...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato nella XIV^ e XV^ 
legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato nella XVa Legislatura

A proposito di Lucio Magri

23 ottobre 2013
lucio magriIntervento di Bartolo Ciccardini il 22 Ottobre all’Istituto Sturzo, tratto dal sito

http://bartolociccardini.net/2013/10/23/a-proposito-di-lucio-magri/1.

Il partito: primo amore della nostra generazione

Non so perchè Luciana mi abbia chiesto di parlare del libro che raccoglie alcuni scritti di Lucio. Ma una cosa è certa. La nostra fu una generazione che ebbe come tema della sua vita il “partito”, il “principe” gramsciano, lo strumento rivoluzionario per eccellenza, indaffarati a tempo pieno per costruirlo, per rinnovarlo, per distruggerlo, per amarlo, per rifiutarlo, in una esperienza totalizzante amara e dolcissima. In questa malattia seguimmo strade diverse e forse per questo si voleva da me un giudizio non casalingo, ma contrapposto, capace però di capire, di essere su quella lunghezza d’onda, di sentire sim-patia e cum-passione. E leggiamo questa storia come una storia d’amore, combattuto ed inevitabile, continuamente conquistato e sempre perduto.

2. Il ritorno del cattolicesimo politico e lo scontro-incontro con il comunismo

Il cattolicesimo, dopo la fine della persecuzione dei modernisti, esce dalla torre in cui si difendeva ed affronta il confronto, ma anche il dialogo, con la modernità. In Francia, in Belgio, in Germania c’è una forte ripresa della filosofia, della teologia, degli studi biblici, storici e sociali. Queste idee si incontrano con la cultura della crisi, sotto la impressione delle grandi catastrofi europee: le due guerre ed il male assoluto del nazismo e del totalitarismo.

Benedetto XV, con scandalo di tutta l’Europa, si pronuncia contro “l’inutile strage” ed è questa la prima scelta di rottura contro la piaga delle guerre civili europee. La seconda rottura è la scelta della democrazia, proprio nel momento in cui l’Europa è nelle mani di Hitler. Una generazione di cattolici si forma in questi anni ed il loro frutto si chiamerà “Comunità Europea”.

La cultura del cattolicesimo sociale non poteva non misurarsi con il problema posto dal comunismo, che si era affermato “in un solo paese” e “nel punto più basso”. Il contributo dei comunisti alla lotta antifascista poneva il comunismo nella condizione di proporsi in molti paesi e nello stesso “punto più alto” dell’Europa che per metà era già stata conquistata e che avrebbe potuto conquistare con le armi, come conquistò poi gran parte dell’Asia. Contrariamente al nazismo il comunismo era una filosofia, anzi la filosofia figlia ultima del pensiero storicista, considerata già esaurita da Benedetto Croce al principio del secolo, ma vivissima ed assisa sul carro dei vincitori alla fine della guerra.

Ed il Pci era innanzitutto la soluzione scientifica del problema posto dalla insufficienza del capitalismo, l’incarnazione del materialismo storico, frutto di teoria e di prassi, di strategia e di tattica.

L’incontro, il confronto, lo scontro, avrebbero avuto un significato speciale in Italia, dove aveva sede il centro della Chiesa cattolica e dove aveva messo le tende il Partito Comunista più forte del mondo occidentale.

3. L’intuizione di Gramsci

La singolarità di questa situazione storica era già presente in un giudizio di Gramsci sulla nascita del Partito Popolare. Gramsci, alla fine della prima guerra mondiale, dette un giudizio che apparve strano e che rimase ignorato per molto tempo: l’ingresso dei cattolici in politica con il Partito Popolare, significava, per Gramsci, il compimento dell’unità italiana ed il componimento della sua identità con l’inserimento di contadini che finora erano rimasti estranei al Risorgimento. Questo, secondo Gramsci, avrebbe portato alla secolarizzazione ed infine alla scomparsa della Chiesa cattolica, perchè quel movimento popolare non avrebbe potuto non inserirsi (non inverarsi, avrebbero detto i cattolici) nella costruzione della società nuova, frutto della rivoluzione  proletaria. Questa seconda parte appare oggi meno probabile, anche se certamente il Concilio, che ha profondamente mutato la Chiesa cattolica, potrebbe essere considerato qualcosa di simile nella prospettiva profetica della secolarizzazione e del dissolvimento prevista da Gramsci.

Inoltre, un armistizio fra cattolici e comunisti era di fatto sopravvenuto nella Resistenza e nel comune sentire dell’antifascismo.

4. Il primo compromesso storico

Alla Costituente poi l’antifascismo, questo comune sentire, permise un primo compromesso storico fra principi liberali, socialisti, democratici-cristiani e comunisti, che fu alla base di una buona Costituzione.  E’ significativo che Togliatti, nella sua dichiarazione di voto, sull’ordine del giorno organizzativo dei lavori, proposto da Dossetti, accettasse il concetto fondamentale di “persona umana”, come non contrastante alla concezione comunista della democrazia. Ed accettasse perfino l’idea di Dossetti che una definizione dello spazio legittimo della Chiesa cattolica fosse anche una garanzia ed un confine per gli spazi della laicità dello Stato. Dossetti sperò anche in una utilizzazione dei comunisti, seppur nel rispetto di principi diversi per giungere al rinnovamento radicale, in senso democratico, dello Stato in Italia, dopo aver convinto i cattolici a non considerare lo Stato come un nemico.

Ma la divisione del mondo in due blocchi, il mostrarsi duro e totalitario del dominio sovietico sulla parte dell’Europa conquistata e la dura reazione americana, raggelarono i fiori della primavera antifascista, denunciando il limite dell’antifascismo, che era capace di riunire contro qualcosa e non per qualcosa.

Non c’è dubbio che per realizzare questo proposito Dossetti partiva dalla possibilità di utilizzare il comunismo, come se si trattasse di una eresia cristiana. E su questo dovette subire alcune delusioni che lo portarono a ritenere impossibile senza i comunisti la riforma dello Stato democratico e quindi necessaria, prima di altre cosa, una trasformazione profonda del pensiero cattolico. Di qui il suo ritiro dalla politica, che non fu una fuga, ma piuttosto una rincorsa.

5. Comunisti perché cattolici

Ma vi era anche un altro gruppo di cattolici, che avevano una posizione minoritaria, ma che si ponevano, senza propositi egemonici, lo stesso problema, che, essi per primi, chiamarono “l’inveramento cristiano del comunismo”. Erano i cattolici comunisti che con questo titolo parteciparono alla Resistenza. Questo nome fu dettato da Monsignor De Luca, con la spiegazione che “cattolico” era un sostantivo e “comunista” un aggettivo. Monsignor De Luca, personaggio straordinario fu, tanti anni dopo, alla fine dei suoi giorni, quello che portò a Togliatti il messaggio di Giovanni XXIII, diretto e Krusciov: “Fatevi vivi!”.

Dopo la Liberazione si chiamarono “sinistra cristiana”. E quando si resero conto di non poter influire con la loro forza sul Pci, decisero di sciogliersi per portare il loro pensiero all’interno di quel partito che consideravano lo strumento scientifico esatto per costruire una nuova società umana, per cui era doveroso per un cattolico prendervi parte. Comunisti perché cattolici.

Il Pci, che a quei tempi era impassibile, non si accorse molto di loro, li trattò con proletaria ospitalità e per loro scrisse nel suo statuto il famoso articolo 2, che ammetteva l’adesione di membri di fede cattolica. Ho la maliziosa interpretazione che fossero preoccupati che questi cattolici provocassero qualche danno nei confronti del necessario rapporto con la DC. Quando alcuni di essi rinunciarono al disegno di “inverare” il comunismo dall’interno del partito, il Pci accolse la loro decisione con il duro malizioso trattamento che dedicavano ai transfughi, che però somigliava più ad un sospiro di sollievo che ad una scomunica. (Ma questo è un sospetto da democristiano).

Per una strana ragione, forse per quella lettura di Gramsci che allora era più praticata dai giovani cattolici che dai giovani comunisti, quel gruppo ebbe per un periodo necessariamente breve, una forte influenza sui giovani democratici-cristiani e sui giovani della Gioventù Cattolica.

Del Noce afferma che la novità anzi, addirittura l’unicità delle tesi di questo gruppo è che esso fu il primo a pronunciare nel campo della cultura cattolica la formula “dell’inveramento cristiano del marxismo”.

6. Il  mitico 1952

Il 1952 fu un anno straordinario. Dossetti, profeta della cultura della crisi, secondo la grammatica di Maritain lascia il piano della politica per  portarsi ad un piano più alto della riforma della pietas cristiana, ordinando con cura le sua eredità, come suo costume. Da un lato affidando a Rumor “Iniziativa Democratica”, la seconda generazione dossettiana che porterà a termine il ralliement degasperiano; dall’altro alimentando una zona di libero scambio, che raccoglierà il meglio della cultura della crisi. E’ infatti l’anno della uscita dei cattolici comunisti di Torino dal Pci, del riesame della sofferta questione che essi avevano chiamato “inveramento del comunismo”. E’ l’anno in cui si prepara “Terza Generazione”; in cui Guerzoni prende in mano “Per l’Azione”, rivista dal dolce titolo leninista; in cui “Lo studente d’Italia” viene affidato a Baduel e Fogu; in cui vengono chiamati a Roma Beppe Chiarante e Lucio Magri[1] .

I comunisti cattolici erano un movimento liceale, nato nel liceo Visconti di Roma e nel liceo Massimo d’Azeglio di Torino. Fu comunista perché antianarchico e modernista, ma, dice Del Noce “rispettò lo scrupolo della più rigorosa ortodossia nei riguardi del dogma cattolico”.

Nel 1952 il collettivo di lavoro torinese formato da Felice Balbo, Mario Motta, Giorgio Sebregondi, Alessandro Fe’ d’Ostiani, Ubaldo Scassellati, scende a Roma e si incontra con Dossetti e praticamente si trasferisce a casa sua. Forse si trasferirono a Roma per ricongiungersi con il gruppo romano, formato da Franco Rodano, sua moglie Marisa Cinciari, Antonio Tatò, Gabriele De Rosa, Adriano Ossicini, Luciano Barca. Quando Dossetti incontra il gruppo dei torinesi, scatta una sintonia. Il problema che essi si ponevano non era un’abiura del comunismo. Era piuttosto la constatazione dell’impossibilità di realizzare l’inveramento del Pci, come Dossetti ormai giudicava impossibile un inveramento della DC.

I due gruppi erano fatti per intendersi, per capirsi, per stimarsi, per incontrarsi in questo crocevia, ma avendo mete diverse[2].

7. Cosa significa l’inveramento del comunismo?

Lo dice Del Noce in una bella pagina, che sarebbe troppo lunga da rileggere qui, e che riassumo con parole povere.  Non si è cattolici comunisti, ma comunisti perché cattolici, non potendo non essere dalla parte dei poveri e degli sfruttati, ma proprio perchè il comunismo dava la chiave di lettura del mondo moderno. Così si accettava il materialismo storico come scienza della storia, facilmente separabile dal materialismo dialettico che loro consideravano sovrastruttura ideologica non essenziale. Da questa posizione Felice Balbo cercherà di dare una nuova interpretazione del comunismo, sostituendo al materialismo dialettico una teoria dello sviluppo dell’essere, non più fondata sul contrasto fra tesi ed antitesi di Hegel, ma fondata sulla filosofia dell’essere di San Tommaso.

E fu questa teoria la ragione della rottura con Rodano che poneva in primo piano un obiettivo politico, quello di un’intesa fra Partito Comunista e Chiesa Cattolica, senza mediazioni e senza invasioni di campo. Come si vede stiamo parlando di ben altre cose, ben diverse dal chiacchiericcio di oggi. Abbiamo frequentato questo crocevia affollato di gioventù, che non è mai stato uno spazio per trasmigrare. Ma un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del mondo nuovo. O come lo definiva Balbo: “Un buscar l’occidente per trovare l’oriente”. Tutto questo nodo filosofico, da me rozzamente riassunto, presupponeva una grande utopia: il dialogo cattolico comunista, il programma di inveramento cristiano del marxismo come fondamento della politica militante antifascista ed infine la certezza della necessaria evoluzione del comunismo italiano[3].

8. Il crocevia

Quello che io ho chiamato crocevia è uno snodo interessante del pensiero politico, una sorta di incontro, di percorsi diversi che non abbiamo il tempo di descrivere, ma appena di accennare.

C’è il “ritorno” a Roma di un collettivo di comunisti provenienti dalla sinistra cristiana, che cercano di collocare nel mondo cattolico la loro esigenza di rinnovamento della politica. Vorrebbero ricongiungersi con Franco Rodano, che è stato loro compagno di pensiero sulla questione cattolica, ma egli decide di restare nel Pci e sarà l’ispiratore di riviste come “Lo Spettatore Italiano” e “Dibattito politico”.

C’è Gabriele De Rosa che, come ci racconta in un suo prezioso librettino, ha maturato ad El Alamein la sua vocazione antifascista e democratica. De Rosa viene indirizzato sia da Monsignor De Luca, sia da Franco Rodano, ad andare a conoscere Luigi Sturzo. Intraprende così un viaggio molto lungo che lo porterà a dirigere, molti anni dopo, il Gruppo Senatoriale della DC (e questo Istituto). Ma nel frattempo dirige “Lo Spettatore Italiano” in cui scrivono fra gli altri Benedetto Croce, Vittorio De Caprariis ed Ettore Passerin d’Entrèves.

E c’è una generazione di giovani che cerca un superamento delle “parti” abbeverandosi a questa cultura, superamento che avverrà in forma diversa e con esiti non felici con il “Sessantotto” solo 20 anni dopo. Ed ancora, una buona parte del gruppo Einaudiano, con Saraceno, Mario Motta, Cesare Pavese e Natalia Ginzburg. Per non parlare poi di “Terza Generazione”.

Il giudizio su de Gasperi di Dossetti e di Rodano è simile. Ma Rodano pensa ad un rapporto del Pci con la Chiesa Cattolica, senza mediazione di partiti cristiani. E condanna con forza il pensiero di Dossetti: “Il tanto conclamato sinistrismo dei dossettiani non deve dunque trarre in inganno. Esso era, alla fin dei conti, un ammodernata forma integralista e ad altro non ha servito, né poteva servire che a misconoscere nella maniera più comprensiva, e a cercare di farci obliterare il reale significato storico e possibili contributi innovatori dei più grandi e decisivi partiti italiani”. (E da qui parte un ampio riconoscimento dei meriti della DC, di Luigi Sturzo e di De Gasperi).

Mentre invece la posizione di De Gasperi appare a Rodano “come quella più capace di collocarsi – entro i limiti per essa possibili – nella dimensione laica della società civile. In effetti accettando la democrazia liberale come forma suprema della dimensione politica (…) Sturzo e De Gasperi avevano appunto saputo ricondurre pienamente i cattolici nella continuità dello sviluppo concreto del loro Paese ed insomma nella storia reale”.

Beppe Chiarante nel suo libro ricorda il percorso dei giovani democratici cristiani ed il loro avvicinamento a De Gasperi che avvenne, non sotto l’influenza di Rodano, ma proprio per una indicazione di Dossetti. Non fu Rodano ad influenzare la linea di “Per l’Azione”,ma Balbo come, sia Beppe Chiarante sia Augusto Del Noce, ricordano.

9. Il cronotopo

In tutte queste valutazioni c’era una caratteristica comune: l’idea che l’Italia fosse il laboratorio mondiale da cui potesse uscire la soluzione del grande problema della crisi. Non si capiscono queste posizioni se non si ricorda la cultura della crisi, nata fra le due guerre, ma che emerge in Italia nella Resistenza e nel dopoguerra.

Felice Balbo chiamerà questa occasione “il cronotopo”, il luogo ed il tempo adatto e preciso per far trovare la soluzione della crisi.

In tutti era presente la particolarità dell’Italia per la presenza in Italia del più forte Partito Comunista dell’Occidente, e della sede della Chiesa cattolica, punto di riferimento essenziale dell’occidente.  Augusto Del Noce, che ha dedicato a Rodano un libro di 400 pagine, con il titolo “Il cattolico comunista”, parla di “giobertismo rodaniano”.

10. Lucio Magri

Il ricordo di questo ciclone di pensiero che ho chiamato crocevia, ci illumina sul particolare cammino percorso da Lucio Magri. A lui ben si addice il motto e la motivazione dei comunisti cattolici: “Comunisti perché cattolici”. E fu comunista al punto, non di dimenticare il cattolico, ma di renderlo politicamente superfluo. Un particolare curioso: applicò in forma così estrema il suo essere comunista perché cattolico, che per un certo periodo fu comunista clandestino con la etichetta di cattolico e non per una tattica maliziosa, ma per una interpretazione integralista, come lui era, di essere comunista.

Effettivamente non era più cattolico perché la sua formazione democratica-cristiana proveniva più dall’ambiente sociale che non dalla militanza nelle associazioni cattoliche. Quindi non si poneva i problemi dell’inveramento del comunismo, alla maniera di Dossetti e di Rodano. Arrivava al comunismo come una scelta definitiva e non problematica. Anche se io, su questo, ho dei dubbi.

Quando, parlando con ammirazione di Berlinguer dice: “Le masse lo accoglievano come una madonna pellegrina”, Lucio usa una espressione profondamente cattolica. Detta da un laico quella frase sarebbe solo malevola.

Lucio attraversò quel crocevia avendo contatti con tutti. Lucio entrò nell’esecutivo di Malfatti, mentre Beppe divenne consigliere nazionale del partito. Collaborarono più tardi con riviste che erano espressione lombarda della sinistra di base (“Il Ribelle” ed “Il Conformista”). È vero che lui e Beppe non si intesero con Felice Balbo, che sentirono più vicinanza con Franco Rodano, da cui poi si distaccarono. Ma, soprattutto per Lucio, “l’inveramento del comunismo” sfociava in una soluzione tanto personale quanto logica: diventare comunista.

Non si poneva il problema di risolvere il materialismo dialettico con San Tommaso, ma solo quello di esperimentare la militanza del partito, lo strumento perfetto ed indefettibile. Adopero “indefettibile” nel suo significato cattolico: completo e perfetto per i suoi fini.

Questo percorso è importante a spiegarsi perché ci illumina sul suo integralismo, sulla ricerca continua ed assoluta della forma partito, della sua azione liberatrice, della sua sacra moralità.

Ma la ricerca rivoluzionaria, l’amore del progetto liberatore era sempre di marca cattolica. Non voglio dire che in lui non ci fosse la sete di giustizia che è la forza intima della militanza comunista: c’era, ma era preponderante l’intelligenza e la ricerca di perfezione del disegno rivoluzionario, come un alchimista che cerchi instancabilmente l’oro, cercava la formula superba e lucida di quando, a Lenin, cadde addosso il mondo, per un felice concatenarsi delle contraddizioni del sistema, quelle contraddizioni che Lucio  instancabilmente studiava.

Cercava quella combinazione di elementi che scatenasse di nuovo l’incendio, non in un solo Paese, non nel punto più basso, ma qui e ora.

Lucio Magri, finalmente accettato nel Pci, scopre la difficoltà di tradurre le sue convinzioni nella politica quotidiana di un grande partito alle prese con i problemi della sua corposità. In realtà è le sua stessa intelligenza che lo mette in difficoltà. Non era semplice che personaggi storici che avevano fatto la prigione, accettassero lezioni di leninismo da un giovane che proveniva dal movimento giovanile DC.

La difficoltà che poi si incontrò era che il più forte partito comunista dell’occidente non era nelle condizioni di essere generativo in occidente per il suo rigido legame con l’Unione Sovietica. Come risolvevamo allora questo problema? (Io stesso mi ricordo che in un convegno di studio delle Acli a Vallembrosa, nel 1956, sostenni che in realtà esistevano due partiti comunisti. Uno indisponibile nella politica estera, ed uno invece disponibile per la crescita democratica italiana, perché promotore di una emancipazione democratica nazionale).

Anche Rodano si pone questo problema, della vera natura del partito comunista, che si risolverebbe solamente, come lui dice, “in un non dogmatico rapporto con il leninismo”. Del resto così era in Gramsci sostenitore della linea leninista al congresso a Lione contro Bordiga, ma “italianamente”, secondo Rodano, “aperta ai consigli di fabbrica, a Gobetti ed in maniera particolarmente profetica alla comprensione del popolarismo”. Lucio, fatto il suo noviziato di cattolico comunista, entra decisamente nel dibattito sulla natura del partito.

E questa linea seguirà con la tenacia e con la intransigenza che caratterizzano tutta la sua vita.

11. Gli anni ‘60

Nel 1962, Lucio Magri scrive un saggio per la rivista “Les Temps Modernes”, diretta da Jean Paul Sartre, in cui cerca di inquadrare nello schema marxista-leninista classico le nuove forme del capitalismo, in un Paese che attraversava un periodo di grande espansione economica, che veniva superficialmente chiamato da altri neo-capitalismo. Ma non è un saggio scolastico e ripetitivo. Già ci sono in lui le domande significative che lo porteranno ad essere un uomo scomodo per qualsiasi partito. Scrive: “Cosa significa una società di uomini liberi? Cosa significa concretamente l’eliminazione del lavoro alienato ed il passaggio dalla preistoria alla storia dell’uomo? Come si può concepire l’economia in una società che non sia governata dallo sfruttamento e dalla scambio? Che cosa significa deterioramento dello Stato e società regolata dagli individui? In quale senso si può concepire la storicità della società comunista e delle sue istituzioni? Queste domande condizionano ormai in maniera molto stretta la strategia e la tattica del Movimento Operaio in Occidente”.

Questi interrogativi sviluppati in uno studio lungo e particolareggiato mettono in discussione la solida semplicità ideologica su cui si fonda la strategia e la tattica del Pci.

Lucio non si pone dalla parte dei revisionisti, anzi riconferma in pieno “la sola linea di pensiero e la sola esperienza non possono essere che quelle del marxismo ortodosso e dell’internazionalismo leninista”. Aggiungendo subito che era sbagliato considerare il destino della rivoluzione mondiale legato unicamente alla dinamica dei paesi socialisti.

E poi ancora: “Senza l’apporto del proletariato europeo i problemi potrebbero essere  difficilmente risolti”.

12. Il centro-sinistra

Luciana Castellina descrive le difficoltà di Lucio, quando era direttore di “Per l’Azione”, con il segretario politico DC Fanfani. Questo le fa dare un giudizio di eccessiva esemplificazione sul neocapitalismo di Fanfani. In realtà Fanfani si batte, con molte opposizioni, per una politica di centro-sinistra all’interno e “terzomondista” all’estero, comunque la si voglia giudicare. È il momento in cui la sinistra democratica si batte per il centro-sinistra a cui si oppone fortemente il Partito Comunista.

Il Partito Comunista dette un giudizio molto duro nei confronti del centro-sinistra e nei confronti del partito socialista e della sua alleanza di governo con i democratici cristiani. Rodano si differenzia dalla linea di Togliatti con un giudizio sul centro sinistra. Ma il suo obiettivo finale è sempre l’accordo fra Pci e cattolici.

Ed anche nella elaborazione di Lucio Magri notiamo questa differenza che io ritengo molto significativa.

L’apprezzamento di Rodano per il centro sinistra non è disgiunto però dalla condanna definitiva ed incomprensibile della socialdemocrazia.

Sentiamo questa tensione nella parole scritte da Lucio dopo il 1968: “Abbiamo sostenuto con forza i consigli di zona e le 150 ore dedicate alla formazione presenti nel contratto dei metalmeccanici, siamo stati un punto di riferimento nei consigli di fabbrica, nella critica della organizzazione del lavoro ed abbiamo portato avanti nelle scuole e nelle Università la critica ed i ruoli professionali tradizionali ed alla divisione sociale del lavoro. Questo nostro importante impegno si scontrava però con l’insieme delle politiche della sinistra vecchia e nuova. L’idea che con tutti gli altri della nuova sinistra si potesse fare il partito rivoluzionario si è rapidamente rivelata una ipotesi velleitaria. Ed il PCI intanto avviava la politica del “compromesso storico”, rendendo ancora più difficile la ripresa di un dialogo”.

In quel momento i suoi vecchi amici restati nella DC si battevano per il centro sinistra come elemento evolutivo di una società che era già cambiata con la riorganizzazione dell’economia, con la rifondazione delle industrie, con la fine dell’agricoltura, con le grandi migrazioni interne ed esterne e chiedevano una nuova e più vera democrazia.

Ci sembrava che il problema centrale per l’Italia divenuta quinta potenza mondiale con il sacrificio di milioni di profughi meritasse una nuova democrazia. Perdemmo quella battaglia e tuttavia non ci sembrano estranee queste analisi in cui non c’è traccia della nuova situazione e del blocco storico politico che le aveva causate. Eravamo iscritti fra i nemici e lavoravamo per le stesse passioni in due pianeti diversi, al punto che certe raffinate considerazioni ci appaiono irreali come tele di ragno. Perché non ci parlavamo? (Ci parlavamo tutti i giorni ma non di questo).

Eppure la storia del tentativo di aprire il sistema dei partiti a quella febbre intensa ed inconsistente che colpì l’Italia dell’Oscar della moneta. Lo stesso rifiuto di cui si lamenta Lucio si manifestò anche nella DC, dove il tentativo di adeguare il partito ad una società più viva ed aperta fu soffocato ed estinto.

Sarebbe troppo lungo parlare qui di questo ma gli argomenti della conservazione del “grande monumento”del sistema  furono gli stessi di quelli del PCI. E l’obiettivo indicato per sfuggire al rinnovamento era lo stesso “compromesso storico”.

13. Gli anni ‘70

Nel 1969, ai tempi dei fatti di Praga e dell’insorgere del movimento studentesco, Lucio Magri è parte importante del gruppo che fonda il Manifesto e che viene espulso dal Partito Comunista. Incomincia una lunga marcia dedicata al tentativo di trasformare il tumultuoso torrente della rivolta italiana in partito politico.

Nel 1970, in un saggio dall’impegnativo titolo “Problemi e la teoria marxista del partito rivoluzionario”, scrive: “Il partito diventa inevitabilmente un apparato autoritario e burocratico se coesiste una massa disorganizzata. (…) Fra il partito e le masse deve esserci un terzo momento che media il rapporto che corre fra loro: istituzioni politiche autonome ed unitarie della classe operaia. Tali istituzioni devono emergere direttamente dalla società (fabbriche, uffici e scuole)”. È il tentativo più alto di ricondurre il disordinato movimento sociale da cui scaturiranno le Brigate Rosse, alla forma storica ideale di partito della teoria marxista. Era una linea che avrebbe impedito al movimento di diventare collaterali con le BR ed avrebbe impedito al partito di annegare nella social democrazia europea.

Nel tragico 1977 Lucio Magri tiene una relazione al seminario del PDUP a Bellaria, dal titolo: “Le ragioni di una sconfitta”.

Lucio Magri liquida l’esperienza movimentista e pensa al PDUP come “una forza organizzata minoritaria (che) intende agire insieme ad altre forze che critica e combatte ma alle quali si sente organicamente unita”.

È ancora la speranza di poter influire su un Partito Comunista che in quel momento, dopo l’uccisione di Moro, dà il suo appoggio indiretto al Governo Andreotti.

Eppure trovo nell’analisi di Lucio Magri, insieme all’indifferenza di quello che avveniva nel grande partito che governava l’Italia, un’attenzione non casuale ad un fatto che sembra secondario ma che io considero molto significativo: la crisi del collateralismo.

Le Acli, che erano gran parte della DC, che nella loro carta costitutiva mettevano al primo punto la “fedeltà alla classe lavoratrice”, si distaccarono dalla DC. Non fu, come si suol dire, una crisi del collateralismo, fu principalmente l’inizio della crisi esistenziale di un partito popolare, di un partito che non riusciva più a contenere i movimenti della società da cui era nato.

Lucio in quel periodo si occupa con attenzione della scelta di Livio Labor, che fu impropriamente chiamata la “scelta socialista”. Infatti non era la trasmigrazione in un altro partito, ma piuttosto il disegno di rifondare la sinistra democratica a partire dalle nuove condizioni del Paese. Il tentativo di Labor era immaturo: il Partito Comunista e persino il Partito Socialista non erano in grado di pensare ad un partito unitario della sinistra democratica attraverso la mediazione dei cattolici. Il Partito Comunista era fermo nella sua identità che presupponeva un’egemonia, considerava i socialdemocratici quasi socialfascisti, e lo stesso Partito Socialista si avviava verso una linea di guerra dura al Partito Comunista.

Eppure l’idea di un nuovo partito della sinistra democratica che superasse le divisioni fra comunisti, socialisti e cristiano-sociali non era assurda.

Fu proprio il disegno del “compromesso storico” ad uccidere quella idea nella culla.

Sulla sponda DC, Moro in quel periodo liquida Forlani, spinge la rottura del centro-sinistra, ritira l’adesione di Donat-Cattin al progetto di Labor. Anche Labor fu espulso, seppure alla maniera democristiana. I due grandi partiti si appoggiarono reciprocamente nel fugare il pericolo di cambiare. Se guardiamo bene da questo speculare rifiuto di guardare alla realtà, non nacque forse la partitocrazia? Ed il percorso di questo regime ingessato non ricorda la lunga decadenza sovietica? Ed i due regimi, il sovietico in Russia ed il partitocratico in Italia, non caddero nello stesso anno? La pagina in cui Lucio narra l’XI Congresso e la sua sconfitta elettorale del 72, non c’è straniera. E la sua attenzione alla cosiddetta crisi del collateralismo ci rivela che neppure a lui era straniero lo speculare tentativo di rinnovamento della DC.

14. Caso Moro

Qui finisce il lungo avventuroso viaggio di Lucio Magri alla ricerca di una possibile unità della sinistra. Egli compie con i suoi amici l’unico vero tentativo di dare forma politica, partendo dal tumulto dei movimenti, ad un vero partito alla sinistra del Pci, ma non contro il Pci. Ed in parte ci riesce. Ma è come un viaggio sulla banchisa ghiacciata, con i banchi di giaccio che si scontrano, si allontanano e si disperdono. Scrive: “Il regime di DC-PCI non c’era, ma la rabbia e la delusione c’erano”.

 Il lungo periodo della ricerca finisce con la morte di Moro. (Senza soffermarmi troppo devo qui accennare, solo per memoria, che quando andai a chiedere a Zaccagnini la riunione del Consiglio Nazionale, con altri quattro consiglieri  favorevoli alla trattativa per salvare Moro, trovai l’anticamera presidiata da un sospettoso Tatò, sostenitore della fermezza).

Alla fine dello sconsolato racconto del fallimento della onda lunga del ’68, Lucio ritrova una sua valutazione conclusiva che prevede la prossima catastrofe in un episodio particolare che io trovo fortemente esplicativo e profetico. Lucio ricorda una intuizione di Togliatti, di un Togliatti che sembra avere ancora una simpatia dossettiana. È la considerazione del 1965 di Togliatti sulla natura della Chiesa cattolica (che era sulla stessa lunghezza d’onda del giudizio di Gramsci sul Partito Popolare).

Quella convinzione sparì nelle vicende della guerra fredda fra DC e PCI degli ani ’50 per riemergere come un lampo solitario nel famoso discorso di Bergamo che fu occasionato da una iniziativa del buon Eliseo Milani.

Ed è significativo che a commento del fallimento della sinistra movimentista e del tentativo di unità nazionale, provocato dalla morte di Moro, Lucio, che aveva di persona vissuto il dramma della ricerca di una proposta politica unificante ritorna a quel discorso di Togliatti: “Berlinguer era stato molto influenzato dall’equivoco rodaniano che teneva insieme in un tuttuno DC e mondo cattolico. C’è proprio il capovolgimento della cosa più innovativa prodotta da Togliatti con il discorso di Bergamo sui cattolici. Ai tempi di Gramsci la questione cattolica era la questione contadina. Dopo la guerra la questione cattolica è diventata la questione democratica. Dopo il 1960, Togliatti fa un vero e proprio salto. A Bergamo Togliatti dice che la fede religiosa, seriamente intesa, avrebbe messo in discussione, l’equazione: libertà uguale individualismo. E che i cattolici avrebbero potuto essere parte importante del cambiamento radicale della società. Togliatti si avvede che nella problematica religiosa vi sono questioni fondamentali che possono entrare in relazione positiva con il socialismo. Supera l’identificazione fra questione cattolica e DC”.  Lucio annota e sottolinea nel discorso di Togliatti la condanna della “equazione libertà uguale individualismo”, che ricorda un concetto fondamentale di Felice Balbo: “Questi problemi (…) si determinano per la scomparsa fallimentare del modello umano (…) del sistema storico sociale individualistico: questo modello umano può definirsi nei termini de“l’autosufficienza dell’individuo” e va dalla Grecia a Marx”. Ed annota sempre Balbo: “E’ individualistico contro le apparenze anche il sistema comunista per la sua originaria ed ineliminabile ispirazione anarchica”.

Lucio emerge da un’esperienza in cui l’esasperato individualismo portato fino all’anarchismo era riuscito a buttare via acqua sporca, acqua pulita e bambino. E ritorna con la memoria al giorno felice in cui Eliseo Milani riuscì a portare a Bergamo un Togliatti inspirato che, già intimamente scosso dal problema sovietico, ritornava al suo momento “dossettiano” della Costituente. E trova quella condanna della “equazione libertà uguale individualismo”, che ancora oggi potrebbe essere un punto di incontro generativo fra le aspirazioni della sinistra e dei cattolici.

15. Ritorno a casa

Da quel momento Lucio pensa solo a ritornare al suo Partito, al suo principe. In quel momento eravamo al nostro perielio. Io cercavo la strada per colpire la partitocrazia e Lucio non si rassegnava alla fine del Pci, strumento indefettibile per la costruzione di un mondo senza sfruttamento. Lucio  parla del Congresso di Firenze del 1986, il primo Congresso dopo il suo rientro. Ma non pensavo mai di trovare un suo giudizio molto importante sullo strumento che dà forma ai partiti, la legge elettorale: “Il problema che io ponevo era quello di affrontare i limiti del sistema elettorale proporzionale e guardavo con interesse al modello tedesco perchè già si avvertiva che il sistema proporzionale in quanto tale non avrebbe più retto. Era una questione delicata e sociale che si sarebbe dovuta affrontare per tempo”.

E per me  è una sorpresa date alcune nostre dissensi proprio sulle leggi elettorali al tempo dei referendum.

Ci avviamo al 1989, al Congresso di Roma, che dà una delega in bianco ad Occhetto, il quale cambierà il nome al partito e metterà fine a quell’esperienza. Non c’è una mozione della sinistra e sembra non esserci una vera opposizione. Lucio annota che in quel congresso non parlò di politica ma parlò di economia.

Di fatto fece una fuga in avanti di dieci anni, perché parlò di debito pubblico, di imposta patrimoniale, di austerità necessaria. Lungimirante era arrivato ai temi della crisi che si stava per aprire.

In quella occasione Lucio si lamenta che il Partito Comunista non avesse mai proposto l’Europa come terza forza nel mondo. La pagina critica sull’assenza della politica estera degli anni ’80 e sulla mancata comprensione della funzione dell’Europa è disperante. Eppure è una pagina che va riletta, perché è ancora attualissima. In una situazione diversa, senza più PCI e URSS, il problema è rimasto identico.

16. Una attenzione particolare all’Europa

Vi era stato un precedente, già negli anni sessanta, quando pensare all’Europa ed una Europa addirittura sganciata dalla politica estera sovietica era ancor più difficile.

In quel periodo La Pira, come sindaco di Firenze, aveva preso delle iniziative come il Convegno per la Pace e la Civiltà Cristiana dal 1952 al ’56, l’incontro coi sindaci delle capitali di tutto il mondo nel 1955, ed i colloqui mediterranei nel 1958.

Secondo La Pira l’Italia doveva rappresentare una terza forza negli equilibri internazionali come elemento di polarizzazione e di guida. La politica energetica di Mattei andava in questa direzione. È interessante notare che nella collaborazione a “Prospettive” sia Magri che Chiarante si inserivano sulla linea dettata da una collaborazione molto interessante: quella di G. Rovan. Cito testualmente: “Un Europa neutrale ed armata, indipendente dai due blocchi ed in grado di giocare un ruolo pacifico, sarebbe possibile solo a condizione che l’America rinunciasse alla sua volontà di guida sui paesi occidentali e che l’Unione Sovietica abbandonasse contemporaneamente il suo controllo sulla Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria”.

Questo spiraglio veniva esplorato da Chiarante in un articolo su Prospettive del 1955: “E non è del resto evidente che per gli europei il solo modo di restar presenti in Asia ed in Africa è ormai quello di rigettare ogni velleità di sfruttamento colonialistico e di cercare invece di favorire l‘ascesa dei popoli coloniali, sia con un continuo apporto di civiltà, sia difendendone il libero sviluppo contro i pericoli dell’imperialismo sovietico e di quello americano?”.

Ed è, non senza sorpresa, ma con sincera ammirazione, che prendiamo nota della posizione di Lucio Magri, che scrive sempre in Prospettive del 1955: “Non è sufficiente creare una fascia di paesi neutrali che impedisca l’immediato e pericoloso contatto tra le posizioni militari di due blocchi . è invece necessario ed essenziale che si sviluppi una forza nuova, culturalmente e politicamente capace di risolvere i problemi che da anni si trascinano insoluti: una forza in altri termini non meccanicamente ma politicamente mediatrice”.

Ed in questa politica chiaramente ispirata alla posizione di La Pira, Lucio Magri vede importante la posizione della Chiesa cattolica che “si trova oggi nella necessità di non subordinarsi alla pressione americana e di riconquistare anche politicamente le basi della propria universalità”. L’Europa si farà soltanto quando avrà un riferimento politico, non solo nei confronti degli USA, ma anche nei confronti della Russia.

17. Una annotazione particolare all’inizio degli anni ‘90

(È il caso di fare un confronto con quello che stava succedendo a noi pur dovendoci essere una ragione per la quale eravamo schegge simili che seguivano traiettorie diverse. Nel 1963 quando Lucio Magri si impegna nella macchina del Partito Comunista noi ci battevamo per il centro-sinistra, la più grande novità politica di quel periodo che, il PCI combatteva duramente. Nel ’70, quando Lucio viene espulso ed inizia il suo tentativo di rendere “partito” il movimento sessantottino, noi iniziavamo una critica ai partiti ed alla partitocrazia, per una struttura politica più aperta alla società civile attraverso l’elezione democratica diretta dei sindaci e l’opposizione al compromesso storico, comune ad entrambi. Nel ’77 votando, con molte riserve, sia Pertini sia Andreotti, incominciavamo un lungo percorso che ci avrebbe portato a quella vittoria referendaria del 1991 che Lucio deplorerà amaramente).

Nel 1990 io e Mario Segni salimmo intimiditi le scale di Via Botteghe Oscure, per chiedere ad Occhetto di salvare il referendum favorevole al sistema maggioritario, impresa in cui avevamo puntato tutto. Ci ricevettero Occhetto, D’Alema e Veltroni. Noi non ci aspettavamo nulla ed Occhetto, coraggioso ed incosciente, ci dette tutto. (Ma alcuni mesi dopo Occhetto avrebbe consegnato – verbo che in latino si esprime con il verbo tradere – Segni a Scalfaro permettendogli di fare Presidente del Consiglio Ciampi e non Segni). Ma è interessante confrontare questo ricordo con il giudizio di Lucio: “La cosa ancor più grave è che il PCI non solo ha scelto di suicidarsi, ma ha, con Occhetto, deciso di sostenere il referendum promosso da Mario Segni  sul passaggio dal proporzionale al sistema maggioritario, un referendum che è stato il primo atto di una campagna contro i partiti e poi di rifiuto della politica. Silvio Berlusconi ha vinto proprio sull’onda di quella campagna referendaria, sull’esaltazione del nuovo e sulla parola d’ordine tutti i partiti sono eguali”.

Questo l’anatema di Lucio. A me resta soltanto il grido di dolore di Santoro: “Io che ho votato Bartolo Ciccardini!”.

18. L’ultima battaglia

Passeranno 27 anni di coraggiosi esperimenti per arrivare stanchi e disperati agli errori di Rifondazione Comunista. Pregano di scrivere il testo di una relazione che spiegasse le ragioni di coloro che non si rassegnavano alla liquidazione del Pci. E’ un testo di speranza che guarda al futuro. Ma di nuovo i gruppuscoli raggiungono l’unanimità solo nel respingere quel testo. Ed all’ultimo capitolo di questa storia quel Bertinotti che così accuratamente ha di nuovo espulso Lucio Magri finirà, guarda caso, col pugnalare il dossettiano Prodi. Una tragedia italiana.

Lucio fa ancora una rivista, scrive ancora un libro in cui riassume il senso della sua battaglia e prese congedo dalla politica. Dice Perry Anderson: “La causa immediata che lo aveva spinto a prendere quella decisione fu il miope tatticismo delle svariate componenti della sinistra italiana”. Ma in realtà secondo Anderson la ragione è un’altra: “L’intransigente coerenza rispetto al proposito che aveva dettato la sua adesione al comunismo”. Ed io, di persona, so quanto fosse serio e profondo in lui quell’impegno.

Fu l’unico comunista in Italia a sostenere fino alla fine la filosofia dell’unità fra teoria e pratica che era stata la pietra angolare del materialismo storico, ormai scomparso dagli annali del marxismo occidentale. Quella pietra miliare che i cattolici comunisti avevano considerato essere la condizione per “l’inveramento del comunismo”. Magri non aveva mai dimenticato quella accettazione del materialismo storico, appresa nel crocevia del 1952 per la quale aveva scritto il suo primo articolo su “Per l’Azione” intitolato: “I limiti del riformismo”. E che, dice Luciana Castellina: “E’ più o meno lo stesso di un saggio scritto vent’anni dopo sul Manifesto”.

19. Preghiera

Quando Lucio morì scrissi di lui un ricordo personale della prima giovinezza che qui non voglio rileggere.

Ma voglio ripetere la citazione di Thomas Mann che la sua dipartita mi aveva suggerito. Il protagonista del Doctor Faustus, in cui Mann si rappresenta perde il suo più straordinario amico, nei giorni in cui la sua patria, la Germania, sprofonda nell’abisso “coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro”. E noi, in un momento tragico della nostra Patria, parlando di un amico che ha dedicato tutta la vita al disperato progetto di salvarla dal suo destino, rileggiamo quel saluto di Thomas Mann: “Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari ad un miracolo superiore ad ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani ed invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!”.

Bartolo Ciccardini


[1] Contrariamente a quanto si dice o si scrive fui io a chiedere a Malfatti di portare in esecutivo Chiarante e  Magri, ad affidare “Lo studente d’Italia” a Paolo Valmarana e Corrado Guerzoni, a portare dal mio gruppo perugino a Roma Gianni Fogu ed Ugo Baduel. In quell’anno il Movimento Giovanile DC portò a termine due importanti iniziative: gli incontri della Gioventù (un concorso per i migliori lavori in diverse materie) ed il Congresso della Stampa Studentesca.
[2] Dossetti aveva sostenuto un rinnovamento totale dello Stato rovesciando l’antica diffidenza cattolica per lo Stato. Si rendeva conto del fallimento ed indicava la strada di una intesa con De Gasperi. Beppe Chiarante ne trova una traccia espressamente citata su “Per l’Azione”: il noto articolo “De Gasperi e lo Stato Democratico” e l’ancor più noto titolo   “Conservare lo Stato per la rivoluzione”.
[3] Il documento più significativo della sinistra cattolica è l’opuscolo “Il Comunismo ed i cattolici” composto nell’inverno 1943-1944. Fu pensato da Rodano e da Balbo, discusso con Ossicini e Tatò e redatto da Fedele D’Amico. Aveva nel risvolto un brano di “L’imitazione di Cristo”.

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