...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

ARTICOLI E comunicati 2024

SUL PREMIERATO

Quel fatale 17 febbraio: Lama cacciato dall’Università. Una pagina premonitrice dei tanti guai successivi

Il 17 febbraio 1977 è un punto di non ritorno sia per quelli che portarono a casa i sampietrini come souvenir, sia per quelli che speravano che non bruciassero troppe auto, sia per quelli che avevano scelto la clandestinità con la P38.

 

Articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 16 febbraio 2024

 

17 febbraio 1977 non è una data qualsiasi.

È il giorno della cacciata di Luciano Lama, leader sindacale della CGIL, dall’Universitá di Roma “La Sapienza”, teatro di violenti scontri tra forze dell’ordine e il movimento degli studenti. Diviene il momento più alto della resa dei conti a sinistra tra il PCI e l’Autonomia.

Luciano Lama commenterà così: “Non pensavo ad una sfida, ma all’incontro con studenti che si stanno mettendo in un vicolo cieco”. Uno scontro che a distanza di quasi mezzo secolo assume un significato ancora più forte alla luce degli elementi acquisiti dalle Commissioni di Inchiesta sulle stragi e sull’assassinio di Aldo Moro, dalle indagini giudiziarie e da una vasta storiografia di molti protagonisti e degli inquirenti. Non fu solo uno scontro tra chi deteneva la guida della Sinistra e chi tentava di ottenerla e piegarla con ogni mezzo.

Fu una giornata di prova della Insurrezione da parte delle BR e dalle tante sigle mimetizzate che servivano alla copertura degli stessi obiettivi. La mobilitazione degli studenti e le manifestazioni con i cortei soprattutto di sabato per creare il maggiore disordine venivano utilizzate e strumentalizzate per affermare la leadership terroristica e rivoluzionaria che faceva proseliti. Il comizio di Lama fu l’occasione per la sinistra estraparlamentare di sfidare il PCI e tutte le componenti politiche che sostenevano il riformismo berlingueriano realizzato attraverso il compromesso storico.

Le minacce venivano rappresentate dalla raffigurazione delle pistole P38 Smith Wesson o Walter simbolo della memoria e della lotta partigiana verso gli occupanti nazisti. La scelta di chiamare Luciano Lama a tenere il comizio dentro l’università sul mitico automezzo Dodge rosso del Pci, in risposta alle persistenti occupazioni delle facoltà, assumeva il significato di impedire una saldatura tra operaismo sessantottino e la vasta mobilitazione di protesta degli studenti sui diritti.

La linea del riformismo istituzionale del PCI andava necessariamente difesa rispetto alle spinte contestatrici, soprattutto dopo i successi elettorali del 1975 -1976. Ma nel PCI c’era ancora chi si muoveva nell’ambiguità delle parole parlando di attacco squadrista. ! Naturalmente l’occasione degli scontri e delle occupazioni universitarie alimentando un clima di tensione quotidiana venivano utilizzate per cortei che muovevano da piazza Esedra a piazza Navona dichiarati “pacifici e di massa” ma che così non erano!

Erano sabati di guerriglia urbana. Seguivano infatti violenze, espropri proletari, devastazioni di negozi, guerriglia urbana bene organizzata con rifornimenti di tutto il necessario come mazze, tubi di ferro, chiavi inglesi, bottiglie molotov. Poi non mancavano tragici scontri con i giovani della destra come a Piazza Risorgimento. L’armamentario veniva occultato nei bagagliai delle auto parcheggiate nei punti strategici del percorso. Le armi erano ormai dentro i cortei. I brigatisti erano presenti all’Università e nei cortei osservavano e mettevano in atto le azioni di guerriglia con la forza delle armi.

Non a caso Cossiga disse ” non permetteremo che le università diventino covi”. Come ministro dell’Interno organizzò le squadre antiguerriglia ed emanò direttive contro le manifestazioni. Lo slogan del giorno era “poliziotto fai fagotto arriva la P38”.

Il 17 febbraio non fu però un episodio isolato. Il 18 febbraio i giornali non uscirono per lo sciopero dei poligrafici. Il dibattito parlamentare sulle interrogazioni per i fatti dell’università si svolse a Montecitorio il 22 febbraio. Il ministro Cossiga rispose in Aula distinguendo il suo intervento tra il rapporto degli Uffici e la nota politica, circoscrivendo l’intervento alla occupazione e sgombero della città universitaria, separando la protesta giusta sui diritti e sui bisogni da quella violenta, quindi dalla massa al nucleo dei violenti, facendo riferimento esplicito ai collettivi autonomi e a movimenti della “sinistra rivoluzionaria di classe” , a ” frange estreme di contestazione al sistema e di ideologizzazione a volte confusa e verbalmente collegata a temi rivoluzionari, pseudo rivoluzionari di semplice contestazione nominalistica spesso ingenua e fantasiosa nella simbologia grafica e linguistica.

 

“I giovani – aggiunse Cossiga – non costituiscono una base di manovra; rappresentano la voce di un bisogno che la difficile situazione economica e il conseguente spettro della disoccupazione rendono oggi effettivo e che credo sia dovere di tutte le forze politiche tenere non contaminato da infiltrazioni di carattere eversivo. Di qui da questo inquinamento le devastazioni, la violenza, il vandalismo”.

Per la Dc intervenne Paolo Cabras. Sottolineò come “quando si comincia ad incitare all’odio, contro le istituzioni democratiche e le forze politiche e sindacali, il confine tra estremismo presunto rivoluzionario e l’incompatibilità reazionaria verso le regole del gioco diventa tanto labile fino a scomparire. C’è nel paese alimentato da compiacenza da piccoli giochi, di gruppi politici, di gruppi di pressione non sempre estremisti una pericolosa tendenza alla irrazionalità, alla contestazione che non tiene conto della storia e del quadro complessivo ma che affida all’azione, al gesto simbolico, alla rottura violenta un messaggio di violenza individualista che nella società di massa è imitato per suggestione conformistica sostituendosi alla riflessione e al dibattito la legge brutale dello scontro”.

Tutto il febbraio del ‘77 fu caratterizzato da scontri e violenze non solo a Roma ma in tutta Italia che proseguirono nel marzo e poi in una escalation per tutto l’anno! V’era una ambigua tolleranza nella sinistra rispetto a una situazione ormai sfuggita di mano. Chi aveva la maggiore capacità di capire e interpretare quanto stava avvenendo nelle università erano proprio gli intellettuali di sinistra, i docenti che toccavano con mano giorno per giorno il nuovo clima sociale.

Essi avevano condiviso e guidato il Sessantotto, prima uscendo e poi rientrando nel PCI. Il “coacervo insolito” indicato da Alberto Asor Rosa fatto di ribellione verso la istituzione universitaria coniugata con le lotte sociali degli emarginati, dei giovani precari, della massa di studenti senza prospettiva.

Si aprì una divaricazione tra chi voleva incanalare e riassorbire la protesta degli studenti e chi invece ormai vedeva le “due società.” Si stava affermando un incontrollabile anticomunismo di sinistra che nascondeva obiettivi non dichiarati. Non c’era più la saldatura tra operai e studenti. Si combatteva la austerità berlingueriana, i sacrifici imposti dal governo Andreotti, la non sfiducia del PCI all’Esecutivo; v’era rifiuto del compromesso storico e del dialogo. La rivolta sociale non trovava un alveo e finì per far esplodere il mondo della cultura di sinistra diviso sulle strade da perseguire per assorbire i fermenti giovanili.

 

Il 15 gennaio Berlinguer al Teatro Eliseo aveva tentato di mobilitare gli intellettuali di sinistra per parlare di questione morale; era un modo per coprire, bilanciare, giustificare la austerità imposta dalla situazione economica rispetto all’accordo di programma. Ma per Rossana Rossanda, del Manifesto,  “separata da una strategia di potere l’Austerità è solo una stretta di cinghia per i più poveri” .

 

Il 17 febbraio è un punto di non ritorno sia per quelli che portarono a casa i sampietrini come souvenir, sia per quelli che speravano che non bruciassero troppe auto, sia per quelli che avevano scelto la clandestinità con la P38.

La frattura politica divenne insanabile. La Autonomia con i suoi doppi livelli aveva imposto la sua linea. Solo alla fine del 1977 dopo ulteriori catene di violenze e di uccisioni, in molti ambienti della sinistra matureranno i sentimenti dell’impotenza e del pentimento. Paolo Bufalini affermerà “Sono anni che si civetta con l’estremismo”. Giorgio Amendola dirà: “il vero problema non sia tanto di varare nuove leggi repressive quanto piuttosto quello di togliere “ai guerriglieri” le coperture politiche e culturali di cui hanno goduto parte di certi settori della sinistra, parlamentare ed extraparlamentare.

Del resto Antonio Negri già nel 1975-76 come leader di Potere Operaio, aveva teorizzato e avversato, prima ancora che prendesse corpo, “il compromesso storico come forma politica del superamento capitalistico della crisi ” e “lo Stato contemporaneo non conosce lotta di classe operaia che non sia lotta contro lo Stato”. “Il grande riformismo comunista non regge al più semplice confronto con la realtà della ristrutturazione.” E ancora ” la necessità di una forza di avanguardia, militante, capace di approfondire in maniera violenta e continua la crisi e di rintuzzare in misura eguale, la violenza dei padroni.”

Del resto prevedeva come compito immediato ” l’organizzazione cioè la capacità di opporre all’organizzazione capitalistica del potere l’articolazione operaia della sovversione. Dentro questo processo l’insurrezione è all’ordine del giorno. Diciamo appunto Insurrezione e non rivoluzione. ” Queste erano le teorie degli anni Settanta.

Il 17 febbraio 1977, con l’agguato al comizio di Luciano Lama è il giorno di un episodio rilevante della frattura a Sinistra; è l’anno di quel clima di violenze, di lotte, di lutti, di tragedie, di sangue, di giovani illusi dalle teorie di cattivi maestri. La strada per battere il terrorismo sarà ancora lunga. Ci saranno altre tragedie come quella del 16 marzo 1978 con la strage di via Fani e con l’uccisione di Aldo Moro, il simbolo del dialogo e dell’avversato compromesso storico.

 

Maurizio Eufemi

DC, un’eredità complessa: meriti e responsabilità della classe dirigente cattolica.

Maurizio Eufemi  Articolo comparso sul giornale online "Il Domani d'Italia" del 25 Gennaio 2024

 

Ieri è stato presentato un volume importante sulla storia della Dc di tre storici di chiara fama. Non posso esprimere un giudizio puntuale non avendolo ancora letto. Lo farò. Intanto mi limito ad alcune osservazioni su quanto ascoltato dalla diretta streaming dall’istituto Sturzo da un panel quasi monocorde: Andrea Damilano, Rosy Bindi e Marco Follini. 

Intanto è riecheggiata nella sala per merito di Antonetti  la domanda di un uomo intelligente come Ciriaco De Mita “perché è morta la Dc”? 

Nessuno ha saputo dare risposte e forse sarà il tema di un nuovo volume. 

Poi seconda considerazione, vengono riscoperti i meriti, postumi e tardivi della DC anche da chi l’ha avversata, combattuta e apprezzata solo ora che non c’è più. 

Poi sono affiorate le tesi giustificazioniste sul fax di Martinazzoli. Come a dire la DC era già morta; nonostante avesse avuto nel 1992 ancora quasi il trenta per cento (29,9) dei voti di un popolo che partecipava al voto con percentuali considerevoli. 

Il giustificazionismo di Damilano e Rosy Bindi si è spinto ad assimilare una Assemblea con un Congresso o un consiglio Nazionale dimenticando il significato delle regole statutarie. Dietro questa dimenticanza c’è l’assenza totale  di riferimento al metodo democratico degasperiano che fin dai primi momenti di vita della Dc ne ha permeato l’esistenza fino appunto al momento del Fax. 

Poi sembra di avere assistito a scene di alieni venuti da Marte quando Rosy Bindi oltre le solite litanie su Tangentopoli, sulle responsabilità del CAF, sul debito pubblico, sulle degenerazioni ha affermato che il Suo passaggio al Partito Popolare lo ha fatto da DC. 

Una lettura più attenta delle vicende dal 1987 al 1994 dimostrerà con obiettività le riforme realizzate dalla DC sia sul piano sociale che fu quello economico e il coraggio nella tenuta del sistema anche rispetto alle scelte europeiste con Maastricht. La DC pagherà un conto elettorale a vantaggio della Lega proprio per avere perseguito politiche di risanamento finanziario.! 

Sembra quasi  che si assista ad una perdita di memoria sul sostegno ai governi Amato e Ciampi nell’opera di risanamento economico- finanziario. 

Il parlamento degli inquisiti, come li definivano i detrattori,  quelli della undicesima legislatura, avevano salvato l’Italia dal naufragio, lavorando sodo per raddrizzare il vascello, come scrisse ai deputati Dc Gerardo Bianco il 22 febbraio 1994 in chiusura di legislatura. 

Per non dimenticare poi che il riferimento alla assemblea degli esterni del 1981 a Formigoni è palesemente sbagliato. Quella grande mobilitazione intellettuale di apertura alla società, ai mondi vitali, alle pmi, alla impresa familiare piuttosto che alla grande impresa, era sia a destra che a sinistra. Formigoni era nei 15 della Commissione degli Esterni, ma aveva già fatto le sue battaglie con il Movimento  Popolare nelle Università e nella società. L’arretramento di 6 punti alle  elezioni del 1983 non fu di certo per responsabilità di Carli! C’era stata la Presidenza  Spadolini e la crescita del PRI. Potremmo  dire la stessa cosa per Scoppola eletto nel  1983? 

La appartenenza di Bindi alla DC era sempre poco convinta e desiderosa di un partito a sua immagine e somiglianza dimenticando che c’era un partito plurale con tutti i pregi e i difetti. E in partito che era territoriale mentre Ella fu eletta alle europee nella circoscrizione Veneta e non Toscana.  Dimentica di aggiungere che non perdeva occasione per affermare una discontinuità con il passato. V’era chi voleva una rigenerazione in chiave “penitenziale”, di riscatto dal peccato, che poteva venire solo da una sorta di  autoflagellazione e dalla separazione degli eletti ritenuti impuri come tentò di fare appunto Rosy Bindi nella prospettiva di un piccolo partito duro e puro. 

Avviare processi sommari di condanne di intere esperienze storiche significava solo favorire la distruzione di culture e di formazioni politiche e scatenare ondate di populismo e di antipolitica come scrisse Bianco inascoltato e come è appunto avvenuto. Si è spinta al punto di imputare a Donat  Cattin la responsabilità del Preambolo senza alcun apprezzamento per le politiche sociali e le conquiste per i lavoratori! Un Preambolo che ha assicurato stabilità e crescita della difficile alleanza, ma unica possibile con i socialisti. Ecco la differenza con Marco Follini è stata proprio su molti punti. Marco ha rivendicato con eleganza il passato del movimento giovanile e una storia, cosa che non fatto e non ha potuto fare Rosy Bindi. 

Molte cose sono state volutamente dimenticate. Non una parola sul PCI legato all’Urss, non una parola sul miracolo economico e sulle riforme, non una parola sul Terrorismo e sull’album di famiglia dei compagni, che ha insanguinato  l’Italia in una spirale di ricatti negli anni settanta e ottanta e che avevano l’unico obiettivo di colpire la DC. 

Ci sono riusciti! 

La letteratura brigatista è amplissima. E adesso è troppo tardi per i rimpianti. Tenetevi la destra – destra! E ricostruite se ne siete capaci! 

Voglio chiudere con una citazione di Carli: 

In tutti i paesi industriali si è compiuta una rivoluzione nella distribuzione del reddito fra i gruppi sociali e si è compiuta pacificamente perché la funzione ridistribuiva è stata assunta dagli Stati”. 

ARTICOLI E comunicati 2023

LA RIFORMA DEL PREMIERATO ROMPE L’EQUILIBRIO DEI POTERI COSTITUZIONALI

Articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale "Libertà Popolare" di ottobre 2023

 

Siamo in una fase di grande incertezza in cui l'economia nazionale è fortemente condizionata da fattori esogeni.

 

La guerra in Ucraina sta producendo pesanti prolungati effetti sulle produzioni e sugli scambi globali con conseguenze sui prezzi delle materie prime, dei prodotti energetici e alimentari e sul potere di acquisto delle famiglie.

La crescita dello spread misura la credibilità e l'affidabilitá del Paese nelle relazioni internazionali e sui mercati finanziari condizionati dalla dura, intransigente linea monetarista e antinflazionistica della Bce. Il dibattito politico è stretto tra la prossima manovra di bilancio e le riforme istituzionali come l'autonomia differenziata e il presidenzialismo. Le risorse finanziarie sono limitate e lo spazio per la leva del bilancio è ridotto. Tutto ciò non consente di realizzare gli obiettivi del programma della coalizione di governo se non facendo ricorso a deficit di bilancio e a ipotetiche e non definite privatizzazioni. Sembra il parallelo della posta di bilancio della sinistra quando appostava rilevanti risorse dalla lotta alla evasione!

 

I problemi dell'economia marginalizzano il dibattito istituzionale che meriterebbe ben altra attenzione stante la alta posta in gioco. L'autonomia differenziata mina la unità del Paese perché produrrebbe divari incolmabili tra le varie aree.

La autonomia differenziata è la grande battaglia politica della Lega ed è l'unica ragione che riesce a tenere unito questo movimento dopo ultimi significativi abbandoni. L'articolo 5 nei principi fondamentali recita: "la Repubblica è una e indivisibile". Dunque viene esplicitata non solo la integrità territoriale ma anche nelle condizioni di vita dei cittadini delle diverse regioni.

L'autonomia differenziata mina la unità del Paese perché produrrebbe divari incolmabili tra le varie aree. La autonomia differenziata è la grande battaglia politica della Lega ed è l'unica ragione che riesce a tenere unito questo movimento dopo gli ultimi significativi abbandoni. L'articolo 5 nei principi fondamentali recita: "la Repubblica è una e indivisibile". Dunque viene esplicitata non solo la integrità territoriale ma anche nelle condizioni di vita dei cittadini delle diverse regioni. "Le autonomie sono espressione di libertà, le quali si armonizzano tra loro in una superiore unità per il progresso ordinato della Nazione" affermó Aldo Moro. Come non ricordare poi il monito, di un secolo fa, di Luigi Sturzo nel celebre discorso alla Galleria Umberto di Napoli, sulla questione meridionale e sull'auspicio "della finanza locale coordinata piuttosto che la preoccupante degenerazione in una “finanza anarchica!”. Se il principio di sussidiarietà è connesso al principio di solidarietà, non può esser solidarietà a senso unico o quando fa più comodo. Vale per l'Italia, vale per l'Unione Europea! La questione del premierato rompe l'equilibrio dei poteri costituzionali, perché annulla la centralità parlamentare, finendo per minare la funzione di garanzia del Capo dello Stato. La forma di governo non può essere cambiata facendo ricorso alla procedura dell'art. 138 della Costituzione, che è utilizzabile per piccole correzioni costituzionali. Una modifica sulla forma di Governo richiederebbe la istituzione di una Assemblea Costituente, eletta con sistema proporzionale per consentire una larga partecipazione elettorale popolare. In una fase come questa sarebbe preferibile di non porre questioni politiche che richiederebbero un consenso bipartisan e affrontare invece le vicende economiche che non consentono tentennamenti, ma una guida sicura per evitare costi finanziari che rischiano di compromettere le prospettive di crescita del Paese.

Maurizio Eufemi

Convegno: I GIOVANI E LA POLITICA - nei primi anni sessanta


L'evento è stato organizzato in collaborazione con la Fondazione Socialismo e l'Associazione ex Parlamentari della Repubblica.

Dibattito organizzato da Istituto Luigi Sturzo.

Sono intervenuti:

Luigi Giorgi (coordinatore delle Attività dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma),

Simona Colarizi (professore emerito di Storia contemporanea Università La Sapienza, Roma),

Maurizio Eufemi (membro della Società Italiana di Economia, Statistica e Demografia),

Gennaro Acquaviva (presidente della Fondazione Socialismo), Luciano Benadusi (sociologo),

Giuseppe Facchetti (già Segretario nazionale dei giovani liberali),

Franco Bonferroni, Fabrizio Cicchitto (presidente della Fondazione "Riformismo e Libertà"),

Piero Craveri (presidente della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce),

Riccardo Pedrizzi (vicepresidente nazionale dell'Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti),

Gilberto Bonalumi (giornalista, già parlamentare della Dc), Claudio Petruccioli (giornalista e componente del Comitato Scientifico di LibertàEguale),

Mario Tassone (segretario del Nuovo CDU (Cristiani Democratici Uniti)),

Flavia Piccoli Nardelli (presidente dell'Associazione delle istituzioni di cultura italiane (Aici)),

Enzo Palumbo (presidente nazionale di Democrazia Liberale), Giancarlo Perone,

Vincenzo Gino Alaimo (già parlamentare),

Giuseppe Gargani (presidente dell'Associazione degli ex Parlamentari).

 

 

 

 

 

 

 

 

Traccia introduttiva di Simona Colarizi al convegno i giovani e la Politica 

Arrivati alla fine del liceo o all’inizio dell’università o già affacciati nel mondo del lavoro in una società italiana dove l’eredità del regime pesa ancora forte malgrado la netta discontinuità istituzionale e politica, i nostri testimoni sono i figli diretti dei dirigenti antifascisti che hanno fondato nel 1945 la nuova Italia repubblicana e democratica. Da De Gasperi, da Nenni, da Togliatti e dai tanti dirigenti che per tutto il ventennio hanno combattuto il regime e guidato il paese nella guerra civile, questi giovani più o meno ventenni mettono tutta la loro passione giovanile nella politica. È la stagione più feconda dell’intera prima Repubblica, quando a metà dei Cinquanta cattolici, socialisti, socialdemocratici e repubblicani si accordano per guidare il paese investito dal “miracolo economico”. I progetti riformatori messi in cantiere nella lunga gestazione dell’apertura a sinistra centrosinistra, realizzati dai governi di centrosinistra via via nel corso dei vent’anni successivi, palesano una capacità di comprendere e governare il cambiamento che mi pare manchi ai loro eredi nella seconda Repubblica.

A partire più o meno dalla svolta politica del 1960, i nostri testimoni sono i protagonisti della prima ondata di movimentismo giovanile che il faro troppo accecante sul Sessantotto ha finito per lasciare in ombra. Eppure sono proprio loro che vivono le trasformazioni in diretta – per così dire – a intercettare le aspettative e gli umori di protesta dei loro coetanei impazienti di liberarsi e di liberare il paese da quella cappa di autoritarismo ancora incombente nel paese. Rispetto ai fratelli minori del 1968, fratelli minori sessantottini incantati dai miti rivoluzionari e intossicati dai veleni ideologici proprio quando le ideologie totalizzanti stanno declinando, i “ragazzi dalle magliette a strisce” - immortalati cosi da Cederna – hanno fiducia nei partiti, credono nella politica, anzi, credono nel primato della politica, l’arte per affrontare la complessità di società, mai immobili, sempre investite da una perpetua trasformazione dell’esistente.

 

Commento di Mario Tassone al Convegno:
Il 27 settembre si è svolto a Roma, all’Istituto Sturzo, un incontro “I giovani e la politica nei primi anni sessanta”.
La iniziativa nasce dalla fertile mente di Maurizio Eufemi,  che sta indicando un percorso storico originale attraverso il “racconto”dei protagonisti( molte interviste sono raccolte in un volume).
L’altro giorno allo Sturzo ci sono stare testimonianze di quanti hanno avuto responsabilità nei movimenti giovanili dei Partiti : narrazioni interessanti di confronti accesi e scontri.
Erano anche gli anni delle proteste giovanili che avrebbero dovuto avere diversi riscontri.
I movimenti giovanili presenti all’interno dei partiti vissero pienamente quella stagione.
Il Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana,ad esempio, conservava i suoi spazi di autonomia, che gli consentiva una dialettica importante nei confronti della dirigenza del Partito.
Nessuna critica veniva risparmiata.
I movimenti giovanili erano una finestra aperta sulla società con le sue ansie di giustizia e di sviluppo: un agire con tante iniziative contro la lettura insufficiente degli eventi che dovevano essere,invece, affrontati con decisioni coraggiose.
La politica le libertà democratiche erano al centro.
I giovani all’interno dei partiti democratici svolsero un ruolo decisivo, mentre in altri partiti polarizzati le organizzazioni giovanili andarono in crisi risucchiate dall’estremismo: la lotta armata della estrema sinistra per la rivoluzione mancata e quella di destra produssero tragedie immani. Grazie ai partiti,alle associazioni ,ai movimenti sindacali l’estremismo fu battuto .
Il Convegno dell’altro giorno deve avere un seguito.
Oggi non c’è politica, i partiti, i baluardi delle libertà non ci sono.
E’possibile che le passioni di un tempo siano spente del tutto e definitivamente?
E’possibile che il primato della politica sia oltraggiato dall’insulto di progetti senza pensieri e da una autoreferenzialita’ rozza ?
Dallo Sturzo viene un messaggio.
La politica non è morta.
C’è chi vede nelle conquiste tecnologiche il progresso. Certo la scienza significa sviluppo ma l’Uomo è al centro.
C’è sviluppo se vince l’Uomo.
Utilizziamo I patrimoni costruiti nel tempo .
Oggi tremo a tanta superficialità, a tanta viltà,al disegno di manomettere la Costituzione.
I “giovani di ieri” hanno detto quello che è stato fatto: un dato irrilevante per la parte di società distratta o, per quella più attenta, esempio da raccogliere per essere vivi !
 

Mario Tassone
 

I giovani e la Politica - Intervento di Maurizio Eufemi

Istituto Luigi Sturzo

27 settembre 2023


Intanto un sentito ringraziamento a tutti voi presenti che avete accolto il nostro invito su questa iniziativa promossa con Luciano Benadusi.

Ciò è stato possibile per la sinergia tra Istituto Sturzo che ci ospita, la associazione ex parlamentari guidata da Giuseppe Gargani e la Fondazione per il Socialismo di Gennaro Acquaviva.


Recentemente un saggio, lucido novantenne come De Rita ci ricordava l'importanza della Rivista piuttosto che il quotidiano, come luogo di confronto e di dialogo nella profondità del pensiero, oggi purtroppo scomparsi. Solo Mondooperaio per la vitalità di Gennaro Acquaviva ha resistito e resiste come miniera a cielo aperto per la intuizione di Luigi Covatta con la scelta della collocazione nell'archivio storico del Senato.

Auspichiamo che possa avvenire per il completamento anche per Rinascita oggi disponibile grazie alla biblioteca personale di Gino Bianco ma fino al 1980, poi solo cartaceo.

Qualche collezione di privati è più facile trovarla in vendita su Ebay. Quasi una rottamazione del Sapere, piuttosto che l'uso del Sapere di Marcuse, quel modello accademico dell'Industria del Sapere, nell'assetto valoriale di Istituzioni, considerato nei primi anni sessanta autoritario e repressivo.


Ci sono parole che risuonano sia al centro che a sinistra come generazione come in Terza di Bc e in Nuova della fgci dopo la parentesi di avanguardia di Gianni Rodari però a conferma di un desiderio di incidere sul cambiamento.

Poi quel mito cadde.


In ricerche recenti mi sono imbattuto sul grande convegno della Dc sulla scuola al Sestrière nel 1957.

Ci sono testimoni qui presenti di quell'incontro: Benadusi, Bonferroni, Bruni, Perrone. Partecipó anche Guido Bodrato recentemente scomparso. Al Sestrière si ritrovarono giovani dc di tutte le regioni insieme ai direttori dei giornali scolastici per affrontare i temi della scuola. La scuola vista dagli studenti! Una grande mobilitazione con relatori di prim'ordine. Ricordo Augusto Del Noce, Vincenzo Cappelletti, Giovanni Gozzer, e Codegone con la sua attenzione alla rivalutazione degli studi scientifici e tecnici. Una anticipazione di future linee di movimento. La relazione di Del Noce e il successivo approfondimento di Guido Bodrato che meritano di essere riletti. Se De Noce svolge una analisi filosofica sulla crisi dell'azionismo di sinistra, sulla lotta politica tra reazionari e progressisti, sulla immobilizzazione del presente e nostalgia dell'antico, Bodrato spingeva per non rinunciare a trovare le ragioni di nuova opposizione alla tradizione laicista e borghese alla presenza delle forze marxiste e alla pressione di quelle rappresentanze dei privilegi economici e di casta.

La questione marxista che ha travagliato i giovani socialisti e che porterà Leo Solari a dire :"non avevamo capacità e astuzia di Andreotti e Togliatti, noi anarchici eretici, non subalterni al potere e alla egemonia comunista".

Si tenevano i congressi annuali e al tempo stesso si mettevano in piedi i convegni di Faenza, uno, due e tre sempre alla ricerca di un nuovo, non fine a se stesso. Proliferavano i corsi di formazione nazionale e quelli regionali.


Per l'Azione è stata una rivista, un luogo di elaborazione culturale, è stato lo spazio anche critico dei giovani Dc, è stato il confronto intergenerazionale tra ex popolari e i nuovi fermenti della società civile; era un “crocevia affollato di gioventù che non  è mai stato uno spazio per trasmigrare, ma un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del mondo nuovo’’ come lo era quel preciso momento storico, quello del dopoguerra del novecento definito il “secolo delle riviste".

Nasceranno La Discussione di De Gasperi e Concretezza di Giulio Andreotti. Su posizioni più articolate Tempo Nuovo, San Marco, Humanitas, Adesso,  orientato da don Primo Mazzolari e la Voce operaia di Rodano,  Ossicini e Felice Balbo. Era anche una risposta agli anni della limitazione delle libertà. In campo socialista: Passato e Presente di Giolitti Pizzorno e Momigliano, Tempi Moderni di Fabrizio Onofri, Mondo Nuovo di Vecchietti, Levi e Libertini, senza dimenticare l'operaismo di Quaderni Rossi.


Gilberto Bonalumi si era impegnato a recuperare da Virginio Rognoni i due numeri de il ribelle e il conformista.


Cronache Sociali di Lazzati, Fanfani, Dossetti e La Pira, si poneva in modo critico rispetto alla linea del quotidiano ufficiale della Dc il Popolo. Sullo sfondo v’era la concezione del rapporto con il PCI, non di semplice contrapposizione ma, per i dossettiani, di competizione intellettuale e politica. 

La memoria va alla Comunità del Porcellino, alla Chiesa nuova, agli incontri fortuiti preserali in piazza della Chiesa Nuova tra i Dc e i giovani del pci come Luciana Castellina.

Il leit motiv era la “dichiarata autonomia dal partito” con una linea politica spostata a sinistra. 

Il pensiero ci riporta al confronto intellettuale di quegli anni in cui la libertà di pensiero era più forte di qualsiasi compromesso. 

Nonostante il Congresso di Venezia, Cronache Sociali esce con una minuscola didascalia “soluzioni di fondo che non si lasciano catturare”.

Nel libro postumo l'ultima Repubblica Enzo Carra ha voluto ricordare Ruggero Zangrandi con la particolare storia e personalità un Socialista Rivoluzionario poi confluito nel PCI. L'ultimo sua opera postuma fu l'Italia tradita del 1971.

Nel 1952 ci fu una vivace polemica tra Franco Maria Malfatti e Ruggero Zangrandi sul ruolo e l'autonomia della cultura e il comunismo. Malfatti sceglie di scrivere su per l'Azione la rivista dei giovani, mentre Zangrandi sceglie Rinascita la rivista dei grandi.

Lo fecero con un aspro confronto dialettico, attraverso scambi di lettere pubblicate in un triangolo che vedeva la rivista San Marco di Nicola Pistelli, Rinascita e Per l'Azione del movimento giovanile Dc.

 

Per Malfatti la cultura non poteva essere ridotta a propaganda. Per Zangrandi la cultura era il modo per giudicare le ingiustizie del mondo. Noi comunisti - sosteneva Zangrandi - neghiamo l'autonomia della cultura e sosteniamo che anche la cultura è legata alla società in cui nasce e si sviluppa e trasforma connessa e serve ad essa.


Come si può vedere c'è uno scontro ideologico che persevera tra quanti si ritengono i detentori della verità e interpreti dei destini del mondo.


Oggi tutto questo ci manca. Così come ci manca Moro che per capire le pulsioni dei giovani chiama i leader non di carta, ma di movimenti vasti, rappresentativi e democratici, come Bonalumi e Petruccioli per approfondire i fermenti della società.

Moro già nel 1957 per il Sestrière sottolineó il particolare impegno di formazione che caratterizza gli anni della vita studentesca acquista nota di concretezza nel confronto con i problemi della società contemporanea e l'impegno dei giovani si arricchisce di più precisa consapevolezza, ponendo sempre lo sguardo alla democrazia.


Sulle Riviste si duellava sul ruolo della cultura nel nostro Paese a conferma della vivacità di mondi giovanili che costruivano il futuro del Paese con il libero confronto di idee e di programmi piuttosto che l'aridità dei tempi che viviamo.

Sullo sfondo del XX congresso del PCUS a Mosca arrivavano le prime smentite con la rivolta di Poznan e di Budapest chiamate "provocazioni" con gli articoli di Paietta, Ingrao, Togliatti etc.

Cio portò a dire:

"Iddio non voglia che coloro che lasciano il PCI perché troppo poco rivoluzionario non vadano nel PSI a pretendere da esso ciò che non può dare".

Le analisi interne nel MG DC erano impietose sia sugli errori commessi che sulle esigenze non comprese dal Partito e presenti nel mondo giovanile. Prevaleva un realismo non rinunciatario. Non doveva essere sindacalismo giovanile, ma tensione morale per comprendere i problemi della società con al centro la situazione politica, la costruzione dello Stato Democratico e lo sviluppo della società.

Il Mg doveva essere forza e organismo secondo Celso De Stefanis. Masse giovanili incanalate come coscienza critica del partito. Organismo perché ha compiti di rappresentanza con compiti di formazione e doveri di rappresentanza.

Si registrava una forte tensione culturale per avviare una stagione politica nuova, per la costruzione dell'edificio del riformismo possibile attraverso la politica di piano, la questione meridionale con le aree di sviluppo industriale in contrapposizione alla dottrina marxista e la stagione del frontismo con lo slogan "il capitalismo si abbatte". Tutta la vicenda della nazionalizzazione dell'energia elettrica e delle baronie elettriche è emblematica. Era entro il disegno di programmazione economica, con l'azione riformatrice di Fanfani (Piano Sardegna, Piano Ferrovie, Piano per i Fiumi, Attuazione del Piano Verde e Autostrade).

Il metodo democratico porta ad un voto di 76 si e 19 no in cn della dc. Ci fu un dissenso di Pella, esplicitato con telegramma, ma la polemica non era più sull'Enel ma sulla apertura a sinistra (vedi odg Piccoli al Gruppo 10, 11, 12 e 13 luglio 1962). Moro e Fanfani si ritrovarono all'unisono. Le riforme nel PSI, in una parte del PSI erano concepite in competizione con il PCI come segno di mutamento radicale della gestione della politica economica dei grandi centri di decisione, il cosiddetto "ideologismo dimostrativo" di Luciano Cafagna nel 1981. Fanfani guardava al capitalismo corretto, Moro guardava all'orizzonte politico per spezzare il fronte dei comunisti portando il PSI nell'area di governo.

C'era grande attenzione alle linee di movimento degli avversari politici. Si analizzavano i congressi della Fgci (Mattioli) così come grande attenzione veniva posta sulla politica estera dalla questione di Berlino all'Algeria di Bel Bella dalla invasione di Praga alla guerra in Vietnam, dal Kennedismo al concilio Vaticano secondo, sulla questione meridionale e la classe dirigente da Riccardo Misasi, sulle regioni e sulle fonti di energia dal ruolo dei partiti alle riflessioni su San Pellegrino o gli incontri di Faenza senza tralasciare i temi programmatici del primo centro sinistra dalla scuola allo stato imprenditore o all'agricoltura in trasformazione.

Oggi tutto sembra appiattito rispetto alle cupole del potere dei partiti personali.

I giovani, in un periodo in cui sono bombardati da una informazione incalzante e contraddittoria si ritrovano nella fase della immaturità senza punti fermi mentre avrebbero bisogno di riferimenti politici sicuri, non mutevoli e capaci di orientarli su principi solidi.

Occorrerebbe adeguare gli strumenti politici della partecipazione nella vita dei partiti soprattutto quella On Line che necessita di regole e garanzie senza che questo comprometta la serietà della offerta politica che non può diventare un gioco cui si partecipa con un click. La cabina elettorale resta sempre il luogo sacro di voto democratico.

La conoscenza, oggi, è un diluvio di approssimazione.

Si può amaramente constatare che non ci sono otri nuove per vino nuovo.

E pur vero che giovani preparati e affermati non hanno spazi culturali che le Riviste sanno dare per fare emergere le loro opinioni.

I giovani devono essere coinvolti nella partecipazione parlando il loro linguaggio e abbattendo le barriere all'ingresso, ma la proposta politica deve rimanere seria, competente, moderna, competitiva.

I giovani si sentano però responsabili di fronte a se stessi e ai problemi nell'impegno di viverli e risolverli.


Maurizio Eufemi

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Angelo Roich ed il movimento giovanile negli anni ‘60

 

Desidero esprimere la mia adesione a questa iniziativa, col ringraziamento a Maurizio Eufemi, perché i giovani, negli anni ‘60, hanno lasciato un segno altamente positivo contribuendo a cambiare la politica nelle varie realtà, in un momento in cui il centrismo entrava in crisi.
In Sardegna, in particolare a Nuoro, ha creato una nuova coscienza politica, l’ha trasmessa nella società, nelle istituzioni, ha cambiato la Regione e, prima ancora, la politica.
Mentre a Sassari la rivoluzione culturale-politica fu opera de “I Giovani Turchi”, a Nuoro il movimento dei giovani si configurò nella società come i Gianburrasca per le particolari condizioni sociali ed economiche delle zone interne dell’isola. Esso, come movimento, si alimentava dei valori, delle idee, delle elaborazioni del movimento nazionale; importante il contributo culturale di Benadusi, di Bonalumi e di tutti i delegati nazionali, ma anche quello del Centro La Pira, di Nicola Pistelli, di Donat Cattin, mentre l’anima interpretava il malessere sociale, permeato dalla violenza, sequestri, rapine, dalle piazze occupate da una contestazione spesso violenta contro Stato e Regione.
Le manifestazioni in piazza erano segnata dal lancio di pietre. Il Movimento riuscì a operare una sintesi tra queste due dimensioni, quella nazionale e quella socialeterritoriale. Intensa fu l’’attività del movimento: riunioni convegni, seminari di studio, ma anche presenza nelle piazze, negli incontri della contestazione. Senza paure.
Il movimento ha segnato un’epoca, ha creato una nuova sensibilità, una nuova passione politica. Da delegato provinciale, passai quasi subito ad essere segretario provinciale della DC, a vincere il congresso più difficile, in quanto il partito era governato da ex popolari,
personalità di spessore e livello. A vincere furono le idee nuove, le idee del movimento. Era nato il partito-movimento: popolare, che viveva tra la gente, illuminato da alti valori umani e cristiani, da una ricerca radicale della solidarietà. Quel gruppo di giovani gestì il partito-movimento in forma nuova e nelle elezioni regionali del ‘69 ottenne la più alta percentuale di voti nella storia della DC, il 54
percento.
1
In consiglio regionale, l’incontro con i Giovani Turchi e la sinistra DC di Cagliari creò una nuova linea politica, sulla linea di forte autonomia; nonostante Soddu e Rojch abbiano votato contro la Giunta, pur sospesi dal Partito, nello spazio di poco più di un anno divennero entrambi segretari regionali della DC, le idee aveva superato la logica del potere. Per la prima volta da segretario regionale organizzai il congresso all’insegna del partito-movimento, senza tessere, aperto alle forze più vive ed emergenti della società e alle forze giovanili.
Il valore della consulta, che aveva cambiato la vita del partito nel suo rapporto con la società, non fu capito dai miei amici della sinistra.
L’anima fu sempre quella dei Gianburrasca, sia in Forze Nuove, nell’Area Zac e di Bodrato, ovunque l’anima era quella originaria del movimento. Da presidente della Regione, come da presidente della Conferenza delle regioni italiane, costituita col Presidente Craxi, lo spirito non era cambiato. Inoltre ho tentato di inserire la Sardegna in Medio Oriente e nel Mediterraneo, partendo da un’indicazione di La Pira:“la Sardegna è crocevia tra Europa e Mediterraneo”.
Ho organizzato, nel 2013, con il compianto prof. Demetrio Marco De Luca, il primo Incontro Mondiale delle Culture Religiose. È previsto il secondo incontro con alcuni obiettivi che raccolgono la sfida dei nuovi tempi. Una delegazione dei protagonisti del movimento sarà nostra ospite.


P.S.
L’Associazione per l’Umanità e la Pace “Demetrio Marco De Luca” ha creato un sito
internet, visitabile all’indirizzo “www.associazionedeluca.it”, nel quale raccoglie la
summa del pensiero “De Luca”. Si tratta di una indicazione per gli amici che
eventualmente vorranno partecipare all’Incontro.

 

Bibliografia essenziale

 

Atti e Documenti della Democrazia Cristiana 1943 – 1967 a cura di Andrea Damilano, edizioni Cinque Lune

Luca Buferale, Riccardo Lombardi e la nazionalizzazione dell’energia elettrica in Studi Storici LV n. 3 luglio, settembre 2014

Enzo Carra, L'ultima Repubblica, Eurilink, 2023

Il movimento giovanile Dc da De Gasperi a Fanfani, Andrea Montanari, Franco Angeli Editore, 2017;

Aldo Moro, scritti e discorsi a cura di G. Rossini, Edizioni Cinque Lune, 1986

Carmine Pinto, il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964, Rubettino, Cosenza 2008

Piero Roggi, Amintore Fanfani, imprenditore della politica, Firenze, Regione Toscana, 2011

Un uomo e le sue idee, Raccolta di scritti e discorsi di Franco Maria Malfatti, Cereboni Editore, 2001

L’accordo politico programmatico per il governo di centro-sinistra tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialista Democratico italiano, Partito Repubblicano Italiano Italiano, Roma, 1963 Arti Grafiche Italiane

Banca d’Italia, Relazione annuale 1962;

Economia Italiana Storia Econmia e Società in Italia 1947 - 1997, Rivista quadrimestrale del Banco di Roma, nn. 1 e 2, 1997

Rivista Per l'Azione, Istituto Sturzo Digital, varie annate

Quotidiano Il Popolo, Isittuto Sturzo Digital, varie annate

Le riviste nel secondo dopoguerra, www.treccani.it enciclopedia;

All'insegna del Porcellino www. Bartolociccardini.org

www.centrostudimalfatti.eu

di seguito il link alla registrazione video del dibattito, effettuata a Roma mercoledì 27 settembre 2023 alle 16:15 da Radio Radicale

https://www.radioradicale.it/scheda/708744

 

Alcuni momenti del Convegno

 

Arnaldo Forlani, un leader mite e gentile attento all’unità della Dc

 

Nel giorno dei funerali di Stato dell’ultimo grande leader della Dc che se ne va, Maurizio Eufemi ne delinea alcuni significativi tratti, umani e politici. Sappiamo che cercò di intervistarlo per la sua Storia della Dc, presentata di recente in Senato

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 10 Luglio 2023

 

Non è una biografia ma solo un racconto di frammenti di ricordi di uno statista ma, soprattutto per me, di un uomo di partito che ha avuto altissime responsabilità in 70 anni di vita pubblica. Il politico pesarese “temperato” nelle posizioni con una attitudine signorile al dialogo e alla mediazione derivante dalle caratteristiche socioeconomiche della sua regione, le Marche, centrale nel Paese, discreta, ma luogo di tesori e di una “industrializzazione senza fratture”.

 

La memoria va alle poche apparizioni pubbliche degli ultimi venti anni. Poche ma preziose, perché ricche di significati. Non mi soffermo su quella sui trenta anni di Sigonella nel 2015, o sulle politiche dei ministri degli Esteri del 2008 e su Moro e la fine della prima Repubblica del 2011.

Ricordo invece quella di nove anni fa quando partecipò all’Istituto Sturzo, alla commemorazione nel 2014 del suo amico Bartolo Ciccardini. Con un pensiero essenziale, asciutto, razionale, concreto, come ho potuto verificare in tanti suoi scritti, prefazioni, interventi in riunioni riservate, in cui ho potuto ascoltarlo e osservarlo. In quella occasione espresse il suo convincimento, un suo “pallino”, quello di dare vita ad una iniziativa culturale come aveva fatto Amintore Fanfani negli anni Cinquanta dando vita alle edizioni Cinque Lune di cui Fanfani aveva perfino disegnato il logo e la copertina!

 

Con questa indicazione, Arnaldo Forlani offriva una linea di carattere culturale sulla complessiva esperienza della DC. Riteneva che la storia della Dc non dovesse essere rappresentata da altri, perché – disse – non tutti sono Marco Pannella, presente a quell’incontro, che è senza interessi particolari.

Naturalmente aveva pensato al vulcanico Bartolo Ciccardini come motore della iniziativa perché Bartolo era rimasto giovane, incoraggiava i giovani, era perfino deceduto mentre si trovava in mezzo ai giovani, tra cui il figlio di Forlani, Alessandro, con cui stava impostando un programma di lavoro e, dunque, sapeva cogliere le spinte della società.

Riteneva che non bisognava perdersi in riflessioni astratte, ma occorresse operare concretamente perché la “democrazia non perda le sue radici” . Quella idea resta pienamente valida. È una eredità da raccogliere.

Voglio poi ricordare come nella sua testimonianza del 2003 a Saint Vincent, volle soffermarsi su due figure politiche, due personaggi, così diversi, ma convergenti tra loro, che lo hanno accompagnato nella sua vita politica Carlo Donat- Cattin e Aldo Moro che operarono per salvare la unità della Dc, entrambi legati alla idea unitaria di composizione dell’impegno politico dei cattolici. Forlani raccontò quando Fanfani prendendo spunto da un voto negativo su un decreto marginale nel significato politico, si dimise da tutto; si rese introvabile da tutti perfino al fedele Rumor. Alla fine solo lo stesso Forlani e Malfatti riuscirono ad avvicinarlo. In quella occasione fu sfiorata la divisione della Dc.

Per Forlani, Aldo Moro è stato il più alto punto di equilibrio e di mediazione del nostro sistema. E fu ucciso per questo.

Moro fu eletto segretario dopo Fanfani, ebbe un riconoscimento unanime per la conciliazione delle due anime della Dc, allargando la maggioranza interna a Scelba e Andreotti, vincendo le tentazioni dei dorotei, assumendo le sensibilità e le indicazioni del Partito.

L’altro episodio citato da Forlani è riferito a Carlo Donat- Cattin quando restò intransigente nella difesa della unità e rifiutò le tentazioni di Livio Labor nel 1971 con il Movimento dei Lavoratori.

Forlani è stato anche uno valente sportivo, mezzala della Vis Pesaro ed amava le metafore come ricordare che il Palasport sede di tanti congressi della Dc era anche il luogo di importanti riunioni pugilistiche e diceva che la Dc prendendo, spunto dalla noble art, doveva prendere il centro del quadrato perché “ci dà la possibilità di movimento”.

Non sono un fan del PSI, – ripeteva – ma li rispetto, se rispettano la DC. “

Quando era ministro degli Esteri nel governo di solidarietà nazionale accettò la risoluzione Piccoli – Natta ( 6-00033, 1 dicembre 1977) con il riconoscimento pieno della politica estera e della Alleanza Atlantica. In fondo la Dc non era cambiata, ma era il PCI che avanzava su un terreno nuovo. Su questo punto  era tutt’altro che soddisfatto; non era convinto; temeva che dietro lo schermo delle direttive tradizionali potesse cadere l’ostacolo alla partecipazione diretta del PCI al governo. Dunque in quella fase era cauto e prudente nei confronti del PCI. Consapevole della collaborazione e corresponsabilità nello sviluppo, ma i ruoli di Dc e Pci dovevano essere diversi e alternativi.

Moro disse “di una politica estera non basta accettarne i principi se poi non se ne assegna la realizzazione e si contestano gli strumenti per tradurli in concreto” Del resto le contraddizioni del Pci erano evidenti. Si sarebbero appalesate opponendosi ai missili Nato, votando contro lo SME, e con situazioni ambigue in Africa.

Guardando con distacco gli avvenimenti Forlani vedeva che la Politica assumeva sempre più i caratteri della teatralità e della esibizione comportando inevitabili esagerazioni. Riteneva necessario sempre uno sforzo di analisi e di documentazione per dare alla politica un valore reale un collegamento sistemico con i problemi.

Nel 2012, il 12 dicembre Forlani partecipò alla Assemblea degli ex parlamentari in cui si festeggiavano i novant’anni di Giuseppe Guarino e del suo amico marchigiano Giorgio Tupini, stretto collaboratore di De Gasperi. Arrivò con un po’ di ritardo guidando la sua macchinetta dall’Eur al centro di Roma. Volle parafrasare l’episodio del ritardo con il ricordo di Attilio Piccioni che giunto alla Camilluccia per una riunione di direzione in attesa di tutti gli altri componenti, camminava solitario nel giardino. Forlani lo salutò con un rispettoso Lei. Piccioni rispose a Forlani “dai tempi del Partito Popolare ho sempre cercato di arrivare in ritardo e non ci sono riuscito. “

Il pensiero non può non riandare al congresso nazionale del febbraio 1980, quello del Preambolo che costruirà la seconda stagione del centrosinistra.

A nessuno -disse – servirà coltivare illusioni distratte da immagini evasive. Il rinnovamento riguarda noi stessi. Non porteremo ordine nella società senza riportarlo nella Dc”.

Vedeva linee di tendenze che minacciavano le strutture democratiche. Si era infatti nel pieno della stagione terroristica e dei sequestri politici.

Poi affrontò la crisi della società e la necessità di recuperare valori unitari. Sottolineò la necessità di avere la consapevolezza culturale per rispondere alla crisi di valori. Rifiutava la logica che le maggiori responsabilità fossero di chi ha avuto il governo e non chi ha alimentato indisciplina, assenteismo, ribellismo dalla scuola alla famiglia dalle fabbriche agli uffici.

Una analisi lucida dei momenti brutti che vivevamo, nel primo congresso della Dc in cui si sentiva l’assenza fisica di Moro

dopo il drammatico 1978.

Certo si potrebbe poi guardare retrospettivamente alle esperienze giovanili Gronchiane e dossettiane alla Spes con “Il Traguardo”, agli incontri di Rossena, a quelle parlamentari e di partito, al ruolo di governo di ministro delle PP. SS quando la presenza dello Stato in economia era rilevante, al Patto generazionale di San Ginesio, alle riforme di Assago con la legge elettorale tedesca e la sfiducia costruttiva, al programma per l’Europa del 1992 nel solco dell’europeismo degasperiano dopo il piano Delors e l’accordo di Maastricht, poi alla vicenda delle elezioni presidenziali, ai tanti periodi cruciali della storia del Paese, ma non è il giorno giusto, né la sede.

Oggi, nel momento, del dolore, del lutto e dei solenni funerali di Stato era forte il desiderio di raccontare cosa mi tornava in mente di un così grande personaggio della storia della DC che abbiamo avuto la fortuna di avere come leader e per così tanto tempo.

Voglio chiudere con un particolare.

Forlani sera segretario della Dc, oltre cinquanta anni fa quando Andreotti era presidente del Gruppo Dc. La delegazione del Partito era di sera riunita nello studio di Andreotti per fare il punto sulla evoluzione della crisi di governo di uno degli esecutivi Rumor. Quella sera Arnaldo Forlani doveva festeggiare l’anniversario di matrimonio con l’amata consorte ed era rammaricato di ritardare all’appuntamento pur avendo in tasca il pensiero affettuoso. Non c’erano i telefonini di oggi né whatsapp, ed era tutto complicato tenere i contatti con casa se non attraverso fedeli collaboratori. Questo era il politico nella sua dimensione umana, attaccato ai valori della famiglia!

 

Maurizio Eufemi

La Dc non è stata solo un partito di leader ma anche molto organizzato. Con quadri dirigenti su tutto il territorio. E con il sostegno del collateralismo

Articolo tratto dal giornale online “beemagazine.it” del 5 luglio 2023

 

Pubblicato e presentato il libro di Maurizio Eufemi, Una storia mai scritta, Roma 2023

Il libro contiene interviste a importanti esponenti di seconda fila della Dc, di ogni regione italiana.

Quasi tutte le conversazioni sono state pubblicate, a puntate, durante gli ultimi mesi,  da beemagazine.

Ora lette in sequenza e in volume, offrono un quadro significativo della storia della Democrazia cristiana, partendo dal movimento giovanile, che è stato dalla fondazione della Dc un serbatoio, una scuola, una fucina da cui è emersa in maniera importante la classe dirigente del partito.

 

La presentazione, nella Sala Capitolare del Senato, diffusa attraverso il canale web di Palazzo Madama e le onde di radio Radicale, è stata fatta da Giuseppe  Gargani, presidente della associazione parlamentari emeriti, da Mario Tassone, da Marco Follini, che è stato segretario del movimento giovanile della Dc prima di approdare ad altre formazioni politiche, con la scomparsa dello scudocrociato; da Calogero Mannino, più volte ministro e uno degli intervistati nel libro; e da relatori laici come lo storico Francesco Malgeri e lo studioso della società Giuseppe De Rita, entrambi stimati amici di Gerardo Bianco, che hanno impreziosito l’incontro con relazioni di grande rilevanza.

 

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Facciamo il punto con l’autore del libro

 

Giuseppe De Rita – ha sottolineato Eufemi – nella sua splendida vitalità di novantenne che nuota nella società, così come gli aveva suggerito di fare Tommaso Morlino, grande ispiratore e realizzatore degli enti rurali di sviluppo chiedendogli di abbandonare la programmazione, ci ha indicato gli elementi essenziali di un partito: la macchina, lo strumento culturale e un luogo di confronto come la rivista; gli uomini e le donne interni non esterni che alimentano il funzionamento del motore. Inoltre il collateralismo, quello delle organizzazioni che sposano il progetto culturale e politico.

De Rita ha ricordato l’episodio di Mons. Montini che oltre la tela ideologica tessuta con Paronetto e Papa Pacelli si preoccupava di dare una macchina e una busta di denari a Carretto e a Maria Badaloni per costruire la rete dei Maestri Cattolici nel Mezzogiorno così come quella della Coldiretti. Un episodio di grande significato su cui meditare.

A Francesco Malgeri – ha poi aggiunto Maurizio Eufemi – ho rivolto l’invito a completare la sua magistrale storia della Dc, oggi in cinque volumi, con un sesto che prenda in esame il periodo del 1992-94, quello contestato della chiusura del partito. È ancora giovane per potere definire e realizzare il programma obiettivo.

 

Eufemi ha poi annunciato che l’incontro di presentazione del libro è da considerarsi propedeutico a quello che con Luciano Benadusi si sta preparando a fine settembre, sui giovani e la politica sia nei movimenti giovanili sia nelle riviste culturali in fine settembre e che sta già suscitando molto interesse. Dunque una estate di riflessione e di lavoro.

 

L’intervento dello storico Francesco Malgeri. Un ricordo di Gerardo Bianco

 

Riproduciamo la relazione dello studioso nella sua interezza, sia per il suo intrinseco valore politico e storico, sia perché contiene un significativo ricordo di Gerardo Bianco, che è stato per anni presidente dell’Associazione degli ex parlamentari. Eufemi contava di chiudere il ciclo di interviste con una conversazione con l’indimenticato capogruppo dei deputati Dc, insigne latinista, ministro della Pubblica Istruzione, segretario e presidente del Ppi, scomparso nel dicembre dello scorso anno.

 

Non posso dare inizio al mio intervento senza spendere alcune parole in ricordo di Gerardo Bianco, al quale Maurizio Eufemi ha voluto dedicare questo volume. Gerardo Bianco è stato un democristiano, un parlamentare, un uomo di cultura, un meridionalista, una figura carica di umanità e di intelligenza politica, che ha speso la sua vita al servizio del Paese, richiamandosi ai valori che sin da giovane aveva assorbito alla scuola di quel cattolicesimo democratico che, da Sturzo a De Gasperi a Moro, ha svolto un ruolo di primo piano nella costruzione della democrazia e nello sviluppo economico e sociale del paese.

Bianco sentiva fortemente l’esigenza di una lettura serena e obiettiva della storia dell’Italia repubblicana e del ruolo che la Democrazia cristiana aveva esercitato nell’arco di mezzo secolo, nel quadro di un sistema politico basato sui partiti, espressioni di culture, ideologie e personalità diverse, ancorati ad una storia e ad un pensiero.

Per questo non si riconosceva nei partiti personali, rappresentati dalla figura di un leader, senza storia e senza una cultura politica. Nella Premessa al suo volume La parabola dell’Ulivo, scrisse che nel 1994 si ebbe una “scelta demonizzante della storia repubblicana, sintomo di una scadente visione politica, miope nella sua prospettiva”.

A suo avviso il successo dei partiti che vinsero le elezioni del 1994 si fondò su “una sbrigativa condanna della prima Repubblica, accusata di consociativismo, cioè di subordinazione ad una inesistente deriva social-comunista, invece di essere riconosciuta come costruzione di una solida democrazia, che aveva ricomposto le grandi iniziali fratture ideologiche e politiche, con l’accettazione, condivisa anche dagli originari partiti antisistema, della cultura europeista e delle democrazie occidentali”.

“I giudizi a volte aspri o addirittura derisori che, soprattutto a livello mediatico, sono ricorrenti sulla Democrazia cristiana, gli apparivano non solo ingiusti e ingenerosi, ma anche con evidenti limiti culturali. Si tratta di giudizi che ignorano la storia politica della Repubblica, dimenticando quanto, in quegli anni, le forze politiche, ciascuna per la propria parte, hanno realizzato importanti risultati, anche grazie ad una grande partecipazione dei cittadini alle vicende politiche”.

Non va dimenticato il cammino compiuto dal paese nella seconda metà del secolo scorso, l’avvio di uno sviluppo economico che ha permesso per lunghi anni una esistenza serena ad una gran parte di cittadini, superando profonde sacche di miseria ereditate da quasi un secolo di storia nazionale.

Per questo Gerardo Bianco insisteva sull’esigenza di “ritessere una trama che restituisca alla politica il suo ruolo, è necessario – scriveva – recuperare una serena memoria storica del passato, che individui lacune e sconfitte, ma anche le notevoli positività trasmesse e da riproporre come cardini di un sistema democratico che ha resistito anche al cambio di direzione politica del paese e alle convulsioni che ne sono seguite”.

Possiamo dire che il libro di Maurizio Eufemi risponde pienamente alla esigenza sollecitata da Gerardo Bianco. Si tratta di un libro che ha il merito di proporci una originale lettura della storia della Democrazia cristiana, attraverso i diversi percorsi di personalità ed esponenti che sono stati protagonisti della storia del nostro paese, nel governo, in Parlamento, nelle amministrazioni locali, nell’associazionismo cattolico, nel sindacalismo e nel movimento giovanile.

 

La formula delle interviste, adottata da Eufemi, ci aiuta a ripercorrere, sul filo della memoria e sulla base di riferimenti a vicende e a persone, la storia di una partecipazione alla vita politica e sociale del nostro paese da parte di democristiani che operarono attivamente, con passione e con eccellenti risultati sia sul piano nazionale sia a livello locale.

Tra le molte voci offerte da queste interviste, vorrei ricordare l’intervista a Guido Bodrato, che recentemente ci ha lasciato e che resta una delle figure più significative nella storia del partito e nella storia del Paese.

Con questo libro siamo di fronte ad un racconto che ripercorre momenti importanti nella vita del partito e che ci aiuta a capire come la Democrazia cristiana nella sua lunga storia non sia stata un semplice collettore di consenso elettorale, ma anche espressione di una cultura, di un pensiero e di partecipazione convinta di classi sociali appartenenti al mondo del lavoro, delle professioni, dell’imprenditoria, che ha qualificato la fisionomia interclassista del partito.

 

Una fisionomia che Carlo Donat-Cattin descrisse efficacemente intervenendo alla Camera, il 12 agosto 1979, spiegando la natura articolata e complessa del suo partito: “Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana. Siamo popolo nell’accezione sociologica, chiamato alla politica secondo una spinta partita dalla base del mondo cattolico, alla conquista di una dimensione laica”.

 

La Democrazia cristiana fu un partito complesso, con le sue articolazioni interne, caratterizzate dal sistema delle correnti, che furono presenti anche in altri partiti, ma che costituirono indubbiamente un tratto distintivo del partito dei cattolici. Siamo di fronte ad un arcipelago di gruppi, dentro il grande partito di ispirazione cristiana, che ha funzionato come un contenitore di esperienze e sensibilità durante i primi sessant’anni della storia repubblicana. Essere democristiani significava essere anche fanfaniani, forlaniani, demitiani.

Oppure dorotei, morotei, gavianei. Associati per appartenenze geografiche o per fedeltà al proprio leader. Nel suo ultimo e ben noto discorso ai gruppi parlamentari nel febbraio 1978, Aldo Moro aveva ammonito: «Siamo importanti, ma lo siamo per l’amalgama che caratterizza la  Democrazia cristiana. Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme».

 

Un partito che seppe farsi interprete del paese, dei diversi interessi e delle diverse attese che emergevano dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione alle esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e del sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la propria azione al rispetto della persona e ad una visione pluralista e articolata della società, lontano da qualsiasi concezione di stampo ideologico e classista.

Insomma, in seno alla Democrazia cristiana troviamo una pluralità di personalità, ciascuna delle quali rappresentava, con le sue idee, il suo retroterra sociale e culturale e con i suoi legami con diverse realtà locali e regionali, un modo originale di essere democristiano, a testimonianza della complessa e flessibile fisionomia del partito.

Tuttavia, nonostante questa articolazione e questa apparente frammentazione, siamo di fronte ad un partito che sentì con grande convinzione l’esigenza dell’unità. Non a caso, nei momenti più delicati nella storia del partito, uomini come De Gasperi e Moro, richiamarono il partito all’esigenza dell’unità come elemento imprescindibile per affrontare decisioni e svolte politiche decisive per la storia del paese e del partito.

 

Maurizio Eufemi ci ammonisce a guardare alla storia del partito e ai protagonisti ricordati in questo libro, che hanno rappresentato “piccoli tasselli di un grande mosaico che può aiutare a leggere il movimento della storia e il significato delle immagini che scorrono lentamente insieme al tempo”.

In altre parole, questo libro ci invita al recupero di un patrimonio culturale, di una storia e di un pensiero, di una identità culturale ancora in grado di fornire gli strumenti per interpretare il difficile momento che stiamo attraversando.

 

Ripercorrendo la lunga storia della presenza politica e sociale dei cattolici italiani, storici come Fausto Fonzi, Pietro Coppola, Gabriele De Rosa ed altri, pur non trascurando limiti, debolezze ed errori, anno sottolineato le ragioni di una presenza che ha saputo interpretare l’anima popolare, cogliendo le esigenze, e i bisogni di diverse categorie sociali, di strati popolari e borghesi, sostenendone le esigenze e le aspirazioni, rivendicando la libertà degli enti locali e le istanze autonomistiche e regionalistiche, senza misconoscere i valori dell’unità nazionale, coniugando democrazia e ispirazione cristiana senza integralismi e senza confondere la politica con la fede, facendo propri e difendendo, anche con il sacrificio personale, i valori della libertà contro ogni forma di sopraffazione e di autoritarismo.

È indubbio, tuttavia, che all’inizio degli anni Novanta si sia dispersa, fino alla liquidazione, la funzione di un partito che aveva svolto un ruolo fondamentale nella storia politica del paese, e che, tra l’ altro, era riuscito a convogliare e a raccogliere una  ampia base di consensi, offrendo immagine di grande forza di mediazione, capace di interpretare la volontà e gli interessi di categorie e gruppi sociali che costituivano l’articolato e complesso quadro della società italiana e l’asse portante della realtà economica, sociale e civile del paese. Si può aggiungere, che quel partito era riuscito a svolgere un ruolo di grande rilievo politico, raccogliendo i consensi di una fascia di elettorato, cattolico e non, forse più incline alla conservazione che al riformismo, che veniva in qualche modo sottratto alla sua vocazione autoritaria per incanalarlo all’interno di un progetto chiaramente democratico e con una chiara sensibilità sociale.

 

Quel progetto democratico e riformista, sorretto dall’ispirazione cristiana, avrebbe dovuto trovare la sua concreta affermazione, proprio negli anni a noi più vicini, quando il crollo del comunismo e la fine dell’Unione sovietica e delle democrazie popolari dell’Est europeo, facevano cadere molti miti e molte suggestioni. Il cattolicesimo democratico, proprio di fronte a quel fallimento, appariva vincente, poteva riproporre la validità di un pensiero che aveva sempre respinto le istanze totalitarie in nome dei valori della democrazia e del pluralismo, riaffermando il valore della persona umana e un disegno di società animata dalla solidarietà e dalla giustizia sociale.

 

Certamente, tra le cause che hanno portato alla conclusione dell’esperienza della Democrazia cristiana non sono mancati i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri economici, apparati dello Stato, alimentando una crisi, aggravata dal mutamento del sistema elettorale, da tangentopoli e dagli interventi della Magistratura, destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

Come sottolinea Maurizio Eufemi, “è ancora presto per comprendere veramente ciò che accadde nel 1992-1994, con la scomparsa della coalizione di pertiti di governo e soprattutto del partito della Ricostruzione, la Democrazia cristiana”.

Insomma, la fine della Dc e il radicale mutamento del sistema politico italiano all’inizio degli anni Novanta, che segna la fine di quella che Scoppola ha definito la Repubblica dei partiti, è una storia che deve ancora essere scritta, con serenità di giudizio e con quel distacco necessario per ricostruire il passato, al di là delle dell’esperienza della Democrazia cristiana non sono mancati i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri economici, apparati dello Stato, alimentando una crisi, aggravata dal mutamento del sistema elettorale, da tangentopoli e dagli interventi della Magistratura, destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

 

Simone MassaccesiRedattore

"UNA STORIA MAI SCRITTA"

formazione, impegno e passione della classe dirigente democristiana

 

presentazione del 19 giugno a Roma

Sala Capitolare - Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva - Piazza Minerva 38

Lo  storico Francesco Malgeri sulla Storia mai scritta di Maurizio Eufemi

 

Non posso dare inizio al mio intervento senza spendere alcune parole in ricordo di Gerardo Bianco, al quale Maurizio Eufemi ha voluto dedicare questo volume. Gerardo Bianco è stato un democristiano, un parlamentare, un uomo di cultura, un meridionalista, una figura carica di umanità e di intelligenza politica, che ha speso la sua vita al servizio del paese, richiamandosi ai valori che sin da giovane aveva assorbito alla scuola di quel cattolicesimo democratico che, da Sturzo a De Gasperi a Moro, ha svolto un ruolo di primo piano nella costruzione della democrazia e nello sviluppo economico e sociale del paese.

Bianco sentiva fortemente l’esigenza di una lettura serena e obiettiva della storia dell’Italia repubblicana e del ruolo che la Democrazia cristiana aveva esercitato nell’arco di mezzo secolo, nel quadro di un sistema politico basato sui partiti, espressioni di culture, ideologie e personalità diverse, ancorati ad una storia e ad un pensiero.

Per questo non si riconosceva nei partiti personali, rappresentati dalla figura di un leader, senza storia e senza una cultura politica. Nella Premessa al suo volume La parabola dell’Ulivo, scrisse che nel 1994 si ebbe una “scelta demonizzante della storia repubblicana, sintomo di una scadente visione politica, miope nella sua prospettiva”. A suo avviso il successo dei partiti che vinsero le elezioni del 1994 si fondò su “una sbrigativa condanna della prima Repubblica, accusata di consociativismo, cioè di subordinazione ad una inesistente deriva social-comunista, invece di essere riconosciuta come costruzione di una solida democrazia, che aveva ricomposto le grandi iniziali fratture ideologiche e politiche, con l’accettazione, condivisa anche dagli originari partiti antisistema, della cultura europeista e delle democrazie occidentali”.

I giudizi a volte aspri o addirittura derisori che, soprattutto a livello mediatico, sono ricorrenti sulla Democrazia cristiana, gli apparivano non solo ingiusti e ingenerosi, ma anche con evidenti limiti culturali. Si tratta di giudizi che ignorano la storia politica della Repubblica, dimenticando quanto, in quegli anni, le forze politiche, ciascuna per la propria parte, hanno realizzato importanti risultati, anche grazie ad una grande partecipazione dei cittadini alle vicende politiche. Non va dimenticato il cammino compiuto dal paese nella seconda metà del secolo scorso, l’avvio di uno sviluppo economico che ha permesso per lunghi anni una esistenza serena ad una gran parte di cittadini, superando profonde sacche di miseria ereditate da quasi un secolo di storia nazionale.

Per questo Gerardo Bianco insisteva sull’esigenza di “ritessere una trama che restituisca alla politica il suo ruolo, è necessario – scriveva - recuperare una serena memoria storica del passato, che individui lacune e sconfitte, ma anche le notevoli positività trasmesse e da riproporre come cardini di un sistema democratico che ha resistito anche al cambio di direzione politica del paese e alle convulsioni che ne sono seguite”.

Possiamo dire che il libro di Maurizio Eufemi, che stasera presentiamo, risponde pienamente alla esigenza sollecitata da Gerardo Bianco. Si tratta di un libro che ha il merito di proporci una originale lettura della storia della Democrazia cristiana, attraverso i diversi percorsi di personalità ed esponenti che sono stati protagonisti della storia del nostro paese, nel governo, in Parlamento, nelle amministrazioni locali, nell’associazionismo cattolico, nel sindacalismo e nel movimento giovanile. La formula delle interviste, adottata da Eufemi, ci aiuta a ripercorrere, sul filo della memoria e sulla base di riferimenti a vicende e a persone, la storia di una partecipazione alla vita politica e sociale del nostro paese da parte di democristiani che operarono attivamente, con passione e con eccellenti risultati sia sul piano nazionale che a livello locale.

Tra le molte voci offerte da queste interviste, vorrei ricordare l’intervista a Guido Bodrato, che recentemente ci ha lasciato e che resta una delle figure più significative nella storia del partito e nella storia del paese.

Con questo libro siamo di fronte ad un racconto che ripercorre momenti importanti nella vita del partito e che ci aiuta a capire come la Democrazia cristiana nella sua lunga storia non sia stata un semplice collettore di consenso elettorale, ma anche espressione di una cultura, di un pensiero e di partecipazione convinta di classi sociali appartenenti al mondo del lavoro, delle professioni, dell’imprenditoria, che ha qualificato la fisionomia interclassista del partito.

Una fisionomia che Carlo Donat-Cattin descrisse efficacemente intervenendo alla Camera, il 12 agosto 1979, spiegando la natura articolata e complessa del suo partito: “Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana. Siamo popolo nell’accezione sociologica, chiamato alla politica secondo una spinta partita dalla base del mondo cattolico, alla conquista di una dimensione laica”.

La Democrazia cristiana fu un partito complesso, con le sue articolazioni interne, caratterizzate dal sistema delle correnti, che furono presenti anche in altri partiti, ma che costituirono indubbiamente un tratto distintivo del partito dei cattolici. Siamo di fronte ad un arcipelago di gruppi, dentro il grande partito di ispirazione cristiana, che ha funzionato come un contenitore di esperienze e sensibilità durante i primi sessant’anni della storia repubblicana. Essere democristiani significava essere anche fanfaniani, forlaniani, demitiani. Oppure dorotei, morotei, gavianei. Associati per appartenenze geografiche o per fedeltà al proprio leader. Nel suo ultimo e ben noto discorso ai gruppi parlamentari nel febbraio 1978, Aldo Moro aveva ammonito: «Siamo importanti, ma lo siamo per l’amalgama che caratterizza la Democrazia cristiana. Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme».

Un partito che seppe farsi interprete del paese, dei diversi interessi e delle diverse attese che emergevano dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione alle esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e del sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la propria azione al rispetto della persona e ad una visione pluralista e articolata della società, lontano da qualsiasi concezione di stampo ideologico e classista.

Insomma, in seno alla Democrazia cristiana troviamo una pluralità di personalità, ciascuna delle quali rappresentava, con le sue idee, il suo retroterra sociale e culturale e con i suoi legami con diverse realtà locali e regionali, un modo originale di essere democristiano, a testimonianza della complessa e flessibile fisionomia del partito. Tuttavia, nonostante questa articolazione e questa apparente frammentazione, siamo di fronte ad un partito che sentì con grande convinzione l’esigenza dell’unità. Non a caso, nei momenti più delicati nella storia del partito, uomini come De Gasperi e Moro, richiamarono il partito all’esigenza dell’unità come elemento imprescindibile per affrontare decisioni e svolte politiche decisive per la storia del paese e del partito.

 

Maurizio Eufemi ci ammonisce a guardare alla storia del partito e ai protagonisti ricordati in questo libro, che hanno rappresentato “piccoli tasselli di un grande mosaico che può aiutare a leggere il movimento della storia e il significato delle immagini che scorrono lentamente insieme al tempo”.

In altre parole, questo libro ci invita al recupero di un patrimonio culturale, di una storia e di un pensiero, di una identità culturale ancora in grado di fornire gli strumenti per interpretare il difficile momento che stiamo attraversando.

Ripercorrendo la lunga storia della presenza politica e sociale dei cattolici italiani, storici come Fausto Fonzi, Pietro Scoppola, Gabriele De Rosa ed altri, pur non trascurando limiti, debolezze ed errori, hanno sottolineato le ragioni di una presenza che ha saputo interpretare l'anima popolare, cogliendo le esigenze, e i bisogni di diverse categorie sociali, di strati popolari e borghesi, sostenendone le esigenze e le aspirazioni, rivendicando la libertà degli enti locali e le istanze autonomistiche e regionalistiche, senza misconoscere i valori dell'unità nazionale, coniugando democrazia e ispirazione cristiana senza integralismi e senza confondere la politica con la fede, facendo propri e difendendo, anche con il sacrificio personale, i valori della libertà contro ogni forma di sopraffazione e di autoritarismo.

È indubbio, tuttavia, che all’inizio degli anni Novanta si sia dispersa, fino alla liquidazione, la funzione di un partito che aveva svolto un ruolo fondamentale nella storia politica del paese, e che, tra l'altro, era riuscito a convogliare e a raccogliere una ampia base di consensi, offrendo l'immagine di grande forza di mediazione, capace di interpretare la volontà e gli interessi di categorie e gruppi sociali che costituivano l'articolato e complesso quadro della società italiana e l'asse portante della realtà economica, sociale e civile del paese. Si può aggiungere, che quel partito era riuscito a svolgere un ruolo di grande rilievo politico, raccogliendo i consensi di una fascia di elettorato, cattolico e non, forse più incline alla conservazione che al riformismo, che veniva in qualche modo sottratto alla sua vocazione autoritaria per incanalarlo all'interno di un progetto chiaramente democratico e con una chiara sensibilità sociale.

Quel progetto democratico e riformista, sorretto dall'ispirazione cristiana, avrebbe dovuto trovare la sua concreta affermazione, proprio negli anni a noi più vicini, quando il crollo del comunismo e la fine dell'Unione Sovietica e delle democrazie popolari dell'Est europeo, facevano cadere molti miti e molte suggestioni. Il cattolicesimo democratico, proprio di fronte a quel fallimento, appariva vincente, poteva riproporre la validità di un pensiero che aveva sempre respinto le istanze totalitarie in nome dei valori della democrazia e del pluralismo, riaffermando il valore della persona umana e un disegno di società animata dalla solidarietà e dalla giustizia sociale.

Certamente, tra le cause che hanno portato alla conclusione dell’esperienza della Democrazia cristiana non sono mancati i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri economici, apparati dello Stato, alimentando una crisi, aggravata dal mutamento del sistema elettorale, da tangentopoli e dagli interventi della Magistratura, destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

Come sottolinea Maurizio Eufemi, “è ancora presto per comprendere veramente ciò che accadde nel 1992-1994, con la scomparsa della coalizione di pertiti di governo e soprattutto del partito della Ricostruzione, la Democrazia cristiana”. Insomma, la fine della Dc e il radicale mutamento del sistema politico italiano all’inizio degli anni Novanta, che segna la fine di quella che Scoppola ha definito la Repubblica dei partiti, è una storia che deve ancora essere scritta, con serenità di giudizio e con quel distacco necessario per ricostruire il passato, al di là delle passioni e dei sentimenti.

 

Francesco Malgeri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È scomparso Guido Bodrato.

 

Lo avevo incontrato il 15 aprile a casa sua a Chieri. Dopo una settimana aveva perso sua moglie. Neppure due mesi e si è ricongiunto alla amata consorte.

È stato un incontro piacevole il nostro. Esprimeva un sorriso gioioso nonostante un carattere duro e forte.

Gli avevo raccontato degli incontri e dei colloqui con Luciano Benadusi, sul recupero dei numeri di Per l'Azione, sui cui si era cimentato nei primi anni cinquanta e sulla iniziativa che stavamo costruendo insieme per fine settembre sui movimenti giovani delle diverse aree culturali. Ne era felice. Era disponibile a dare il suo contributo seppure in collegamento telematico.

Poi la conversazione è scivolata sulla attualità politica e non si è tirato indietro con giudizi fermi ma anche indicazioni di fondo rispetto agli ultimi avvenimenti.

 

Provo a riassumerle:

La Cultura viene prima della politica che non può assoggettare la cultura;

vanno difesi gli Interventi dello stato nell'economia economia come avevano fatto autorevoli premi Nobel.

Da Ministro della Industria ha assolto questa funzione anche rispetto alla arroganza di certi imprenditori. Non era andato sul Britannia! Ha deprecato la cacciata di Feltri dal Domani dall'editore che imponeva la linea politica.

Si apre una stagione dei diritti ma anche dei doveri.

Ha voluto poi ricordare il recente incontro con il Presidente della Repubblica e la sua preoccupazione per i collaboratori che devono proteggerlo dalle insidie della comunicazione. Quasi un ruolo protettivo verso l'amico chiamato a così alta funzione.

Poi una analisi sulla provincia Giolittiana di Cuneo rispetto alla celebrazione del 25 aprile sulla Resistenza e alle migliaia di soldati della Taurinense deceduti sul Don.

Infine una riflessione sul razzismo visto da una angolatura familiare. Un figlio chiamato ad altissime responsabilità finanziarie a Londra superando la competizione con altre figure professionali di altre razze e nazionalità! Quasi il tormento che gli inglesi abbiano voluto privilegiare un bianco!

No caro Guido. Ha vinto una forte selezione internazionale! Non avere scrupolosi tormenti. Il Regno Unito ha un premier di origini indiane!


Resta nell'animo la sua forte inclinazione con la Sinistra Sociale di Donat Cattin unita a una visione politica spesso controcorrente e inascoltata soprattutto in tema di legge elettorale proporzionale e di presidenzialismo.

 

Roma, 9 giugno 2023

"Una storia mai scritta:  formazione, impegno e passione della classe dirigente democristiana" Prefazione di Francesco Malgeri.

Presentazione del libro a Capalbio

Riuscita presentazione del libro del Senatore Maurizio Eufemi, il convegno dibattito molto ben riuscito ed articolato, che si è svolto nella sala consiliare nel palazzo municipale di Via Giacomo Puccini, a Capalbio, ha consentito di ricostruire alcuni aneddoti e passaggi molto importanti dei dirigenti della democrazia cristiana nellesezioni, nei collegi elettorali, nella vita sociale e politica e sul territorio.
Non sono mancati riferimenti all’Ente Maremma in Toscana e nel Lazio ed al ruolo svolto dalla D.C. di Capalbio e dal coordinatore di zona di quel periodo, Giovanni Casalini per raggiungere l’autonomia amministrativa e la nascita di Capalbio quale Comune autonomo.Scelta fatte e portata avanti e conclusa dalla D.C.

I lavori cono stati introdotti da GianFranco Chelini Sindaco di Capalbio, ci sono poi stati i saluti di Luigi Fanciulli segretario regionale della Fap Acli della Toscana. A seguire gli interventi molto corposi e ben articolati di dottor Huber Corsi già sindaco di Monte Argentario e medaglia d’oro della Croce  Rossa  Italiana, dello stesso senatore Maurizio Eufemi,  che nel raccontare il Libro ed i suoi contenuti ha tracciato un quadro molto importante ed articolato  del lavoro politico e programmatico svolto dalla Demnocrazia Cristiana per lo sviluppo anche della Maremma Tosco Laziale, come del resto di tutto il Paese.
Per le Acli provinciali sono intervenuti tra gli altri Michele Casalini, Piera Casalini; presenti anche alcune delegazioni di Cri delle zone di Capalbio, Grosseto e della Costa d’Argento.


Michele Casalini

 

Ieri a  Sciolze in una bellissima giornata di sole che permetteva di toccare il Monviso, abbiamo ricordato anche questi momenti di 21 anni fa. E' stato toccante rivedere tante belle persone impegnate nella politica sul territorio e nella solidarietà che si sono strette per festeggiare il loro sindaco emerito Marco Ruffino insignito della onorificenza di Commendatore della Repubblica.

 

 

 

 

Incontro con Guido Bodrato a Chieri

Oggi festeggiano il 18 aprile. La vittoria di De Gasperi contro il Fronte socialcomunista


È stato la vittoria della democrazia, della libertà, della scelta occidentale avviando la costruzione dell'Europa.
Nonostante l'intensa attività del consiglio dei Ministri giró l'Italia con oltre trenta comizi dopo quello di apertura alla Basilica di Massenzio. Convocó Giorgio Tupini capo della segreteria Spes, fondata da Dossetti, ma rimasta senza dirigente, nonostante le critiche interne per una impostazione troppo anticomunista e suscettibile di pregiudicare future collaborazioni tra i partiti di massa.
Impostó la campagna elettorale come un grande referendum tra un avvenire di libertà e un avvenire di oppressione e che non bisognava perdersi nelle "frange"
Una vittoria che venne con una "grandinata di voti" e una largissima partecipazione alle urne che ha assicurato al Paese pace e prosperità per ottanta anni cancellando povertà, miserie, sottosviluppo e divari.
De Gasperi statista seppe guardare al futuro non chiudendosi nella sua vittoria, ma aprendosi alle forze liberali e centriste per assicurare stabilità alla azione di governo affermando il principio "mai soli".


Gli italiani credettero in De Gasperi perché era un uomo di solidi principi, un perseguitato dal fascismo, un padre esemplare un Cristiano coerente.
Grazie Alcide De Gasperi per quanto hai fatto per l'Italia.!

La DC era un partito di correnti già con De Gasperi.

Il punto di crisi fu quando si divisero sulle alleanze politiche

 

Un convegno a Roma alla Fondazione intitolata allo statista trentino

articolo di Maurizio Eufemi tratto da giornale online "beemagazine.it" del 6 Aprile 2023

 

Nella rivisitazione della Storia della DC, fatta in un convegno nella Fondazione De Gasperi a Roma, dal confronto di opinioni tra storici e politici è emersa una lettura dialettica sul ruolo e sulla funzione delle correnti all’interno della DC fin dal periodo degasperiano.

 

Nella prima fase di costruzione della DC c’erano gli ex popolari, gli Scelbiani, i Gronchiani, il gruppo dei guelfi, i rappresentanti dell’associazionismo dall’Azione Cattolica alla Fuci, fino ai professorini di Gemelli prima e dei dossettiani poi.

 

L’anniversario della nascita di De Gasperi (aprile 1881) serve anche a ricordare il nesso tra memoria e futuro. La festa del 25 aprile fu istituita come giornata della Liberazione, con matrice giuridica oltre che politica, da Alcide De Gasperi.

Alcide De Gasperi, secondo Agostino Giovagnoli, formula il Partito della Nazione, come formula che garantisce la democrazia e gli altri; non il partito egemone. Attraverso il partito “pivot” nella definizione di Leopoldo Elia, garantisce la democrazia, il sistema, il potere dell’esecutivo nel pluralismo con la scelta “mai da soli”.

De Gasperi ha la capacità di tenere insieme solidarismo e interclassismo.

 

Le tesi sviluppate dagli storici Vera Capperucci e Agostino Giovagnoli vengono integrate dai ricordi personali di Calogero Mannino, per il quale lo statista trentino dopo avere compiuto il miracolo della ricostruzione, non viene premiato nel 1953.

Questo riconoscimento è mancato per l’episodio della legge maggioritaria, sulla quale c’è stato un comportamento di alta dignità di Stato da parte di De Gasperi e dei dc del tempo, che non hanno fatto ricorso a nessun mezzo strumentale per l’applicazione della legge maggioritaria.

 

È Fanfani che rafforza il modello organizzativo e quello degli apparati soprattutto con un potenziamento delle attività di propaganda adeguandole ad un partito di massa, rovesciando il paradigma degasperiano e ponendo al centro il segretario del partito, che diventa il soggetto trainante della rappresentanza. Punta al partito pesante. Per Fanfani saranno “gli anni difficili, ma non sterili”, la legislatura del 1953-1958.

Fanfani si crea la sua maggioranza, mette dentro tutte le ipotesi correntizie che esploderanno per scissione dopo il 1959 con la Domus Mariae. L’ipotesi di Fanfani è un insieme che ha alcuni obiettivi: l’organizzativismo, il partito organizzato con proiezione nella società.

 

Iniziativa Democratica è una corrente plurima, ma rappresenta la società, i coltivatori diretti, gli artigiani, i commercianti; si forma una classe dirigente nuova, con sacrificio di quella notabiliare, che ha conservato l’onore di una grande memoria.

Quella che si forma con Fanfani troverà un punto di esplosione della propria tenuta con la Domus Mariae.

Questa classe dirigente ritiene di dover giocare delle partite che non sono quelle di Fanfani. A guardare bene il 1959 la rottura di Iniziativa Democratica – e questo lo si celebrerà in modo solenne al congresso di Firenze – è il tema delle alleanze.


Quando le correnti diventano soltanto il vettore di una proposta di alleanza subiscono il peggiore del deterioramento perché non sono più lo strumento per affrontare approfondimenti programmatici, di linea politica, ma per scegliere un alleato invece che un altro: il socialista e quale socialista, perché quando Moro farà il centrosinistra nel 1963 avremo le grandi difficoltà a trovare il PSI unito perché oltre la leadership Nenni, leale e legato a Moro, ci sono i suoi, Mancini e De Martino, che scalpitano e che gestirono la legislatura successiva, quella del 1968, quella che per De Martino diventerà la fase degli equilibri più avanzati.

Il gioco della proposta di alleanza diventa decisivo per le correnti.

 

Per Calogero Mannino la DC sorge con un profeta: De Gasperi, Ma perché sorge la DC?

Sorge prima dello sbarco degli americani nel 1943 – nonostante la vulgata di alcune trasmissioni televisive -, nello studio del Sen. Alessi a Caltanissetta, dal gruppetto residuo degli sturziani rimasti in Sicilia, che non si erano compromessi con il fascismo.

Quella fase meriterebbe più attenzione intrecciando con Yalta la svolta di Salerno e l’unità d’Italia.

Può essere affidata solo a forze che erano riuscite ad attraversare la lunga notte del fascismo. In Italia c’è De Gasperi che potremmo considerare un detenuto alla biblioteca vaticana. La DC è un’opera a quattro mani: De Gasperi e Montini. Adesso ai cattolici spetta il compito di costruire la democrazia degli italiani, una democrazia della Nazione. Ma la DC è un partito di correnti già con De Gasperi.

Le correnti hanno svolto la funzione positiva di rappresentanza dei ceti sociali, con Forze Nuove nel sindacato della Cisl e nelle Acli, con i coldiretti di Bonomi, con il mondo dell’artigianato, dei dirigenti d’azienda, etc..

Il consiglio Nazionale di Vallombrosa del 1957 aveva già fatto emergere la crisi della leadership di Fanfani. Li fu avvertito il “rumore dei silenzi” di Iniziativa Democratica.

Il punto di svolta o di esplosione si ha con la Domus Mariae del 1959 quando avvenne la rottura di Iniziativa Democratica e l’avvento dei Dorotei. Le correnti da quel momento si sono divise sulle alleanze con ritmo crescente. Nel rapporto con il PSI ognuno guardava ad un interlocutore diverso: Moro con Nenni, Colombo con Mancini, Rumor con De Martino, fino a quando non sorsero difficoltà con la teoria degli equilibri più avanzati.

E arrivo a Moro con un ricordo personale – prosegue Mannino citando l’incontro a Via Savoia nello studio di Moro – quando accompagnai un Donat Cattin furioso, fermamente contrario alla solidarietà nazionale e al governo Andreotti con la partecipazione dei comunisti. Moro lo smonta e lo porta ad accettare il punto di necessità politica”.

Ah se ci fosse il Partito Socialista” sospirò Moro; era appena stato eletto Craxi e i socialisti ancora vivevano una fase di vera e propria dissoluzione. Non era ancora il Craxi che vedremo negli anni Ottanta. “Quel sospiro di Moro non l’ho più dimenticato – sospira sua volta Mannino -. Moro pregò Donat Cattin di non turbare l’unità della DC. La condizione era la unità della DC”.

 

Moro era riuscito con l’intervento ai gruppi parlamentari riuniti del 28 febbraio 1978 a ricompattare le correnti della DC, ma Moro si ritrova qualcosa di diverso dalle correnti. Nei gruppi c’era una rappresentanza che con le elezioni del 1976 proveniva direttamente dalla società civile e quindi era svincolata da logiche correntizie. Erano contrari all’ingresso dei comunisti al governo.

Da lì nascono i 40, i 50 fino ai cento di Gerardo Bianco e di Roberto Mazzotta che rivendicano l’autonomia rispetto alle direttive di partito. Moro si ritrova un’altra realtà da affrontare, altro tipo di interlocutori da convincere, da persuadere.

Alla fine ottiene il risultato perché assicura che l’unita della DC è la condizione per gestire lo stato di necessità.

Poi dopo l’assassinio di Moro e la strage dei suoi amici e collaboratori, che erano gli uomini della scorta, che ti diventano amici, entrano nella tua vita personale, tale era Leonardi, il PCI si tira indietro con il congresso del 1980 rispetto alla fase di solidarietà nazionale e il Governo regionale di Piersanti Mattarella, nel quale il Pci era entrato in maggioranza, viene messo in crisi dallo stesso PCI dopo tre mesi. La collaborazione era già finita.

 

La Dc deve governare”. Il Preambolo di Donat Cattin diventa lo strumento indispensabile con cui la DC tiene tutto il corso degli anni Ottanta. Un corso travagliato. Ci sono due avvenimenti. La segreteria De Mita si propone come leader del rinnovamento della DC. Era una necessità che viene data al PSI di imbalsamare la DC.

 

La Segreteria De Mita tenta la carta del rinnovamento, ma l’insuccesso elettorale del 1983 indebolisce la sua segreteria nazionale che regge a stento ed è costretta ad accettare Craxi Presidente del Consiglio che fa un pezzo di storia degli anni ottanta.

Quando diventa presidente del Consiglio, De Mita, pur sostenuto da una maggioranza di pentapartito garantita dal PSI, in Aula volge il discorso verso il PCI. Mannino ricorda: “Feci immediatamente in Senato questa obiezione a De Mita”. “Adesso non c’è più la maggioranza con il PSI ma con il PCI!”. E poi fa la prima visita di Stato a Mosca!

L’Italia non appartiene a quella area geopolitica. ! Ripropongo la domanda: perchè nasce la DC nel 1943? Gli americani potevano accettare che l’Italia fosse consegnata ai fascisti? NO! Potevano accettare i comunisti? NO. Il miracolo Montini è nella offerta di una possibilità che gli americani non avevano ben presente. Questa pagina di storia deve essere approfondita con i documenti americani che verranno liberalizzati. La DC invece era sorta come partito americano fin dallo sbarco in Sicilia”.

 

La sinistra democristiana si disarticola nella sinistra di De Mita e nell’ area Zac che ha un recupero tutto di tipo psicologico- spiritualistico che porterà a forme di moralismo. L’area Zaccagnini opera la scelta della legge elettorale. Ci lavora con alcuni esponenti come Leopoldo Elia particolarmente ma ritorna il vezzo della riproposizione di un maggioritario la cui verifica va fatta sulla base di una precisa domanda: Chi scegli il partito socialista o il PCI? Questo apre la discussione sulla fine della DC.

Nonostante la DC nel 1992 prenda ancora quasi il 31 per cento dei voti con una larghissima partecipazione alle elezioni, cosa che nessun partito prenderà più da allora, la parabola della DC si concluderà con il colpo conclusivo assestato dalla legge elettorale che dal proporzionale passa al maggioritario imponendo di collocarsi nella scelta degli alleati.

 

Maurizio Eufemi

La nascita dell’Enel, l’Ucraina, l’energia e le idee di Enrico Mattei

 

Un piccolo saggio di Maurizio Eufemi che ricorda I tempi travagliati della nazionalizzazione dell’energia elettrica, negli anni del centrosinistra, le divisioni all’interno della Dc, che pagò un prezzo elettorale, le insistenze del Psi, soprattutto di Riccardo Lombardi. L’azione comune di Moro e Fanfani - tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 20 marzo 2023

 

La questione energetica, esplosa dopo la invasione della Ucraina,  ha posto in evidenza le lungimiranti scelte strategiche operate negli anni Cinquanta e Sessanta tanto da fare ritenere che le idee e le proposte politiche di Enrico Mattei siano ancora attuali.

Un’altra questione è invece rimasta, allo stato,  confinata nel dibattito tra gli storici, gli studiosi e gli esperti:  la nazionalizzazione della energia elettrica con la costituzione dell’Enel e la valutazione di una politica energetica adeguata, compresa quella  nucleare.

Eppure rappresentò una vicenda politica che segnò la fase della apertura al centro sinistra con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo  e il loro coinvolgimento nello storico incontro tra cattolici e socialisti e conseguente allargamento dell’area democratica, dopo il sostegno esterno al governo tripartito DC- PSDI –  PRI (Fanfani IV).

 

Nel patto di programma maturato dopo il Congresso democristiano di Napoli, del 1962, si prevedeva appunto il varo della nazionalizzazione dell’energia elettrica con la nascita dell’Enel. Il provvedimento trovava un ancoraggio forte negli articoli 41 e 43 della Carta Costituzionale. 

Già  il nome aveva comportato un aspro confronto tra chi voleva un Ente di diritto pubblico controllato dal Ministero delle PP.SS (Partecipazioni Statali)  e una società per azioni. L’Ente finirà sotto il controllo del Ministero dell’Industria. La DC pagò un duro prezzo, sia politico sia elettorale, rispetto a quella scelta che intaccava il potere economico che spostò le sue preferenze sul PLI di Malagodi. Nelle elezioni politiche del 1963 la DC perse quasi quattro punti percentuali che si spostarono sul partito liberale.

Le forze economiche e imprenditoriali  furono miopi e non percepirono il grande disegno politico volto a garantire stabilità,  governabilità e progresso, di forze politiche lungimiranti che guardavano  ad un disegno riformatore,  tagliando le estreme.

Nella formazione del governo Fanfani uscirono gli uomini della destra DC come Scelba, Gonella, Pella e Spataro. Entrarono esponenti dorotei come Gui, Bernardo Mattarella; poi Medici e Corbellini.

Naturalmente la nascita dell’Enel era dentro un disegno legato alla programmazione economica e al varo di altre riforme come quelle  sui suoli e sulla scuola,  con la scuola media unica, poi  il presalario universitario per gli studenti meritevoli.

In quell’anno si tennero anche le elezioni del Presidente della Repubblica. Fu eletto  Antonio Segni, che fece naufragare il tentativo di Togliatti di rompere il dialogo tra Dc e PSI puntando su Nenni e su Saragat. Aldo Moro respinse fermamente i tentativi di Saragat di far ritirare i candidati in contrapposizione, salvaguardando cosi l’unità della DC.

Il varo della riforma non fu semplice per il confronto anche aspro tra le forze politiche.

L’Ingegnere Riccardo Lombardi, espressione del sindacalismo cattolico prima, poi del partito d’Azione, poi  esponente di spicco dei socialisti, era favorevole  alla nazionalizzazione fin dagli anni Quaranta.

Già nel gennaio del 1923, da studente al Politecnico di Milano aveva scritto un articolo sul Domani d’Italia . Preferiva la forma del decreto legge rispetto alla legge delega come poi fu utilizzata. La legge trova compimento in una forma diversa da quella ipotizzata. Per Lombardi e parte dei socialisti resta una operazione per sbloccare il sistema verso un futuro governo delle sinistre, per spezzare il monopolio privato, per mettere in difficolta la DC nel suo elettorato di centrodestra e verso i settori imprenditoriali.

Le resistenze parlamentari si coagularono intorno ai Liberali, ai Monarchici, al Movimento Sociale, a frange della DC.

All’esterno c’era l’azione della Confindustria e dell’Assolombarda. un ruolo importante lo giocarono i giornali di opinione come il Corriere della Sera e il quotidiano della Confindustria,  il Sole 24 ore,  alimentando un malessere nella borghesia.

 

Gli obiettivi tecnici ed economici della riforma erano di superare l’assenza di concorrenza, l’avversione verso i monopoli privati, la questione tariffaria,  gli squilibri Nord-Sud, i deficit di coordinamento nella produzione e nella distribuzione, oltre sprechi e doppioni.

A ciò si aggiunse la concentrazione di potere economico, l’assenza di investimenti, l’occultamento dei profitti con società di comodo.  Spiccano gli articoli di Ernesto Rossi sui “baroni dell’elettricità” e di Eugenio Scalfari contro il Trust elettrico.

La trattativa di Governo si concretizza con il varo di un disegno di legge e l’impegno del presidente del Consiglio Fanfani di approvarlo in tre mesi. Il provvedimento verrà esaminato da due  Commissioni speciali, alla Camera e  al Senato, presiedute da Togni e Tupini. Pasquale Saraceno esprimerá  perplessità con una lettera a  Ugo La Malfa.

Parallelamente ai lavori parlamentari si mette all’opera una commissione mista in cui sono presenti esponenti dei partiti della coalizione, ma anche Pasquale Saraceno e Guido Carli, Governatore della Banca d’ Italia.

La DC con Mario Ferrari Aggradi punta ad una impresa mista sul modello delle Partecipazioni Statali che Lombardi giudica macchinosa preferendo la forma della corporation di diritto pubblico sul modello britannico. Una ipotesi era quella dello Stato azionista con irizzazione come fu fatto per i cantieri navali di Taranto.  Poi verrà il problema della governance ma fu marginale rispetto alle questioni che furono superate. La forma della spa contrastava con il fine della produzione di servizi pubblici com’è l’energia elettrica. Sul punto vince  il Partito Socialista.

Lombardi poi vuole gli indennizzi sotto forma di obbligazioni. Sorge il problema della tutela dei piccoli azionisti. Qui prevale la linea Carli degli indennizzi in contanti in venti semestralità con interessi al 5,5 per cento non agli azionisti, ma alle società per poterli reinvestire, così da evitare tensioni sui mercati e la flessione dei titoli. 

Si dirà che gli indennizzi furono generosi e superiori del 31 per cento del valore contabile delle azioni (Zanetti e Fraquelli 1979). Il motivo risiedeva nell’obiettivo di sconfiggere la paura nei ceti medi possidenti e una seconda ragione stava nell’auspicio di indirizzare quelle risorse verso investimenti in altri rami industriali come la chimica.


Ci furono altre decisioni che influirono sul sentimento degli italiani. La cedolare secca differenziata tra azionisti italiani e stranieri provocò una fuga di capitali verso la Svizzera che proseguirà per una media di 660 miliardi all’anno fino al 1967 e per 1700 miliardi nel periodo 1968-1972.

Saragat si schiera con Carli. Solo a distanza di anni, nel 1977, nell’intervista ad Alberto Ronchey La Malfa sosterrà di avere sottovalutato la questione e che forse avrebbe meritato una crisi di governo.( Buferale,  Studi Storici, 2014).  Per Carli si trattava della soluzione meno traumatica, avendo limitato i danni rispetto agli ingenti indennizzi. Si trattava di 1.500 miliardi di obbligazioni. Nello scontro si inseriscono i giornali con la motivazione che l’indennizzo favorisce le grandi società e penalizza i piccoli azionisti che erano 500 mila.  Ballavano 130 miliardi di profitti!. Nelle considerazioni finali sull’anno 1962,  Guido Carli motiverà l’azione svolta dalla Banca d’Italia. Dopo avere evidenziato il fenomeno della esportazione di capitali, aggravatosi nel 1963, con effetti sulla bilancia dei pagamenti, con un disavanzo di 152 miliardi rispetto all’avanzo di 41 miliardi del 1961. Ad esso si era unito il forte passivo delle partite correnti. La contrazione dell’autofinanziamento e il  fenomeno dell’indebitamento delle imprese elettriche, oltre del settore chimico  verso le capigruppo non poteva non suscitare preoccupazione. In questi due settori si erano concentrati i due terzi dell’aumento dell’indebitamento delle principali società private.

 

L’attenzione al mercato dei capitali era preponderante con una soluzione che prevedeva effetti meno gravi di quelle che si sarebbero prodotte se si fosse proceduto alla liquidazione immediata degli indennizzi con titoli obbligazionari. Tutto era ispirato a non perdere il controllo del mercato, senza alternarne l’equilibrio, con una eventuale mobilizzazione  degli indennizzi entro limiti compatibili. La facoltà concessa all’Enel di effettuare  emissioni obbligazionarie accettando azioni elettriche poneva gli azionisti in grado di convertire azioni i obbligazioni, ma al tempo stesso alle Autorità monetarie di regolarne l’offerta.

 

Fanfani vedeva nella nazionalizzazione del settore elettrico un punto delle riforme che lo avevano visto protagonista,  in continuità con quelle già realizzate nella fase degasperiana: dalla riforma agraria al piano casa,  fino alla svolta delle partecipazioni statali, in linea dunque con i principi della economia sociale di mercato.

Lo storico Fanfani, oltre che il politico Fanfani, allievo di Jacopo Mazzei, confutò a Max Weber la esaltazione del capitalismo calvinista, guardava al capitalismo corretto e pone lo Stato come centro di ordine e di riscatto per una economia che non può trovare equilibrio affidandosi soltanto al libero arbitrio dei singoli operatori.

 

Aldo Moro guardava all”orizzonte politico per spezzare il Fronte dei comunisti e dei socialisti portando questi ultimi nell’area di governo. Ne aveva lungamente parlato nella relazione al Congresso di Napoli di fine gennaio 1962. La nazionalizzazione dell’energia elettrica era in fondo il prezzo da pagare all’alleanza organica con i socialisti di Nenni, pur in un quadro di rispetto dei vincoli costituzionali e delle leggi di mercato. Se ne fa carico ripetutamente di muovere il partito della Dc tutto, salvaguardarne l’unità. Ne parla il 18 giugno alla Direzione Centrale allargata ai gruppi parlamentari di Camera e Senato, dedicata a valutare l’iniziativa del Governo sulla nazionalizzazione presenti anche Ferrari Aggradi, responsabile economico e Pasquale Saraceno.

Si trattava di una iniziativa governativa pienamente rispondente alle intuizuioni originarie del Partito e alla sua visione di politica economica e sociale. Viene ribadito che questa scelta non significa sfiducia verso l’iniziativa privata, ma renderla possibile entro confini ben delimitati e non estensibili ad altri settori. In quella sede vengono dettate le linee guida da seguire per l’approvazione del provvedimento con la giusta tutela dei risparmiatori attraverso gli indennizzi, l’autonomia globale dell’Ente, l’opportuno coordinamento con le aziende municipalizzate  e regionalizzate, la salvaguardia dei legittimi interessi degli autoproduttori,  il pieno riconoscimento dei diritti acquisiti dal personale delle aziende coinvolte.

Moro sa bene la delicatezza della questione e si preoccupa di fare una dichiarazione al telegiornale il 20 giugno 1962 per ribadire il valore della decisione nel quadro dell’articolo 43 della Costituzione sulle materie riservate come le fonti di energia su cui sussista un preminente interesse pubblico che la DC rivendica di avere determinato a formulare rispondente ai valori della dottrrina sociale cristiana.

Al tempo stesso ribadisce che il programma politico della DC è contro ogni livellamento collettivistico della vita economica e sociale. Quindi sgombra ogni residua ombra affermando che la DC “non ritiene che altri settori della vita economica e sociale debbano soggiacere ad una restrizione che per noi ha carattere sussidiario e singolare”. Dunque quella nazionalizzazione sarà unica e non ripetibile. Si volevano solo combattere gli squilibri di settore e di zona, per rendere più concreta la libertà umana.

Sarà peró il Consiglio Nazionale del 3, 4, 5 luglio del 1962 la sede dove Aldo Moro affronta con compiutezza la riforma che si inquadra nella nuova alleanza politica della DC con i Socialisti. La DC paga un prezzo alle elezioni  amministrative  di giugno. Si sforza di chiarire il vero volto della DC rispetto ad obiettivi di libertà e di sviluppo democratico piuttosto che di un partito classista o di sinistra, o le accuse di debolezza verso il PCI.

Rivendica l’azione riformatrice del Governo Fanfani con il Piano per la Sardegna, il piano per le ferrovie, il piano per i fiumi, la attuazione del Piano Verde in agricoltura, e quello per le Autostrade, nonchè l’ingente sforzo finanziario per lo sviluppo della scuola italiana. Nel frattempo si portava a compimento la istituzione della Regione a Statuto Speciale del Friuli- Venezia Giulia.

Ma Moro guardava lontano e riguardo alla politica della energia ribadiva tre  obiettivi di fondo: come fosse necessario assicurare la copertura di ogni possibile fabbisogno; condizioni uniformi a tutte le categorie di utenza in conformità alla esigenza di progresso civile e di sviluppo economico; la riduzione dei costi.

Era una atteggiamento prudente, ma libero da condizionamenti.  Il provvedimento doveva rispettare due condizioni: una nazionalizzazione che non creasse problemi di squilibrio nel mercato finanziario; una nazionalizzazione conforme a principi di giustizia e libertà. Dunque pieno controllo delle autorità monetarie delle misure adottate. Conclude ribadendo  di “impiegare coraggio, iniziativa, fiducia, prudenza, e la fermezza che abbiamo cercato di usare”.

Tutto ciò avviene dopo la elezione del Presidente della Repubblica Antonio Segni, un passaggio parlamentare in cui Moro sottolinea come “il Partito comunista intendesse battere e umiliare la DC, interferendo nelle sue scelte e  cercando di piegarle secondo la sua influenza. Ed è importante che la DC abbia reagito efficacemente e con risuluta fermezza, a questo tentativo di condizionarla e di mortificarla.” Prosegue la polemica con Malagodi rispetto alla possibilità di altre nazionalizzazioni e alle falsità che venivano diffuse sulla nazionalizzazione degli autotrasporti. Voteranno a favore della Mozione presentata da Salizzoni, Scaglia, Forlani, Zaccagnini, Gava in consiglio nazionale 76 si e 19 no tra cui Scelba, Scalfaro,Restivo, Lucifredi, Elkan, Martinelli, Gonella ed altri.

Il 10, 11, 12 e 13 luglio si riunisce il Gruppo parlamentare della Camera. Pella invia un telegramma di dissenso sulla nazionalizzazione. Il ministro dell’Industria Emilio  Colombo nel su intervento ribadisce come il pensiero sociale cristiano e la tradizione democratica cristiana contemplino la possibilità di nazionalizzazione dei settori produttivi ai fini di pubblica utilità, ma se giustificata per il servizio pubblico, pone anche il limite alla adozione di altre nazionalizzazioni. Piccoli presenterà un odg della maggioranza su cui voteranno contro sia Pella sia Tambroni, ma la polemica non era piu soltanto sull’Enel, ma sulle aperture a sinistra.

 

Fanfani e Moro, da posizioni e ruoli diversi si muovono all’unisono

Entrambi rivendicano la scelta operata evitando che possa passare come scelta subita. Il successo di Fanfani e di Moro è stato quella di avere portato il governo e il Partito in unità ad una riforma che non può appartenere  solo a  leader illuminati ma a tutta  una classe dirigente che ne  condividesse  le scelte operate.

Per Riccardo Lombardi la nazionalizzazione era il successo di un lungo percorso dalle prime esperienze universitarie alla guida poi della Societa Elettrica Siciliana, poi da parlamentare con  iniziative congiunte con Ugo la Malfa sulle intese industriali e commerciali ( atto Camera 248 del 1958) poi la proposta di legge come primo firmatario, sottoscritta con Nenni, Pertini, Basso, Pierraccini, Ferri, Luzzatto, AC 269 del 20 settembre 1958,sulla nazionalizzazione della industria elettrica. Ma sarà Fanfani di concerto con tutto il governo a presentare il disegno di legge A.C. 3906 il 26 giugno del 1962 che istituiva l’ Enel  e trasferire ad esso le otto  imprese esercenti le industrie elettriche.

 

Lombardi finirà per accentuare l’aspetto rivoluzionario della riforma.

Mentre La Malfa era ispirato a un riformismo moderato, la sinistra socialista di Riccardo Lombardi insieme ad Antonio Giolitti “cercava di mantenere un dialogo se non un collegamento con il PCI, maggiore forza di opposizione”. Il PSI doveva avviare una politica di riforme strutturali capaci di dislocare il potere economico dai tradizionali centri di decisione (grandi industrie, percettori di rendite urbane immobiliari)  alle istituzioni rappresentative cioè allo Stato.  Le riforme erano concepite in un rapporto di competizione intesa con il PCI come segno di un mutamento radicale nella gestione della politica economica, il cosiddetto “ideologismo dimostrativo” teorizzato da Luciano Cafagna nel 1981.

 

Quella riforma del 1962 fu un passaggio fondamentale per l’alleanza  tra DC e PSI del primo centrosinistra che trova in Lombardi il suo culmine e anche la  sua fine,  perchè poi passerá alla opposizione interna di Nenni e De Martino.  Seguiranno in quella stagione riformista infatti altre riforme sulla scuola, sulla università. La politica di piano verrá messa in discussione dai rallentamenti della crescita economica, dalle tensioni sociali. Nuovi protagonisti politici si affacceranno sulla scena. Verrá il Sessantotto e verranno gli shock petroliferi che imporranno la ristrutturazione dell’apparato industriale. Resteranno le debolezze del Paese in campo energetico che potranno essere superate solo con il coraggio della politica.

 

Furono fatti errori?

Certamente sul piano tecnico e sulle relative aspettative. La mediazione non impedì di aprire una fase nuova nel rapporto tra cattolici e socialisti che verranno spinti sempre più verso la via dell’autonomia e dopo la solidarietà nazionale una ripresa di rapporti che negli anni Ottanta e primi anni Novanta raggiungeranno i momenti più alti con i governi Craxi, Andreotti e Amato.

 

Bibliografia essenziale

  • Aldo Moro scritti e discorsi a cura di G. Rossini, edizioni Cinque Lune, 1986

  • Piero Roggi, Amintore Fanfani, imprenditore della politica,  Firenze, Regione Toscana, 2011

  • Atti e Documenti della Democrazia Cristiana  1943 – 1967 a cura di Andrea Damilano edizioni Cinque Lune

  • L’accordo politico programmatico per il governo di centro-sinistra tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialista Democratico italiano, Partito Repubblicano Italiano  Italiano, Roma, 1963 Arti Grafiche Italiane

  • Economia Italiana Storia Economia e Società in Italia 1947 – 1997 Rivista quadrimestrale del Banco di Roma nn 1 e 2, 1997

  • Luca Buferale, Riccardo Lombardi e la nazionalizzazione dell’energia elettrica in Studi Storici LV n. 3 luglio, settembre 2014

  • Carmine Pinto il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964 Rubbettino, Cosenza 2008

  • Banca d’Italia, Relazione annuale 1962

Maurizio Eufemi


2020 l'anno più lungo

Piccole luci nella notte del Covid


Convegno organizzato su iniziativa dell’Associazione ex Parlamentari della Repubblica martedì 21 febbraio 2023 nella Sala Capitolare

Palazzo Minerva - Biblioteca del Senato della Repubblica 

 

 

Presentazione

Sen. Maurizio Eufemi

Introduzione

On. Giuseppe Gargani

Presidente Associazione ex Parlamentari della Repubblica

Relazione

On. Hubert Corsi

Presidente Comitato CRI di Grosseto

Interventi

Avv. Rosario Valastro

Presidente Nazionale CRI ff

Dr. Pasquale Morano
Vicesegretario generale e Direttore  tecnico  CRI

Conclusioni

On. Luciano Ciocchetti Vice Presidente Commissione affari sociali Camera dei Deputati

 

 

Intervento Sen. Maurizio Eufemi

Abbiamo fortemente voluto ricordare questo incontro in un giorno particolare e nella sede istituzionale del Senato,  che ringraziamo, sede della biblioteca dedicata a Giovanni Spadolini. In questa sala capitolare così ricca di storia che ci riporta all'architetto Guidetto Guidetto di Firenze Allievo di Michelangelo che ha realizzato il Chiostro della Basilica in cui c'è la tomba di Santa Caterina da Siena. 

Quale luogo migliore - dove trovarono rifugio le monache basiliane fuggite dall'Oriente per le persecuzioni mussulmane -  e  presentare questo libro sul Covid e sulle storie di generosità e solidarietà raccolte nell'anno buio. 

 

La giornata coincide con un anniversario quello del primo caso di Covid del 21 febbraio 2020. Sappiamo bene che è stata istituita la giornata del prossimo 18 marzo per le vittime del Covid.  È passato un lungo triennio fatto di sperimentazioni, lock down restrizioni nei movimenti e nelle libertà. Soprattutto i giovani hanno affrontato un mondo nuovo. Le nostre vite sono cambiate. Abbiamo però riscoperto nuove solidarietà anche familiari o di vicinanza per i grandi centri. Abbiamo dovuto fare i conti con un nemico invisibile. 

Con il primo caso del 2020 abbiamo scoperto forza e debolezze del nostro sistema. 

La mancanza di un piano pandemico, con l'assenza di scorte di presidi sanitari, di materiali, dalle mascherine ai respiratori, ma non è di quello che dobbiamo parlare oggi. Ma della straordinaria forza del volontariato, della CRI  in prima linea con straordinari esempi di generosità verso tutti e i più deboli.  La nostra associazione ex parlamentari fece una donazione significativa agli operatori sanitari impegnati in prima linea nella battaglia, così come abbiamo visto il grande numero delle donazioni di aziende, fondazioni e cittadini verso la CRI. 

"2020 l’anno più lungo”, piccole luci nella notte del covid,  è il libro curato dai volontari del   comitato   di Grosseto della Croce Rossa Italiana per ricordare l’impatto del virus Covid 19, poi trasformato in Sars-Cov-2 che con il salto di specie aveva cambiato cavallo aggredendo la specie umana con una spaventosa capacità di replicarsi, di diffondersi e uccidere con conseguenze catastrofiche. 

Ai rischi mortali si univa la paura per il futuro, per gli effetti della crisi economica e sociale, per l’inadeguatezza dei sistemi sanitari ad affrontare le insidie del “nemico” invisibile. 

Il libro offre uno spaccato di cronaca lunga un anno con fatti, storie di generosità, itinerari di soccorsi di emergenza, l’incontro con le solitudini, i bisogni, le sofferenze, i lutti, i dolori. 

È un cammino di solidarietà di tante persone comuni che trovano il tempo nei ritmi del quotidiano per dedicarsi agli altri, al prossimo, vincendo la paura. 
 

Nulla è più stupefacente della mano sconosciuta e inattesa che ti aiuta a rialzarti, della parola e del sorriso che non ti fa sentire solo” scrive nella prefazione Hubert Corsi, presidente della CRI di Grosseto, che, dopo aver servito le Istituzioni, prima come consigliere comunale di Grosseto, poi come sindaco di Monte Argentario, poi come deputato per tre legislature, dal 1995 guida la Croce Rossa di Grosseto portando con generosità nel volontariato tutta la sua esperienza. 

Lo vogliamo ringraziare per quanto ha fatto e fa perché Hubert Corsi è lo straordinario esempio delle capacità delle esperienze di un ex parlamentare che dà tutto se stesso nel volontariato istituzionale, come mission di vita,  proprio in contrasto con la facile demagogia e il populismo qualunquista di questi anni. 

Il libro è arricchito di tanti racconti – vincendo le resistenze dei volontari a scrivere le loro esperienze – che hanno accompagnato i momenti della attività del comitato nell’anno “più lungo”. 

Una organizzazione di volontariato all’avanguardia con una articolazione territoriale in sedi decentrate affinché gli obiettivi possano essere raggiunti con la massima efficienza per utilizzare al meglio i doni di umanità. 

Le aree di intervento specialistiche sono la salute e la vita, la promozione dell’inclusione sociale, la preparazione delle comunità e le risposte a emergenze e disastri, la diffusione del diritto internazionale umanitario e la cooperazione con altri movimenti internazionali, la promozione dello sviluppo dei giovani e una cultura di cittadinanza attiva, la prevenzione delle vulnerabilità delle comunità. 


Sono i grandi personaggi che gettano il seme dell'amore. 

Una grande rete che merita di essere ricordata con la parole di Madre Teresa di Calcutta, ora Santa, pronunciate a Porto Santo Stefano nel maggio del 1989: “il frutto dell’amore è la solidarietà, il frutto della solidarietà è la pace”.

 

Consentitemi di aggiungere una questione che mi sta a cuore e a volte in controtendenza rispetto ai poteri forti.  Mi riferisco al welfare di comunità. Sappiamo che il nostro Paese è disuguale nelle infrastrutture, nei servizi, nella scuola nella sanità nella assistenza. Dobbiamo rimuoverete queste differenze. 

Nel bilancio sociale e nelle rappresentazioni grafiche ci sono macchie rosse come indice di concentrazione e macchie bianche segno di minore presenza fisica e umana. 

Altro che federalismo differenziato quindi che sfocia nella finanza anarchica come disse Sturzo cento anni fa a Napoli. 

Vi do solo alcuni dati 

Il totale delle erogazioni delle fondazioni bancarie nel 2021 è pari a 914 milioni di euro, in diminuzione del 3,8% rispetto allo scorso anno. 

Esaminando più dettagliatamente gli importi deliberati e gli interventi realizzati in ciascun settore, Arte, Attività e Beni culturali risulta assorbire la quota più alta delle risorse, 245,5 milioni di euro (il 27% delle erogazioni totali), per 6.897 interventi (il 36,6% sul totale). Seguono, con una distanza importante, Volontariato, Filantropia e Beneficenza a cui sono stati destinati 143,2 milioni di euro (il 15,7% sul totale), realizzando 2.475 interventi (pari al 13,1% del numero totale di iniziative) e Ricerca e Sviluppo

Questo sarebbe un primo riequilibrio. 

Completa i sette settori prioritari Salute pubblica con 48,1 milioni di euro (rappresentando il 5,3% sul totale) e 820 interventi (pari al 4,3 del numero complessivo

Al 31 dicembre 2021 le Fondazioni di origine bancaria vantano un patrimonio contabile di 40.247 milioni di euro, pari all’85% del passivo di bilancio 

In questo stesso arco temporale che va dal 2000 al 2021, nonostante le perduranti difficoltà economico-finanziarie che hanno investito il nostro Paese, le Fondazioni hanno erogato complessivamente 25,1 miliardi di euro e accantonato ulteriori risorse per l’attività erogativa futura pari a circa 4,8 miliardi di euro, per un totale di 29,9 miliardi di euro; 

La situazione genetica 

Per quanto riguarda il primo profilo, le 46 Fondazioni aventi sede nel Nord del Paese hanno complessivamente un patrimonio di quasi 30 miliardi di euro, pari al 74% del patrimonio complessivo. In particolare, nel Nord Ovest, dove risiedono 4 delle 17 Fondazioni di grande dimensione, il valore medio del patrimonio è più di due volte e mezzo la media generale (1.194 milioni di euro contro 468). Il Nord Est ha una presenza più diffusa di Fondazioni (30), ma un valore medio del patrimonio più contenuto della media (353 milioni di euro). Il Centro, in cui sono presenti 30 Fondazioni, ha valori patrimoniali medi ancora più contenuti, con 285 milioni di euro.

Il Sud e le Isole pesano meno nella distribuzione territoriale (il patrimonio delle Fondazioni che si trova in questo cluster rappresenta solo il 5% del sistema), contando 10 Fondazioni che, con circa 202 milioni di euro, si pone al di sotto della metà del dato generale.

La forte disomogeneità territoriale deriva dalla distribuzione delle originarie Casse di Risparmio da cui sono derivate le Fondazioni, molto diffuse nel Centro Nord del Paese, solo in parte compensata dalla presenza degli ex istituti di credito di diritto pubblico (Banco di Napoli, Banco di Sardegna, Banco di Sicilia) e della Banca Nazionale delle Comunicazioni, meno numerose e di dimensioni patrimoniali inferiori. 

Questo sarebbe un secondo riequilibrio. 

Secondo i dati disponibili le donazioni covid sono state significative. Quasi la metà ( 31 milioni) dell'intero importo del contratto di servizio con il ministero della salute. Uno straordinario gesto di solidarietà. 

 

Possiamo procedere con i nostri lavori dando la parola a Hubert Corsi, poi al Presidente della CRI, qiundi a ll'On. Luciano Ciocchetti, Vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. Il  Presidente Gargani che ha fortemente voluto questo incontro in una sede così prestigiosa come la sala Capitolare del Senato che ringraziamo per la disponibilita,  dove venne anche Papa Ratzinger allora cardinale, svolgerà l'intervento conclusivo.  

È anche un modo per ricordare Gerardo Bianco che dieci anni fa volle un incontro sul tema la Carità interpella la politica

Voglio ringraziare gli ex parlamentari che sono intervenuti oggi Agazio Loiero e Luigi Meduri, Luigi Grillo, Nicodemo Oliviero, Paolo Affronti, Luisa Pozza Tasca, Francesca Scopelliti. 

Le attività di volontariato costituiscono una ricchezza della società. Trovano fondamento nella Costituzione, nell’articolo 2 laddove “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali 

E’ una missione complessa che deve misurarsi anche con le difficoltà del momento, le guerre regionali e locali, con i conflitti religiosi, con vasti movimenti migratori, con le turbolenze dei mercati. 

Il volontariato è oggi sempre più sperimentazione, innovazione, costruzione di spazi di convivenza, prevenzione e sostegno reale alle persone e alla comunità. Ha bisogno però di avere nella distinzione dei ruoli una politica educata e sensibile capace di interpretare le esigenze di adeguamento delle infrastrutture giuridiche agli investimenti sociali, rispettosa dell’autonomia funzionale.

La CRI svolge un ruolo insostituibile come ha dimostrato l'emergenza. Sta a noi indicare una rotta per potenziare il ruolo della CRI e non essere impreparati alle sfide e ai bisogni del domani e del XXI secolo. 

Il  Santo Padre nel 1979  ai giovani della Caritas disse “ converrà aprire ai giovani le prospettive di un volontariato della carità che allo spontaneismo dispersivo e provvisorio sostituisca la funzionalità e continuità di una organizzazione razionale del servizio, inteso come impegno volto a modificare le cause che stanno all’origine di tali bisogni. I volontari opportunamente formati saranno i naturali animatori di un processo di responsabilizzazione della comunità”

I volontari della CRI sono l'immagine della solidarietà' dell'Italia che resiste , che aiuta, che dona, che non chiede niente in cambio nemmeno un grazie. Rispettiamoli. Sono la parte migliore di noi. 

Hanno vinto la paura la grande paura di aiutare gli altri in ogni modo possibile e necessario. 

Sono stati eroici come ha detto il Presidente Hubert Corsi. 

Non entri per concorso. Non paghi una quota. 

Devono essere formati alla conoscenza e alle procedure salvavita. Indissi una divisa importante e  rispettata e devi essere alla altezza del compito. 

Il Covid 19 è stata una grande prova per le infrastrutture sanitarie e per il volontariato. 

Dobbiamo fare tesoro di quella lezione.  Sappiamo tutti la sofferenza della prima linea dei pronto soccorso e le  criticità da rimuovere. 

Sarebbe incomprensibile se il coraggio del volontariato di prossimità del primo segmento della emergenza scontasse le difficoltà del segmento successivo, quello delle prime cure. C'è bisogno che tutta la macchina organizzativa funzioni come un orologio  svizzero. 

Rafforziamo gli investimenti in società civile in tutte le sue articolazioni di cui la CRI è un pilastro. ! 

 

 

   

 

la videoregistrazione del Convegno si trova al seguente indirizzo:

https://www.mab.to/t/dwVXNWG1FvV/eu1

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Gerardo Bianco, il bel gesto di Mattarella, ma una commemorazione parziale.

È mancato il Bianco della Balena Bianca

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine" del 20 Febbraio 2023

La presenza del Capo dello Stato alla cerimonia in ricordo di Gerardo Bianco è stata un bellissimo gesto e un significativo riconoscimento peraltro accompagnato da una larghissima partecipazione di amici. Il cerimoniale ha le sue regole, alle quali è difficile derogare e la rigidità comprime tempi e slanci emotivi. È stato tracciato un bel profilo di Bianco uomo di cultura, ma poco lumeggiato il Bianco politico quasi che la storia sia stata solo quella postdemocristiana.

 Ecco, è mancato il Bianco della Balena Bianca. Del resto era prevedibile una visione parziale dalla impostazione dei relatori. Dunque non abbiamo trovato analisi penetranti sulla azione di Bianco dentro la Dc con le sue grandi battaglie, con vittorie e con sconfitte.

 Bianco è quello che intervenne per la commemorazione di Bartolo Ciccardini all’Istituto Sturzo indossando per l’occasione la cravatta con la “balena bianca” donatagli da Bartolo o quando alla commemorazione sempre di Bartolo volle lo storico Francesco Malgeri a Cerreto d’Esi insieme a Francesco Merloni, suo coetaneo, con il quale Bartolo aveva combattuto per la libertà nella vallesina durante la occupazione nazista. Legava momenti del ricordo sempre a pagine di storia.

Quante riunioni ha convocato da capogruppo in quella sala in cui è stato ricordato? Tante; non erano solo assemblee dei deputati anche congiunte con i senatori ma anche momenti di elaborazione culturale con giornate di studio o seminari di approfondimenti che dovevano trovare nella sede istituzionale il suo significato più forte!

Li furono gettate nel novembre 1980 le basi, alla presenza della presidente Nilde Jotti, della prima riforma regolamentare dopo quella Andreotti-Ingrao del 1971, della programmazione dei lavori parlamentari e il rafforzamento dei poteri presidenziali per garantire la funzionalità dell’Istituto. Il tramonto della centralità parlamentare imponeva di per se l’urgenza di ricostruire e rafforzare la funzione.

Lì invitó il grande premio Nobel per l’economia, l’eclettico postKeynesiano Paul Samuelson – autore del manuale di economia più diffuso nel mondo – a dare indicazioni sulla sicurezza sociale nei paesi industrializzati insieme all’illustre demografo francese Alfred Sauvy che nel 1982 anticipò per l’Italia il divorzio, non quello tra moglie e marito, ma tra la società e la vita! Come è purtroppo avvenuto e come dicono i numeri demografici.

La collaborazione con Nilde Iotti poi sarà più intensa quando da vicepresidente della Camera sarà chiamato a gestire il difficile compito di situazioni di Aula nel rispetto delle regole parlamentari.

Nell’Auletta volle affrontare i problemi delle grandi aree del mondo, con Prodi e Monti non ancora assunti a cariche istituzionali. Avvertiva l’esigenza di una larga mobilitazione di energie e capacità intellettuali in grado di tracciare nuove linee, formulare più aggiornate teorie che potessero evitare di giungere alla stagnazione politica e culturale.

E come dimenticare il dibattito che sul fronte interno alla Dc volle per aggiornare le idee del grande convegno economico di Perugia del 72 che trovò poi conferma e mobilitazione con l’avvento della Segreteria De Mita. L’azione da parlamentare europeo verso i Paesi dell’area mediterranea erano la continuazione delle sue iniziative con il sostegno di Andreotti, in favore dell’allargamento della Comunità europea con Grecia Spagna e Portogallo nonostante le resistenze delle organizzazioni agricole che vedevano pericoli dalla competizione sui prodotti mediterranei.

Affrontò nel 1980 i problemi delle Partecipazioni statali e degli oneri impropri che sarebbero esplosi alla fine del decennio.

Tutte vicende che hanno visto anche come protagonisti molti testimoni del tempo presenti ieri come Calogero Mannino, Giuseppe Gargani, Mario Segni Mario Tassone, Giorgio Meduri, Pino Pisicchio, Alessandro Forlani e tanti altri.

Completamente marginalizzata la fase della sua guida della Associazione ex parlamentari per oltre un decennio, affrontando con coraggio e determinazione, a volte controcorrente, le spinte demagogiche, populiste, qualunquiste che avevano fatto presa nel renzismo e nel grillismo. Privilegiò la buona politica con i temi in agenda dalla legge elettorale alla riforma costituzionale, dal federalismo al meridionalismo.

Fece iniziative e incontri su territorio da Napoli a Milano da Castrocaro a Firenze senza dimenticare le celebrazioni dei 150 anni dell’unità di Italia a Torino con una splendida relazione del liberale Valerio Zanone alla presenza di Fassino appena eletto sindaco di Torino. Così come volle essere presente con specifiche iniziative all’Expo di Milano.

Bianco era pluralista nei rapporti politici, mai settario. Ieri è mancata completamente la “presenza” non fisica, ma culturale della area liberal-democratica nella quale affondava le sue radici.

Credo che l’associazione ex parlamentari dovrà prevedere una giornata di studio dedicata al suo presidente emerito dando voce alle persone che possano meglio integrare la conoscenza della sua figura e personalità con analisi penetranti di vicende storiche che non possono essere parziali.

Completamente omessa la fase storica degli anni Ottanta rispetto alle scelte sul Preambolo e sul Pentapartito, compresa la visione sui problemi della Giustizia e non furono questioni marginali.

L’europeismo di Bianco affonda nella storia della Dc, da De Gasperi a Moro con tappe fondamentali nella vicenda SME del 1978 che segnò una rottura politica con la sinistra; poi nella elaborazione del programma elettorale del 1992 con la segreteria Forlani. L’unione Monetaria Europea è conseguenza di quelle scelte fondamentali.

Per non parlare poi della vicenda Ciampi che non parte nel 1996 ma nel 1993 con molte pagine non raccontate come quelle sulle privatizzazioni delle telecomunicazioni, in particolare; devono essere scritte dagli storici senza pregiudizi nel segno del pluralismo e delle libertà alle quali Gerardo Bianco era profondamente ancorato.

 Maurizio Eufemi

Tangentopoli e la fine traumatica della legislatura nel 1994.

Riflessioni sul libro di Enzo Carra. L'ultima Repubblica e i dialoghi con Gherardo Colombo

articolo di Maurizio Eufemi  tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 13 febbraio 2023

 

Le anticipazioni del libro di Enzo Carra, L'ultima Repubblica hanno evidenziato i dialoghi con Gherardo Colombo. Quasi un confronto senza rancora sulle idee di diversa formazionetra il fine giornalista e il letterato, intellettuale magistrato ex membro del Pool Mani Pulite, seppure a distanza di un tempo lontano, ma non cancellato, della stagione della politica messa sotto scacco dalla magistratura, con una profonda rottura dell'equilibriodei poteri costituzionali con la complicità dei media che hanno alimentato il furore giustizialista. Enzo Carra divenne la tragica vittima di quella "ultima Repubblica".

 

Sono stato colpito, nelle anticipazioni e poi, nella lettura delle pagine conclusive, dei riferimenti ad un nome, quello di Zangrandi.

 

Ma chi è Ruggero Zangrandi? Un nome certo sconosciuto ai giovani e ai meno giovani ma non ai lettori più attenti di vicende Democristiane. Era un comunista, intellettuale, scrittore, storico, fondatore del Partito Socialista Rivoluzionario poi confluito nel PCI. L'ultimo sua opera postuma fu l'Italia tradita del 1971.

 

Nel 1952 ci fu una vivace polemica tra Franco Maria Malfatti e Ruggero Zangrandi sul ruolo e l'autonomia della cultura e il comunismo.

 

Lo fecero con un aspro confronto dialettico, attraverso scambi di lettere pubblicate in un triangolo che vedeva la rivista San Marco di Nicola Pistelli, Rinascita e Per l'Azione del movimento giovanile Dc. Di ciò troviamo riscontri sia all'Istituto Sturzo sia negli scritti di Franco Malfatti.

 

Per Malfatti la cultura non poteva essere ridotta a propaganda. Per Zangrandi la cultura era il modo per giudicare le ingiustizie del mondo. Noi comunisti - sosteneva Zangrandi - neghiamo l'autonomia della cultura e sosteniamo che anche la cultura è legata alla società in cui nasce e si sviluppa e trasforma connessa e serve ad essa.

 

Negava dunque l'autonomia fino al punto che se appare autonoma in realtà è influenzata dalla ideologia e dai concreti interessi della classe dominante che cosi come organizza e dirige la sua società, organizza e amministra la cultura che le è propria; sosteniamo che gli intellettuali i quali si proclamano indipendenti dalla politica e negano di far politica, fanno in realtà la politica della classe che li esprime e li conserva.


Malfatti replica con l'autonomia della cultura per rispettare il principio secondo il quale non la politica, ma la cultura, cioè la filosofia, la morale, il diritto la scienza, l'arte sono le componenti del progresso della società civile. Per Malfatti riducendo tutta la realtà alla politica si uccide la possibilità di sviluppo della realtà, la possibilità di nuovo, il pensiero, e con ciò la stessa azione.

 

Per Malfatti la soluzione comunista era illusoria. Perché fin quando sono comunisti hanno poco da discutere con noi perché credono di avere la soluzione in tasca. E se vogliono discutere con noi e tra noi è solo per collocare la loro soluzione.

 

Come si può vedere c'è uno scontro ideologico che persevera tra quanti si ritengono i detentori della verità e interpreti dei destini del mondo.

 

Gherardo Colombo nel suo dialogo conclude con un dubbio assillante relativi ai meriti della Prima Repubblica.

Lo scambio di opinioni prosegue sul momento iniziale di vicende oscure tra chi lo fà risalire al 1969 e chi allo sbarco degli USA in Sicilia.

 

Forse un contributo potrebbero darlo quanti hanno propugnato le doppie verità il doppio Stato e tutte le teorie che in questo mezzo secolo hanno intossicato la vita del nostro Paese. Dunque Carra ha spostato il confronto sul terreno letterario e culturale per ricordare quelle vicende che lo hanno tragicamente ferito, rialzandosi però con coraggio e con la fede cristiana come è stato ricordato nella cerimonia funebre.

 

Poi però non ho resistito e ho voluto leggere il libro, grazie a Kindle, nella sua interessa, per meglio capire il senso dei ragionamenti di Carra e intrecciandoli con quello del libro di  Andrea Spiri, The End 1992-1994, uno storico che ha lavorato sui documenti desecretati del Dipartimento di Stato USA vengono fuori muove Verità con le note di SEMBLER console USA che prova la collaborazione con i magistrati della procura di Milano.

Sono carte certamente idonee a definire una linea di lettura storiografica diversa da quella fin qui narrata.

Sul piano più strettamente politico e relativamente alle vicende Dc due questioni meritano grande attenzione: l'incontro di Ciampi con Clinton, in settembre, quando viene anticipato che si voterà in primavera! Quindi la fine della legislatura, pur in presenza di una maggioranza, era tutto già deciso e da chi? E il Parlamento? Le autoconvocazioni all'alba di Marco Pannella all'Auletta dei gruppi parlamentari per impedire lo scioglimento anticipato della legislatura in presenza di una maggioranza parlamentare? E  il parlamentarista presidente Scalfaro?

 

Poi le visite di Martinazzoli con alcuni esponenti Dc all'ambasciata USA di Via Veneto. Li viene anticipata la divisione e la successiva cancellazione della Dc di cui la legge elettorale sarà lo strumento.

 

Questi libri non alimentano dubbi, ma offrono certezze.

 

Maurizio Eufemi

100 anni fa uno storico discorso di Luigi Sturzo sul Mezzogiorno.

Un’analisi di mali ed errori che hanno creato la “questione meridionale”

 

Rileggerlo oggi acquista un significato particolare per la profondità del pensiero, la penetrante analisi storica, economica e sociale. Basti pensare alla riforma agraria, alle bonifiche, alla questione meridionale come questione nazionale, all'intervento straordinario per il Mezzogiorno, all'apertura agli scambi piuttosto che ai protezionismi, all'energia come fattore di sviluppo unitario. Il 2023 sarà un anno importante per il movimento cattolico ricorrendo l'ottantesimo anniversario della fondazione della Dc

 

articolo di  Maurizio Eufemi tratto dal giornale online  "beemagazine.it" del 13 Gennaio 2021

"Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, percorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nella audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni."

Luigi Sturzo - 2 maggio 1921 - Augusteo di Roma.

 

Il 2023 sarà un anno importante per il movimento cattolico ricorrendo l’ottantesimo anniversario della fondazione della Dc.

Il giorno 18 è altrettanto importante e ricorrente perché ci riporta al 18 gennaio 1919 con l’appello al Paese del segretario politico del Partito Popolare don Luigi Sturzo e della Commissione Provvisoria “a tutti gli uomini Liberi e Forti…”

 

Ma tra i corsi e ricorsi storici, il prossimo 18 gennaio sarà il centenario del discorso di Luigi Sturzo, pronunciato proprio il 18 gennaio del 1923 a Napoli, nella Galleria Principe di Piemonte, nel quarto anniversario della fondazione del partito su “Il Mezzogiorno e la politica italiana”.

Rileggerlo oggi acquista un significato particolare per la profondità del pensiero, la penetrante analisi storica, economica e sociale e le illuminanti indicazioni di un pensiero filosofico forte che troveranno in parte realizzazione nelle idee ricostruttive, nel programma degasperiano e nell’azione dei governi centristi. Basti pensare alla riforma agraria, alle bonifiche, alla questione meridionale come questione nazionale, all’intervento straordinario per il Mezzogiorno, all’apertura agli scambi piuttosto che ai protezionismi, all’energia come fattore di sviluppo unitario. Per non parlare della finanza locale coordinata piuttosto che la preoccupante degenerazione in una “finanza anarchica!”.

Questo discorso si tenne dopo quello, affollatissimo, di Torino del 20 dicembre del 1922, due mesi dopo la marcia su Roma e tre giorni dopo la soppressione, avvenuta a Torino di circa 20 operai antifascisti i cui corpi furono gettati nel Po.

Era la prima manifestazione del segretario del PPI dopo la partecipazione di due Ministri e tre sottosegretari al primo governo Mussolini cui Sturzo non aveva dato il suo consenso. “Nell’ora grigia del tormento politico come nelle vicende delle battaglie pubbliche, non si può nè si deve disertare il posto di combattimento che abbiamo scelto per convinzione di coscienza, non si può nè si deve rinunciare a quel complesso di postulati e di finalità che firmano la ragione ideale e programmatica del nostro Partito”.

 

Questo era il suo pensiero al riguardo. La collaborazione fu di breve durata.  Sturzo riuscì a sventare il processo di aggiramento di Mussolini verso i Cattolici che rischiava di assumere i caratteri dell’assorbimento. “Con il congresso di Torino i Popolari hanno alzato la bandiera dell’antifascismo e lo fecero con grande dignità e coraggio” disse Aldo Moro nel 1959 al Teatro Eliseo di Roma.

 

Questa puntualizzazione è necessaria per meglio comprendere il contesto storico.

Il discorso di Sturzo a Napoli assume una particolare importanza perché servì a reimpostare il problema del Mezzogiorno dopo che già a Bologna, nelle tavole programmatiche, era stato riaffermato il carattere “nazionale” della questione meridionale nella sua interezza, “una unità inscindibile, in un travaglio morale, politico ed economico, per risolvere la sua crisi e riprendere il suo cammino glorioso di civiltà e di progresso”.

Sturzo sottolinea i grandi errori compiuti, dal 1860 al 1915, verso la questione meridionale con un Sud che ha “mormorato, protestato, scritto libri e opuscoli” senza scendere sul terreno della lotta. Sottolinea il grave colpo al Mezzogiorno con le tariffe doganali del 1877 che sconvolse i mercati, dopo lo sforzo di produttività agricola determinato dal trattato con la Francia del 1863. Prevalse nei trattati doganali il contrasto tra economia agraria ed economia industriale, dunque un indirizzo protezionista industriale, nonostante qualche piccolo vantaggio per l’agricoltura come i trattati di commercio con Austria e Germania del 1891- 1892.

Sturzo pone il problema del Mediterraneo come zona naturale di commercio e di comunicazioni, come zona naturale di sviluppo, così come le erano state Trieste e Fiume per il bacino danubiano e Genova per le Alpi e come i periodi di floridezza coincisero con la politica mediterranea, con fenomeni e fatti politici.

Poi per Sturzo un ulteriore colpo all’economia del Mezzogiorno è stato dato dal sistema tributario con una irrazionalità dei tributi, con la riforma del catasto che penalizzò il Sud tanto che Sonnino propose poi la riduzione del 50 per cento della fondiaria erariale a favore del Sud.

Sturzo analizza come il sistema proporzionale e non progressivo dei tributi sui terreni abbia danneggiato l’agricoltura meridionale, perché meno ricca e perché i terreni, con gli investimenti, sono gravati da oneri ipotecari che non venivano detratti dal passivo, al contrario dei debiti dell’industria che godevano di questi vantaggi.

“Errori e danni” li definisce Sturzo con la storia dell’imposta e della sovraimposta, con il vecchio e nuovo catasto. Tutto ciò alimentato dalla campagna mediatica operata dai giornali del Nord per colpire di ricchezza mobile l’agricoltura agricola diretta.

Come terza causa di inferiorità Luigi Sturzo aggiunge la uniformità legislativa. Il processo dinamico della realtà economica e amministrativa che dovrebbe essere lasciato all’adattamento locale come è nel modello inglese o austriaco, anziché in quello centralistico francese, napoleonico. Per Sturzo, l’Italia doveva imitare il dinamismo legislativo inglese piuttosto che la forza statica dei regolamenti di impronta francese.

Sturzo richiama lo sboscamento pazzo del Mezzogiorno con la legge del 1877 che non distinse tra  le Alpi e le rupi del Mezzogiorno, con sussidi solo ai pascoli del Nord, con la legge sulle bonifiche principalmente fatta per gli abitanti e per le zone padane, quindi con profonde diversità sia tecniche sia economiche.

Tra gli errori indicati da Sturzo v’è stato il sistema delle tariffe dei trasporti ferroviari con una unicità di tariffe che nuoce e danneggia fino ad arrivare a un regime proibitivo.

Per l’Italia la legge uniforme è un errore sostanziale così come lo è la “legge speciale fatta con mentalità livellatrice e formalistica avulsa dalla realtà pulsante e viva di coloro che sentono e operano nelle regioni”.

Dunque, per Sturzo il Mezzogiorno può trasformarsi da regime economico passivo in attivo nella affermazione di una politica mediterranea e a condizione che si superino le tre barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione uniforme e livellatrice.

Poi Sturzo richiama l’importanza di dare al Mezzogiorno scuole professionali specializzate per fermare l’emigrazione e fare uomini preparati per affrontare la concorrenza.

Dunque, Sturzo a nome dei “Popolari, pochi, modesti, sinceri” vuole dire una parola di verità e di amore al Mezzogiorno. E il suo appello finale è oltre il suo stesso partito politico,  con i compiti propri che “non sono quelli di una associazione sportiva”, ma verso gli organizzatori nel campo del sociale e dell’Azione Cattolica, giovanile e femminile per rinsaldare i vincoli sociali fra  le varie classi sociali in nome delle virtù cristiane dopo che il massonismo anticlericale delle provincie aveva allontanato le classi urbane e professioniste dalla fede e dalla pratica cristiana, prima in nome della nazione, poi in nome della scienza, ed ha rotto così i rapporti morali tra le classi alte e il popolo.

Per Sturzo, dunque, la Redenzione comincia da noi. La parola è questa: “il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno”.  Questa visione non deve essere monopolio di partito, ma coscienza politica della nostra gente.

Rileggere quelle pagine oggi significa immergersi nella attualità dei problemi: dalla politica estera con il Mediterraneo e i Paesi rivieraschi, con la diversità delle culture e delle religioni,  a quelli della politica tributaria con il catasto e delle imposte, dalla politica industriale alla politica agricola, dalla articolazione dello Stato nei livelli di governo alle autonomie e dunque ai problemi d’oggi del regionalismo differenziato, dalla semplificazione legislativa alle leggi speciali.

Da queste pagine emerge la grandezza di Sturzo e del suo pensiero. Sono pagine che illustrano la storia del nostro Paese, di ciò che eravamo cento anni fa e di ciò che siamo oggi.

“Il discorso di Napoli è il culmine della esperienza meridionalistica di Sturzo” scrive Gabriele De Rosa, un meridionalismo che si distingue da quello di Salvemini di socialismo liberista e da quello di Gramsci che guarda all’alleanza tra proletariato urbano con i contadini. In Sturzo v’era ferma diffidenza verso la prospettiva industrialista.

Si trattava invece di “un meridionalismo che prende forza da una specie di coscienza autentica, immediata della condizione del Sud, da una ricognizione storico-sociale di un Mezzogiorno inserito in un’area economica e culturale di respiro Mediterraneo, dalla constatazione che il problema fondamentale era trasformare la terra e di realizzare una maggiore giustizia e democrazia nelle campagne”.

 

Maurizio Eufemi

 

 

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