzano perché restano fantasmi.

 

Comunque il figlio di Dalla Chiesa ha avuto un comportamento antipatico tirando fuori polemiche dopo che De Mita era scomparso! Poteva farlo prima!

Certo!

 

Rimangono alcune questioni. La prima: la tua esperienza parlamentare dal 72 al 94, hai assunto grandi iniziative sulla Giustizia, una linea controcorrente e coerente. I fatti a distanza di tanti anni poi ti hanno dato ragione.

Sono molto soddisfatto della mia attività parlamentare perché ho esercitato la funzione con grande impegno e con grande intensità. L’ho fatto perché ho avuto sempre una idea molto sacrale della rappresentanza e del Parlamento che credo sia la cosa al primo posto assoluto nella vita perché attraverso questa legge elettorale, la rappresentanza è sparita. Sembra una legge elettorale fatta apposta per far sparire la rappresentanza. Mi sono occupato prevalentemente di Giustizia e negli anni Settanta, lo dico ad alta voce, per la prima volta, la tua amicizia nei miei confronti, mi consente di potere dire che leggo cose che avevo scritto negli anni Settanta per cui contrariamente al luogo comune che chi ha ragione non è molto intelligente oppure scemo, penso di avere esaminato, approfondito quei problemi. Proprio perché ho fatto cinque anni al governo, alla Giustizia, poi ho fatto il presidente della commissione e capivo sin da allora che c’era un problema  sul piano istituzionale e nel rapporto fra le istituzioni e tra politica e magistratura e noi abbiamo fatto leggi con il mio dissenso.

 

Hai votato contro la riforma alla immunità parlamentare!

Ho votato non solo contro. Quando oggi Carlo Nordio va a dire che bisogna ripristinare l’immunità! È stato l’ultimo intervento negativo che ha affossato definitivamente la Politica, perché ha fatto prevalere, anche sul piano formale, il protagonismo della magistratura.  Ma io avevo votato negli anni Settanta la progressione in Cassazione, perché c’era uno slogan – va ricordato – del ministero di Grazia e giustizia dei magistrati, perché il capo di gabinetto, era un magistrato di Milano che teorizzava che un magistrato solo perché raggiungeva alcuni anni di età doveva essere promosso in Cassazione a prescindere dai posti che stavano in Cassazione!

 

L’automatismo?

Per cui il Pretore di Frigento della mia provincia era componente della Cassazione pur facendo il Pretore a Frigento in un piccolo paese dell’Alta Irpinia. La ragione per la quale loro giustificavano, era che un concorso intermedio ledeva l’autonomia e la indipendenza della magistratura. Fare un nuovo concorso significava, in qualche modo, colpire la indipendenza e l’autonomia della magistratura. Una cosa aberrante! E ha fatto scuola; ha instradato; per cui un magistrato se durante la carriera non viene valutato se è bravo,  se è matto, se è diventato scemo;  si attenta alla autonomia e alla indipendenza della magistratura.! Questo slogan ha portato, dopo anni e anni, alla fine della immunità e a questa funzione anomala che c’è profondamente,  per cui è alterato l’equilibrio istituzionale, l’equilibrio costituzionale dei poteri. L’avevo detto negli anni settanta e oggi tanti si affannano a dire, per ultimo ha scritto un libro prezioso Sabino Cassese e ha scritto puntualmente di queste cose e delle anomalie.

 

C’ero alla presentazione del libro di Cassese in Trastevere nello spazio dell’ex cinema Induno, con il Presidente della Anm. Per fortuna ci sono gli atti parlamentari, c’è la memoria storica del Parlamento che è incancellabile e gli studiosi possono andare a rileggere e verificare come sono maturate le scelte politiche.

Mi hai mandato quel lungo intervento che avevo fatto negli anni ‘73 – ‘74, che hai trovato all’Archivio storico del Quirinale. (Lettera dell’On Gargani al procuratore Giovanni Colli del 22 maggio 1975 con allegata la relazione parlamentare sullo stato della Giustizia ndr) L’avevo mandato al Procuratore Generale della Cassazione e lui se l’è conservato con la mia lettera che mi mandasti. Ho un ottimo ricordo perché fa parte della mia storia.

 

Che giudizio dai sulla fine della Dc? E degli anni 93 – 94. ?

La fine della Dc è dipesa per il cinquanta per cento da un esaurimento di tutte le cose della vita, in cui la società era cambiata; governava da troppi anni per poter conservare il potere.

 

Per esaurimento propulsivo?

Per l’altro cinquanta per cento è che la classe dirigente, che era di livello altissimo, si é arresa e si è arresa soprattutto di fronte alla magistratura per cui quel discorso di Craxi ahimè – lo avevo detto allora  non lo dico dopo trenta  anni – doveva portare tutto il Parlamento a solidarizzare perché  il finanziamento pubblico dei partiti anomalo che Craxi aveva denunziato è diventato corruzione. Non era corruzione. Era anche corruzione e quella corruzione doveva essere perseguita, ma i finanziamenti innocenti che tanti avevano fatto, tante persone si prestavano per poter aiutare il partito,  per far continuare la democrazia in Italia, erano finanziamenti leciti alcune volti puniti con una ammenda, ma avendo fatto diventare tutto questo corruzione – lo ho scritto con molta precisione  e con documentazioni – è diventato che quel periodo è quello della corruzione dei socialisti, dei democristiani e di tutti i partiti escluso il Pci che pigliava i soldi a differenza degli altri, ma li pigliava da innocente.

 

Poi anche se ci fossero stati casi sarebbero stati assolutamente marginali. La Dc nel 1992 aveva preso ancora quasi il trenta  per cento dei consensi.

È stata coinvolta tutta la classe dirigente perché si  era  cominciato dagli anni settanta, perché il gatto si morde la coda, nel senso che l’automatismo e tutte le leggi fatte a favore dei magistrati hanno portato a questa esposizione anomala dei magistrati, a una prevalenza sul piano istituzionale, perché è una malattia della democrazia.

 

Oggi quanto manca al Sistema politico la legge proporzionale con le preferenze?

Ho sempre sostenuto, anche in quegli anni ‘92-‘93, questa volta fortemente in polemica con De Mita, che la legge che Mattarella faceva è stato il primo mattone tolto alla cittadella democratica. Questa mia espressione negli anni Novanta che fece infuriare De Mita, era purtroppo a distanza di tanti anni, vera! Il proporzionale era l’unico sistema elettorale democratico. Imperfetto come tutte le cose della vita, ma il meno imperfetto.  È come la democrazia che diceva Churchill e quindi questa legge garantiva la rappresentanza …

 

Il pluralismo !

garantiva la presenza nel Parlamento del Paese, perché era la fotografia del Paese con la quota di sbarramento inevitabile. Tutte le altre leggi fatte, una peggio dell’altra, fino a diventare questa ultima con la quale abbiamo votato domenica 25 settembre una legge che – come ho accennato prima – evita addirittura la rappresentanza perché il malfatto, la cosa delinquenziale del Parlamento – non ho difficoltà a dirlo – è di tagliare i deputati e i senatori e di cancellare la rappresentanza in alcune regioni. Il Pd ha questa macchia! Capisco il sistema Cinque Stelle che aveva vinto nel 2018 e aveva governato voleva, portare avanti questa sua idea sul risparmio – tutte stupidaggini – ma hanno tagliato la rappresentanza! In Campania c’è la metà della rappresentanza dei deputati. In Basilicata viene limitata …

 

In Umbria lo stesso!

Si è perduta la rappresentanza; Queste povere regioni non avranno più riferimenti al Parlamento.

 

Leggevo alcuni resoconti del movimento giovanile e ho potuto verificare che voi faceste una battaglia per il sistema proporzionale delle Provincie!

Sì, perché il proporzionale si estendesse in tutto il Paese.

 

Oggi in assenza dei partiti che facevano riferimento ad aree culturali quali quella socialista, laica, cattolica, la situazione come la vedi?

I partiti sono diventati personali negli anni Novanta, perché Berlusconi che aveva un consenso grande nel paese è stato criticato da tutti gli antiberlusconiani e poi tutti lo hanno copiato. Lo hanno imitato. Lui ha inventato il partito personale e tutti lo hanno copiato fino a Mastella o a Noi Moderati che sono cifrati allo 0,5 per cento. (ci aveva quasi azzeccato perché hanno preso poco di più, NdR). Quindi i partiti sono venuti meno, io che mi sono sempre illuso negli anni Novanta di rimettere insieme tutto i pezzi dei cattolici, ma anche dei laici, dei riformisti ho una piccola ulteriore speranza; mi sono sempre illuso che le persone che venivano da quella tradizione potevano  rimettersi insieme;  ho una fiammella, ancora una speranza che il terzo polo – avendo fatto una cosa che dico dagli anni novanta – possa presentarsi in alternativa alla destra e alla sinistra, presentarsi in maniera autonoma. Sono coraggiosi, onestamente dobbiamo riconoscerlo, perché il sistema elettorale proprio non consente di presentarsi da soli.

 

Però è una sfida!

Sì certo é una sfida. Se si unifica veramente una alleanza elettorale improvvisata …

 

Se premiata dagli elettori …

… se dopo  le elezioni diventa politica, riunisce, avendo fatto questa lunga carrellata dal movimento giovanile, quando noi rappresentavamo il centro l’interclassismo con la Dc. Moro lo aveva detto nel 1944 che il centro era dinamico! (Pensiero e Vita, 25 novembre 1944 ndr).  Se si dovesse verificare dopo le elezioni questo, – dopo questo periodo degli anni novanta molto disgraziato in cui hanno governato le estreme, hanno governato gli antisistema e quindi hanno sgovernato fino a quando non è arrivato Draghi – uniamo e possiamo avere la possibilità di rivedere la costituzione del centro e quindi di ristabilire le identità perché non ce ne sono più.  Coraggio Italia, Forza Italia, Fratelli d’Italia non c’è più nulla che ricordi una cultura di Popolari, Riformisti, Liberali,  Socialisti come ci stanno in Europa.

 

Sono più pessimista di te! Sono stato all’Istituto Sturzo per l’incontro sui cattolici dal 1870 ad oggi, e dagli interventi ho constatato una linea che esalta il prepolitico senza un grande progetto.

Senza un aggancio alle vere tradizioni culturali …

 

E con il vuoto della Chiesa nella formazione dei giovani e di una classe dirigente come lo era stato nel secondo dopoguerra con la Giac e con l’azione Cattolica. Se l’arcivescovo di Milano arriva a polemizzare con il Papa, la gente in questa confusione, non capisce molto. Se non c’è un orientamento nuovo anche in questo senso delle gerarchie cattoliche, rispetto alla strategia ruiniana sui valori non negoziabili e con presenze insignificanti in ogni partito. Che dici di questa assenza dei cattolici, di questo vuoto.

Ci siamo sparpagliati e divisi e nella divisione è venuta meno anche una cultura o il riferimento culturale allo stare insieme e avere attraverso l’ispirazione cristiana una idea di organizzazione civile e questi sono sempre stati dei cristiani fondamentalisti che non hanno mai capito – questo penso di poterlo dire fino in fondo – il significato dei cattolici in Politica e allora tutto viene ancora contrabbandato come cento anni fa. Il partito cattolico non esiste mai. De Gasperi lo aveva capito e Moro successivamente. Il partito cattolico non esiste, esiste ed è esistito il partito dei cattolici che si è diviso, frantumato e restano questi messaggi equivoci che sono metà ecclesiastici e metà fondamentali,  ma che non hanno consistenza rispetto al territorio, alla funzione laica e civile che un cattolico deve avere nella sua missione terrena che è diversa da quella ecclesiastica, della chiesa. Questa cosa è completamente dimenticata; è fuori dalla cultura italiana in questo momento. Questo è un dato completamente negativo.

 

L’Europa può essere il nostro nuovo vincolo politico esterno, dopo quello economico, che ci aiuta a superare i problemi?

L’Europa può aiutare più per quello che deve diventare, perché poi la guerra costringe a metterci insieme per poter difendere la civiltà occidentale e quindi difendere anche la storia e la tradizione, la cultura giudaico- cristiana dell’Europa e questo ci aiuta. Speriamo! Ma c’è bisogno sempre di identità dei partiti, che oggi non c’è, per cui rispetto allo scandalo dei deputati che sono passati da una parte all’altra in 400. Sono passati da una stanza a un’altra! Non da una idea a un’altra idea. I partiti sono senza identità, ognuno pensa alle proprie convenienze.

 

Dopo le elezioni di settembre può nascere un movimento che parta dal basso sulla riforma elettorale?

Dobbiamo vedere chi ci sta, subito dopo, perché a fine legislatura non si riesce a fare niente. Se avessi qualche anno in meno mi legherei al palo della luce elettrica davanti alla Camera dei Deputati! Siccome ho qualche anno non lo posso fare più. Mi procurerebbe qualche accidente. Bisogna fare qualcosa! Bisogna muoversi!

Luciano Benadusi: La democrazia si salverà soltanto con la scuola. Se diventerà un polmone di formazione culturale, per la politica, la cittadinanza

 

La mancanza oggi di partiti- fucine di idee rende fragile la democrazia Narrazione di capitoli di storia politica di un grande intellettuale che ha sempre messo la scuola al centro della sua attività, prima nella Dc poi nel Psi. Semi-presidenzialismo alla francese? Non sono contrario ma ci andrei più cauto. Dopo la rivoluzione culturale del ’68 mi convinsi della necessità di porre fine alla unità politica dei cattolici. Il racconto di una esperienza sociale di una comunità costituita in una Borgata romana, Fidene

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 4 Ottobre 2022

 

Oggi incontriamo Luciano Benadusi.

Già professore ordinario e attualmente professore onorario presso l’Università La Sapienza di Roma di Roma, è sociologo dell’educazione, un esperto dei problemi dell’educazione e della formazione, ha ricoperto l’incarico di vicepresidente del Formez e di presidente di Af Forum (Associazione per l’Alta Formazione) e ha svolto funzioni di consulenza per numerosi ministri dell’Istruzione.

È direttore di Scuola democratica, una delle più importanti riviste del settore. Ha pubblicato molti libri tra cui Equità e merito nella scuola, il ’68 e l’istruzione.Prodromi e ricadute del movimento degli studenti.

Una storia politica particolare, quella di Luciano Benadusi, uno spirito inquieto, un percorso di vita in cui la ricerca dell’affermazione delle proprie idee si è scontrata spesso con le logiche di partito. È un giovane di 85 anni. Con le sue prime esperienze politiche partiamo da metà degli anni Cinquanta…

Il nostro colloquio interrompe la stesura di un articolo sull’analisi dei programmi dei partiti sulla Scuola per la consultazione elettorale del 25 settembre.

Partiamo da ciò che avevamo lasciato. Il convegno del Sestriere dell’agosto del 1957 di cui Luciano Benadusi era stato organizzatore, come responsabile del movimento studenti medi e relatore per il Movimento Giovanile Dc. Parteciparono da ogni regione d’Italia,  i giovani responsabili dei giornali di istituto e più impegnati nella vita della scuola. In quella occasione furono affrontati i temi che poi sarebbero stati affrontati dal centrosinistra con la riforme della scuola. Rileggere quelle idee, oggi, non è solo un tuffo nel passato ma riscontrare anche come quelle idee erano anticipatrici delle linee di movimento della società come una concezione democratica della scuola, il rapporto tra scienza e tecnica, una nuova cultura umanistica.

 

Volevo partire dal Sestrière. C’era un impegno giovanile molto forte. Come nasce il tuo impegno?

Nasce da un interesse alla politica insolitamente precoce. Determinante è stata una circostanza casuale: la finestra della mia camera da letto. Affacciava su una piazza romana dove durante le campagne elettorali si avvicendavano tutti i santi giorni comizi dei partiti in lizza. Quindi non solo questo suscitò un interesse precoce ma mi offerse l’opportunità di ricevere una formazione pluralistica. L’impegno è venuto un po’ di tempo dopo.

 

Il reclutamento dei giovani. Ho riletto  la tua relazione, molto innovativa, anticipatrice delle pulsioni del mondo scolastico rispetto alla evoluzione dei tempi, quei ragazzi che partecipavano agli incontri venivano,  come forma di reclutamento, dalla Giac, dalla Azione Cattolica. Nel tuo caso come avviene?

Non sono passato attraverso nessuna organizzazione cattolica. Traccio una breve storia della mia formazione politica. In famiglia gli input che avevo ricevuto erano lo “stai alla larga dai partiti” e orientamenti di stampo conservatore, fortemente anti-comunisti. Nei primi anni di frequenza delle superiori ne ero ancora influenzato.

Come molti dei miei familiari ero anti-comunista e avevo simpatie liberal-monarchiche, ma ascoltando quello che i fascisti dicevano e osservando quello che facevano, avevo almeno capito che sullo spartiacque tra fascisti e non fascisti, in quell’ambito allora il più importante, dovevo stare dalla parte dei secondi.

L’interesse per la politica si era poi rafforzato a mano a mano e le mie opinioni erano slittate verso sinistra. Frequentavo il liceo classico e seguivo con molto interesse un giornaletto studentesco scritto da compagni di scuola di orientamento prevalentemente laico e di sinistra, ma non comunista.

 

Le tue letture di quel periodo?

Nello stesso tempo mi appassionavano le letture di storia contemporanea, che avevo cominciato leggendo Benedetto Croce. Volevo capire meglio la politica contemporanea, visto che a scuola nessuno degli insegnanti ce ne parlava, non era nei programmi. L’impegno politico iniziò quando decisi di iscrivermi alla Dc e mi misi a lavorare nel settore studenti medi cercando di dare loro quello di cui sentivo la mancanza: un percorso di socializzazione politica. Avevo trovato nel partito non solo un incoraggiamento, ma anche un appoggio concreto e determinante.

Devo precisare che aderendo alla Dc avevo aderito anche ad una specifica area politico-culturale al suo interno. Se ne trovava più d’una.

 

A quale facevi riferimento?

All’area collocata a sinistra, cioè a quella che si distingueva per una maggiore sensibilità agli aspetti sociali, alla solidarietà, alla giustizia.

 

In quel tempo, nei primi anni Cinquanta, il riferimento era il dossettismo come cultura e quindi Dossetti, La Pira o altri?

Il mio riferimento era duplice. Da un lato il filone dossettiano allora rappresentato dalla corrente fanfaniana che da poco aveva conquistato la maggioranza nella federazione romana e avviato un processo di ricambio radicale del gruppo dirigente. A questa corrente apparteneva Paolo Cabras, il delegato romano del movimento giovanile. Fu lui ad attribuirmi l’incarico degli studenti medi e ad aiutarmi a portare avanti il mio progetto. E mi legò, da allora in avanti, a lui una grande stima e anche, quando le nostre strade si separarono, un sentimento di amicizia.

Dall’altro però, negli anni finali del liceo mi ero avvicinato alla cultura laica e alla sinistra liberale; ero diventato lettore incallito del Mondo, partecipavo con assiduità ai convegni che facevano gli Amici del Mondo. Tanto da avere avuto inizialmente qualche esitazione ad aderire alla Dc, perché la vedevo troppo poco laica rispetto alle mie posizioni.

 

Più marcatamente Cattolica, più confessionale?

Esatto. Però avevo trovato nella Dc, viva negli esponenti della sinistra di Base più che non nei fanfaniani, un’eco di questa mia sensibilità ad istanze di tipo laico e liberaldemocratico. Per questo ho parlato di adesione ad un’area politico-culturale che abbracciava l’insieme della sinistra, e non ad una specifica corrente.

 

A chi fai riferimento come personaggi della Base, ad Aristide Marchetti o a Nicola Pistelli?

Quello con cui ho avuto più presto contatti è stato il gruppo della Base di Roma, quindi Giovanni Galloni e chi lavorava con lui, come Adriano Paglietti, poi in seguito ho conosciuto e avuto rapporti con tutti gli esponenti principali, da Pistelli a Granelli, da De Mita a Misasi.

 

Raccoglievi subito consensi?

Sì, il mio progetto andò avanti e ottenne successo. Avevo fondato un’associazione di studenti medi che si chiamava Associazione Romana Studenti Medi (ARSM). Svolgevamo varie attività, ad esempio le domeniche facevamo proiezioni di film, in un cinema-teatro romano, invitando a parlare i registi, poi aprivamo la discussione ed erano spesso film dai risvolti sociali.

 

Quello è stato un forte momento di aggregazione?

Esatto, poi a seguito di quello, ed essendo state queste esperienze conosciute e apprezzate anche a livello nazionale, fui chiamato da Celso De Stefanis, non appena eletto delegato nazionale del movimento giovanile (1957 ndr), ad entrare nel suo nuovo esecutivo per dirigere il settore scuola e studenti. Cominciai così a occuparmi anche degli studenti universitari, aderendo all’Intesa universitaria, dove rappresentavo appunto il MG, e fui eletto membro dell’organismo rappresentativo della Sapienza.

 

Che ricordo hai di Celso De Stefanis?

Un ricordo emotivo, di grande affetto, accresciutosi per la sfortuna che purtroppo ha accompagnato gli ultimi anni della sua vita. E di stima intellettuale. Quando per raggiunti limiti di età Celso dovette lasciare la leadership del MG fu lui e gli altri membri dell’esecutivo nazionale a lui più vicini che mi candidarono alla successione. Apparteneva alla corrente fanfaniana ragione per cui scattò la logica delle correnti e alla mia candidatura si contrappose la candidatura di Andrea Borruso, proposta e sostenuta dalla sinistra di Base. E fui eletto.

 

Hai avuto parole di stima e di affetto verso Celso de Stefanis. Ad inizio anni Settanta condivise la scelta di Zamberletti, Ciccardini del Movimento Europa 70 in senso impropriamente gollista, ma presidenzialista e referendario, quale era la tua opinione?

Non ero contrario, allora non circolavano le tossine leaderistiche che oggi si sono propagate ed esistevano partiti veri, pluralistici, che agivano da veicoli di partecipazione democratica.

Adesso non sono a priori contrario se si tratta di semi-presidenzialismo alla francese, ma ci andrei più cauto. Sarebbe da inquadrare in una riforma generale delle istituzioni politiche, che comprenda l’attuazione dell’art.18 della Costituzione sui partiti, di cui quasi nessuno più parla, e la legge elettorale. Incombe lo spettro delle democrature.

 

Per quanto tempo hai ricoperto il mandato?

Per due mandati quadriennali. (Dal 1960 al 1968 ndr)

 

Dopo venne eletto Attolini?

Esatto.

 

Prima è stato fatto riferimento al contatto con la Base, con le vicende di Bergamo con Lucio Magri, Chiarante, che poi si allontanarono dalla Dc. Al tempo stesso si manifestano criticità con il veneto Wladimiro Dorigo.  Partecipasti al congresso di Firenze, quello della competizione tra Ernesto Laura e Boiardi, vinta dal primo con quattro voti di differenza?

No, avvenne prima del mio ingresso nell’esecutivo nazionale, prima dell’elezione di De Stefanis.

 

Come valutasti la rottura a sinistra con questi personaggi che poi confluirono nell’area del Manifesto, fuori anche dalla ortodossia del PCI?

A me fu raccontata. Se ne parlava molto. Guardavo a queste persone da un lato con ammirazione per il coraggio che avevano avuto e per la radicalitá delle loro posizioni, dall’altro però non ne condividevo le scelte. Ero allora convinto che ci fosse uno spazio, una opportunità, per delle posizioni di sinistra nell’ambito della Dc.

 

Per ricomporre attraverso una mediazione delle posizioni!

Puntavo sulla unità delle sinistre democristiane, non riconoscendomi appieno in nessuna di esse; da un certo punto in poi mi ero anche allontanato dalla corrente fanfaniana che ritenevo essersi involuta, snaturata. Condividevo insomma le critiche rivoltele da Corrado Corghi, uno dei suoi capi storici con cui ero in contatto. Ci tenevo a sottolineare che il MG si collocava sì nella sinistra, ma aveva una posizione autonoma e auspicava l’unità di tutta quell’area. Allontanatomi dai fanfaniani mi avvicinai a Carlo Donat- Cattin e alla corrente di Forze Nuove che trovavo la più agguerrita sul piano dei contenuti, in particolare I contenuti di politica sociale.

 

Chi ricordi di più di quella stagione al movimento giovanile che ha collaborato con iniziative, proposte, ecc.?

I miei collaboratori più stretti con cui c’era un contatto costante, si lavorava insieme quasi ogni giorno, erano Francesco Mattioli, che fu direttore della Rivista Per l’Azione ed è purtroppo morto prematuramente alcuni anni fa. E Giancarlo Perone, poi professore universitario di diritto del Lavoro, con cui ho tuttora un rapporto abbastanza intenso di frequentazione, ci incontriamo o parliamo al telefono abbastanza spesso anche per scambiare idee sulla politica attuale. Ma desidero citare anche Rodolfo Brancoli che si dedicò poi al giornalismo. E Carlo Fuscagni, benché avesse qualche anno più di me e quindi aveva fatto parte dell’esecutivo nazionale del MG nella delegatura precedente, quella di Celso De Stefanis.

Carlo Fuscagni (già nel 1957 pose il problema del MEC e dell’importanza della Rai tv come strumento di educazione democratica ndr) era già uscito dal movimento giovanile (dopo essere stato membro anche lui dell’esecutivo di Celso) per limiti di età, ma lo pregai di rimanere a lavorare con noi dirigendo la rivista ItaliaMondo.  Avevamo ben due riviste: una, Per l’Azione, era più ideologica e l’altra, per l’appunto Italiamondo, più politica. E aveva una periodicità maggiore, poteva quindi intervenire tempestivamente nei dibattiti politici.

 

E dei politici?

Se intendi quelli che hanno scelto di continuare nella strada politica, rimasi in contatto  per alcuni anni con diversi di essi. Faccio solo alcuni nomi: Guido Bodrato, Riccardo Misasi, Giuseppe Zamberletti, Pietro Padula, Giuseppe Gargani, Beppe Pisanu. Poi le nostre strade si separarono, a causa prima della mia uscita dalla DC e poi dell’abbandono della politica.

 

Hai partecipato agli importanti convegni di Faenza, organizzati da Achille Ardigò?

Sì partecipai più di una volta. Avevo un ottimo rapporto con Achille Ardigó, fu poi una delle persone che hanno influito sulla mia scelta scientifica verso la sociologia.

 

Hai fatto circolare in Italia testi scientifici provenienti da mondi e culture più lontani. Poi non hai scelto la strada politica. Hai preferito quella scientifica. Quella universitaria. Non credo che non ci fossero le condizioni per essere eletto in Parlamento.

No, in effetti le condizioni potevano esserci, sicuramente più che nel PSI al quale poi aderii. In realtà il mio impegno universitario fu per diversi anni parallelo a quello politico. Iniziò subito dopo la laurea quando divenni assistente di Massimo Severo Giannini,  il professore di diritto amministrativo con cui mi laureai. Furono lui e, come ho ricordato, Ardigò, le due persone che influenzarono la mia scelta per la sociologia. Giannini era un giurista, ma un giurista che non nascondeva di sentirsi anche un po’ sociologo. E dalla lettura dei suoi libri lo si capiva.

 

Lasciato il movimento giovanile per raggiunti limiti di età, dopo poco ci fu la crisi con la Dc Quale è stato il fattore scatenante?

È stata la rivoluzione culturale del ‘68. Mi spinse ad assumere posizioni più radicali rispetto a quelle avute fino ad allora e proprie ancora della sinistra Dc. Un elemento determinante è che mi convinsi della necessità di porre fine alla unità politica dei cattolici.

Del resto Il ’68 fu per me un tornante anche per un altro motivo: influì molto sulla mia vita e sul modo di pensare. Intrapresi infatti con la mia famiglia un’esperienza significativa sul piano sociale e in qualche misura anche su quello politico. Andai ad abitare insieme ad un gruppo di famiglie amiche e con un sacerdote, che era promotore e ispiratore di quell progetto, in una borgata di Roma, Fidene. Avevamo costituito una sorta di comunità non priva di una connotazione religiosa ma che faceva anche un lavoro sociale: interveniva sui problemi di quella borgata, dalla povertà all sicurezza stradale, dalla scuola alla lotta contro l’abusivismo edilizio. E istituimmo divenendone insegnanti un doposcuola serale per aiutare a recuperare gli studenti delle famiglie meno istruite che si trovavano in difficoltà negli apprendimenti scolastici.

 

Come si chiamava il sacerdote?

Si chiamava don Antonio Penazzi, era stato il fondatore e l’animatore di uno dei gruppi cattolici di base di ispirazione conciliare esistenti a Roma e che operava in un contesto abitativo diverso, di ceto medio istruito. Il sacerdote aveva poi deciso di portare avanti un progetto più radicale spostandosi in un contesto di povertà economica, culturale ed educativa. L’esperienza durò una decina d’anni fino alla sua morte.

 

Torniamo alla DC. Pensavi all’idea del secondo partito Cattolico?

Esatto. La mia idea era del secondo partito cattolico come primo passo, senza escludere che poi ci potesse essere una aggregazione più ampia con forze anche laiche. Ma la prima scelta era il secondo partito cattolico. In questa prospettiva che andava preparata si collocava la mia adesione all’ACPOL (Associazione di cultura politica) al seguito di Livio Labor, il presidente della ACLI. Restavo ancora democristiano, ma in una posizione piu defilata, più distaccata. Avevo mantenuto un rapporto stretto soltanto con Donat- Cattin.

Donat Cattin aveva guardato con favore alla nascita dell’ACPOL, anche perchè personalmente molto legato a Labor. Questo e le sue critiche alla DC mi fecero così sperare che avrebbe lui potuto assumere la leadership di una uscita di gruppo dalla Dc e della fondazione, insieme a Labor, del secondo partito cattolico.

Del resto, una tale ipotesi Donat- Cattin la riteneva non certa, ma possible. Tanto che arrivò finanche ad esplicitarla in un nostro convegno, nel quale fece la previsione che entro un certo termine temporale, (non ricordo quale indicò) probabilmente essa si sarebbe avverata. Poi qualcosa lo convinse che valeva la pena scommettere ancora sulla DC e non prese questa strada. Venne così meno l’ultimo aggancio che avevo mantenuto con il partito.

 

Poi ci fu la famosa riunione di Forze Nuove a Grottaferrata e Donat- Cattin si bloccò?  Forse  ci sono state pressioni esterne per bloccare l’uscita di Donat-Cattin per impedire la nascita del secondo partito cattolico?

Sì, esatto. Ho sempre pensato che ci fosse stata una forte azione persuasiva da parte di Moro.

 

Anche perché ci furono le elezioni anticipate del 1972 che agirono sui tempi su una possibile crescita  del movimento dei lavoratori.

Ci presentammo come MPL(Movimento politico dei lavoratori) alle elezioni del 1972 e io fui candidato sia a Brescia-Bergamo (in quella lista di MPL c‘era anche un giovane, Savino Pezzotta ndr) sia a Roma dove si candidavano altre due persone non come me provenienti dalla DC, ma con le quali mi ero molto legato già nella fase dell’ACPOL: Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta.

Tu sai bene la storia come finì: in una bolla di sapone. Quindi rimasi con Labor anche nella successiva scelta di aderire al Partito Socialista. Anche perché avevamo intessuto nell’ambito dell’ACPOL uno stretto rapporto con Riccardo Lombardi ed è stata anche la prospettiva di   rafforzare le posizioni della sinistra lombardiana a convincerci di aderire al partito socialista.

 

La vostra è stata sempre una presenza di qualità con Covatta, Castellani a Torino anche gli altri come Franco Marini, Vito Riggio, D’Antoni, Cocilovo che hanno seguito altri percorsi ma si sono affermati politicamente.

Anche Carniti era stato una presenza molto importante. Nel Psi mi sono ritrovato dopo molti anni in linea con le mie simpatie giovanili per la sinistra laica e non comunista e ho imparato molte cose importanti grazie alla vicinanza a persone di grande statura intellettuale come Lombardi, Giolitti, Ruffolo (con il quale avevo lavorato per anni alla programmazione economica), Amato.

 

Come cominciò la fase di disamoramento della politica attiva?

Dopo una quindicina di anni o poco, questo processo. Fui presentato candidato al Senato nelle elezioni del 1987 nel collegio del Molise dove nelle elezioni precedenti era stato eletto un socialista molisano come candidato unitario della sinistra. Anche io fui candidato unitario della sinistra: l’unico modo per battere la DC in una regione dove era di gran lunga il partito più forte. Però toccai presto con mano durante la campagna elettorale l’ambiguità del mio partito nel quale una larga parte della dirigenza locale faceva solo finta di appoggiarmi, perché evidentemente temeva che la mia elezione avrebbe sconquassato la struttura clientelare che avevano da tempo costruito.

Più leali i comunisti, per i quali ero un candidato interessante in quanto appartenente alla sinistra socialista, non irretito in quel sistema clientelare e per molti aspetti vicino alle loro posizioni. Perciò meritevole di appoggio. A pochi giorni dal voto la doccia gelata: Craxi chiarì senza veli che il PSI avrebbe ricostituito l’alleanza con la DC, alleanza che si pensava si fosse invece seriamente incrinata da quando la DC aveva fatto cadere il governo Craxi e determinando la rottura con I socialisti e lo scioglimento della Camere.

Si era aperto perciò uno spiraglio per la fine di quella che Amato e Cafagna avevano chiamato nel titolo di un loro libro Duello a sinistra. La chiusura di quello spiraglio rappresentò per i comunisti molisani uno scossone, si ridussero così anche i loro voti a mio favore. Non fui eletto, tornò a vincere la Dc.

Pensai allora che non aveva senso continuare a profondere energie nella politica attiva, meglio impegnarmi più a fondo nell’università e nella ricerca scientifica, un contesto nel quale mi sentivo decisamente più a mio agio.

 

Questo momento di crisi quando avviene?

Avviene appunto nel 1987 quando sfumó del tutto la prospettiva della unità della sinistra. (Nei primi anni Ottanta Luciano Benadusi ha diretto la sezione Scuola del PSI. Le sue pregevoli relazioni, le sue proposte, le sue iniziative possono essere consultate e recuperate tra le carte di Bettino Craxi della fondazione Craxi accessibili sul sito del patrimonio storico del Senato della Repubblica. (ndr)

 

Lasciare significa non impegnarsi più, ma mantenere un collegamento personale con Covatta, Acquaviva ed altri?

Certamente. Non lasciai il PSI, continuai per alcuni anni a viverne la vita ma a basso regime, uscito dai suoi organi di governo e abbandonata anche la direzione del settore “Scuola e Università”. Rimasi invece attivo attorno alla rivista Mondoperaio con cui da tempo collaboravo considerandola una importante fucina di idee. Rimase però forte il collegamento con le persone che tu hai citato e anche con altri, avendo tra i maggiori esponenti del partito come principale punto di riferimento Giuliano Amato.

Ero rimasto deluso da Craxi, che non avevo votato quando assunse la segreteria (avevo votato per Giolitti), del quale però avevo poi apprezzato alcuni aspetti della leadership nel partito e della sua presidenza del Consiglio. Fui deluso soprattutto perchè era restato troppo a lungo legato all’alleanza pentapartita facendo naufragare per sempre la prospettiva dell’unità a sinistra e dell’alternativa.

Poi, esploso lo scandalo di Tangentopoli, pensai (illusoriamente) che il PSI si poteva forse salvare da quella travolgente crisi – divenuta, oltre che politica, morale e perfino giudiziaria – soltanto con un grande ricambio dei gruppi dirigenti e un diffuso rinnovamento nei comportamenti specialmente in periferia. Ero perciò entrato a far parte di quella costola della sinistra interna guidata da Valdo Spini che era fautrice appunto di un grande rinnovamento anche morale. E si era staccata da Signorile, il leader della corrente di sinistra un tempo fondata da Lombardi, e da quanti erano rimasti con lui a far quadrato insieme alla corrente craxiana. A mano a mano sopravvenne poi la sfiducia di fondo nella possibilità che la crisi del PSI potesse essere arrestata e quindi me ne andai silenziosamente. Per la verità, me ne andai io dal PSI e nello stesso tempo, dissolvendosi, se ne andò lui da me.

 

Senza clamori senza sbattere la porta. Con molta signorilità.

Sì, molti lo stavano facendo.

 

Di questi grandi leader Dc che hai conosciuto negli anni Cinquanta, Moro che figura era? Come li guardavi, come li vedevi?

Sentii molto il fascino di Moro. Con Moro noi del MG avevamo stabilito un rapporto forte ma di sostegno critico. Eravamo affascinati culturalmente da lui. Nello stesso tempo eravamo critici. Pensavamo che il centro sinistra nel quale avevamo tanto creduto, l’apertura a sinistra era stato il mio sogno nella seconda metà degli anni ‘50, aveva subito uno svuotamento a causa del moderatismo presente nella DC. La  nostra parola d’ordine su cui si era impegnata soprattutto Per l’Azione si chiamava “seconda ondata”. La prima ondata del centrosinistra era avvenuta nel segno di Fanfani e di Moro, poi ce ne doveva essere una seconda più coraggiosa e speravamo che lo stesso Moro se ne facesse promotore ed artefice.

 

E invece?

Questo non avvenne!

Comunque avevo un ottimo rapporto personale, lo apprezzavo molto anche sul piano umano. Quando lasciai la DC mi dispiacque anche per lui, Moro, perché immagino che quando seppe della mia lettera di dimissioni ne sia rimasto dispiaciuto. L’ avevo inviata alla segreteria del partito, non ricordo se anche a lui per conoscenza.

 

Che anno era?

Era poco dopo il ‘68!

 

Era il momento in cui Moro si era spostato a sinistra polemizzando con i Dorotei! Come è stato il ’68? A oltre mezzo secolo possiamo esprimere un giudizio? Ha portato democrazia, molte conquiste per gli studenti nelle scuole e nelle Università ma…?

Non tutto è andato bene. Ho curato con altre due persone un libro sul ’68 e l’istruzione, pubblicato on line da Guerini. Un libro collettaneo, a più voci.

 

Moro ha sofferto molto il ’68. Soprattutto nei suoi scritti e nei suoi discorsi si avverte un tormento verso il mondo giovanile, una attenzione per capire le pulsioni delle generazioni  universitarie.

È vero. Si, ci teneva molto. Noi tenevano al rapporto con lui, e lui teneva molto al rapporto con noi. Sapevo che era molto attento come professore al dialogo con gli studenti, e anche come politico al dialogo con i giovani. Di recente ho conosciuto, è un sociologo anche lui, il figlio di Moro, Giovanni, e gli ho confessato quel senso quasi di colpa che avevo verso suo padre, e solo verso di lui, per avere lasciato la Dc.

 

Qualcuno di Piazza del Gesù dopo la lettera si è fatto vivo?

No!

Aggiungo che ero molto legato anche ad alcuni amici di Moro, in particolare a Franco Salvi, pure lui davvero una bella persona.

 

Il personaggio più vicino  a Moro! 

Sì, infatti.

 

Hai partecipato come delegato nazionale Dc dal 1960  al 1968 a otto anni di intensa  vita politica tra direzioni, consigli nazionali e congress. Cosa ti resta di quei momenti (ho contato 64 riunioni) anche rispetto ad altre esperienze politiche? Che cosa resta di quei confronti sia di  Piazza del Gesù così come di quelli in via del Corso o all’ACPOL?

Un abisso rispetto ai dibattiti che si vedono oggi in TV e nei social: il pluralismo delle idee è stato sostituito dal leaderismo e dalle echo chambers. Nella DC si confrontavano alla pari grandi leader e con un rispetto (fosse pure solo formale) reciproco. Nel PSI all’inizio della mia esperienza era ancora così: pluralismo, forse un po’ meno di rispetto, ma un po’ più di sincerità. A mano a mano assistetti poi all’affermarsi sia dell’unicità della leadership, “l’uomo solo al comando”, sia della “politica spettacolo”. Ricordo anche la ricchezza dei dibattiti nei convegni culturali come quelli di San Pellegrino nella DC. E nel PSI il lavoro collegiale e le animate discussioni sul Progetto socialista, a partire dalla bozza che aveva redatto Giuliano Amato con la mia collaborazione.

 

La politica rispetto agli anni Cinquanta oggi come la possiamo vedere? I giovani non frequentano più niente rispetto a quel dinamismo culturale,  quel confronto politico così intenso che c’era, anche aspro, quelle polemiche tra Malfatti e Zangrandi, tra le riviste Per l’Azione e Rinascita e oggi? Che c’è?

Oggi c’è una desertificazione!

 

Che possiamo fare?

Quando mi hai chiamato stavo scrivendo un articolo, che darò perchè venga pubblicato sulla rivista della Fondazione Astrid: un’analisi critica (e qua e là propositiva o contro-propositiva) sui programmi elettorali dei partiti sulla scuola. A fronte dei miei numerosi cambiamenti di collocazione politica ho avuto una costante: mi sono sempre occupato di educazione, politicamente e scientificamente.

Tutti i programmi, quale più e quale meno, hanno qualcosa di populista ma non è un populismo per amore, è un populismo per forza. Perché? Perché quello che è venuto a mancare rispetto agli anni della prima repubblica sono i partiti democratici, oggi ci sono, con qualche eccezione, solo dei partiti personali e si ricorre necessariamente al marketing e al populismo.

Quando c’erano dei partiti veri, i loro uffici scuola erano fucine di idee, luoghi di elaborazione di programmi e prese di posizione, centri di alfabetizzazione politica degli elettori. Vi lavoravano gomito a gomito i parlamentari e gli esperti e si coinvolgevano in qualche misura anche gli operatori sul campo. Non come fanno gli pseudo-partiti di oggi, costretti dalla loro debolezza a vellicare gli interessi più superficiali e particolaristici degli elettori pur di strapparne i voti.

 

Con gli operatori sul campo anche quelli che vivevano la scuola.

Queste elaborazioni che avvenivano negli uffici scuola poi venivano disseminate e messe altresì a confronto con la varietà delle situazioni locali attraverso la rete degli uffici scuola periferici.

 

Anche l’associazionismo che si riuniva ed era presente sulle tematiche erano mondi vitali che si muovevano. Aggiungo che adesso i programmi vengono appaltati ad agenzie di comunicazione! È la costruzione stessa del programma che viene deformata!

I partiti personali sono organizzazioni di marketing politico.

 

Nella relazione del ‘57 c’era un riferimento al superamento della scuola prussiana, mettere al centro l’uomo, settanta anni fa c’erano pulsioni che in parte sono state recepite con le riforme degli anni Sessanta.

Sì il riformismo degli anni SESSANTA aveva dato delle importanti risposte: innanzitutto la riforma della scuola media del ‘62, che è stata un po’ la madre della riforme successive. Non a caso i conservatori di oggi, ad esempio Mastrocola e Ricolfi, fanno risalire ad essa, una riforma voluta soprattutto dal PSI e dalla sinistra DC, l’origine dei tanti disastri che sarebbero stati introdotti dal riformismo scolastico da allora ad oggi.

 

Quanto mancano i partiti politici alla società di oggi?

È una mancanza gravissima che intacca la stessa tenuta della democrazia perché la democrazia alla lunga non regge se non c’è questa funzione di alfabetizzazione politica e di formazione della classe dirigente che un tempo era assolta dai partiti.

Sempre di più si evidenzia che dove esiste una larga parte dell’elettorato politicamente analfabeta e culturalmente deprivato, come in Italia, un elettorato dove l’ignoranza della politica e più in generale il basso livello culturale sono così diffuse (siamo il penultimo paese dell’Europa come livelli di istruzione della popolazione adulta misurati con l’indicatore dei laureati) la democrazia é costitutivamente fragile.

Il cittadino si trova messo di fronte a problemi e linguaggi per capire i quali sarebbe sempre più necessario disporre di un retroterra culturale. Quindi cadono nelle trappole della demagogia e della manipolazione. Sarebbe perciò ancora più importante di prima che ci fossero degli attori sociali, come erano I partiti di una volta, che svolgono questo ruolo di mediazione.

Il discorso va poi, oltre che ai partiti, alla scuola. La mia tesi è che la democrazia si salverà soltanto se la scuola diventerà un polmone  di formazione culturale per la politica, per la cittadinanza, per la democrazia. Quindi se l’educazione alla cittadinanza diventerà una della sue missioni prioritarie.

 

In che modo può farlo? Una scuola “aperta”?

Dovrebbe essere una scuola a tempo pieno nell’ambito della quale,  non solo ci dovrebbe essere un insegnamento specifico di educazione civica, magari con numero maggiore di ore rispetto alla miseria attuale, ma che tutte le discipline, a cominciare dalle quelle più vicine alla tematica politica, fossero coinvolte in questo senso, cioè facessero  educazione alla cittadinanza così come educazione linguistica ed educazione cognitiva trasversalmente. Come tutte le discipline dovrebbero condividere il compito di sviluppare e valutare la padronanza della lingua cosi tutte dovrebbero concorrere a formare le competenze della cittadinanza democratica.

 

Maurizio Eufemi

La Galleria di Eufemi, Franco Bonferroni: la Dc è ancora rimpianta.

Martinazzoli e Castagnetti l’hanno liquidata con un fax

 

Ero forlaniano non fanfaniano. Fanfani, oggi ci vorrebbe un uomo come lui. Casini nel Pd? Adesso riflette la sua natura opportunistica. Fa una cosa che non farei mai! Cirino Pomicino? Un grandissimo presidente della commissione Bilancio. Andreatta uomo geniale ma anche strano: dimenticò la moglie nell’autogrill, si doveva sempre cambiargli collegio elettorale perché non ci andava mai.

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 29 Settembre 2022

 

Oggi incontriamo Franco Bonferroni, esponente Dc nella “rossa” Emilia cresciuto nella scuola politica di Giuseppe Medici.

Bonferroni (Reggio nell’Emilia, 10 ottobre 1938) è stato parlamentare per quattro legislature, tre alla Camera dei deputati e una al Senato della Repubblica e sottosegretario di Stato all’Industria, Commercio e Artigianato nel sesto governo Andreotti e al Commercio con l’Estero nel settimo governo Andreotti. Prima e dopo la esperienza politica e parlamentare negli anni Ottanta e Novanta ha avuto responsabilità manageriali sia nella comunità locale di Reggio sia in ambito nazionale.

 

Sto facendo una ricostruzione dell’impegno politico dei giovani negli anni Cinquanta e ho ritrovato nei preziosi  documenti storici  la tua partecipazione al convegno degli studenti nel 1957 al Sestriere in rappresentanza di Reggio Emilia  insieme  a Eugenio Chiessi. Era un convegno importante che ha visto tra i relatori Augusto Del Noce, Vincenzo Cappelletti. Vorrei approfondire.

Mi ricordo che c’era molto freddo. (In realtà era un periodo di fine agosto tra il 20 e il 23, ma per chi viene dalla pianura Padana e sale in quota 2035 sul Comune più alto d’Italia avverte la differenza climatica ndr). In particolare tra i relatori ricordo Giovanni Gozzer.

 

C’erano i responsabili giovanili come Andrea Borruso, Giovanni Garofalo e dei giornali studenteschi tra cui Nicola Bruni di Roma e Giovanni Grassi di Messina.

Sì, Giovanni  Grassi lo ricordo bene. Ero diventato presidente a Reggio Emilia del movimento studentesco  degli studenti medi ed eravamo partiti con Corrado Corghi, il professor Corghi era stato segretario provinciale della Dc ed era stato anche segretario regionale della Emilia Romagna. Era un personaggio colto, vivace, aveva carisma.

 

Su che posizioni politiche era?

Era di sinistra, ma veniva da Fanfani.

 

Molti  giovani facevano riferimento a Fanfani dopo la direzione di Franco Malfatti.

Sì, però Corghi era più vecchio di Malfatti. Era venuto prima. Corghi era fanfaniano e, allora, chi faceva un grande lavoro per Fanfani era anche Rumor.

 

Quando nasce iniziativa democratica!

Esatto.

 

Hai partecipato ai convegni di Faenza promossi da Achille Ardigó che erano stati molto propositivi?

No, non ho mai partecipato ai convegni di Faenza, perché essendo di Reggio Emilia ero della parte  ovest però ho sempre un grande ricordo di quei tempi.

 

Scrivevi sulla rivista del movimento giovanile?

No, ho fatto sempre un lavoro organizzativo molto forte, ma quei tempi e quelle iniziative sono state molto importanti nella formazione dei giovani e dico sempre che era una grande scuola, una palestra decisiva per far crescere le nuove generazioni.

 

Hai conosciuto e avuto rapporti con Bartolo Ciccardini, Luciano Benadusi e Celso de Stefanis?

Sì, Luciano Benadusi è stato mio grande amico per tanti anni e lo rivedrei anche volentieri. Lo andrei a cercare. Ero stato nella direzione del movimento giovanile. C’era un Ciolini di Firenze. Mattioli era un ragazzo colto e intelligente, aveva del fondamento. Poi Carlo Fuscagni.

 

Dopo questa esperienza al movimento giovanile quale strada hai percorso?

Mi sono messo a lavorare. Non sono mai stato consigliere comunale. Sono diventato il più giovane Presidente di Camera di Commercio, avevo poco più di trent’anni.

 

Chi erano i tuoi riferimenti politici a Reggio Emilia?

Il riferimento politico era Corghi e un certo Picchi. Dei parlamentari, ho lavorato con Giuseppe Medici, che è stato ministro dell’Agricoltura, del Bilancio, del Tesoro, della Pubblica Istruzione, della Riforma  della PA. degli Esteri due volte. Poi c’era Marconi, un uomo di grande carisma e prestigio, era stato un comandante partigiani, ufficiale medico e aveva fondato un ospedale – che c’è ancora – nel capoluogo dell’Appennino, Castelnuovo Monti. E aveva fatto un voto: Andava sempre con i sandali anche in inverno quando c’era un freddo terribile.

Poi come riferimenti vengo dalla sinistra.  Ero amico di Marcora e di Nicola Pistelli (scomparso prematuramente) che era animatore del rivista Politica.

 

Dopo questa esperienza con la Base hai cambiato posizione politica?

Ho seguito De Mita e Forlani quando hanno fatto il Convegno politico di San Ginesio. Avevo presentato una lista, Base Forlani, al congresso provinciale di Reggio Emilia, facendo irritare Fanfani! Ero amico di Sergio Ercini, e Bordino, vicino a Radi.

 

Dopo la Camera di commercio?

Sono stato membro di Giunta delle Camere di commercio per cinque anni, quando era presieduta da Degola che era diventato poi senatore, che prese al Senato il posto di Medici. Poi mi sono presentato alla Camera nel 1979 e sono stato eletto.

 

Hai partecipato alla battaglia per il capogruppo tra Gerardo Bianco e Giovanni Galloni?

Con Bianco avevo un bel rapporto. Guardavo alle iniziative di Bianco e di Segni con Proposta.

 

L’Emilia degli anni Sessanta e Settanta,  ed ora come sono state le trasformazioni del “modello emiliano”?

L’Emilia è sempre stata una regione forte dal punto di vista economico perché ha sempre avuto una meccanica forte e una agricoltura molto forte, basata su alcune produzioni particolari con il latte da cui derivava il formaggio parmigiano reggiano e aveva la vite con il vino Lambrusco nella parte nord e il Sangiovese nella parte sud.

 

E la barbabietola?

Era a Ferrara.

 

Beh è sempre Emilia! E la patata in provincia di Bologna?

Bologna è sempre stata una città importante dal punto vista culturale con una università molto rilevante.

 

Nella competizione con il sistema proporzionale com’ era la circoscrizione elettorale Modena Parma Reggio Emilia Piacenza?

Quando sono stato candidato la prima volta avevo le quattro province;  dovevo girare dal confine di Bologna al confine della Lombardia, verso Lodi. Erano circoscrizioni grandi. Bisognava fare tanti chilometri.

 

Facevi alleanze con altri candidati delle altre province?

Sì avevamo una alleanza e l’avevamo un po’ a sinistra di Ermanno Gorrieri che era il capo del gruppo di Donat Cattin, di Forze Nuove e poi c’era Casini che venne un po’ dopo di me perché Casini è stato eletto nel 1983. Andavamo molto d’accordo. Avevamo fatto un bel lavoro.

 

Ma adesso come lo vedi Casini nel PD?

Adesso riflette la sua natura opportunistica. Fa una cosa che non farei mai!

 

E le tue esperienze parlamentari?

Nel 1979 sono stato in commissione Industria per tutta la legislatura, c’era Emma Bonino, c’era Giorgio La Malfa e Massimo Cacciari.  Poi in quella successiva incontrai un giorno in Transatlantico Paolo Cirino Pomicino, che mi disse che si era liberato un posto alla commissione Bilancio “vieni con me alla Bilancio”. Risposi “vengo subito”. Mi ha portato là e devo dirti che è stato un grande Presidente. Lo ricordo come un grandissimo presidente della Commissione.

 

Che cosa ti rimane della esperienza parlamentare, di quattro legislature, tre alla Camera e una al Senato?

Mi rimane in mente il grandissimo servizio al territorio. Noi quando arrivavamo a casa il venerdì dicevamo: “adesso si va a casa e si comincia a lavorare”, perché ci riposavamo  più a Roma che a casa,  dove c’era un lavoro incessante; bisognava fare tutto, correre dappertutto. Dopo il Senato mi sono ritirato nel 1994 quando è finita la Dc.

 

Come l’hai vissuta la fine traumatica della Dc?

Se devo essere proprio esplicito devo dire che Martinazzoli e Castagnetti hanno liquidato la Dc con un fax; sono stati due pazzi. Ti rendi conto che la Dc è ancora rimpianta oggi, dopo trenta anni  a non da persone che hanno novanta anni, ma da persone che ne  hanno cinquanta, sessanta.

 

Secondo te l’hanno fatto in maniera strumentale?

Non l’hanno fatto in maniera strumentale, intanto non hanno riunito nessun organo. Non hanno consultato nessuno. Hanno deciso così perché (intanto passa la moglie e suggerisce: “hanno deciso così perché se la sono fatta nei calzoni!”).

 

Hanno avuto paura delle inchieste giudiziarie?

Certo. Hanno avuto paura.

 

Oggi si può dare una lettura diversa.

Certamente.

 

Chi ricordi di più di quegli anni, quelli del movimento giovanile o quelli che hai incontrato in parlamento?

Avevo un rapporto molto forte con tanti colleghi, tant’è che quando c’era qualche progetto di legge che si incagliava, non andava avanti e bisognava spingerlo, mi venivano a cercare perché avevo un modo di fare con i colleghi che riuscivo sempre a trovare la soluzione che scioglieva il nodo.

 

Un bel segno di stima!

Un segno che veniva riconosciuto. Intanto non perdevo le carte per la strada e quando  veniva un elettore che mi portava un appuntino di venti righe era sicuro che una risposta la riceveva. Era un metodo di lavoro.

 

Il Patto di San Ginesio8 patto generazionale tra Forlani e De Mita, ha portato risultati o ha fatto naufragare le speranze dei più giovani?

È stato produttivo perché era un salto generazionale che bisognava fare.

 

Però dopo nel 1983 ci fu una perdita elettorale di 6 punti. L’immissione di tanti consiglieri regionali ha svuotato le Regioni?

È vero;  al tempo della segreteria Fanfani nel 1958 la Dc portava in parlamento i segretari provinciali, poi dopo  San Ginesio venivano selezionate anche persone diverse, con maggiore apertura, con una classe dirigente buona, con gruppi parlamentari forti, forse le regioni hanno raccolto prevalentemente personale che veniva dalle organizzazioni di categoria.

 

Quali leader ricordi in sintonia con le tue sensibilita ?

Avevo un rapporto molto forte con Arnaldo Forlani. Ero forlaniano, non fanfaniano, ho un grande rispetto per Fanfani, un uomo così ci vorrebbe anche oggi. Ha fatto cose straordinarie, riforma agraria, piano casa, riforma della scuola, un grandissimo leader. Marcora  nei quaranta giorni della mia prima campagna elettorale è venuto a Reggio Emilia da ministro dell’Agricoltura, quattro volte per farmi la campagna. Mi ricordo che addirittura in un paese ha fatto un comizio in piedi su un carro agricolo che portava il fieno.

Avevamo dei personaggi.! Oggi quando devono sostituire un presidente del Consiglio non sanno dove voltarsi per trovare uno che sia in grado di farlo. Noi Dc ne avevamo quindici in grado di fare il presidente del Consiglio. Avevamo della gente di primissima qualità e di livello. Tutta gente che era maturata nelle Istituzioni in posizioni di responsabilità. Era gente che sapevano dove mettere le mani, che se dovevano cercare una carta, sapevano dove era.

 

E dei leader locali oltre il grande Medici, allievo di Serpieri chi c’era?

Quando abbiamo fatto la riforma agraria-  noi con il consenso, – abbiamo fatto tutto con il consenso, abbiamo fatto sparire il latifondo in regioni intere, creando una classe di persone che sapevano fare il loro mestiere, che conoscevano i problemi, che amavano la terra.

 

Andreatta come emiliano cosa ti lascia?

Andreatta era un uomo geniale, di grande cultura, peró era anche un personaggio strano. Ad ogni legislatura bisognava cambiargli collegio perché una volta eletto non si faceva più vedere e allora non ne voleva più sapere nessuno e bisognava cambiarlo una volta in un posto, una altra volta in un altro. Una volta lui parti da Bologna, diceva andare a Fiorenzuola d’Arda nel suo collegio quando sta per uscire dalla città e prendere l’autostrada,  lui si ferma per prendere qualcosa in un grill, sua moglie si allontana. Lui sale in macchina, riparte, si accorge che aveva lasciato la moglie  al grill quando era ormai a Parma. Hai capito? Questa cosa che ha fatto ridere tutti. Se ne parlava da tutte le parti. Un’altra volta quando non fu eletto,  l’avevano messo candidato nel Trentino; lui si presentava a fare le riunioni, si sedeva, voleva  avere una seggiola davanti su cui appoggiava delicatamente i piedi perché lui parlava alla gente tutto disteso, con i piedi sulla seggiola che gli mettevano davanti. La gente era infastidita. Diceva tu vieni qui a parlarci e ci metti in faccia i piedi!

 

A parte questi aneddoti,  Andreatta dal  punto di vista politico? Era inserito nella Dc? La Dc la sentiva, oppure no?

Lui poteva stare anche da un’altra parte.

 

Poteva stare nel partito repubblicano?

Sì, hai nominato proprio il partito giusto.

 

Ho frequentato Prodi, Cavazzuti  dal 1979, quando a Bologna si tenevano gli incontri trimestrali di  Prometeia, allora guidata da tuo cugino il Prof. Angelo Tantazzi che ricordo con grande stima.

Sì c’era tutto un mondo che si metteva in moto oltre le sedi universitarie in un collegamento con banche e imprese. Sono rimasto molto amico con Prodi perché è nato a Reggio come sono nato io; Prodi lo conoscevo da quando avevo tredici anni.

 

Avete la stessa età?

Non andavamo a scuola insieme, ma frequentavamo lo stesso ambiente parrocchiale.

 

Glielo hai dato qualche consiglio politico?

Con Prodi ho il dialogo anche se non l’ho mai votato. Lui lo sapeva e non m’ha mai posto un problema. Noi parliamo con grande franchezza di tutte le cose.

 

Come spiriti liberi?

Non l’ho mai votato, quando si presentava qui alla Camera,  perché portava avanti delle cordate che non erano la mia, ma se fosse stato possibile portarlo alla Presidenza della Repubblica l’avrei votato sicuramente perché quando siamo stati lì che si parlava di questo, quello che potevo fare per lui l’ ho fatto.

 

Però l’hanno tradito quelli del suo stesso partito.

Certo.

 

I consigli li accettava?

Sì, stava sempre ad ascoltare.

 

L’esperienza di governo come è stata?

Il mio ministro è stato il repubblicano Adolfo Battaglia.

 

Quindi hai seguito la riforma dell’artigianato.

Sì tutti i problemi della piccola e media impresa, l’acciaio, l’antitrust. Quando divenni sottosegretario andai da Battaglia a presentarmi e gli ho detto. “So che nei ministeri comandano i Ministri. Non pensare che io venga qui ad inventarmi cose nuove. Farò quello che tu mi dirai di fare e se il mio partito non sarà d’accordo farò lo stesso quello che ti deciderai di fare perché il Ministro sei tu”. Mi ha dato moltissime deleghe compreso il CIPE.

 

E con questo momento di rispetto istituzionale terminiamo questo colloquio che parte dagli anni Cinquanta ai tempi più recenti insieme al ricordo di tanti personaggi emiliani e nazionali. 

 

Maurizio Eufemi

La Galleria di Eufemi. Giorgio De Giuseppe, nel ’92 stavo per essere eletto capo dello Stato con i voti del Msi. Sventai la manovra.

 

intervista di Maurizio Eufemi tratta dal giornale online "beemagazine.it" del 1 settembre 2022

 

Quell’esame di Filosofia del diritto con Moro rinviato di anno in anno. La Dc distrutta dal correntismo. Per noi giovani Fanfani era l’innovatore. Moro stava con i dorotei. Poi le cose cambiarono. I complimenti di Pella. Un unicum: Vicepresidente del Senato, per tre legislature, anche vicario, con quattro Presidenti: Cossiga, Malagodi,  Fanfani e Spadolini. Quel rapporto meraviglioso con Spadolini. Fu sua la proposta- per salvare la Dc dal correntismo –  nell’83 di incompatibilità tra mandato parlamentare e incarichi di governo. Fu approvata solo 10 anni dopo quando ormai era troppo tardi.

Oggi incontriamo Giorgio De Giuseppe Avvocato, classe 1930, dunque un novantaduenne,  già docente di istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Lecce, provveditore agli studi di Lecce.

Nella sua lunga carriera  politica De Giuseppe ha ricoperto numerosi incarichi da  delegato provinciale e regionale del Movimento giovanile della Democrazia Cristiana a segretario provinciale della D.C. dal 1968 alla candidatura al Senato nel 1972, poi nelle Istituzioni: Senatore della Repubblica, eletto nel collegio di Galatina-Gallipoli ininterrottamente per sei legislature, dal 1972 al 1994.

Quando scomparve la Democrazia Cristiana si ritirò volontariamente dalla politica attiva rinunziando alla riconferma della candidatura; è stato eletto presidente del gruppo parlamentare dei senatori della D.C. dal 1980 al 1983; vicepresidente vicario del Senato per tre legislature dal 1983 al 1994; presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla dignità e la condizione sociale dell’anziano, istituita dal Senato nel 1989. La relazione conclusiva venne votata all’unanimità; per contrastare il correntismo all’interno del partito, propose dal 1983 l’incompatibilità per i Democratici Cristiani tra mandato parlamentare ed incarico di governo: la proposta trovò attuazione soltanto nel 1992 con il governo Amato I e, nel 1993, con il governo Ciampi, troppo tardi per contrastare la crisi del partito. Il documento si trova in Senato nel Fondo Roberto Ruffilli. Fu Candidato Dc  al Quirinale nel 1992.

Dal 28 maggio 2010 è stato difensore civico della Provincia di Lecce, dove è stato eletto all’unanimità dei voti di centrodestra e centrosinistra, portando la sua esperienza al servizio  della comunità.

 

Sei pronto a rispondere ai miei quesiti?

Sono pronto, sono ai tuoi ordini.

 

Voglio scavare negli anni giovanili per scoprire le ragioni del tuo impegno politico.

Entro in politica per caso. Ero studente al terzo anno di università e preparavo l’ esame di filosofia del diritto, che non mi decidevo a dare, perché essendo il professore amico di famiglia, non volevo dare l’impressione di essere impreparato per avere un ottimo voto.

 

Chi era il professore?

Era Aldo Moro. E quindi rinviavo di volta in volta l’esame che avrei dovuto dare al primo anno. Al terzo anno avevo ancora questo esame da sostenere. Un giorno, arrabbiato con me stesso per questa incapacità a superare i timori e le preoccupazioni, andai  a una Assemblea  della Dc. Era venuto in quella assemblea Giovanni Elkan,  che era vicesegretario nazionale della Dc: era in Puglia a visitare la zona di riforma agraria, sia la zona dell’otrantino sia dell’Arneo (consorzio speciale di bonifica di quasi 253 mila ettari in tre province di Lecce, Brindisi e Taranto ndr) che è a Nardó.

Nel corso della assemblea dopo la relazione generale fu aperta la discussione e io pur non essendo iscritto al partito chiesi di parlare. Evidentemente non dissi molte sciocchezze. Il segretario provinciale chiese : “Chi è questo ragazzo che sta parlando? “. Il giorno dopo mio padre ricevette una telefonata dal segretario provinciale che gli chiedeva che io andassi a Lecce perché voleva parlarmi.

 

E che successe?

Mio padre capì subito. Disse ad Antonio Fiocca, un mito della Dc: “Lascia mio figlio, si deve laureare; non mi devi parlare di politica”.  Fiocca attese  due anni. Quando –  come allora si usava – sul giornale  apparve l’annuncio che mi ero laureato,  ritelefonó a mio padre: “Giulio,  io ho atteso, mantieni l’impegno; adesso fai venire tuo figlio che gli voglio parlare”. Così io mi trovo da un momento all’altro nominato commissario provinciale del movimento giovanile della Dc e comincia la mia avventura nel partito.

 

Chi c’era allora nel movimento giovanile?

Il movimento giovanile si trovava in una difficilissima situazione. C’era il gruppo che poi abbandonó il movimento giovanile, era il gruppo della sinistra. In quell’epoca da una parte c’era  Franco Maria Malfatti,  che poi continuó  a restare nella Dc, mentre dall’altra un gruppo di competitori di giovani, come Lucio Magri e Chiarante che poi lasció  il movimento giovanile della Dc e poi passò nella federazione giovanile comunista. La rottura avvenne a Firenze nel ’55 (il 10 e 12 giugno 1955 ndr). Eravamo riuniti per il congresso giovanile al teatro Rondó di Bacco di Palazzo  Pitti che è un piccolo teatro. Li ci fu lo scontro tra Magri e tutto il nostro gruppo, il gruppo Malfatti. In quel congresso venne eletto Ernesto Laura con 41 voti sui 37 a Franco Boiardi.

 

Scrivevi su “Per l’azione” o “terza generazione”

Terza generazione” ospitava gli scritti sia del gruppo Malfatti  sia dell’altro gruppo di sinistra. Una volta avvenuta la scissione “Terza generazione” non venne più pubblicata. Su”Per l’Azione”, molto attivo  era il ruolo dei fiorentini e di Nicola Pistelli che  purtroppo scompare  molto presto. L’apporto che avrebbe potuto dare alla politica fu per un periodo molto breve. Pistelli era di quella rivista la  espressione importante.

 

Partecipavi  ai convegni?

In quell’epoca molti convegni venivano fatti. Era l’epoca in cui la Dc dopo la fine della esperienza degasperiana e la presa della guida di “Iniziativa  Democratica” con Fanfani e gli altri,  comincia il discorso del centrosinistra. Sì, di convegni ne abbiamo fatti tanti. Credo che uno di maggiore rilievo sia stato quello di Salerno.

Si verificò una cosa interessante. Per la prima volta la stampa quotidiana cominció a parlare del movimento giovanile della Dc con articoli apparsi sul “Giornale d’Italia”, sul “Messaggero”. Il mio intervento al convegno di Salerno fu ripreso dai quotidiani  nazionali. Sta a dimostrare che la stampa nazionale dava rilievo al ruolo che il movimento giovanile esercitava. Il movimento giovanile compì una scelta unitaria sostenendo Fanfani, allora in polemica con Moro perché dalla riunione delle suore Dorotee, i Dorotei eleggono segretario del Partito Aldo Moro. Noi eravamo su altre posizioni. Noi eravamo con Fanfani. Aveva concluso la esperienza di segretario del partito perché aveva assunto su di sé tutti gli incarichi possibili e immaginabili:  era Segretario del Partito, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri.

La rivolta in un consiglio nazionale da parte del gruppo Doroteo ci fu  e Fanfani  non se lo fece  dire due volte; piantó  tutti, cominció a girare l’Italia e lo invitai a Lecce.

 

Peró quando aveva questi momenti di crisi Fanfani ripartiva dai suoi amici in Maremma…

Certo. Si dimette e si appella alla base del partito. E comincia il giro della periferia. Viene a Lecce. C’era già un esponente dei fanfaniani  che era l’ avv. Alessandro Agrimi  Sindaco di Lecce, deputato e senatore, una figura importante, molto leale,  molto rigorosa nei confronti di questa scelta fanfaniana. Con Agrimi organizzammo la visita di Fanfani a Lecce. Questo crea scompiglio perché tutto il gruppo dirigente della Dc, il segretario provinciale Giacinto Urso,  poi i deputati che erano Giuseppe Codacci Pisanelli, Beniamino De Maria,  i senatori Arcangelo Magli e Michele De Pietro,  erano tutti sulle posizioni dorotee. Per cui il movimento giovanile fu interprete della linea Fanfani nella provincia di Lecce.

 

Dei giovani in Puglia chi c’era?

I giovani erano tutti sulla mia linea, Francesco Rausa e  Angelo Tulli che diventano successivamente deputati. Giacinto Urso era segretario provinciale,  contrastava tenacemente la nostra posizione. Devo purtroppo dire che quella  iniziativa di Fanfani, che servì a valorizzare il dibattito in periferia e che aveva seri contenuti di impegno politico segnò  però l’inizio nefasto del sistema correntizio della Dc. È l’inizio in quegli anni ’59- ’60, a mio modo di vedere,  del processo che ha distrutto la Dc con il correntismo.

 

Nel 1959 è l’inizio di un processo degenerativo, di scontro di potere? 

Comincia allora quel processo degenerativo. Le correnti diventano all’interno della Dc il processo disgregatore del Partito.

 

E Moro per te che  sei nato a Maglie che cosa ha rappresentato?

Proprio perché per primo avevo  parlato dell’incontro con i socialisti, per un primo periodo di tempo, nei confronti di Moro avevo tutte le mie riserve. Per me Moro era il capo dei Dorotei, quello che si contrapponeva a Fanfani mentre Fanfani per me era il progressista, Moro  invece no. Poi le cose cambiano. Moro assume progressivamente, lentamente tutta una posizione che lo porterà poi al suo martirio. Di questo si tratta.

Quando parliamo di Moro  e Fanfani parliamo di due figure intellettuali della DC completamente all’opposto. Fanfani è l’uomo degli scatti, del nervosismo, della non adeguata riflessione, Moro comincia un cammino che lentamente,  stancamente porta all’evoluzione agli anni dell’incontro, del colloquio con il partito comunista. Sono due personalità profondamente diverse con idee diverse. Sul piano dei temperamenti;  più che contrasto di idee è contrasto di temperamenti. Noi che eravamo giovani impulsivi e tenaci che volevamo dall’oggi al domani cambiare il mondo e cambiare il partito eravamo con Fanfani.

 

Era un innovatore Fanfani?

Sì.

 

Entri in Senato nel  ’72 

Sono stato segretario provinciale dal ’68. Dopo quattro anni riportai  la Dc a livelli di grande forza nella provincia di Lecce, per la prima volta conquistammo il capoluogo, che era il centro dei gruppi organizzati di destra fascista, massonica. Conquistai il comune di Lecce con un sindaco eccezionale, Totò Capilungo; la mia segreteria provinciale diede ottimi risultati.

Il diabete che ho dal  1970 scoppiò  durante la campagna elettorale delle prime regionali. Perché bevevo, bevevo, io che non bevevo mai. Non andai dai medici perché la prima prescrizione sarebbe stata di darmi una calmata. Il segretario provinciale  dell’epoca si dedicava da mattina a notte. Tornavo a casa all’una e mezzo di notte. Dopo l’università al mattino, dove facevo lezione, andavo al provveditorato agli studi, poi dal pomeriggio la massa dei problemi infiniti di una provincia di ben 94 comuni. Non mi feci curare. Continuai l’attività. Ricordo l’ultimo comizio, quello in piazza sant’Oronzo a Lecce di ringraziamento per il grande successo ottenuto.

 

Che cosa successe?

Ad un certo momento,  non mi era mai accaduto,  la bocca si impasta, avverto il bisogno di bere,  guardo intorno, non vedo una bottiglia d’acqua, un momento drammatico perché non riuscivo più a parlare. Intorno a me solo i parlamentari Dc. Non potevo chiedere aiuto. Disperato,  guardo e vedo  un bicchiere d’acqua ma osservo che tutto il primo strato di acqua era nero, perché i moscerini richiamati  dal caldo e dalla luce dei riflettori avevano sentito il bisogno di bere loro prima di me. Ero di fronte al dilemma: o interrompere il comizio o bere l’acqua con i moscerini.

 

Come finì?

Bevvi l’acqua con i moscerini!

 

Cosa non si fa per l’amore della politica!

Poi andai a Parma e iniziai la cura diabetica.

 

Hai svolto il mandato parlamentare negli anni Settanta e Ottanta e inizio Novanta, quelli dell’intervento straordinario, della riduzione dei divari, della crescita della Puglia come Regione con gli indicatori migliori di tutto il Mezzogiorno, poi la fine dell’intervento straordinario? Come l’hai vissuta la politica in Parlamento?

Sono stato un parlamentare molto fortunato. Accadde un fatto imprevedibile. Si svolse la prima Assemblea dei deputati Dc. La presiedeva Fanfani perché non c’era ancora il presidente del Gruppo. C’era una grandissima sala per contenere gli oltre 130 senatori Dc per essere autonomi. Io impaurito, conoscevo solo Agrimi e il sen. Francesco Ferrari della provincia di  Lecce. Partecipai ricordando quello che Giolitti aveva detto a uno dei suoi amici che aveva fatto eleggere alla Camera: “Non ti preoccupare,  il primo anno devi solo sentire, guardare e cercare di capire”.

Ebbi la tentazione di parlare e chiesi di parlare. Finita l’assemblea Fanfani nella replica non rispose a nessuno ma solo a me ripetendo più volte ” … come ha detto De Giuseppe! “. Alla fine alle mie spalle sentii la voce di Pella che avevo amato quando da presidente del Consiglio  difese Trieste e la italianità che disse “De Giuseppe oggi hai avuto successo, cerca di fartelo perdonare”. Rispondo: “presidente terró conto”.

Questo fatto fece sì che il mio nome circolasse. Alle elezioni delle cariche del gruppo parlamentare vengo eletto componente del direttivo del Gruppo con un notevole successo personale: ebbi ben 25 preferenze. Questo fatto mi aprì la possibilità di seguire il lavoro del Senato e del gruppo Dc attraverso i suoi presidenti soprattutto con Bartolomei che fu il presidente  che poi sostituii quando lui divenne ministro dell’Agricoltura.

 

Come andò la elezione e a presidente del Gruppo senatoriale?

La mia elezione  avvenne per la prima volta con una contrapposizione. Le battaglie avvenivano solitamente alla Camera. Al Senato si concordava con il Partito. Pur essendo il vicepresidente non pensavo assolutamente ad  essere candidato. Un giorno entró nel mio ufficio Gino Cacchioli  senatore eletto a Parma,  una figura molto importante della Resistenza in Emilia, comandante delle brigate partigiane, decorato di medaglia d’argento al valore militare. Occupò con una ventina di senatori il mio studio e dissero: Giorgio, abbiamo deciso:  il presidente devi essere tu.

 

Come nacque questo pronunciamento? Che cosa era accaduto?

La corrente di “Base” senza concordare con nessuno aveva candidato Salverino  De Vito. Questo atteggiamento aveva infastidito per questo gesto di arroganza del gruppo di Base che pensava di decidere senza parlare con nessuno. Si giunse anche in Senato allo scontro.

 

Come  alla Camera tra Gerardo Bianco e Giovanni Galloni, in Senato  lo scontro tra De Vito e De Giuseppe. Quella fase li, quel ruolo bellissimo, come lo ricordi? Che cosa ti rimane?

Rimane la ricomposizione della unità del gruppo. Prendo in mano un Gruppo  quasi spaccato a metà e riesco a recuperare la unità. Innanzitutto lasciando aperta la porta del mio ufficio. Tutti potevano entrare e ciò pose il presidente in un colloquio continuo con tutti i senatori. Presi  l’iniziativa di dare notizie flash alle 15. Emettevo un foglio di notizie.

C’era l’esigenza di informazione per i senatori. Siamo nei primi  anni Ottanta:  non c’erano telefonini, solo telescriventi,  poi niente. Alle 15 facevo trovare le notizie più importanti. Una iniziativa che ebbe apprezzamento anche dalle opposizioni. Poi resi le assemblee del gruppo non occasionali, ma periodiche.  Una volta ogni quindici giorni il gruppo si riuniva in assemblea e ciò consentiva di creare un clima di amicizia,  di simpatia, di stima . Tu pensa quando Gonella, Scelba, Rumor parlavano. Era momento di unità. C’era poco da dire: “Io sono della Base, sono di Forze nuove…” . Prevaleva il senso di unità.

 

Poi lasciasti il Gruppo e fosti eletto vicepresidente del Senato. Come avvenne questo passaggio

Lasciai il gruppo per una richiesta fatta da Piccoli e da De Mita. Dovevo essere quella mattina riconfermato, non c’erano altri candidati.  Si parlava sempre di una candidatura di Mino Martinazzoli, come competitor, ma Mino mi disse:  Giorgio stai tranquillo, qualunque cosa dicano voto per te, non creo divisioni all’interno del gruppo.

Poi mi chiama Piccoli e mi disse ti devo parlare. Bisaglia aveva cominciato a fare i capricci e aveva costituito un gruppo di deputati e senatori e di segretari provinciali del Veneto che si erano staccati dal controllo di Rumor e si erano orientati verso la iniziativa più forte, più vivace, più presente di Antonio Bisaglia.

Questo creava all’interno del Consiglio nazionale, dove le posizioni che facevano riferimento a De Mita non erano così forti, una situazione per cui dominus al Consiglio nazionale era Antonio Bisaglia. Piccoli mi disse anche a nome di De Mita di lasciare. Verrà Bisaglia perché abbiamo bisogno di rafforzare la Segreteria. Risposi a Piccoli. “Tutto questo non è successo stanotte. potevate dirmelo 15 giorni fa. Oggi si vota. Non c’è una candidatura ufficiale”.

Avevo ricevuto conferme. Zaccagnini mi disse: “Giorgio il mio voto è per te”. Volli parlare con De Mita. De Mita mi fece lo stesso ragionamento di Piccoli. Ti chiediamo di metterti da parte perché rischiamo di non avere la maggioranza in Consiglio Nazionale. Quando vado al Senato per raccogliere le carte per andare via, trovo Zaccagnini e altri che protestano. Dopo due giorni mi telefona Antonio Bisaglia.

Domani votiamo un vicepresidente del Senato di nostra competenza vorremmo che fossi tu. Risposi: “È iniziativa tua o della direzione del Partito?” Mi rispose “È iniziativa mia e della Direzione del Partito”. Così mi trovai vicepresidente del Senato.

 

Sei stato Vicepresidente del Senato fino al 1994,  anche vicario, con quattro Presidenti: Cossiga, Malagodi, Fanfani e Spadolini.

Sì, rappresento un unicum. lo sono stato vicepresidente per tre legislature con un succedersi di presidenti. Realizzo un rapporto meraviglioso con Spadolini. Spadolini quando celebra a Firenze i 25 anni di ordinariato mi volle all’Istituto Alfieri, fui  l’unico senatore, mi fece visitare anche la sua casa con la Biblioteca strapiena di libri, poi donata, una casa che lui non abitava, ma con aria condizionata per conservare i preziosi libri. C’era una sola camera da letto, era quella della madre che lui adorava. Il resto erano solo stanze strapiene di libri. Mi volle quel giorno accanto a sé.

 

Anche con Giovanni Malagodi sei  stato vice.

Sì, per un breve periodo. Era la fine della legislatura. Si trattava di un mese. Nicola Mancino voleva  me, ma per una serie di accordi fu mantenuto l’impegno verso Malagodi,pPresidente del Senato. Toccò a me accompagnare la salma nel piccolo cimitero in Toscana dove è sepolto nel paese di origine della famiglia.

 

Il rapporto con Giovanni Spadolini è quello che ti è rimasto di più?

Spadolini era un grande personaggio. Bisognava avere consapevolezza di trattare con una persona che meritava grande rispetto. Non perché era presidente del Senato, ma perché era un uomo  che onorava la cultura italiana. Non mancai mai di svolgere il ruolo di collaboratore attento e anche rispettoso. Accadde un episodio. Inizialmente rimase turbato, poi con intelligenza capì. Quando presiedeva lui , tutti i gruppi ne erano felici. Sapeva fare  mille cose ma una volta era fuori di sé, non sapeva presiedere l’Assemblea. Mentre  presiedeva pretendeva  di telefonare,  di scrivere,  di preparare articoli (multitasking si direbbe ora ndr) molte cose insieme, ma perdeva il controllo dell’Aula, una volta mi lasció  presiedere una seduta di Legge Finanziaria in un momento delicato e difficile.

In quelle due ore riesco con cipiglio e impegno a chiudere in anticipo, a fare quello che con Spadolini  occorrevano due o tre giorni. Quando tornó  a presiedere l’Assemblea scoppia un fragoroso applauso da sinistra a destra al momento del cambio delle consegne. Spadolini non capisce l’applauso. Chiede a Gaetano Gifuni: “Perché mi stanno applaudendo?”. Il Segretario generale chiarisce a Spadolini che l’applauso  era per il sen. De Giuseppe! Spadolini diventa rosso in volto. Da allora la nostra amicizia divenne più intensa perchè ogni volta mi diceva: “Ah briccone, hai cercato di diminuire il mio prestigio!”. Lo ricordo con affetto.

 

Hai avuto una grande soddisfazione, sei stato il candidato di bandiera della Dc nelle elezioni presidenziali del 1992? Che cosa ha rappresentato quel momento?

Tutta  la mia vita politica non è stata costruita con i miei gomiti. Sono stati gli altri che mi hanno chiamato a svolgere quelle funzioni. Quella notte intorno all’una  che precedeva la elezione mi chiama Nicola Mancino e mi dice: “Giorgio abbiamo avuto una lunga riunione della delegazione (segretario,  capigruppo e presidente del Consiglio) e ti chiediamo di essere il candidato di bandiera dei nostri gruppi parlamentari”.

Chiesi se erano unanimi o c’era qualche riserva. Dammi la parola d’onore. La richiesta è unanime.  I gruppi votarono per me per tre votazioni poi alla quarta votazione si astennero. Perché ? Maurizio, Ti metto al corrente di una pagina di storia importantissima. Apprendo da un giornalista – di cui non rivelerò mai il nome neppure dopo la sua morte – che il Movimento Sociale  alla quarta votazione, quando si passa dalla maggioranza qualificata a quella semplice,  senza fare dichiarazioni di voto avrebbe votato per me. Quando apprendo questa notizia vado immediatamente  dal Segretario Politico Arnaldo Forlani e gli dico della operazione in atto, guardando alla situazione con grande serietà. Continuare a votare per me che significa? Significa soltanto una cosa che il gruppo alla prima votazione mi ha dato 292 voti e alla seconda votazione me ne ha dati 280 e alla terza 270; il gruppo della Dc non è più compatto, inevitabilmente, perché iniziano i vari candidati a muoversi. Andreotti,  Colombo, Taviani e così via pretendono dai loro amici di essere indicati, perché poi sperano che quella indicazione si trasformi in qualche cosa;  noi diamo uno spettacolo di un gruppo che non è più compatto e quindi la trattativa che si deve fare con gli altri partiti la facciamo in posizione di debolezza. Che cosa significa fare la quarta votazione, quando possiamo passare al candidato vero. Se il candidato vero se Tu e sei Tu, allora abbi  l’incontro con Craxi e parla con Craxi e parla con gli altri con cui pensi di potere avere i voti per essere eletto. La Tua votazione facciamola alla quarta.

 

E Forlani cosa disse?

Forlani rimase sconvolto da questo discorso e mi disse: “Lasciami pensare”. Mi chiamò un’ora dopo; mi disse: “Giorgio hai ragione. Per adesso non è possibile. Alla quarta il gruppo si astiene, alla quinta il gruppo di centro sinistra vota per me. Cosi bisogna fare. Un abbraccio”. La mia candidatura non c’è più.

Avevo ottenuto lo scopo di tutta la  mia azione. Senza rivelare la mia fonte avevo messo il MSI nella impossibilità  di creare una situazione che avrebbe portato il Paese al dramma. Ricordavo i tempi del governo Tambroni che era caduto o le critiche nei confronti di Leone fatte per i voti arrivati dal MSI. Dovevo impedire una candidatura di De Giuseppe che nasceva con i voti del MSI. All’interno della Dc gli  amici di Andreotti  e gli amici di Lombardi nel Psi fanno fallire la candidatura di Forlani. Questa è la storia che conosci. Si continua fino alle bombe di Capaci e alla candidatura di Scalfaro.

 

Che cosa ti rimane della lunga esperienza politica e parlamentare?

La soddisfazione di avere sempre anteposto gli interessi del partito  e del Paese. Non ho mai badato a me, tutto quello che ho avuto,  e ho avuto tantissimo,  l’ho avuto perché me lo hanno offerto. Non ho imposto nulla con i gomiti. Non ho imposto niente. Ho sempre detto si. Per la Presidenza  della Repubblica sono l’ultimo designato dalla Dc come tale. Dopo di me la Dc non designa più nessuno. Chiudo l’elenco di persone che il partito ha indicato per ruoli di grande importanza.

 

Rispetto alla situazione attuale i nostri leader che cosa ti fa venire in mente?

È una tristezza.

 

Presentasti nel lontano 1983 una progetto “rivoluzionario” quando proponesti l’incompatibilità per i Democratici Cristiani tra mandato parlamentare ed incarico di governo. Cosa che il Partito affrontó dieci anni dopo, nella conferenza di Assago e formalizzó con il governo Amato nel 1992?

Il partito adottó  questa linea per il governi Amato e Ciampi. Lo vedevo come unico contrasto al correntismo che ormai dilagava.  Le correnti nascevano per occupare i posti di ministro o sottosegretario. Pensai che condurre questa battaglia avrebbero potuto scardinare il sistema delle correnti. Questo spiega perché non sono mai stato nè ministro nè sottosegretario, perché conducendo all’interno della Dc questa battaglia non potessi entrare in contraddizione. Vinsi  la battaglia quando ormai nel 1992  il Partito ormai era in crisi. Siamo con il partito con governo  Amato e al governo Ciampi,  ma era troppo tardi perchè questa iniziativa avrebbe potuto dare effetti positivi.

 

Rispetto alla situazione attuale che cosa ti preoccupa?

La situazione di adesso è  a livello del dramma; tutti i partiti hanno commesso un errore che non sconteranno mai per quanto è stato grande. Hanno avuto 17 mesi di governo Draghi. Partiti pensosi del domani avrebbero  dovuto utilizzare quel tempo per risolvere due problemi che dai tempi di De Gasperi ancora impedisce all’Italia di avere un governo. L’Italia  chiunque vincerà le elezioni  avrà il 69/mo governo della Repubblica . Non c’è Paese democratico con una successione di governi come in Italia, in una tale situazione. Parlo della democrazia mondiale.

Abbiamo un governo ogni anno: significa che non abbiamo un governo.! Invece delle bandierine  i partiti avrebbero dovuto fare due cose: una legge elettorale perchè quella che c’è ha dimostrato che non assicura governi stabili e affrontare un problema presente dal 1983 e sul  sul tavolo politico. Negli atti parlamentari c’è una mozione con cui Camera  e Senato  chiesero la riforma della seconda parte della costituzione, e fu nominata la prima commissione Bozzi. Nel documento troverai  indicato tutto sia per il potere esecutivo sia  che per il potere giudiziario per rendere moderna la democrazia italiana.

La Costituzione  è stata fatta per creare la ingovernabilità. I Dc temevano i comunisti e i comunisti fecero la stessa cosa con i democristiani. Non cambiare con il contagocce su un articolo o questo o quel punto, perché è peggio, ma un insieme di norme altrimenti è una stupidata.

 

Con questa affermazione esce fuori il professore di diritto pubblico De Giuseppe o il politico?

Esce fuori uno che guarda al domani e si  rende conto che queste  elezioni del 25 settembre  non servono a niente. Quando andrà al governo la Meloni  si troverà esattamente nella stessa situazione di tutti gli altri. C’è una illusione di fare il governo, manca la possibilità di amministrare. Se avessero utilizzato  i 17 mesi per modificare legge elettorale e seconda parte della Costituzione che va modificata. Come pensiamo  di aumentare i poteri delle Regioni avendo 20 regioni per 50 milioni e 20 poteri legislativi. Stiamo alla follia!

 

E aggiungo con 20 economie differenziate ?

Ci sono responsabilità drammatiche di tutti i partiti. Anche per Letta che riflette un po’ di più,  ma ha sprecato tempo prezioso. Avrebbe dovuto porli questi problemi, affrontarli. Un peccato, un periodo come quello di Draghi, l’Italia non se lo sogna più.

 

È stato fatto un grave errore a far cadere Draghi con i suoi successi e la sua credibilità!

Di questi errori si scontano le conseguenze. Occorreva che Draghi a Palazzo Chigi e 5 persone in un altro palazzo  qualsiasi,  discutessero di queste cose. Ma davvero possiamo andare avanti con una legge elettorale con miscuglio di proporzionale e maggioritario! Anche le organizzazioni dei partiti ne risentono. Si organizzano diversamente anche in base alla legge elettorale. Non che abbia 92 anni,   ma sono pessimista!

 

Li porti benissimo da come hai ricordato vicende lontane e con le chiare soluzioni che proponi.

 

Maurizio Eufemi

Legge elettorale e collegi

I cartelli elettorali sono alle prese con la formazione delle liste.

 

Un lavoro complicato per l'impossibilità di garantire un posto in lista contendibile a tutti gli aspiranti, aggravato dalla forte riduzione di un terzo dei seggi. Una riforma senza senso e non sufficientemente meditata che porterà difficoltà e problemi che dovranno essere risolti progressivamente. Hanno prevalso logiche populiste e antiparlamentariste.

Il riflesso di questa dissennatezza si è riverberato sui collegi elettorali che per poter rientrare nei parametri popolazione-seggi a volte sono diventati delle salamandre. Nel senso che sono stati allungati di quà e di là per stare dentro la Regione di riferimento. Gli accorpamenti molte volte sono stati orizzontali anziché verticali, dunque non tenendo conto degli aspetti orografici (montagne, Valli, fiumi, strade, autostrade, porti) un insieme di fattori di sviluppo.

La storia è stata cancellata da una legge! L'effetto più rilevante è la modifica della composizione socioeconomica del collegio che si traduce in un corpo elettorale profondamente diverso da quello finora cristallizzato. Saltano i vecchi riferimenti e ne emergono di nuovi. Mettere insieme le aree interne di montagna o di collina in forte differenza economica con aree di pianura o di costa con economie più dinamiche si rifletterà inevitabilmente anche nel voto reale più che nei sondaggi. Questo è un aspetto non sottovalutabile perché la rappresentanza sarà mescolata e sarà difficile trovare una sintesi soprattutto per la parte maggioritaria. La chiusura anticipata della legislatura ha impedito al Parlamento di svolgere quel ruolo di indirizzo che fece con le leggi elettorali del 1993 con la istituzione di una commissione tecnica sui collegi elettorali.

Assistiamo a dismisura al fenomeno delle migrazioni elettorali. Candidati estranei al territorio catapultati in ogni angolo del Paese, nella illusione che importante è esserci tanto che si ritiene inutile fare campagna elettorale in un tempo piccolo come quello dei Tiromancino senza un radicamento e senza una presenza articolata nella società e nella comunità! Tutto è affidato ai leader dei cartelli elettorali, che non si possono definire partiti perché lontani dalle regole di democrazia interna.

 

Dunque cresce la disaffezione per l'incapacità dei leader dei partiti, utilizzando il tempo grande del governo Draghi, per sedersi intorno a un tavolo e fare l'unica riforma necessaria, quella elettorale in senso proporzionale con le preferenze. In tal caso la riduzione dei seggi avrebbe fatto meno danni!


Maurizio Eufemi

RENZI, IL SOLDATO RYAN. LA SUA INIZIATIVA VA SALVATA.

ORA LE FORZE DI ISPIRAZIONE DC POSSONO RITROVARSI.

articolo di Maurizio Eufemi apparso sul giornale online "ildomaniditalia" del 6 agosto 2022

Va lanciato un appello alla opinione pubblica affinché comprenda la gravità del momento e non resti estranea  alle vicende nazionali. C’è un generale Marshall capace di riportare a casa Ryan e il suo vessillo? Si tratta di un’esigenza politica di fronte all’offuscamento della dialettica democratica.

Le elezioni politiche del 25 settembre assumono un rilievo più forte del passato soprattutto per le incertezze e le ambiguità di ambedue  le coalizioni. 

La caduta del governo Draghi è apparsa e appare incomprensibile a larghi strati della opinione pubblica, soprattutto per i successi ottenuti. Della sua caduta sono responsabili non solo coloro che ne hanno provocato le dimissioni come i Cinque Stelle, ma anche quelli come Forza Italia e Lega che hanno impedito che la situazione degenerasse approfittandone per calcolo utilitaristico.  

Di fronte ad un bipolarismo forzato dalla legge elettorale occorre che le forze moderate  e centrali del Paese, quelle ancorate ai ceti produttivi e alle professioni ai settori più dinamici della società che guardavano ai successi e alla credibilità interna e internazionale del governo Draghi, abbiano il coraggio di reagire individuando le forze politiche e lo schieramento che possa far ritrovare spazi di agibilità politica fuori dalle compressioni personalistiche. 

Dalla situazione attuale Matteo Renzi si trova nella posizione di essere fuori dagli schemi precostituiti e perciò in una situazione che può diventare forza se saprà aprirsi alle forze che sui territori  chiedono una rappresentanza su basi programmatiche serie e dignitose. 

C’è dunque da salvare il soldato Ryan (Renzi) attraverso una patto di convergenza come quello di De Gasperi nel 1923 dopo la introduzione della Legge Acerbo (aveva fatto parte della commissione dei 18) tra le forze che hanno a cuore la Costituzione, l’europeismo, l’atlantismo e non una velleitaria visione d’Europa terzomondista. 

In un tale patto di concentrazione le forze di ispirazione democristiana possono ritrovarsi e convergere ove le disponibilità al confronto superino gli egoismi, ove i programmi siano più forti della distribuzione dei collegi. 

C’è da fare appello alla opinione pubblica affinché comprenda la gravità del momento e non resti estranea  alle vicende nazionali. 

C’è da salvare il soldato Ryan, come nel film capolavoro di Steven Spielberg, dopo la estinzione dei piccoli partiti che avevano tentato, in passato, di difendere l’idea democristiana. C’è un generale Marshall capace di riportare a casa Ryan e il suo vessillo? ‘Salvare il soldato Ryan‘ diventa un’esigenza politica di fronte all’offuscamento della dialettica politica che l’artificio elettorale determina.

La Galleria di Eufemi, Alfio Bassotti: ho avuto 25 processi

 

È stato uomo di punta della Dc marchigiana e delle sue vicende giudiziarie dice: Sono secondo a Berlusconi ma io non sono il Cavaliere. Il programma di Forlani del 1992 era sull'Europa Era la rinascita di Alcide De Gasperi che aveva visto giusto. Nelle Marche non sono riusciti a fare l’accordo con Amazon che avrebbe portato migliaia di posti di lavoro. L’occasione perduta del collegamento Ancona-Rotterdam

intervista di Maurizio Eufemi tratta dal giornale online "beemagazine.it"  dei 26 Luglio 2022

 

Oggi  parliamo con un esponente politico espressione del territorio delle Marche, un personaggio che ha percorso la strada della politica  salendo dal gradino più basso, quello di segretario di sezione, poi comunale, provinciale poi regionale. Una vita nella Regione vent’anni, per quattro volte consigliere regionale, di cui dieci anni come assessore ai lavori  pubblici e alla edilizia.

Una lunga esperienza di amministratore all’aeroporto e all’interporto dorico. Una carriera politica che lo ha portato fino alla direzione nazionale dc interrotta nel suo punto più alto da vicende giudiziarie. Oggi quelle vicende possono essere lette e interpretate in modo diverso dal momento del furore giustizialista che imperversava ad inizio anni novanta. Eppure troviamo un uomo ormai ottantaduenne, sereno, senza rancori.

Poi queste vicende,  un “dopo” alla guida per quasi dieci anni della Fondazione della Cassa di risparmio di Jesi

 

Sto ricostruendo un po’ di cose. Mi interessava approfondire, ricostruire alcune vicende di storie Dc  anche a livello regionale in questo caso le Marche. Da dove partiamo Alfio?

Ho cominciato nella Democrazia Cristiana, nel ‘60, nel Movimento giovanile  quando c’era Luciano Benadusi.  Sono stato delegato provinciale giovanile nel 1963.

 

Dei marchigiani in quel periodo chi c’era?

C’era il povero Giampaoli che era delegato regionale.

 

Una carriera che parte dal basso, dalla sezione?

Ero delegato di zona dello iesino che poi ho lasciato,  poi i gip (gruppi impegno politico)  di Ancona che ho lasciato a Ippoliti.

 

È dall’Enel che nasce il movimento dei quadri con Corrado Rossitto? 

Sì, ma sono stato eletto in Regione nel 1975 a 35 anni.

 

Come era la Regione?

C’era stata solo la prima consiliatura con Serrini prima, quindi Dino Tiberi di Pesaro. Poi nel 1975 è diventato presidente Ciaffi con l’appoggio esterno dei comunisti. A metà legislatura tra il ‘75 e l’ ‘80 è diventato presidente il buon Emidio Massi, che poi è rimasto per due legislature.

 

La esperienza  della solidarietà nazionale è durata poco. Poi negli anni ottanta come è andata la regione?

Nel 1980 recuperiamo  qualcosa,  ma non molto,  ma c’era stato un calo elettorale; nel 1975 avevamo perduto 2-3 consiglieri. Entro in Giunta nell’80; mi danno le deleghe ai lavori pubblici, ai trasporti ed alla edilizia residenziale. Faccio la legge per il pronto intervento e la legge per le calamità naturali. Quindi poi  la delega alla protezione civile. È stata la prima regione, le Marche, a fare la legge regionale. Abbiamo fatto cose incredibili in Regione in quegli anni.

Abbiamo speso tutti soldi del terremoto, perché fino agli anni ottanta non venivano spesi. C’era una normativa che era una legge intelligente, fatta da Trifogli (sindaco di Ancona ndr) che prevedeva una specie di adunanza di tutti soggetti interessati, quindi ogni progetto veniva esaminato da una commissione di 12 persone, ma bastava che uno eccepisse e tutto si bloccava. Non avevano speso una lira.! Avevo capito come funzionava: si doveva spostare il quorum e deliberare a maggioranza anziché  alla unanimità. C’era solo la sopraintendenza che rompeva… in otto mesi abbiamo allocato tutti i finanziamenti. Siamo stati fortunati.

È partito il piano regionale casa;  siamo riusciti a dare i finanziamenti mettendo d’accordo sia imprese che la cooperazione che stavano litigando. Non era il caso di litigare. Qual è il mestiere dell’impresa: costruire! Dissi: l’utenza si mette d’accordo con chi costruisce, quando  avete fatto accordo,  noi finanziamo tutti. Dal 1970  tra case agricole e il piano decennale le case in proprietà nelle Marche si è passati  dal 70 all’85 per cento.

 

E per quanto riguarda il piano acque? 

Abbiamo fatto il piano degli acquedotti. Le Marche sul piano acquedottistico non sono malmesse. È stato risolto il problema degli acquedotti con il Nera; abbiamo raddoppiato la vallesina, rinforzato gli interventi per Ascoli (la diga di Gerosa e di Rio Canale ndr). Il vero problema sono state le amministrazioni comunali; non hanno voluto capire che quando facevano i piani triennali avrebbero dovuto  mettere il rifacimento delle tubature, evitando la dispersione idrica.

 

E per quanto la difesa delle coste?

Non c’era più spiaggia. Abbiamo recuperato 160 chilometri di spiaggia, costruito i porti turistici;   tutti i progetti iniziavano e completavano il ciclo di un settore, poi la nuova rete degli Ospedali, gli invasi come quello di Castreccioni, (costruito da Condotte d’Acque su progetto Italconsult sul fiume Musone nel comune di Cingoli per 42 milioni di mc e 3700 ettari irrigui e impianto idropotabile per 8 comuni ndr), abbiamo messo un potabilizzatore che avevo visto a Parigi sulla Senna per essere tranquillo e quello serve tutta la parte verso Civitanova.

 

Dunque sulle opere pubbliche sono stati progetti di investimenti  di lungo periodo?

In due anni completavano le opere. I fondi erano Fio o fondi europei. Bisognava completare le opere in 48 mesi, altrimenti perdevi il finanziamento.

 

La Dc è stata protagonista di queste politiche di sviluppo?

Alle regionali del 1990, poi lasciai l’assessorato perché ero diventato segretario regionale del partito, siamo ritornati ad essere il primo partito della Regione, con tre province su quattro e ottanta per cento dei comuni.

 

Una grande affermazione politica, il modello marchigiano in una economia che si affermava e funzionava?

Poi ci ha pensato la magistratura!

 

Spiegami che cosa  è successo?

Prima hanno cercato con la storia della sede regionale del partito.  È stato dimostrato che i soldi erano tutte quote pagate volontariamente da industriali  Dc che avevano le quote loro da 25 milioni ciascuni ed erano proprietari. Gli è andata buca. Mi sono assunto tutte le responsabilità. Bastava che dicessi: vedetevela con  il segretario amministrativo perché non sono il legale rappresentante  del partito, ma  sono persona seria e non  ho messo in difficoltà nessuno. Non gli è riuscito il colpo. Poi ne hanno tentato un altro! Ho subito 24 procedimenti penali! Dopo Berlusconi ci sono io, ma Io non sono Berlusconi!

 

Ti fanno ferito queste vicende giudiziarie?

Sì, sarei disonesto. Però ho tenuto botta tranquillamente. Ho affrontato tutte le cose da solo. Ne ho dovute concordare 4. In quel momento la tesi del patteggiamento non significava che ci fosse una colpa da parte dell’indagato, ma una strada per chiudere ogni discorso.

 

Per non entrare nel girone infernale della giustizia?

Ne ho chiusi 4 in questo modo. Poi ho affrontato  la vicenda del Cemim (Centro merci intermodale Marche per la costruzione dell’interporto). La questione  più schifosa messa in piedi. Pensa che questo centro intermodale era approvato,  finanziato dalla comunità europea con un rimborso del 60 per cento dalla CEE. Ci mettono dentro in quindici persone per bancarotta fraudolenta.! Sapevano che se “ammazzavano” me che ero il segretario regionale, ammazzavano la Dc per prima! Gli avevo dimostrato tutto, ma siccome era un procedimento lungo. Non volevo morire!

 

Se serve a confortarti,  anche  io sono stato perseguito come presidente di una associazione ambientalista per un articolo di giornale affisso su una bacheca? Ma dopo quattro udienze sotto la neve al Tribunale di Camerino! Naturalmente assolto! Questo per dire il clima di quegli anni. C’è stato attacco a livello nazionale alla Dc?

Ci fu una cena a Ancona di alcuni personaggi. Chi serviva,  mi ha raccontato tutto. Hanno deciso. Su Bassotti blocchiamo la Dc. Così è stato. Le altre le ho vinte tutte! Sono dovuto andare andato in otto preture. Mi avevano denunciato dappertutto per la pulitura dei fiumi.

 

La vicenda del Cemim fu il fatto centrale

Era in attivo. C’erano pure le banche. Le gestioni Raddoppiavano il patrimonio in due, tre anni. È finita che loro volevano continuare. Io ho patteggiato. Uno è rimasto a fare da cavia. Nonostante 5 miliardi per la sola procedura, la progettazione per 7 miliardi che  non hanno messo nell’attivo patrimoniale, malgrado che c’era una legge nazionale per il Cemim con 30 md di finanziamenti. Non hanno calcolato i rientri. Avevano finito già 6 miliardi di lavori e una delibera esecutiva della Regione di 8 miliardi che non ha voluto liquidare. Era in straattivo! Dopo 15 anni dopo avere pagato tutti creditori e con gli aggiornamenti, il Cemim ritornava in bonis. Dal 2009 ha avuto l’ultima perla con la causa che ha perso la Regione! Un attivo enorme incredibile. Non può essere uno sbaglio avere perso il centro intermodale nazionale che avrebbe rilanciato tutta la regione tra est e ovest, tra nord e sud?

 

Una storia incredibile! Che manca al quadrilatero  delle Marche?

Manca la pedemontana!

 

Ho visto che con il terremoto dell’ottobre del  2016  del centro italia, con  la chiusura della Valnerina si era bloccato il turismo religioso da Loreto a Cascia.

Un itinerario francescano!

 

Tu sei stato sempre un sostenitore di Forlani.

Sì.

 

Come erano i rapporti con la sinistra interna delle Marche?

Ho avuto personalmente rapporti buoni con tutti. Quando sono stato eletto segretario regionale ho fatto tutte le assemblee. Non facevo solo l’ amministratore; dopo le 21 facevi le riunioni e avevi il polso dei problemi. Al congresso avevamo la lista forlaniana, la sinistra di Base, Forze nuove e un’altra. Al congresso ho detto: non avete problemi di rappresentanza; non vi preoccupate che nomino 3 vicesegretari, ma non voglio la lista unitaria. Sono andato al Congresso e sono stato eletto con l’87 per cento.

 

Volevi la distinzione delle posizioni?

Una maggioranza bulgara.

 

E poi?

Ho fatto 5 anni di servizi sociali. Il patteggiamento non ti manda in galera, ma ti manda ai servizi sociali, alla Caritas. Non potevo muovermi da Jesi, poi dalla provincia, informando sempre dove andavo, alle dieci dovevo essere a casa. Anche quello ha aiutato a ritrovare il mio ambiente.

 

La famiglia?

La famiglia ha retto bene. Non ho dovuto mai cambiare marciapiede. La gente salutava tutta. Si fermava addirittura.

 

Poi hai fatto il presidente della Fondazione  di Jesi?

Mi sono dimesso un anno prima, a 80 anni.

 

Sono stato relatore della legge sul risparmio conosco bene i problemi delle Fondazioni? E a Jesi?

In Acri quando si mettevano d’accordo Guzzetti, il San Paolo e una parte del Veneto non c’era spazio per nessuno. Quando sono arrivato in Fondazione, c’è stata battaglia perché i conti non andavano bene, c’era la Banca delle Marche che non andava bene. Avevamo più del 90 per cento della nostra liquidità impegnata in azioni nella  della Banca Marche.

 

Perché non avevano diversificato secondo la legge Ciampi?

Perché gli arrivavano 5 milioni di liquidità ogni anno. Quando arrivo lì, al primo cda del 2013, arriva una lettera al 27 di giugno del dg che dice o voi mi coprite entro l’ultimo giorno 30 milioni di euro per garantire l’8 per mille perché non siamo in grado di coprirlo o altrimenti andiamo in default! La banca europea ci chiede i 4 miliardi che avevamo avuto in prestito. Chiamo tutti. Succede che Pesaro si impegna per 15 milioni, noi dovevamo metterne 5; Macerata 15. Noi deliberiamo, invece Macerata non ha deliberato. Quando c’è stato il patatrac del 2015, c’erano molti altri in quelle condizioni. Ci doveva tirare fuori il Tesoro. Quanti scontri con Padoan!

 

Adesso come è?

Adesso la situazione è buona. Ha preso tutto il San Paolo. Ha chiuso il discorso.

 

Riuscite a fare erogazioni? 

La vigilanza ci diceva di fare la fusione oppure chiedete di essere messi in liquidazione. Dissi: “Non potrà succedere mai. Tutto meno che questo”. Perdiamo 100 milioni di euro di patrimonio. Rimaniamo con 10 milioni corrispondenti al valore degli immobili. Spendevano elevate spese di esercizio e per gli organi. Avevo entrate limitate. Ho abbattuto i costi: ho portato il personale in part  time; ho abbassato gli emolumenti da 500 mila a 74 mila! Ho bloccato completamente le erogazioni liberali. Ho cominciato a guardare bene quei pochi investimenti con i fondi riserva.

In 10 anni ho fatto un aggregato culturale di 4000 metri quadri; da 350 visitatori, tra 2015 e il 2018, siamo arrivati 100 mila visitatori in un polo museale e culturale, con ragazzi, stage scolastici. Diamo il servizio gratis.

 

Il periodo delle grandi erogazioni è finito un po’ per tutti?

Il patrimonio è più che raddoppiato passando da poco più 10 milioni a 23 milioni.

 

Avete un grande obiettivo?

Per adesso giriamo alla larga. Adesso le entrate sono arrivate a 1 milione.  Possiamo ricominciare a guardare a programmi pluriennali di erogazione liberale. L’ultimo atto è stato fatto con il blocco operatorio dell’ospedale di Jesi. Poi una selezione molto limitata di interventi a favore di Caritas e Croce Rossa, quindi interventi attenti durante la pandemia. Comunque non condividevo la politica dell’Acri e lo dicevo al Presidente. Adesso avevo un ottimo rapporto con Profumo di Torino.

 

Quanto manca la Dc al Paese?

Era essenziale. L’Italia era come una sedia che poggiava, quella che reggeva tutto il peso era la Dc!

 

Come la vedi l’economia marchigiana dei distretti industriali, delle specializzazioni produttive, delle pmi, delle multinazionali tascabili, degli operai contadini ?

Non sono riusciti a far l’accordo con Amazon che portava migliaia di dipendenti. Avrebbe portato tutta la logistica dell’Italia centrale al Cemim, in quel territorio centrale e sistematico che incrocia l’autostrada,  la superstrada, l’aeroporto di fianco e il porto verso i Balcani e l’Oriente. Avevamo fatto un accordo tra Cemim e il porto di Rotterdam, il primo porto d’Europa.

 

Conosco bene l’importanza. Nel 1985 ho curato un libro “flotta e porti in politica per il rilancio del settore”!

Rotterdam aveva già firmato. l’ambasciatore    doveva portarlo al Ministero per essere firmato. ci forniva tre treni settimanali bloccati  tra Rotterdam e il centro intermodale  per le navi che partivano verso Oriente. L’accordo l’hanno fatto adesso il porto di Trieste e Genova, non gratuitamente,  tirando  fuori milioni di euro.

 

Però Rotterdam ha 70 km di interporto?

Lo so bene ci si sono stato 20 volte! L’ho girato sulla barca con il direttore del Porto.

 

Se non fai la gronda a Genova,  con interporto ad Alessandria, come lo sviluppi il porto di Genova? E la gioventù delle Marche  sempre attiva e dinamica come la vedi?

Come tutte le gioventù del paese. Noi venivano per ottanta per cento dalla cultura contadina. Per salire di grado dovevamo fare sacrifici… superare una forte selezione, terribile. Poi c’era la mentalità della cooperazione in campagna. Facevamo la solidarietà familiare nei momenti topici delle stagioni.

 

Chi ricordi di più dei politici?

Sia Il vecchio Tambroni che rimane un mito  e sia Aristide Merloni che era innamorato dei giovani, ecco perché si sono mossi, amico fraterno di Enrico Mattei e di Arnaldo Forlani. Il “tambroncino” (Rodolfo, nipote di Tambroni ndr) purtroppo era, soprattutto negli ultimi tempi, condizionato dai problemi di salute.

 

Le Marche erano tante realtà diverse, ogni provincia era una espressione di territorio con un pluralismo politico, sociale, economico, che arricchiva?

Oggi non c’è più niente. C’è il deserto. Ho fondato una associazione Europa terzo millennio quando ho potuto riprendere le attività. In ogni convegno venivano 500 persone. Erano tutti ex democristiani che si erano divisi. Li incontravo e li vedevo litigare e dicevo: ma siete matti!

 

Anche le correnti sia Forze nuove che basisti che forlaniani erano rappresentanti di fasce sociali  e mondi vitali?

Chi rappresentava la cultura, chi l’artigianato, chi i piccoli imprenditori, chi gli agricoltori, chi il sindacato. Tutti insieme formavano veramente un carro armato. Questa realtà si è così sparpagliata che pur avendo vissuto insieme nella Dc nemmeno si parlavano più. Ho creato l’associazione Europa terzo millennio; l’idea di fondo era che tutti, sia che fossero nell’UDC, nei cespugli, nella Margherita, nel Pd tutti  erano iscritti al PPE, una attività di natura politica sul piano culturale in un clima di grande amicizia.

 

Il programma di Forlani del 1992 era sull’Europa. Adesso i sovranisti ce ne fanno una colpa

Quella era l’unica scelta. Era la rinascita di Alcide De Gasperi che aveva visto giusto. Ora questo passa il convento. Adesso possiamo solo riflettere!

 

 

Post scriptum su carriere e vite spezzate

Poi la vicenda Cemim si concluderà così: (ANSA) – ANCONA, 18 NOV – A 20 anni di distanza, gli ex vertici del Cemim-Centro merci intermodale Marche per la costruzione dell’interporto, che avevano patteggiato la pena negli anni Novanta, dopo la revoca della sentenza, sono stati assolti dalle Corti d’appello dell’Aquila e di Campobasso dalle accuse di truffa e bancarotta. E la persona che era rimasta nel processo veniva assolta “perché il fatto non sussiste”.

Voci parlamentari.

“Aiutare chi la terra la lavora, non chi la guarda, altrimenti l’agricoltura non si salverà”

 

Intervista all’ex deputato Dc Giuseppe Zuech, una vita per il mondo agricolo. Prosegue la galleria dei personaggi di Maurizio Eufemi Come vanno i rifornimenti di grano, in questi tempi di guerra in Ucraina. I ricordi di Marcora, Andreotti, Bisaglia, Rumor. La Coldiretti? Non è più quella di una volta

Maurizio Eufemi - 12 Luglio 2022

 

Giuseppe Zuech, 78 anni il prossimo 18 luglio, deputato dal 1976 al 1992 è un esempio della migliore rappresentanza del mondo agricolo. Ha iniziato giovanissimo nei giovani Coldiretti, poi ha fatto esperienze nelle amministrazioni locali, poi ha trasferito nelle aule parlamentari la profonda conoscenza dei problemi agricoli. Un’esperienza a tutto tondo.

Un esempio di come la denigrazione abbia colpito indiscriminatamente una classe politica dirigente.

Lo sentiamo mentre si sta per chiudere l’annata agraria 2022 ed è tempo di raccolti.

Gli agricoltori sanno anticipare le scelte. In questi mesi di guerra in Ucraina. In Italia sembra che gli agricoltori abbiano capito per tempo che occorreva anticipare  le scelte di produrre più grano mettendo in produzione terreni non coltivati. Ciò è stato possibile anche per la lievitazione dei prezzi che hanno reso più redditizie le scelte autunnali. La semina non è una operazione da ultimo momento. Occorre preparare il terreno e seminare tenendo conto del tempo meteorologico. Tutti fattori determinanti sul risultato finale.

 

Come va, Bepi, il raccolto del frumento? 

Stiamo lavorando ancora. Tutto sommato bene. I problemi di tutti. Prima avevo i bovini. Ho orientato tutto in cereali e nella frutta;  ho diviso  in due le produzioni.

 

La frutta è più redditizia?!

Produco ciliegie.

 

Le ciliegie poi con certi prezzi?!

È un prodotto particolare, di facile deteriorabilitá e un tempo di consumo molto stretto.

 

Non è la mela per intenderci?

I prezzi vanno bene al commerciante, ma non al produttore. È un prodotto molto delicato; la mela è una altra cosa, è molto più semplice. Da noi bastano due giorni di pioggia per rovinare il prodotto.

 

In passato sono state approvate  leggi di settore. Per fortuna ci sono le leggi per le calamità naturali.

C’è la possibilità di fare l’assicurazione. C’è il contributo ministeriale che offre garanzie sui rischi atmosferici!

 

Quest’anno come va?

Ho visto che c’è più produzione di frumento. Anche io ho fatto la trebbiatura lunedì scorso.

 

Come è stata la resa? 

La resa è stata di 23 quintali al campo, che vuol dire 60 quintali per ettaro di grano Rebelde, che è una qualità di grano tenero per fare il pane.

 

È una bella resa rispetto ad altri terreni, quasi come la Pianura Padana? Il prezzo è salito?

Da noi sta 40 euro al quintale, ma aspettiamo la borsa di Verona per avere un dato ufficiale perché non è stato ancora quotato quel tipo di frumento.

 

Però è stato seminato a ottobre scorso, prima della guerra in Ucraina. Qual era il prezzo?

Se fosse come l’anno scorso a 23, 24 euro al quintale è difficile pagare le spese. Dopo i 40 euro si riesce a guadagnare bene. Il grano tenero è un altro discorso rispetto al grano duro,  sul quale c’è la PAC ( politica agricola comunitaria).

 

Dopo la esperienza parlamentare che cosa hai fatto? 

Mi sono dedicato all’azienda che avevo prima con il mio papà. Ho fatto il presidente provinciale della Coldiretti. Adesso è giusto che ci siano gli altri. Se mi chiamano negli organismi sono sempre presente.

 

Quindi sei ridiventato  operativo nel settore come tanti colleghi come Natale Carlotto, che a Cuneo è ancora attivo? 

Beh, lui seguiva molto anche prima. Io ho fatto sempre l’imprenditore.

 

E queste vicende, queste demagogie anti casta, contro i parlamentari, come le valuti? 

Dobbiamo dare atto  alla presidenza, alla nostra associazione che hanno fatto bene ad avere difeso le nostre ragioni arrivando finalmente a ottenere un po’ di giustizia.

 

I colleghi veneti li senti? Luciano Righi ?

Sì, una bravissima persona. Sono a Marostica in provincia di Vicenza non lontano da lui.

 

Quando sei entrato nella Dc? Sei entrato in Parlamento nel 1976 con il rinnovamento  della Dc di Zaccagnini svolgendo il mandato per quattro legislature. Quali erano le tue precedenti esperienze?

Mio padre è stato sindaco  Dc per venti anni di Pianezze, poi nei  primi anni sessanta ho cominciato nel mondo agricolo con la Coldiretti con i giovani 3P. Facevamo corsi a Roma alla Domus  Pacis, alla Domus Mariae a Castelfandolfo, sui Castelli Romani.

 

Quindi ti sei impegnato nella Coldiretti?

Sono partito da zero come assessore comunale nel mio paese, poi eletto assessore nella provincia di Vicenza . Poi quattro mandati alla Camera.

Ho fatto tutta la gavetta.

Sono stato presidente Associazione  allevatori e Presidente del Club 3 P che significa: Provare, Produrre, Progredire ( fu fondata da Paolo Bonomi nel 1957 ndr).

Sono stato eletto presidente nazionale subentrando al senatore Truzzi presidente nazionale del club 3 P; il dottor Pirelli era il direttore.

 

Lo sai che Truzzi veniva a Ussita (Mc) ai piedi dei Monti Sibillini nella sua casa che ha chiamato “la mantovanella” in ricordo della sua terra di origine? Lo ricordo nelle solitarie passeggiate lungo il fiume! 

L’ho conosciuto. Bravissima persona. In gamba.

 

Le leggi sull’Agricoltura degli anni ottanta (vedi Nota alla fine dell’articolo NdR) sono state leggi di grande avanzamento del settore agricolo. C’era grande  concordia politica anche tra forze antagoniste? 

Avete fatto scelte oculate, per la modernizzazione di prospettiva?

Non c’è dubbio.

Abbiamo avuto un grande ministro dell’ Agricoltura come Marcora. Ho ricevuto il riconoscimento del premio Giovanni Marcora ill 17 febbraio 1991, nel palazzo ducale di Mantova, consegnatomi da Gianni Goria, ministro dell’Agricoltura, poverino prematuramente scomparso.

Marcora conosceva i problemi. Bravissimo. Ho una impressione ottima, un po’ rustico, ma di grande capacità.

 

Che ricordi hai dei leader Dc nazionali e veneti? 

Personaggi che ho conosciuto bene: Goria, Bisaglia, Mariano Rumor, vicentino, bravissimo cinque volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti come presidente del Consiglio, persone di cui ho un ricordo bello. Di Andreotti avevo grande rispetto; conservo ancora i suoi biglietti di auguri a Natale. Ho un ricordo bello, positivo. Mandava gli auguri personali. “Caro Zuech, auguri!” . Tre parole scritte di suo pugno, teneva a un segno di rispetto personale. Ci teneva a questo rapporto. Aveva questa grande dote.

 

Adesso non sei più allevatore…

No, ho lasciato. Avevo  i bovini da latte. Facevo sia la carne sia il latte in quel periodo.

 

E adesso ? 

Con l’azienda in collina era difficile fare  certi lavori con le macchine agricole e ho preferito orientarmi in colture specializzate: mais, soia, frumento e mi sono specializzato nel ciliegio.

 

La scelta di abbandonare la zootecnia è derivata dalle politica comunitaria?

No, bisognava  produrre i cereali per alimentare il bestiame.

 

Il ciliegio richiede molta manodopera ?

Molta. Raccolto tutto a mano.

 

Avete gli stagionali?

Siamo  una famiglia numerosa  e ci aiutiamo molto tra fratelli e sorelle.

 

È la solidarietà familiare?

Si.

 

E la meccanizzazione?

Sono attrezzato per fare quel che serve per la frutticoltura. Poi ci sono i conto terzisti. Sarebbe troppo oneroso acquistare i macchinari tanto costosi per una media azienda.

 

C’è anche in Veneto la cooperazione diffusa come in altre Regioni del Paese? 

Sono presidente di un  gruppo di 45 aziende medie e piccole ; abbiamo  decine di attrezzi agricoli, macchine in forma associativa come spaccalegna, trivelle, tagliaerba, ecc., alcune macchine che utilizziamo  insieme per abbattere i costi. Da 40 anni, da quando ero Presidente 3 P abbiamo cominciato così ad acquistare questi attrezzi e andiamo avanti; è un vantaggio; da molti anni stabiliamo un tanto all’ora, un minimo per le spese e per la manutenzione perché le macchine vanno mantenute.

 

Sono macchine costose?

Costano e bisogna stare attenti ; razionalizzare al massimo per contenere i costi.

 

E adesso la Coldiretti come va? 

È cambiato tutto. Non è più la Coldiretti di una volta.

 

Che fanno?

Sono soprattutto orientati nel dare servizi come le pratiche burocratiche, le fatture, ma come sindacato come facevamo noi no; era una altra cosa, non è più il sindacato di una volta. Sostanzialmente fanno un servizio di caf. Ti segue le fatture, non è più un sindacato che difende il mondo agricolo di quelli che lavorano effettivamente la terra. È un’impronta diversa dalla nostra!

 

Quali sono le scelte da fare oggi ? 

Aiutare chi coltiva la terra, non chi la guarda. Questo è il principio fondamentale. Bisogna dare una integrazione, anche  in collina dove i redditi sono bassi,  se vogliamo difendere agricoltura, ambiente e il territorio.  I prezzi sono bassi e il consumatore paga caro. Se vogliamo difendere il territorio dobbiamo dare una mano a chi lavora, altrimenti non ce la fanno. I costi ci sono, i prezzi sono bassi.

 

Guadagna la intermediazione?

Appunto, esatto questo è il punto.

 

Siamo stati criminalizzati come Dc perché nella vulgata si davano le pensioni di invalidità come integrazione di reddito agli agricoltori, che erano i guardiani del territorio contro l’abbandono e il degrado? 

Bisogna difendere bene la specializzazione, la professionalità, la qualità, la difesa dei marchi, i prodotti tipici: sicuramente è la strada la seguire. Ma se non aiutiamo chi la terra la lavora,  diventa difficile  andare avanti.

 

C’è oggi una forza politica che si fa interprete dei problemi, di comprendere e difendere  il mondo agricolo come la Dc del passato? 

Non la vedo. Fanno discorsi un po’ filosofici, ma in concreto non vedo interventi.

 

E una presenza come la vostra con grandi battaglie?

Non c’è più!

 

Eravate tutti competenti. Tutti specializzati nelle conoscenze. Ognuno di voi della commissione Agricoltura aveva una profonda conoscenza dei problemi ed era una realtà nelle singole regioni.

L’argomento lo vedevamo sulla nostra pelle;  i problemi li conoscevamo bene e diventava più facile interpretarli!

 

Oggi i problemi chi li studia? Chi li conosce? Chi se ne fa interprete, come faceva la Coldiretti del passato e i suoi rappresentanti nelle istituzioni?

Post scriptum

Tra i principali provvedimenti sul finire degli anni Ottanta: Le norme per reprimere le frodi, le sofisticazioni e contraffazioni nel settore vitivinicolo, i fondi  di solidarietà nazionale sulle calamita  naturali e i sostegni alle imprese danneggiate dalla siccità delle annate agrarie ‘88-‘89 e ‘89-‘90, gli accordi interprofessionali per la quantificazione delle produzioni e per  migliorare qualità e criteri;,  la legge quadro sulla zootecnia a protezione della qualità; gli interventi programmati in agricoltura; i doc per gli olii extravergine; la disciplina dell’ acquacoltura. La Dc fu rilevante nella definizione, solo nella decima  legislatura, dei provvedimenti con 15 relazioni su 21 leggi di settore! Orgogliosa consapevolezza di avere operato per il miglioramento del settore agricolo.

 

GUIDO BODRATO “La DC? Un grande partito di popolo”.

Intervista di Maurizio Eufemi- 9 luglio 2022

 

Guido Bodrato classe 1933, piemontese, tre volte ministro, della Pubblica Istruzione, nei Governi Forlani e Spadolini 1 e 2, poi del Bilancio nel governo Fanfani e infine dell’Industria, nel governo Andreotti VII. Deputato per 7 legislature, parlamentare europeo, del PPE, direttore de “Il  Popolo” dal 1995 al 1999, a lungo consigliere comunale di Torino. 

 

L’ultima volta ci siamo visti a visti a Chieri, alla Sala della Conceria, per la presentazione del mio libro Pagine democristiane. Appena lo sento, è Bodrato che mi rivolge la prima domanda. 

Ti occupi ancora di qualcosa? 

Adesso sto ricostruendo la storia della DC attraverso la conoscenza di alcuni personaggi. Mi piaceva fare, anche con lei, una riflessione sui tempi lontani. 

Alla mia età, impegni che mi facciano uscire di casa non ne prendo più. Ho visto che negli ultimi due o tre anni faccio fatica. Gli anni che ho si vedono. Preferisco evitare di affrontare prove che, piccole o grandi, non sono più gestibili con la freschezza di un tempo. La seconda ragione è più oggettiva e serena: passo gran parte della giornata a leggere e scrivere. Continuo ad avere la malattia della politica. Ho i piedi nel novantesimo anno per cui vedo molti amici, anche più giovani di me, che se ne sono andati:  “Sono davanti a noi”, come dicono gli alpini. 

In occasione del novantesimo la associazione degli ex parlamentari conferisce la medaglia con una cerimonia. È un gesto simbolico, denso di significato. Quell’appuntamento si avvicina. 

Bene. Guardo però in faccia la realtà. Mi sembra che del passato sopravvivono solo delle malinconie poco più che individuali. La forza di una rinascita non la vedo; semmai noto piccole ambizioni, qualche volta giustificate se non effettivamente meritorie. Riguardano persone che conosco, e non è un caso, dato che avendo girato molto l’Italia di amici ne ho incontrati molti. 

Lo so bene! 

Ci sono altre iniziative invece che anziché guardare avanti, fissano gli occhi all’indietro. In un mondo come questo – un mondo che cambia continuamente e dove si invecchia senza fare niente – alcune iniziative corrispondono a velleità piuttosto che ad autentiche speranze. Dunque, sto alla finestra, ma non passivamente: a chi mi chiede un’opinione, volentieri la offro. 

Stavo rileggendo in questi giorni “Per l’Azione”, la rivista dei giovani dc. Mi sono imbattuto in un dibattito interessante e ho ritrovato un articolo, pregevole, a tua firma sul significato politico del convegno del MgDc di fine agosto del 1957 al Sestriere. 

Non ho mai negato il passato. Non solo, ma ero e sono uno tra quelli che il passato ha cercato sempre di interpretarlo e spiegarlo, per darne una ragione plausibile, non per farne oggetto di superficiali valutazioni che recano in seno il desiderio di una condanna preventiva. Ho partecipato tempo fa a un convegno organizzato dalla CGIL a Genova e a Roma, presente Pietro Ingrao, dove era in discussione la tormentata vicenda di Tambroni. Hanno pubblicato gli atti. Oserei dire che l’unico intervento in cui si può leggere una difesa di quel passaggio complicato nella storia della DC, è il mio. La verità è che non sono minimamente attratto dalla demonizzazione di quegli eventi che costituiscono ancora oggi il motivo di alimentazione della polemica anti DC. 

Quale è stata la molla che spinge il giovane Guido Bodrato ad entrare nel Movimento giovanile, in cui c’erano per altro Leopoldo Elia, Pietro Scoppola, Gianni Baget Bozzo, Franco Malfatti, Bartolo Ciccardini, Carlo Fuscagni, Celso Destefanis, Pietro Padula?  

Negli anni ‘50 sono stato segretario generale degli studenti universitari torinesi. L’Ateneo aveva 12 mila iscritti, non 40 mila come oggi. Andavano all’università solo quelli che provenivano dal liceo classico, gli altri potevano accedere al  Politecnico. Avevo in mano la maggioranza assoluta. Mi conoscevano per essere impegnato contemporaneamente nell’Azione Cattolica, nella Democrazia Cristiana e nel Movimento Federalista, allora molto forte: solo a Torino aveva più iscritti – circa mille – di quanti ne abbia attualmente sul piano nazionale. Oggi si registra un indebolimento generale delle esperienze associative e ciò rimanda, senza ombra di dubbio, a un deficit di motivazione culturale e politica. Ci si rifugia nei gruppi a base più ristretta, con finalità specifiche, senza orizzonti nazionali. 

Prima c’erano  gli ideali… 

Sì, appunto. Il problema non investe solo i partiti. Riconosco che la storia della democrazia, e non solo di un partito cardine qual era nella cosiddetta Prima Repubblica la Democrazia cristiana, è purtroppo fatta di tanti peccati di comportamento. 

Ricordo due o tre libri che avevo letto quando incominciai a far politica, tutti con il medesimo riferimento nel titolo: crisi della democrazia. Certo, si riferivano agli anni ‘30, ma le cose si possono ripetere, alcune volte in senso positivo e altre in senso negativo. Forse, con molti meno anni sulle spalle, probabilmente il mio giudizio sarebbe un altro. Il vissuto della politica è gran parte della politica: in fondo la politica la rappresenta chi si occupa concretamente di essa. Direi, semplicemente, chi la vive. Alla mia età, di politica posso parlare da lontano, ma non posso dire o pensare che ne sono artefice diretto.

Chi conosce Bodrato apprezzava ed apprezza tuttora la sua coerenza.  

L’impegno politico esige coerenza. Ho sempre detto quello che pensavo, anche se con l’avanzare dell’età si diventa più accondiscendenti alle forme e allo stile, perdendo certe asprezze giovanili. Come tutti, sono stato giovane una volta, mica dieci volte. Ho raggiunto traguardi importanti senza però venire meno alle mie convinzioni profonde. Sono stato ministro più volte e penso di aver difeso le idee, nelle istituzioni e nel partito, che trovano radici nel popolarismo. Per questo ho manifestato il mio dissenso quando si è cercato di agguantare con artifici e spregiudicatezze il consenso che sfuggiva, cercando di prendere al volo la prima liana disponibile. Il paradosso è che non mi sono mai sentito minoranza, ma sono stato quasi sempre minoranza. Anche adesso, lontano dalla battaglia diretta, vivo questa condizione psicologica che esige attenzione alla dinamica, spesso complicata, dell’innovazione in ambito politico. Mi auguro, al riguardo, che nei giovani sia sempre forte la capacità di rigenerare una sana ambizione creativa. D’altronde, guardo ai giovani con interesse e curiosità perché ho la fortuna di essere bisnonno. 

Rallegramenti! 

Beh…mi confronto con dodici nipoti, di diversa età, e so come affrontano i problemi. Purtroppo pensano in base a una tecnica di ragionamento che appare molto condizionata dal dispositivo logico del computer, avendo pause ridotte e intuizioni a breve. I giovani, magari senza esserne pienamente consapevoli, operano con più velocità, ma finiscono succubi di un pensiero contratto, senza la forza della elaborazione complessa. 

Faccio mia la considerazione che emerge da questo colloquio: non bisogna smettere di pensare il presente e il futuro alla luce di ciò che il passato ci consegna. Dunque, cosa insegna la storia? O meglio, la nostra storia? 

In questo momento sto davanti al computer alle prese con una ricerca della Fondazione Donat-Cattin sulla classe dirigente del primo Partito popolare, dal 1919 al 1926, in Piemonte. Cosa emerge? Il retroterra cattolico esprimeva una quantità di piccole formazioni nelle diverse diocesi e molti erano i nomi rappresentativi di quel mondo. Ora, sappiamo bene che senza un quadro di riferimento politico ogni descrizione di fatti e persone stenta a fornire gli elementi per individuare il nesso della vicenda esaminata. Sto cercando di dare alla ricerca questo riferimento politico, così da inquadrare in modo più corretto il contributo di alcuni protagonisti. Comunque, se ti guardi indietro non trovi solo cose belle e interessanti. Gli ambiziosi, i traditori, gli opportunisti, si mescolano e convivono con figure straordinarie di dirigenti e militanti politici, capaci di sacrificarsi per il partito.

Racconto ai miei nipoti questa complessa realtà ed essi mi dicono “nonno, non è cambiato niente”. In effetti, la politica al suo interno conosce e subisce tentazioni che continuamente la mettono alla prova. 

Torniamo alla ricerca. Il contesto storico è quello che ha costretto Sturzo, su consiglio della Segreteria di Stato Vaticana, ad andarsene all’estero, praticamente in esilio. Lui aveva fondato un partito aconfessionale, ma metà dei dirigenti di quel partito erano preti. Quando la Santa Sede ha detto “basta, non fate più politica”, in quel momento è come se avesse sciolto il Partito popolare. Questo incastro sfugge normalmente allo sguardo degli storici. Ora, analizzando la realtà concreta del Piemonte e della mia città, sembra di poter cogliere il fenomeno con più chiarezza. 

La ricostruzione effettuata mi pare abbastanza dettagliata e convincente, adesso vedrò cosa farne. L’intenzione non è riscrivere una storia, ma provare ad organizzare gli elementi che consentano una sua più adeguata interpretazione, riferendola a sentimenti che sono collegati alla realtà odierna. Questo, in definitiva, mi fa continuare a far politica anche se sconto una oggettiva condizione di solitudine. 

Meno male che ci sono Fondazioni che svolgono un lavoro meritorio, fanno emergere queste storie attraverso serie ricerche storiche.

Per 20 anni ho tenuto in piedi l’Associazione dei popolari,  potendo contare su circa 600 iscritti. Quella del Piemonte è stata la più robusta delle Associazioni nate sulla scia dello scioglimento della DC e la sospensione dell’attività politica da parte del Ppi. Poi lentamente si è disgregata. Un sodalizio rivolto soltanto all’elemento culturale, alla riflessione storica, alle idee e non alla azione, non interessava più a nessuno. Dicevano: facciamo una  corrente capace d’inserirsi a pieno titolo nel contesto politico del partito (prima la Margherita, poi il Pd) che rappresenta il punto di confluenza politica dopo la breve stagione del Ppi. Ma se le correnti non fanno politica, se esse stess sono fatte di nominati, muoiono mentre nascono. Oggi saranno una cinquantina di persone in tutto e purtroppo l’Associazione langue, essendo convinte ormai che lo strumento così indebolito non serva a produrre politica  

A proposito di nominati, ricordo la sua grande battaglia per la legge proporzionale. 

Se non vivi il rapporto quotidiano con la gente, non fai esperienza di ciò che costituisce il nucleo vitale della democrazia. La centralità del fare politica stava nel rapporto con l’elettorato e rappresentava una combinazione difficilissima. Oggi si parlerebbe, in modo più sofisticato, di una sorta di algoritmo della politica, con il quale organizzare concettualmente ciò che un tempo apparteneva alla naturale combinazione di pensiero e azione, dove magari si registrava più spontaneità e più passione. D’altronde, se si indebolisce uno si indebolisce anche l’altra: un pensiero vale in politica se determina un’azione e, viceversa, un’azione politica regge, significativamente, se incorpora un pensiero. Non c’è alternativa possibile a una tale connessione. 

Ora, ben si comprende come l’impegno di molti amici si perda nella inanità dell’impresa. Anche quelli più attivi – li giustifico perché hanno 60 anni e mentre io ne ho 90 – si illudono di maneggiare qualcosa di gratificante. Sono disperatamente alla ricerca di un ruolo personale che non trovano, semplicemente perché non esiste al di fori di una precisa dimensione di partito. Forse sono cose banali, ma tutte le cose vere sono sempre banali: da soli si fa filosofia, non si fa politica. 

Purtroppo mancano i luoghi di aggregazione. Anche le riviste politiche, spesso organi delle correnti di partito, davano vita a processi fatti di incontri, solidarietà, riconoscimento reciproco . 

C’è una rincorsa infinita alla leadership, quale che sia la sua ragione effettiva, il suo riscontro con le dinamiche sociali, il suo intrecciarsi con le spinte democratiche di lungo periodo. Si opera con il cronometro in mano, tutto scorre veloce, senza che avvenga quella sedimentazione culturale che nutre da sempre l’azione politica. Tu hai conosciuto dall’interno la DC: quel circuito democratico che ne determinava la legittimazione pratica agli occhi degli iscritti e degli elettori, oggi dov’è? In quale partito riesci a scorgerne il tratto, per indovinare una qualche similitudine? Non è solo un problema di partito. 

Il mondo cattolico ha stentato ad aggregare i fedeli. Ce lo dice questo sant’uomo del Papa! Tutti vogliono la Chiesa trionfante, ma lui appartiene alla Chiesa di oggi, che non è per niente trionfante. 

In politica il leaderismo è un dato di corrosione democratica. Nessuno che dica sono disposto a fare il  quarto o il quinto. Tutti vogliono essere i primi – fenomeno, questo, che va oltre i confini nazionali – altrimenti fanno le valigie e provano a organizzare un nuovo partito. 

Guarda quanti segretari ha cambiato il Pd, ne puoi contare 6 o 7! Forse di più. Lo cambiano, virtualmente, già prima che sia  segretario! 

Nessuno è disposto a fare l’opposizione interna. Donat Cattin invece ha vissuto questa condizione a lungo, lo stesso è avvenuto, sia pur brevemente, con Moro. 

Anche in questo caso la storia – la nostra storia – può insegnarci molto. Nelle mie ricerche mi sono addentrato nella riflessione su cosa politicamente ha davvero rappresentato Sturzo. Gli si possono attribuire anche grossi errori. La rigidità di approccio, o se vogliamo un certo tipo d’integralismo, costituiscono il suo tallone d’Achille. Non ha saputo realizzare, quando pure appariva necessario, le alleanze che potevano garantire una tenuta migliore dell’iniziativa dei Popolari. E non promosso o acccettato alleanze perché pensava sempre che il rischio fosse quello di perdere l’identità di partito. Ha sempre detto: se resiste questo motivo d’identità ci sto, altrimenti faccio la minoranza. Ora, se ti guardi attorno, è proprio vero che più nessuno accetta l’idea di essere minoranza. Un partito di minoranza risulta un’offesa allo spirito del mondo, una lesione alla credibilità dei vari protagonisti politici. Ora, però, un partito che non metta nel conto il dovere di essere all’occorrenza minoranza, è un partito destinato a scomparire prima di quanto s’immagini. 

La DC ne era immune?  

Non lo so. Mi sono fatto la convinzione che se la DC avesse accettato unanimemente di andare in minoranza, dopo un periodo di lontananza dal potere sarebbe tornata ad essere una forza determinante. Non è andata in minoranza perché quando è iniziata la crisi i tre o quattro dirigenti da cui dipendeva il futuro si sono asserragliati nei fragili recinti della loro autodifesa. Ognuno di loro ha pensato di trasmigrare in una diversa maggioranza. È si è visto cosa è accaduto.

Si sono rinchiusi in un potere che assomigliava a un guscio vuoto…

Mi piace parlare con te perché sei una persona che ascolta. 

Eppure l’esperienza della DC offre ancora molti spunti di riflessione. Abbiamo di fronte il dramma della guerra russo-ucraina: la causa scatenante è stata la tensione mai sopita nella regione del Donbass. Ora,  l’accordo De Gasperi-Gruber, che dette vita al pacchetto Alto Adige, ci dice quanta lungimiranza ha guidato l’azione dello statista trentino.

Ricordati soltanto che per quasi undici anni sono continuati gli atti di terrorismo. Gli estremisti, da una parte e dall’altra, non si sono fermati. Il rivendicazionismo sudtirolese si scontrava con il nazionalismo della destra radicale italiana. Eppure, grazie all’accordo tra Roma e Vienna, quella crisi è stata largamente governata, per essere in ultimo assorbita del tutto.

Che giudizio possiamo dare di De Gasperi?

Su di lui ha scritto un bel libro Giuseppe Matulli. Il punto che mette in evidenza si collega a una riflessione già sviluppata da Gabriele De Rosa. De Gasperi, per la sua formazione in ambiente austro-ungarico, non ha l’intransigenza di Sturzo. Tra i due esiste una differenza importante: Sturzo concepisce la lotta democratica in termini di esaltazione dell’identità di partito, De Gasperi come ricerca dell’equilibrio e anche del compromesso, per non restringere indebitamente lo spazio di manovra dei cattolici popolari.  

De Gasperi fu deputato in un Parlamento, quello di Vienna, in cui la componente italiana era la quattordicesima minoranza e dove in Aula si parlavano sette o otto lingue diverse. La piccola minoranza italiana doveva fare politica con la consapevolezza che solo la capacità di dialogo poteva facilitare il raggiungimento dei suoi obiettivi  

L’attitudine di De Gasperi consisteva, almeno nel periodo iniziale dell’impegno pubblico, nel prendere sul serio il lavoro di avvicinamento delle posizioni più divaricate. Capire gli altri e farsi capire, cercando i margini possibili d’intesa, era un modo per difendere gli interessi dei suoi trentini.  

Se vogliamo valutare in modo corretto l’atteggiamento di De Gasperi all’avvento del fascismo, abbiamo il dovere di riconoscere la preoccupazione che sottostava alla sua condotta pubblica. Quando c’è stato lo scontro iniziale con il fascismo, De Gasperi cercava il compromesso per ottenere il meglio e, dunque, una via di uscita per evitare la guerra civile. Sturzo invece fu pronto a rispondere con fermezza, perché abituato a ragionare secondo un paradigma di chiarezza, non edulcorando i contrasti. 

De Gasperi non era meno antifascista di Sturzo, ma confidava più del prete siciliano in un’opera di contenimento dell’irruenza politica mussoliniana. Da qui la divaricazione tattica tra la segreteria e il gruppo parlamentare del Ppi. Indubbiamente Sturzo fu più lucido e anni dopo, riconquistate le libertà, De Gasperi lo riconobbe. Tuttavia il retaggio della sua lezione di prudenza, ancora valida oggi, permette di vagliare il pericolo che si nasconde in uno scontro permanente, anche sui principi e i valori fondamentali dell’ordinamento democratico. Gli esempi non mancano, anche fuori dall’Italia. Se prendiamo in esame il dissidio interno alla società americana, con il carico di odio tra le aperti avverse e le conseguenti esplosioni di violenza, non possiamo che raccogliere a posteriori l’invito di De Gasperi a limitare o mitigare lo scontro politico. In fondo, come gestì il duro braccio di ferro con Togliatti e l’opposizione frontista? Non oltrepassò mai i confini della convivenza civile e del rispetto democratico. Contrariamente alla Germania, l’Italia non mise fuori legge i comunisti. De Gasperi tenne fede alla ricerca dell’unità possibile, per il bene della collettività e la difesa delle istituzioni.     

Alcuni insegnamenti ritornano con il tempo. C’è sempre da imparare a rileggere il modo in cui i “grandi padri” della DC hanno esercitato la loro leadership. Ad ogni buon conto, De Gasperi usava il metodo democratico in tutti i passaggi interni al partito.

Non c’è dubbio, De Gasperi rientra in quella categoria che potremmo definire dei leader veri, autentici, a differenza di quelli costruiti da leggi elettorali e meccanismi selettivi ad hoc. 

Nella DC esisteva un meccanismo di controllo e verifica a carattere permanente. In questo modo si allargava la partecipazione. Giulio Pastore dette vita a una corrente parlamentare, poi trasformata in corrente di partito, per contrastare la presenza di un’altra corrente, schierata a destra, che aveva come obiettivo di condizionare continuamente De Gasperi. 

Nessuno ricorda, neppure gli storici, che De Gasperi nel 1953 perse le elezioni e fu sfiduciato in Parlamento, nonostante il sostegno del segretario del partito, Guido Gonella, e l’apertura ai monarchici: “Non ci conosciamo” – come dire votatemi – “poi ci conosceremo!”. Tornò alla guida della DC, ma il suo ciclo era concluso. 

La sua politica influì sugli sviluppi successivi per molti anni, dando un profilo marcato e stabile alla democrazia repubblicana. Tuttavia il suo periodo aureo è stato appena di sette o otto anni, poco più di una legislatura. 

Purtroppo le grandi testimonianze appassiscono nella nostra memoria. Adesso tutti lo ricordano perché era uomo di una correttezza assoluta, tanto nei rapporti personali quanto nei rapporti politici, in grado con la sua autorevolezza di contribuire notevolmente a formare la classe dirigente democristiana. Poi è avvenuto che questa correttezza “à la De Gasperi” sia andata lentamente consumandosi, fino ad arrivare alla sciatteria e al disordine che abbiamo constatato nel recente passato, di cui purtroppo non riusciamo a intravedere il dovuto superamento nello stile di molta parte dei politici attuali. 

In effetti, me ne rendo conto, sono drastico. Non mi piace arrotondare i giudizi per guadagnare consenso, dato che ormai non ho neppure necessità di inseguire obiettivi e riconoscimenti che in democrazia sono giustamente legati alla raccolta di solidarietà e convergenza. Mi posso permettere di essere franco fino in fondo. 

Che cosa ricorda di più della esperienza parlamentare? 

Non saprei scegliere. Ho avuto la fortuna di costruire con molti colleghi parlamentari, anche di altri partiti, una felice condivisione di sensibilità attorno soprattutto ai temi emergenti dalla crisi del primo centro-sinistra, partendo perciò dagli anni ‘70 per arrivare fino alla caduta della cosiddetta Prima Repubblica. Le difficoltà dello Stato sociale e l’avanzata del neo-liberismo costituivano argomenti che spesso offrivano spunti concreti di collaborazione, superando alcune barriere di partito.

Sono stato Ministro in tre governi diversi, negli anni ‘80, sempre con la preoccupazione di adempiere a un compito che prescindeva dalla mera gratificazione personale. Non ho fatto niente di straordinario. Mi ricordano in genere come una persona che aveva una sua linearità di atteggiamento politico; ciò nondimeno, quella linearità non era tutta e solo mia perché nei dicasteri dell’Istruzione, del Bilancio e dell’Industria mi sono avvalso in misura cospicua del consiglio e della esperienza di collaboratori, funzionari e amici di partito. Stavamo a contatto quotidiano e la sera andavamo a cena assieme, in una politica senza orario, come i negozi che sono aperti giorno e notte. 

Il cena e il dopo cena in attesa delle prime copie dei giornali… 

Sì, anche questo era un rito. Sono stato cinque anni direttore de “Il Popolo”, oltre che parlamentare nazionale ed europeo, nonché Ministro. Ruoli intercambiabili, tecnicamente diversi ma per me simili, sotto molti aspetti. Ho conosciuto da vicino il mestiere del commentatore e del cronista. Adesso vedo comparire in tv, come corrispondenti dall’Ucraina, diversi giornalisti che sono ben presenti alla mia memoria di direttore del quodidiano ufficiale del partito. Li vedo che sono cresciuti e apprezzo il fatto che abbiano mantenuto rigore e obiettività nel dare le notizie. Fortunatamente non c’è quel settarismo che spesso incontri nelle urlate dispute dei talk show. “Siamo minoranza, non diventiamo una setta”: così si espresse una volta, con spirito acuto, il card. Martini. Un pensiero illuminante! Quando invece la tendenza è quella di trasformare l’essere minoranza in pratica e condizione settaria, allora sì che si sprofonda nella palude dei falsi orgogli. Potremmo definirlo il suicidio delle ragioni professate con poca fiducia nello strumento del dialogo. A me preme, invece, stare su questo terreno e mettere a valore il confronto con gli altri. Non sono così bravo, così coerente e lineare, ma cerco di essere all’altezza dei propositi. 

Chi ricorda dei politici con più grande affetto? 

Una persona mi ha aiutato a crescere, Carlo Donat  Cattin, un’altra mi ha aiutato a “tramontare”,  Benigno Zaccagnini: due personalità straordinarie, assolutamente diverse, che considero decisive nella mia esperienza umana e politica. Poi, indubbiamente, c’è stato Aldo Moro. Dire che ho provato a somigliarli, non sarebbe appropriato. Semmai, nei momenti più difficili, il suo esempio l’ho considerato un criterio direttivo per l’azione. Credo sia facilmente comprensibile il motivo. 

Ce ne sono altre? 

Ho avuto un rapporto amichevole con Franco Salvi, uomo di ammirevole intelligenza, forse intransigente a tal punto da apparire duro e scostante. 

Se penso all’oggi, ci sono sette o otto parlamentari con i quali mi sento per gli auguri nelle circostanze più disparate. Tra noi vige una rapporto di amicizia e conoscenza tale da scavalcare qualsiasi fraintendimento. Non parliamo mai di politica in senso stretto, ma scambiandoci le impressioni su questo o quell’argomento ci troviamo subito d’accordo. 

Nessuno di loro è una bussola – questo è il paradosso – ma insieme sono l’orizzonte al quale rivolgo volentieri lo sguardo. Se a uno di loro chiedi ad esempio come va a Napoli, te lo dice con semplicità e precisione, sicché puoi capire in poche battute l’essenziale. 

Poi i ricordi sono fatti anche di ambientazioni, ovvero di contesti che spiegano la politica, ne illuminano il valore paradigmatico, incarnando qualcosa di attrattivo ed esemplare. Le “bianche” Brescia e Bergamo, come pure le “rosse” Modena e Reggio Emilia erano città che raccontavano la vivacità e la forza della politica. In entrambe operava una DC attenta e moderna. Qui trovavi il partito capace di governare bene o di fare bene l’opposizione, il modello di partito da mettere su un piedistallo, quello che la DC doveva essere ovunque. Perché invece dominavano o sembravano dominare, in troppe situazioni locali, logiche e costumi deprecabili? Il gioco delle tessere, le collusioni con realtà moralmente opache, casi di corruzione inaccettabili: ecco, dovevamo  fronteggiare nostro malgrado le accuse che derivavano dalla diffusione di tali fenomeni. 

Facciamo attenzione, i luoghi dell’eccellenza, se vogliamo chiamarli così, non erano politicamente amorfi, anzi. La democrazia locale era intessuta di lotte e competizioni, ma prevaleva una regola di amore per la comunità. Certo, dentro queste esperienze fai presto a individuare una tipologia di impegno politico. 

Recentemente, sulla DC di Bergamo mi ha raccontato molto bene Gilberto Bonalumi. 

Devo dire che Bonalumi è una persona che tutti noi abbiamo sottovalutato. Conosce la situazione concreta dell’America Latina, avendo tessuto rapporti di amicizia  con i democratici cristiani di quel continente. Credo che nessun altro nella DC abbia avuto la stessa ampiezza e consistenza di conoscenze e relazioni. Sapeva tutto di ogni nazione. Ti diceva il nome di questo o quel dirigente, e all’occorrenza sapeva come rintracciarlo. Il suo lavoro è stato straordinario, frutto di un apprendistato politico di alto livello che una città come Bergamo, con un partito robusto e qualificato,  poteva evidentemente garantire. 

Non abbiamo parlato della dialettica tra le due sinistre democristiane.

Nel rapporto tra Forze Nuove e Base, ovvero tra la corrente sociale e quella politica, c’è sempre stato un “odi et amo” nel dare compimento a una politica autenticamente popolare. Io sono cresciuto nella corrente di Forze Nuove. Con Luigi Granelli e Giovanni Galloni, esponenti della Base, andavo molto d’accordo. Erano quelli che incontravo più frequentemente. Abbiamo dato vita insieme a una quantità di iniziative editoriali. Sia i periodici della Base che quelli di Forze Nuove rappresentavano la sede di un intenso dibattito politico. Donat Cattin era straordinario, aveva l’animo del giornalista e questa sua inclinazione esaltava le sue doti di leadership. “Settegiorni”, un settimanale a larga diffusione, fu voluto e sostenuto da lui. Poi venne “Il Domani d’Italia” di Pratesi e Galloni, “Il Confronto” come strumento della cosiddetta Area Zac, quando le due sinistre si mescolarono e presero a concepirsi alla stregua di una sola corrente. Finché, ricorderai, alla fine Donat Cattin ruppe con la politica del confronto e lanciò, nel congresso del 1980, il Preambolo. A me toccò assumere allora la rappresentanza di quella parte della corrente – scegliemmo la denominazione di Nuove Forze – che non intendeva disperdere o peggio rinnegare il carattere unitario della stagione zaccagniniana. 

Sta di fatto che la storia della DC passa ampiamente per le pagine delle riviste delle sue correnti di sinistra. Noi ci tenevamo a precisare che eravamo sinistra della DC, non sinistra nella DC. Una distinzione importante, giacché significava che l’essere di sinistra andava a qualificare organicamente la battaglia per una DC più consapevole della sua natura popolare e democratica. La sinistra interna si connotava come avamposto di un partito socialmente aperto, con un programma avanzato, non come un gruppuscolo alieno che operava transitoriamente nell’involucro democristiano, ma in vista di una dissoluzione apportatrice di novità nella sinistra italiana nel suo complesso. 

Le correnti non erano di per sé un male, vero?

Le correnti, anche quelle moderate, sono state nei momenti migliori un fattore di ricchezza ideale. De Gasperi, sempre lui, usava dire: “Sono correnti dello stesso bar”. Tuttavia, se ci abbandonassimo all’astrazione, non capiremmo la complessità della DC. Le idee contano, ma alla fine conta di più la realtà; conta come vivi la politica dentro l’esperienza reale, nel contesto del tuo territorio, dentro la tua comunità. I problemi contano più della tua idea e dunque la tua idea, per affermarsi, deve farsi carico di quei problemi. 

Bisogna ascoltare, ci suggeriva Moro. Ognuno ti aiuta a collocare nel modo più utile le idee che maturano in un determinato frangente.

La grandezza di Moro, oltre che sul pacchetto Alto Adige, l’ho vista nella legge sulla ricostruzione del Friuli, con Zamberletti commissario straordinario.

Moro ebbe chiaro l’obiettivo di dotare gli amici friuliani di strumenti eccezionali per rimettere in piedi la regione devastata dal sisma. La scelta di Zamberletti a capo di quella che diventerà la Protezione civile fu una intuizione efficace. Evidentemente Moro apprezzava le qualità di Zamberletti. Quando eravamo nel Movimento giovanile, per due stagioni lui ed io siamo stati nello stesso alberghetto, dormivamo nella stessa stanza. Tutti lo riconoscevano capace di “mettere a terra”, secondo il lessico dei nostri giorni, le competenze derivanti da una coscienziosa militanza politica. Non ci siamo più ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda quando prese parte a “Europa 70”,anche insieme a Bartolo Ciccardini, un movimento (e una rivista) che privilegiava la consonanza con i temi gollisti, in pratica sostenendo l’introduzione del presidenzialismo e la costruzione di una democrazia più ordinata sulla nettezza della dialettica tra maggioranza e opposizione, quindi tendenzialmente bipolarista. 

Altri la pensavano come lui. O sbaglio?

Una componente a tendenza presidenzialista c’è sempre stata nella DC, anche tra noi della sinistra. Non ho mai condiviso questo tipo di proposta, scontando per questo un certo grado di solitudine nel partito. Penso però, a distanza di molto tempo, che avevo ragione. Anche quando alcuni settori del mondo cattolico (Azione Cattolica, Fuci, Acli, ecc…) puntavano a inizio degli anni ‘80 a cambiare ordinamento istituzionale per ottenere con un presidenzialismo più o meno adattato al caso italiano un di più di efficienza, mi sono dichiarato nettamente contrario. Ho ancora riscontri precisi di quegli incontri che ruotavano attorno alla trasformazione in senso presidenzialistico della nostra Costituzione. Sul punto ero in disaccordo con il prof. Pietro Scoppola, come pure lo fui sul passaggio da lui teorizzato dal Ppi all’Ulivo, poi alla Margherita e infine al Pd.

Cosa è accaduto con la fine della DC? La nascita della Margherita in fondo resta un mistero. 

Dovevano convincermi, ma…non ci sono riusciti. Ecco, non ho aderito alla Margherita, né successivamente al Pd, malgrado la vicinanza con amici carissimi per i quali nutrivo stima sincera. Ciò non toglie che il mio voto sia andato a queste formazioni politiche, non solo per questioni di amicizia. Pur vedendo oggi i limiti del Pd, mi domando: posso votare per altri? Mi guardo intorno e non trovo nulla – nulla di adeguato e convincente – quindi mi oriento nella direzione più omogenea con la mia storia e la mia sensibilità politica.  

La sensibilità di un moroteo irriducibile agli stereotipi di un moroteimo di comodo…

Quando il figlio di Moro, Giovanni, insieme a Giancarlo Quaranta mise in piedi l’associazione Febbraio 74, che poi si trasformò in Movimento Federativo Democratico, più vicino al PCI che non alla DC, fui invitato a un loro convegno. O meglio, fu Aldo Moro a chiamarmi e a dirmi di partecipare: “Perché non ci vai tu, i giovani li conosci meglio di me”. Questo per ricordare che intrattenevo con Moro un rapporto molto prossimo alla confidenza. Ero tra i pochi a dargli del tu, come facevo d’altronde con Fanfani. In famiglia, nei difficili anni ‘70, i figli sono stati per alcuni – pensa al dramma vissuto da Donat Cattin – un motivo di apprensione e sofferenza. Il conflitto generazionale attraversava le vicende di partito e Moro ne aveva una conoscenza diretta.

Perché attiro l’attenzione su questi aspetti? Perché sovente mi devo misurare con una immagine di Moro che non corrisponde alla realtà più vera del suo vissuto privato, con tutti i riflessi possibili sulla vita pubblica. Non amo gli stereotipi, come tu esattamente rilevi, perciò non amo lo schiacciamento della figura d Moro sulla prospettiva totalizzante del compromesso storico, quasi a stabilire per lui una funzione di accondiscendenza alla strategia del PCI di Berlinguer.

Moro merita più rispetto.

Chi ricorda con più affetto del movimento giovanile degli anni ‘50? 

Ho sempre avuto un rapporto personale piuttosto cordiale con Gianni Baget Bozzo. All’inizio lo consideravo un riferimento ancora più autorevole di Dossetti. Poi ho capito che non era così, che lui e Dossetti avevano talora punti di vista discordanti. Andando avanti, mi sono sentito più vicino a Dossetti. 

Comunque Baget Bozzo incuteva ammirazione per il suo indubbio talento. Ha scritto diversi libri, a tre di questi sono sono stato coinvolto negli incontri di presentazione. Aveva un nutrito pubblico di estimatori. Quando ho criticato qualcosa dei suoi scritti, mi sono arrivate lettere persino violente da parte dei suoi fedelissimi. L’accusa era sempre la stessa, non ero all’altezza di comprendere il suo pensiero. Invece ritengo di essere un buon conoscitore della “filosofia” che sorreggeva la sua visione politica.

Venne anche alle prime Feste dell’Amicizia. Sentiva attrazione per la DC,  ma avrebbe voluto comandarla lui. Poi divenne parlamentare europeo del Partito socialista e in quella veste ha difeso Berlusconi nella sua richiesta di adesione al PPE. Castagnetti ed io eravamo contrari, essendo quanto mai evidente che il fondatore di Forza Italia non aveva nulla a che fare con la cultura democratico cristiana. 

La discussione fu lunga e non sempre pacifica. “Ma vi rendete conto – dicevo ai colleghi Popolari europei – che la  domanda di adesione è caldeggiata da un membro del PSE? Dunque, un socialista ha la pretesa di sollecitare i democristiani a spalancare le porte a Berlusconi!”. Non se ne erano accorti.

Eravamo in contrasto, ma l’ho sempre rispettato. Cercava di conciliare una visione teocratica, ben accolta dal card. Siri, suo superiore a Genova, con quella che era l’ambizione politica. È andato dall’estrema destra all’estrema sinistra senza provare imbarazzo, come se le contraddizioni insiste in questa radicale oscillazione non lo riguardassero. Se operava una svolta, pretendeva di giustificarla in nome della sua credibilità personale.   

Anch’io ebbi modo, grazie a Malfatti, di inquadrare bene il personaggio. A proposito, di Malfatti cosa possiamo dire?

Franco è stato il primo del Movimento giovanile a diventare  parlamentare e Ministro. Quando si candidò la prima volta, Riccardo Misasi gli disse beffardamente: “Non puoi fare solo tu il Ministro, bisogna essere in due o in tre”. Allora Malfatti, uomo pronto alla battuta ma anche un po’ cinico, rispose: “Pensa che tristezza, per me, essere da solo in  Parlamento”. La sua ironia era tagliente. Se mi chiedi un giudizio, ti direi che è stato uno dei migliori Delegati nazionali del Movimento giovanile.

Lo abbiamo fatto questo discorso, il Movimento giovanile è stato un serbatoio di quadri politici. Molti li ho persi di vista, chissà se hanno continuato tutti a fare politica. 

Beh…no, in tanti sono tornati alla professione. Chissà quali altri percorsi hanno intrapreso. Come fare ad avere un pensiero per tutti? Eravamo un esercito, siamo entrati in massa in Parlamento. Nel 1968 c’è stato un ricambio forte nella DC, in chiave strettamente elettorale, perché dalle esperienze giovanili, specialmente nelle Università, il passo verso il partito fu breve. Su 265 eletti alla Camera, in quell’anno le matricole furono 79: un elenco lungo per un grande ringiovanimento di classe dirigente. Adesso ci tocca coltivare in solitudine questa raccolta di testimonianze di cui la politica odierna, in qualche modo, dovrebbe riuscire a conservare una traccia viva. Ne trarrebbe vantaggio, ne sono sicuro.

 

CONCLUSIONE

Qui finisce la nostra lunga conservazione. E un po’ come Bodrato anch’io mi rimetto a fare politica da solo, al computer, con i pensieri rivolti al passato, a quel convegno del Sestriere del 31 agosto 1957 con Malfatti, Donat Cattin e Rumor sui giovani in politica, al saggio di Augusto Del Noce su schemi ideologici e formule politiche o a quello di Riccardo Misasi su una classe politica per il sud (v. il numero di “Per L’Azione” che riportava le principali relazioni). Poi mentre scrivo mi arriva una lettera di un giovane del liceo Augusto che, appena quindicenne, partecipò a quel convegno del Sestriere!

Personaggi Dc, la Galleria di Eufemi. Pietro Rende, protagonista del meridionalismo

 

Anche la Calabria ha avuto il suo don Luigi Sturzo. Quando Umberto Agnelli disse: Popolari sì, populisti no. La linea europeista, che prevedeva le privatizzazioni, non è nata sul Britannia. Forlani? Un realista, attento al rinnovamento. Si ribellò a Fanfani. Due "siparietti" con Andreotti. Marcora disse a Misasi: questo Rende le prossime elezioni me lo porti a Roma. Selezione classe dirigente, la mancata rielezione di Mortati grida vendetta. Pure il Pci non rielesse Gullo padre e Gullo figlio. Guarasci, il politico calabrese più amato. Moro, "resta un dubbio: facemmo tutto il possibile per salvarlo?"

 

5 Luglio 2022 - Intervista di Maurizio Eufemi tratta dal giornale online "beemagazine.it"

 

Pietro Rende classe 1938, una lunga esperienza giovanile in provincia di Cosenza con Guarasci, consigliere comunale e assessore al Comune di Cosenza, prima di essere eletto deputato dal 1972 al 1987, poi consigliere regionale in Calabria.

 

Molti amici di partito, vista la situazione politica che viviamo, sono frastornati e incerti sul da farsi e si sono “fermati”. E tu? Può essere utile riavvolgere il nastro della storia per leggere il presente e trovare spunti per la Politica?

Dalla Azione Cattolica sono passato alla politica. Abitavo di fronte alla parrocchia, il parroco dopo la maturità scientifica, mi coinvolse. In più seguii un congresso provinciale della Dc dove c’era un prete, don Luigi Nicoletti, un moralista, che veniva tenendo il suo intervento. (Era un fondatore della Dc, una delle figure più rappresentative del movimento cattolico nell’Italia meridionale ndr).

 

Era un prete impegnato come don Luigi Sturzo?

Sì. Sono andato a vederlo e sono entrato proprio quando parlava questo prete storico della Dc cosentina nel 1957.

Poi sono entrato al consiglio nazionale dei giovani al congresso di Merano.

 

Chi c’era in quel periodo?

Guido Bodrato e Riccardo Misasi, che erano gli uscenti dal movimento giovanile. Tra gli entranti, ricordo Luciano Benadusi e Giuseppe Gargani.

 

Dove scrivevi?

Sul Popolo parecchio, quando sono stato responsabile nazionale per il Mezzogiorno, sotto la segreteria Zaccagnini.

In quel congresso di Merano del 1958 ha vinto la linea di centro sinistra.

C’erano quelli che non volevano il centro sinistra, come Angelo Sanza che allora era colombiano.

Sono andato in treno da Cosenza a Merano, con Misasi.

 

In Calabria venivano fatti i corsi di formazione?

Sì, lì facevamo in Sila, in estate, Quando ero delegato giovanile dal ‘56 al ‘68 fino a trent’anni, perché poi si usciva per il limite di età.

E la esperienza in Comune di Cosenza?

Fui candidato al Comune di Cosenza per tre consiliature dal 1962 al 1977. Una volta capolista e assessore alle Finanze nel periodo in cui entrò in vigore la riforma Preti sulla finanza locale.

 

Quali iniziative hai assunto in Comune?

Ho proposto la istituzione dei consigli di quartiere. Ho fatto venire Andrea Borruso da Milano perché li già c’erano. (Borruso partecipò come delegato giovanile al convegno del Sestriere del 1957)

In provincia di Cosenza, sono stato assistente di Guarasci, la prima provincia di centrosinistra dell’Italia meridionale. Guarasci era considerato in Calabria il migliore uomo politico che abbiamo avuto.

È stato presidente della provincia dal 1962 al 1972.

 

Come funzionava l’accordo elettorale tra le province con il sistema proporzionale?

C’erano i voti di preferenze; Avevamo una corrente a livello regionale con Misasi capolista n. 1 poi io, poi l’avvocato Senese di Catanzaro, deputato e senatore.

 

Che ricordi di più del periodo parlamentare? Di tre legislature a Montecitorio?

Abbiamo fatto sempre guerra, sempre alla opposizione. Praticamente l’amicizia con Bianco; ci siamo ribellati alla retorica della nuova Dc che poi non c’era. Comandava sempre piazza del Gesù; ricordo questo conflitto.

 

La battaglia per l’autonomia dei gruppi? La battaglia tra Partito-Gruppo c’è sempre stata, anche ai tempi di De Gasperi?

Abbiamo fatto la battaglia, nel 1979, per elezione di Bianco a capogruppo.

C’era il problema di linea politica liberal democratica rispetto a una linea più statalista. Il problema dello SME e della scelta europeista.

Su Bianco abbiamo avuto Arnaldo Forlani. Da soli non l’avremmo fatto. Ci ha dato grande sostegno.

Forlani e De Mita avevano lanciato l’idea della nuova Dc, del patto generazionale a San Ginesio; volevamo fare a livello locale il discorso di San Ginesio.

Abbiamo fatto la esperienza rivoluzionaria dei gruppi parlamentari votando per designare con le primarie quelli che dovevano andare al governo e per le cariche elettive e per le presidenze delle commissioni. Bianco è andato a piazza del Gesù a presentare i risultati.

Gli hanno detto “ma voi chi siete!”

Noi abbiamo contrapposto il partito degli eletti al partito delle tessere, e dire tessere voleva dire correnti e dire corrente voleva dire lo scandalo, la questione morale!

Dunque la organizzazione che prevaleva sui liberi pensatori e sulle idee!

 

Oltre la battaglia del capogruppo cosa c’è stato?

La grande battaglia sulla questione meridionale. Perché l’alleanza programmatica con il PCI prevedeva per loro, la distruzione, la cancellazione della Cassa per il Mezzogiorno e quindi dell’intervento straordinario.

 

È sempre stato il loro vero obiettivo, quello del Pci?

C’era Abdon Alinovi, responsabile del Mezzogiorno del Pci che ogni giorno attaccava sull’Unitá Alberto Servidio, presidente della Cassa.

Lo vedevano come centro di potere della Dc come le Partecipazioni Statali.

La stessa cosa.

 

Poi forse se ne saranno pentiti?

Si, poi però sono arrivati i leghisti, che approfittarono di queste battaglie in corso per affossare la Cassa.

Poi frequentavo Cossiga, Peppino Pisanu, Mario Segni naturalmente con la corrente dei “Cento”.

 

Foste accusati di essere gli “hiltoniani”, in senso spregiativo?

Si facemmo un convegno all’Hilton.

Parliamoci chiaro, dietro questo c’era anche Andreatta. Era la linea di Andreatta. Non si esponeva, ma con i nuovi Dc quelli del rinnovamento del 1976 (101 nuovi eletti alle politiche del 1976 ndr) per salvare l’Italia dal pericolo comunista, con quelli avevamo creato il gruppo dei “Cento”. Intervenni per dire: “Attenzione noi siamo qui liberal democratici, va bene, ma non dimentichiamo la nostra radice popolare”.

Ci fu l’intervento di Umberto Agnelli che mi replicò “popolari si, populisti no!”

Vedi quanti anni sono passati! Tutto questo lo riportò il settimanale l’Europeo. Ecco chi erano gli hiltoniani!

 

Era negativo l’accostamento a Giscard d’Estaing?

Era la linea più liberal-democratica, più moderna. Era quella che quando Andreatta va sul Britannia e concorda con il capitalismo internazionale la linea delle privatizzazioni, poi la privatizzazione dell’Iri non poteva che farla Prodi, che era allievo di Nino Andreatta.

Era la linea europeista. Non era nata sul Britannia, ma parte da lontano. Mi hai citato nel tuo libro. (Pagine democristiane ndr). Noi eravamo maggioranza nel Direttivo del Gruppo. Abbiamo vinto, quando venne Andreotti che era sempre titubante, lo SME è passato, ma quelli che predicavano lo SME avevano paura della competizione.

 

Quel dicembre del 1978 fu un mese di particolare tensione politica in cui il gruppo parlamentare fece sentire la sua voce?

Rappresentai la linea del gruppo Dc in Aula e ci fu la rottura con il PCI. Ci fu la riunione dei parlamentari del Pci che fu contrario. Da lì nacque la crisi con la sinistra.

Ricordo che Galloni mi chiamò perché aveva bisogno del testo del mio intervento per vedere cosa era stato detto perché non avevano capito. Volevano dare a me la colpa di una parola di troppo. Le parole erano misurate.

Lì, nacque la crisi delle convergenze parallele.

 

Come hai vissuto negli anni ottanta la crisi delle PP.SS.? La crisi della industrializzazione?

Noi abbiamo fatto sempre la battaglia di tipo ‘’saraceniano’’ della industrializzazione forzata per la riduzione dei divari e la grande battaglia della riserva delle PPSS, poi abbiamo scoperto che la riserva del 40 per cento delle PPSS non riguardava l’industria, ma i servizi e veniva aggirata. Bastava aprire una stazione di servizio dell’Eni sull’autostrada, una pompa di benzina… e rispettavano la riserva!

È stata una battaglia nominalistica che purtroppo non ha dato risultati.

Le abbiamo già vissute queste vicende; oggi mi viene da ridere.

 

Con la chiusura dell’Agenzia per il Mezzogiorno, nel 1993 non fu accettata la gestione stralcio?

Perché venne e vinse la Lega!

Poi i leghisti scoprirono che le PP.SS. stavano anche al nord (il 20 per cento delle aziende partecipate era situato in Lombardia con un fatturato di 10.000 miliardi e in Friuli 30.000 dipendenti di PP.SS. ndr).

 

La legge 808 sulla impresa aeronautica era concentrata su Varese, nel territorio di Bossi?

C’erano aziende delle Partecipazioni statali al nord.

Un’altra battaglia nominalistica era di ridurre l’intervento nelle aree deboli del centro-nord.

Incontrai Andreotti sul corridoio della Posta. Mi disse: ‘’Rende mi hanno detto che hai fatto una intervista per ridurre le aree degli interventi nel centro nord: “Guarda che noi non abbiamo regalato niente. Se noi riduciamo l’intervento nelle aree depresse del centro nord, la legge sull’intervento straordinario ce la votiamo io e te”.

Hai capito! Guardava lontano. Era un grande Maestro.

 

E degli altri leader chi ricordi?

Forlani certamente, e naturalmente Bianco.

Di Forlani mi piaceva il realismo e nello stesso tempo la consapevolezza che bisognasse rinnovare, ma senza rompere il giocattolo. Era prudenza, però, e volontà di acciaio.

Si era ribellato a Fanfani. Ha capito che si doveva uscire dall’equilibrio materiale, dalla spesa pubblica, dalle PP.SS.

 

Dopo Palazzo Giustiniani? (Un accordo nel ’73 tra Moro e Fanfani, ndr)

Andreotti l’ho conosciuto poco, l’ho sempre visto come una persona intellettualmente raffinata.

Ti racconto un’altra lezione. Salii gli scranni, andai a lamentarmi sulla Cassa per il Mezzogiorno perché erano entrate le Regioni nel Cda. C’era il pericolo che si bloccasse tutto con le loro angustie.

Rende l’hai letta la Gazzetta Ufficiale di oggi?” mi dice Andreotti.

Come faccio a leggerla se arriva a casa dopo una settimana!”

Guarda che sono stati già firmati i decreti. Le Regioni sono già dentro il Cda. Perché non sei venuto prima!”

Ovviamente non è che sarei riuscito a cambiare il decreto!

Le Regioni dovevano mantenere solo la parte programmatoria senza entrare nella gestione.

Quello è stato l’errore. Il meridionalismo è finito con l’ingresso delle Regioni.

 

E questa ipotesi degli economisti delle macro regioni che farebbe crescere il pil?

Cresce il Pil da loro ma non da noi!

Si ritorna al periodo borbonico.

Ho timore per l’unita d’Italia.

 

Come è la Calabria rispetto all’intervento straordinario!

Ora non esiste proprio. Ci sono spese da revocare, I fondi europei non vengono utilizzati.

 

Perché manca la capacità di programmazione?

Manca il motore principale che è l’industria, la fabbrica sopra i 5000 dipendenti. Non possiamo pensare di decollare senza industria. Siamo in presenza di una miriade di fabbrichette, di artigiani, ma come Calabria non esportiamo nulla, siamo lo 0,1 per cento dell’export nazionale.

 

Eppure c’erano imprese ferroviarie efficienti?

OMECA (Office meccaniche calabresi). Anche le industrie ferroviarie sono entrate in competizione con fabbriche del nord. Vedevano OMECA come fumo negli occhi. Sono andate avanti solo quando i calabresi al governo hanno difeso le officine meccaniche e la presenza per servizi e collegamenti.

 

E il tessile di una volta che era una realtà sul litorale tirrenico?

C’era Lanerossi, prima ha iniziato Olivetti con i nuclei industriali, con la stagione eroica. Pastore aveva convinto industriali di Novara a localizzare insediamenti produttivi a Praia a mare, a Cetraro e Maratea. Furono belle esperienze.

Ho conosciuto due ministri Pastore e Marcora che andavano in giro a toccare con mano la realtà toccavano con mano i problemi.

Diventai deputato per Marcora. Mi conobbe sentendomi parlare a Soverato a un convegno regionale della Base sulla finanza locale con Galloni e Mazzotta nel 1971.

Avevo studiato bene problemi e criticavo la trasformazione della finanza locale, cancellata, da autonoma in derivata!

Marcora dopo avere sentito il mio intervento critico chiamò Misasi e gli disse: “Questo Rende, le prossime elezioni me lo porti a Roma”.

Misasi mi disse: “Guarda che Marcora ti ha notato e ti ha messo nel suo taccuino”.

 

E Misasi per Piero Rende che cosa ha rappresentato?

Se non avessi avuto il suo appoggio (di Misasi) non sarei mai stato eletto la prima volta nel 1972.

 

Per la Calabria cosa è stato?

Cose grandiose. L’università della Calabria fu idea di Guarasci, ma non sarebbe mai partita perché non c’era scritto in quale città sarebbe nata.

Misasi, ministro della Pubblica Istruzione, non solo ha scelto Cosenza, ma ha scelto anche Andreatta come rettore. Un modello di gestione che non immaginavano. Ha avuto una idea geniale. Andreatta con il primo miliardo di stanziamento, anziché tenerlo bloccato in Tesoreria, come avveniva in quei tempi, con un parere di un amministrativista, cominciò con gli interessi del primo miliardo; ha fatto una aula polifunzionale, a turno come una sala chirurgica a turno a seconda della specialità, tutte le facoltà hanno cominciato a fare lezione là. L’università di Arcavacata è decollata così. Questo con gli interessi del primo miliardo di stanziamento!

 

E il porto di Gioia Tauro?

Quando fui nominato commissario della Camera di commercio dalla Giunta dal mio amico Agazio Loiero che stimo molto, ho potuto verificare che è un porto giudicato limitato, di container, solo di carico e scarico.

Non c’è la lavorazione, ma solo il passaggio per le destinazioni. Auspichiamo una ZES una zona economica speciale, dove queste materie prime possano essere lavorate. Mancava il collegamento tra porto e rete ferroviaria – come ha scritto Necci – per il contrasto tra i vari enti. C’era frantumazione tra i diversi enti che operano su quel territorio. Il consorzio industriale era insormontabile.

 

E il successo dei Cinque stelle in Calabria come lo spieghi?

Ad un certo momento la politica meridionalistica si riduceva ad appalti e lavori edilizi. Ho sempre sostenuto questo quando ero responsabile Dc del Mezzogiorno, fino a quando De Mita segretario mi cacciò per mettere Manfredi Bosco. Questo lo addebitavo alla debolezza di Misasi.

Basta lavori più lavoro, era lo slogan. Aprivano i cantieri e poi chiudevano e tornavamo alla miseria di prima. L’edilizia ha questo limite. Non è riciclabile. Chiude il cantiere, scatta la cassa integrazione. Mancava l’industria. Abbiamo fatto una grande battaglia con Angelo Sanza sulla 675, sulla riconversione industriale. Con lo shock petrolifero del 1973 volevamo la riserva degli investimenti per il Sud, ma Donat- Cattin che era Ministro dell’Industria, era contrario perché l’apparato industriale era tutto al nord.

L’apparato industriale: in Fiat, hanno preferito fare i mutui con Gheddafi. La Fiat si è fatta finanziare ciò che occorreva per la nuova ristrutturazione. Hanno preferito Lafico (istituto per le partecipazioni estere della banca Centrale Libica ndr) con una loro strada autonoma a livelli internazionale, facendosi finanziare della finanza internazionale piuttosto che dall’intervento straordinario.

 

Forse la ragione è che se utilizzavi la legge 675 ci sarebbero stati la presenza e i controlli dello Stato?

Sì.

 

Le ragioni dell’avanzata dei movimenti dell’antipolitica in Calabria dove risiedono?

L’avanzata nasce con il surrogato del lavoro.  Il lavoro purtroppo lo offre la mafia dando lo stipendio stando a casa.

Ti arruolano, ma ti pagano il sonno. Anziché il capo bastone, lo Stato ti dà il reddito di sussistenza, ci pensa lo stato per assicurarti il reddito di sussistenza. In tutta Europa c’è questo politica, questo aiuto. In Francia ha cominciato prima mentre noi li davano prima alle fabbriche.

In tutto il mondo si da questo aiuto questo sistema.

Anche in USA è limitato per pochi mesi. Da noi zero. A livello delle imprese si fermava tutto li.

 

Da noi però erano antisistema?

Appena sono entrato a Montecitorio ho visto un ceto stantio, che non si voleva muovere più. Ho fatto la proposta del limite dei tre mandati.

Per lo meno non poteva stare nella stessa Camera elettiva.

Un giorno ricevo una chiamata dai vertici della burocrazia della Camera: la sua proposta di legge è irricevibile perché è incostituzionale. Va a mettere un limite che la Costituzione non prevede all’elettorato passivo.

Può farla come norma di partito, come norma interna se volete farla. Devo metterlo nella costituzione riformandola.

 

Però poi è stata introdotta con legge per i sindaci?

Anche con la riforma costituzionale di D’Alema se avessero voluto! Ma anche D’Alema era un altro intramontabile. Subito ho notato che c’era una fossilizzazione. Erano sempre gli stessi.

 

La norma sul porto franco in Calabria avrebbe portato benefici?

Come per Gioia Tauro, da quando è stato fatto saltare il cantiere di Lodigiani da quel momento non è venuto più nessuno. Non si è avvicinato più nessuno. Facevano le riunioni e dicevano: non andate al sud che vi fanno saltare i cantieri in aria.

 

E sul viaggio in America?

Nel periodo dell’eurocomunismo di Berlinguer siamo stati ricevuti a Washington, al desk Italia al 7 piano, del Ministero Esteri, al piano dove c’era Henry Kissinger, per parlare con gli esperti della situazione italiana. Secondo loro l’eurocomunismo di Berlinguer non esisteva. C’era eurocomunismo in Spagna con Santiago Carrillo e Dolores Ibarruri, in Francia con Marchais poi Berlinguer in Italia, ma non erano vasi comunicanti. Ci dissero: il primo partito comunista che andrà al potere nell’Europa libera sarà in Francia con Mitterrand, ma non durerà a lungo; non erano preoccupati per la NATO perché la Francia era nella Alleanza Atlantica solo a livello strategico e non a livello militare. Dunque l’Eurocomunismo di Berlinguer non ha radici, non ha futuro.

 

Con chi andasti?

Eravamo quattro segnalati dall’ambasciata USA come giovani parlamentari, tra cui Franco Mazzola, Gianfranco Sabbatini e Angelo Sanza.

Abbiamo conosciuto l’America da dentro.

Spingevano il rinnovamento dei quadri della Dc, ma a Piazza del Gesù non ci sentivano. Soprattutto insistevano nel rappresentare con franchezza la situazione economica.

È stata una esperienza interessante.

 

Dopo l’attività parlamentare?

Mi sono dedicato alla Fondazione Antonio Guarasci che è stato il primo presidente della Regione Calabria scomparso prematuramente in un incidente. Al ricordo dell’uomo politico più stimato che ha avuto la Calabria.  Con quell’incidente stradale è morta la speranza della Calabria.

Abbiamo fatto cose bellissime. La vedova ha avuto l’idea di chiamarmi alla Presidenza per raccogliere gli amici a ricordarlo a diffondere il suo pensiero, richiamandoli tutti, a cominciare da Piero Bassetti, Nicola Mancini, Guido Fanti.

Quello che ha creato il primo discorso sulla rifondazione della finanza pubblica a livello regionale è stato Bassetti.

Pensavano di rifondare lo Stato partendo dalle Regioni. Una grande ingenuità intellettuale perché le diverse regioni non marciavano allo stesso ritmo della Lombardia.

Dopo una grande effervescenza la Fondazione ora ha un po’ rallentato. Raccoglie tutto ciò che ricorda Guarasci. Mancini sindaco di Cosenza ci ha aiutato a comprare la sede che è un archivio storico.

Purtroppo Il limite di questi grandi personaggi storici in Calabria è che non hanno lasciato delfini.

Non hanno mai immaginato una classe politica in dialettica con loro, non in rottura, non l’hanno mai immaginata; prevaleva la subalternità.

 

E il frazionamento della Regione?

È un dramma perché la Regione diventa una missione. Non vedi l’ora di scappare. Fui designato una volta da Marcora e una volta dal commissario Nicola Quarta. Potevo essere un piccolo Antonio Guarasci, ma tutti i notabili mi hanno combattuto. Lo stesso avevano fatto a Guarasci. Adesso i deputati nessuno li conosce in Calabria con la legge senza preferenze. Ecco perché sono nati i cinque stelle. È venuta fuori veramente una grande esclusione. La gente si è sentita esclusa. La scelta più difficile che hanno i cinque stelle è quella del terzo mandato. Lo avevo sollevato nel 1982 quaranta anni fa!

 

Purtroppo non c’è più un luogo di formazione politica, dove è la palestra?

Oggi sono tutte sigle. La selezione della classe dirigente è peggiorata. Anche nella prima repubblica la selezione avveniva al rovescio. Noi in Calabria non abbiamo rieletto quelli che avevano scritto la Costituzione come Costantino Mortati o Celestino Arena, insigne economista, (per il contributo per la parte finanziaria alla Costituente, non eletto nel 1953. Ndr) Sensi, il fratello del cardinale, Luigi Quintieri, un liberale, fondatore della banca di Calabria che era stato negli Stati Uniti nelle delegazioni governative (con Cuccia, Mattioli, Morelli e Ortona fu definita pietra miliare del rapporto Italia USA ndr) aveva stabilito rapporti con la finanza americana prima ancora di De Gasperi, per i futuri aiuti finanziari e il piano ERP. Sono venuti fuori i quadri.

La vicenda Costantino Mortati grida vendetta al cospetto di Dio!

I comunisti hanno fatto fuori Gullo padre e Gullo figlio!

Non è tutto oro, in tutti i partiti!

 

Dove va l’economia adesso? Va male dappertutto

 

La nostra è economia dipendente. Siamo dipendenti. Siamo legati a questo sistema.

Siamo bene rappresentati da Draghi. Siamo a reddito fisso. Se non ci fosse Draghi chi ci difende da una inflazione all’8 per cento!

Negli anni Settanta dopo lo shock petrolifero e una forte inflazione al 12 per cento abbiamo dovuto mettere l’IVA al 20 per cento, sotto ferragosto in un decreto di cui ero relatore, sulla parte posteriore dei bovini. Abbiamo scoperto che gli italiani amano i quarti posteriori, i tedeschi gli anteriori, quelli brutti, muscolosi e anche meno teneri.

Sull’aumento dell’IVA per i tartufi ci fu stata una ribellione. Dissero: si stanno ribellando, ci distruggi l’economia!

 

E di Moro cosa ti rimane?

Un ricordo dolcissimo. Perché era un uomo veramente mite.

Fece un discorso a Bari sulla importanza della cultura nella questione meridionale e nella politica meridionalistica.

Mi sono fermato a parlare con lui a Montecitorio, nel corridoio della Posta, sul suo discorso di Bari. Di una umiltà! L’unico dubbio: Tante volte mi domando: Tutti noi io, te, Bianco, Segni, siamo sicuri che abbiamo fatto tutto per salvare Moro oppure non siamo stati all’altezza?

 

Hai visto l’ultimo film di Bellocchio?

Non ci sono andato, perché mi è bastato il giudizio di Stefano Andreotti! Per solidarietà non sono andato. È una vergogna attaccare i morti.

Maurizio, sembra di rivivere l’Eneide, i tempi felici. Siamo ancora rispettati. La più grande soddisfazione è che ancora oggi mia figlia mi porta i saluti di tante persone che incontra nella città di Cosenza.

 

Maurizio Eufemi

Angelo Rojch, c’è chi rimpiange la Dc. Con De Mita segretario, al posto di Martinazzoli il partito si sarebbe salvato

Angelino Rojch classe 1935, consigliere regionale in Sardegna per 4 legislature dal 1969 al 1987, capogruppo della Dc, assessore alla sanità e infine Presidente della Regione dal 1980 al 1982, poi deputato nazionale dal 1987 al 1994.

intervista di Maurizio Eufemi  conparsa sul giornale online "beemagazine.it" il 21 Giugno 2022

Da dove partiamo, Angelino, dalla tua entrata in politica? Quando è stata?

Sono entrato subito nella Dc. Avevo 15 anni, da studente, partecipavo agli incontri con un mio paesano che poi è diventato sindaco. La scintilla che mi ha portato a occuparmi di politica è stata un fatto specifico. I miei paesani di Galtellì vicino a Nuoro, ogni anno seminavano il grano e poi veniva l’alluvione che portava via tutto!. Un disastro!

 

Allora non c’erano le assicurazioni e provvidenze contro le calamità naturali?

Il problema di una diga per il contenimento delle piene era il problema centrale per salvare i raccolti. Nelle riunioni della segreteria provinciale Dc tormentavano i dirigenti locali dicendo “portiamo qui il ministro Pastore!” (Giulio Pastore fu segretario nazionale delle Acli, fondatore della CISL e ministro per lo Sviluppo del Mezzogiorno e per le aree depresse nel II Governo Fanfani ndr)

Pastore scese. Girò tutti i Comuni; aveva il senso concreto delle cose; Pastore chiese all’ingegnere: “Ma insomma questa diga si può fare?” Sì, che si può fare, rispose. Allora si farà! Ho inaugurato la diga da presidente della Regione! ( la diga di Pedra e’ Othoni è sul Fiume Cedrino sulla piana di Orosei,  consente la mitigazione delle acque e la irrigazione di 2500 ettari in 5 paesi della Baronia tra cui Galtellì ndr)

 

E le esperienze nel movimento giovanile?

Fui eletto, giovanissimo, delegato giovanile di Nuoro. Fui il più votato.

Feci un grande movimento giovanile. Dal movimento nasce il gruppo cosiddetto dei “Giamburrasca”, perché andavano per conto nostro, a dire la verità. Facevamo incontri settimanali, dibattiti con 100, 200 ragazzi di Nuoro, che si riunivano nella nostra sede, con un dibattito culturale intenso; raccoglievamo i materiali del movimento giovanile di Roma e avevamo rapporti anche con il gruppo di La Pira a Firenze. Poi portai La Pira a Nuoro.

Ariuccio Carta che si era laureato alla Cattolica di Milano, insieme a De Mita, Bianco, Misasi, portò la cultura cattolica democratica. Unendo tutto questo abbiamo creato la Democrazia Cristiana a Nuoro.

 

Chi ricordi hai del movimento giovanile nazionale?

Il movimento non nasceva in una realtà ovattata e tranquilla, ma a Nuoro, epicentro delle zone interne dell’isola, in una realtà agropastorale, area del malessere, dove vi erano più sequestri di là che in tutta Italia, c’era violenza, secondo una tradizione antica, tanto è vero che il Parlamento ha dovuto fare la commissione di inchiesta sul banditismo; non solo, ma Giangiacomo Feltrinelli pensava di poter fare la rivoluzione in Italia partendo dalle zone interne. Una realtà dove ogni giorno avevamo manifestazioni nelle piazze contro lo Stato.

 

L’indipendentismo?

Come movimento e come partito riuscimmo dopo a inserirci nell’anima in questo mondo turbolento.

 

Chi ricordi hai del movimento giovanile nazionale ?

Abbiamo avuto grandi rapporti con Luciano Benadusi, poi facevano molti corsi alla Camilluccia a Roma, guidati da Franco Salvi; fu una grande lezione. È stata esperienza straordinaria. Poi abbiamo trasferito lo stesso metodo da noi; da segretario regionale facevo i corsi tipo Camilluccia, alla Madonnina. Da delegato giovanile passai alla segreteria provinciale di Nuoro.

Non era facile la realtà di Nuoro perché c’era il gruppo storico di Mannironi, di Del Rio, gente di alto livello; non era assolutamente facile e non lasciava spazio; loro erano ancorati sul centrismo degasperiano, mentre noi eravamo sulla linea del centro- sinistra. In una terra come questa dove c’era una diseducazione assoluta dove c’era l’abbandono e spopolamento terrificante dei paesi, siamo riusciti a entrare nell’animo della gente.

Nel 1969 ci sono state le prime elezioni regionali. Capolista era il presidente della Regione, ma presi 20 mila voti. Portai la Dc al 54 per cento dei voti. Mai si era verificato una cosa del genere; poi a Cagliari c’è stato un fatto che ha lasciato il segno. Le zone interne erano trascurate. C’era il problema che politica era cagliaricentrica e un po’ su Sassari. Con Pietrino Soddu votammo contro il bilancio.

 

Un momento di rottura?

Facemmo cadere la giunta. Ci fu un processo interno che durò sei mesi contro di noi. Alla fine ci sospesero per sei mesi. Avevamo talmente ragione che dopo un anno Pietro Soddu fu chiamato a fare il segretario regionale e poi dopo due anni lo feci io.

Un altro fatto avvenne nel 1973; subentrai a Soddu come segretario regionale; dopo alcuni mesi il rapporto con i Dorotei e il gruppo e di Cagliari si deteriorò e arrivammo alla rottura. Si dimise tutta la sinistra dal comitato regionale. Come risposta dissero: “Gestite voi il partito se siete all’altezza della situazione.” Per fronteggiare la situazione viene eletto un professore universitario, una brava persona.

Succede che nel 1974, alle regionali, prendemmo una sonora sconfitta elettorale. Intervennero Fanfani, Galloni, Donat- Cattin,  Granelli. Richiamarono il sottoscritto a fare il segretario, ma non lo potevo più fare perché ero sostanzialmente fuori. Allora Inventarono il segretario generale straordinario. Presi in mano il partito,  lo trasformai. Feci a livello regionale quello che avevo fatto a Nuoro anni prima. Mi dimisi contro il gruppo moderato.

Feci un congresso all’insegna della novità.

Le tesi del congresso furono riprese dalla stampa nazionale. Dicevo: come è oggi, la  Dc non va più bene. Si deve aprire alla società, alle forze più vive, le deve inserire, deve assicurare una presenza continua. Gli organi del partito sono già obsoleti. Inventai le consulte settoriali più ampie. Una vera rivoluzione.

 

Volevi un partito aperto?

Teorizzai il partito movimento, allora. Fu una grande intuizione.

Fanfani presiedette per tre giorni il nostro Congresso, ma anche la sinistra Dc temeva le Consulte; non aveva capito bene che si doveva aprire. Quando il gruppo di Forze Nuove si è rotto con il Preambolo, una parte ( Ariuccio Carta, Antonello Soro) rimase con Donat- Cattin, che era un grande leader, e una parte andò a sinistra con Bodrato e Zaccagnini.

Noi che eravamo la sinistra politica interpretavano anche la sinistra sociale in termini reali. Tutte le grandi conquiste a Nuoro portano il nostro segno! L’ Università di Nuoro non fu una cosa facile!

Come presidente della Regione avevo in mano la Disneyland, che invece di farla a Parigi, la volevano fare in Sardegna, anche su spinta di Lord Forte che era azionista della Disneyland; la proposta ebbe il parere favorevole degli esperti perché il clima mediterraneo della Sardegna era preferibile a Parigi. Li ebbi tutti contro.

Non avremmo avuto disoccupazione in Sardegna, ma la presenza di 30 – 40 mila persone al giorno. La notizia arrivò in Sardegna e contemporaneamente in Liguria, le due regioni candidate. Ciò avviene mentre presiedevo la conferenza delle Regioni che fu istituita a palazzo Madama con Craxi, che ho potuto conoscere bene. Craxi si è comportato come uomo di Stato. Non posso dire una mezza parola contro quest’uomo.

 

Quando leggi la notizia della scomparsa di tanti amici come Ligios, Ladu, Carrus, Carta. Cosa pensi?

Se non me ne fossi occupato io, la figura di Carta sarebbe rimasta in secondo ordine. Carta aveva una grande visione politica; non era attento ai problemi concreti, ma Ariuccio era di altissimo livello. Hanno dato poco spazio al ricordo di Ariuccio Carta. Senza fare confronti – che non esistono – hanno dato più spazio a personaggi minori che non ad Ariuccio!

 

C’è una voluta dimenticanza? E sulla esperienza parlamentare?

Sul piano politico, da parlamentare, se non avessero sciolto le Camere, avevo i requisiti per andare al governo, ma avevo acquisito una tale forza a livello parlamentare che non me ne fregava nulla di fare l’uomo di Governo.

 

Hai promosso, come Presidente del comitato per la programmazione economica, nel marzo del 1993 il famoso convegno parlamentare su “Interventi nel mezzogiorno e le politiche regionali”. Richiamasti non solo il mancato rispetto della “riserva di legge”, ma il nuovo scenario per il Mezzogiorno determinato da crisi dello Stato sociale e drastica riduzione dei flussi finanziari statali imposto dal nuovo modello di sviluppo internazionale con conseguente allargamento dei divari socioeconomici? E i pericoli dalla interruzione delle iniziative e dei programmi già avviati, vanificati o cancellati dalla fine dell’intervento straordinario?

Ho posto al centro del mio impegno politico il problema del Mezzogiorno e delle isole e dunque il problema della questione sarda. La soluzione del dualismo economico, sociale e storico di una Italia ancora divisa. Su questo ho insistito. Un giorno il ministro del Tesoro Piero Barucci in commissione Bilancio mi ha detto “Angelo Rojch mi ha scioccato con il richiamo ai problemi del Mezzogiorno e della Sardegna” !

 

Ponesti il problema grande della chiusura dell’intervento straordinario, senza una gestione “stralcio” delle 36 mila pratiche ancora vive in quel momento?

Ero contrario. Era una follia. Era una delle cose che funzionava meglio. Dissi: “Siamo matti; stiamo sbagliando tutto.” Da quando fu affidata alle Regioni non c’è stata più politica per il Mezzogiorno. La mania di cambiare, ma in peggio!

 

C’erano migliaia di cantieri aperti. Tu ti sei opposto con forza. Per fortuna ci sono gli atti parlamentari e lo testimoniano. Sono cose scritte.

Presentammo come Dc un documento che fu allegato come memoria agli atti, come ricorderai, con il contributo di Rino Nicolosi.

 

Non è quello che sta succedendo con il 110 per cento ?

Da presidente della Regione ho fatto la legge sulla imprenditorialità giovanile che era la migliore legge italiana, scopiazzata due anni a livello di Mezzogiorno e sono arrivati dal Giappone a studiarla. Abbiamo fatto un incontro di ore  con Craxi. Affrontammo tutti insieme i problemi; in un incontro ha seguito tutto punto per punto. Un documento di nove punti. Diventò l’invidia dei sardi. Melis presidente della Regione nelle dichiarazioni programmatiche non fece cenno a questo documento di nove punti. Craxi si fidava più di me, perché siamo gente seria, che dei suoi compagni di partito.

 

La questione morale cosa ti ha lasciato? Tu sei stato una vittima?

Sono uno dei pochi che non ha rubato. Non ho mai rubato una lira. Quando sono andato in Algeria, terra vicina alla Sardegna, come presidente di Regione, con una delegazione per aprire le porte agli scambi, mi sono pagato il viaggio. In modo che nessuno potesse dire nulla.

Un alto esponente dc ha detto: “Angelo Roich è quello che riesce a portare il lavoro da noi. Questo non lo facciamo fuori nemmeno a novant’anni”. Hanno messo in moto strutture… Erano scatenati contro di me! Che cosa che non hanno fatto!

Dopo sei mesi mi hanno tolto tutti gli atti, mi hanno lasciato solo l’imputazione di associazione a delinquere finalizzata a vantaggi elettorali, però assolto totalmente dal voto di scambio. Arriviamo al processo,  i miei avvocati non hanno nemmeno parlato. Non ce n’era bisogno. Il procuratore, era cambiato, il pm ha chiesto l’assoluzione! Quando ti chiede l’assoluzione il pubblico ministero!?!

 

Ti ha fatto male? Hanno rovinato l’esistenza.

Dopo la mia esperienza interrotta ho fatto male a non ricandidarmi. Perché mi avrebbero rivotato. Anche oggi. Ho avuto paura dell’invidia della politica. Avevano il terrore. Sono stato, alle regionali, sempre il più votato.

 

Partendo da una piccola provincia come Nuoro avevi grande consenso?

Era difficile con il proporzionale prendere i voti nelle provincie più grandi se non avevi consenso! Nessuno aveva il consenso che avevo io. La gente ricorda la mia gestione della sanità. Nell’assessorato alla sanità feci la rivoluzione copernicana, dandogli i paletti, riunii 600 operatori economici della Sardegna; dovevo combattere la piccola mafietta che c’era da noi. Riuscii a cambiare anche quel sistema.

 

Dopo l’esperienza politica?

Ho fatto un consorzio euromediterraneo per collegare la Sardegna con i paesi del Medio Oriente.

 

Hai puntato sempre allo sviluppo?

I rapporti che abbiamo avuto con l’Irak non li ebbe nessuno. I lavori che ci hanno offerto! Soltanto che quando andavi e cercavi gli imprenditori non ne trovavi. Ci volevano affidare irrigazione per 1200 ettari e elettrificazione di Bagdad. Portai la nazionale dell’Irak in regime di embargo a giocare a Nuoro con il Cagliari. Una cosa incredibile!

Riuscii a fare un incontro in una chiesa di Galtellì, tra Mussulmani e Cattolici. Abbiamo anticipato questo dialogo. Poi quando Bush ha fatto la guerra in Irak – che è stata una follia – ho fatto l’associazione sardi con l’Algeria. Una grande iniziativa ad Algeri e in Sardegna. Decine di incontri, ad Algeri, ma la regione non ha capito. Per gli algerini era inspiegabile. Una regione che nei tempi antichi era presente nel Mediterraneo fin dal tempo dei Fenici con la cultura fenicia. Eravamo presenti in Egitto. Dopo le invasioni turche la Sardegna si è chiusa.

 

Fai ancora iniziative?

Mi sono occupato e ho rilanciato una serie di incontri a livello internazionale tra cui quello dei leader religiosi. Nel 2013 abbiamo fatto un incontro di tre giorni con il prof. De Luca dove abbiamo portato il pensiero di Cristo “siamo tutti fratelli”.

 

Cossiga che cosa ha rappresentato nella esperienza politica ?

Cossiga era Intelligenza allo stato puro. La memoria di Cossiga penso possa averla solo un computer. Era straordinario.

Nel 1958 ero delegato del movimento giovanile, si rivolse a me per seguirlo nella campagna elettorale delle politiche. Cinquanta anni dopo in una cerimonia del Banco di Sardegna ricordò quell’episodio! Era tanto intelligente quanto …matto in senso buono, era fatto così .

Negli ultimi anni era innamorato della Barbagia, perché era quella terra capace di ribellarsi. I romani non riuscivano a conquistarla perché erano bravi a combattere in campo aperto, mentre da noi c’era la guerriglia. Ho avuto sempre un rapporto di rispetto con lui, ma senza adulazione, come con un personaggio come Segni, che era doroteo, ma di grande levatura che,  come ha ricordato Pisanu, ha dimostrato di seguire molto i problemi concreti. Cossiga era uno degli uomini della sinistra Dc.

 

Come è la Sardegna oggi in economia?

La Sardegna è questa. Noi avevamo il piano di Rinascita. Lo statuto sardo costituzionale prevede che lo Stato si impegni ad affrontare i problemi con un piano organico. L’ultimo, sotto la spinta del sottoscritto nel 1992, lo approvammo in commissione Bilancio alla Camera, ma a gennaio, in Senato, i senatori sardi di allora – che andrebbero tutti fucilati politicamente parlando, – perché non approvarono 4700 miliardi accettati dal Tesoro, per la Sardegna e tu non lo approvi!

 

Perché?

Non avevano il tempo di approfondire per la chiusura della legislatura! Nella commissione Bilancio feci equiparare, all’articolo 10, le aree interne alle zone terremotate. Era una indicazione ben precisa. Al Senato non fu approvato.

Un crimine politico.

Quando riprese il consiglio regionale capii che cominciavano a sbattersene!

Non hanno più la passione Politica.

La nostra proposta fu rivista e accettata da tutti gli altri partiti. Fu una cosa corale. Passò poi con astensione del Pci, ma avevano dato il loro contributo. Come Lucio Pirastu, lo aveva dato sul banditismo assieme a Medici.

Noi siamo molto grati a tre uomini: Taviani, Rumor e Piccoli. Dobbiamo molto a Taviani.

Dall’ospedale di Nuoro al rilancio dell’area industriale di Ottana; visitava i comuni della provincia Un giorno andammo all’interno della Sardegna. Ci fermammo e disse: “Ho visto tanti posti in Italia, ma un posto dimenticato da Dio come questo, non l’ho mai visto!”

Rumor presidente del Consiglio nel 1969 fece con me sei comizi in tutta la provincia di Nuoro. Fu una cosa straordinaria. Poi quando venne Piccoli ci diede una grossa mano.

Sono tre persone alle quali dobbiamo molto in Sardegna. Le aree interne hanno avuto più attenzione dallo Stato che dalla Regione.

Taviani ha dato un contributo eccezionale. Conosceva quasi tutti i paesi; andava a vederli. Era, per lui, un fatto morale. A Galtellì ho fatto con il Prof. De Luca il primo incontro mondiale delle culture religiose, un evento ricordato nei vari consessi internazionali. In Polonia ben 71 università hanno ricordato quell’evento di Galtellì così come alla università Gregoriana . Dappertutto viene ricordato.

 

Quanto manca la Dc oggi nel panorama politico?

La gente di una certa età rimpiange la Dc. Aveva uomini santi e peccatori insieme, ma la Dc, i democristiani avevano il senso del limite dato dalla fede, il senso della prudenza, dell’attenzione, dell’amore al prossimo, della politica come servizio, il bene comune. La lezione di Sturzo non l’abbiamo mai dimenticata.

Il pensiero di San Tommaso era la strada maestra, l’abbiamo seguita pur con le debolezze delle persone.

Ho scritto recentemente un articolo su De Mita.

Se il segretario del partito invece di Martinazzoli, di cui sono stato sostenitore, fosse stato De Mita, la Dc non sarebbe scomparsa. Avremmo avuto sempre il 20 per cento.

Ho sostenuto Martinazzoli, ma Bodrato ci disse: “State attenti che la Dc così rischia di scomparire”.  Aveva ragione Guido Bodrato!

Hanno avuto paura dei magistrati. Se tu non rubi, non devi avere paura. Con me hanno dovuto prendere atto!

 

Maurizio Eufemi

 

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