...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

9 maggio 2023 - Aldo Moro, il discorso fatale. 45 anni fa, il delitto politico più grave dal tempo di Matteotti.

articolo  di Mario Nanni tratto dal giornale online "beemagazine.it"

 

Riproponiamo, nel 45/mo anniversario della morte di Aldo Moro, il discorso che nel titolo abbiamo definito fatale: nel duplice senso di rovinoso e di simbolico del destino, quello occorso, oltre che alla vita del presidente della Dc, alla sua politica, che fin dai primi anni Sessanta (con il Congresso di Napoli del 1962, l’apertura ai socialisti), si era contraddistinta per l’obiettivo di allargare, come aveva fatto in parte Giolitti la base democratica dello Stato, immettendo larghe masse popolari nella gestione del potere democratico e diffuso.

Con il congresso Dc di Napoli si diede l’avvio alla collaborazione di governo con il Partito Socialista, che dopo Fanfani portò lo stesso Moro ad attuare da presidente del Consiglio la nuova politica del centrosinistra, tra resistenze di potentati economici, scelte discusse e dirompenti (la nazionalizzazione dell’energia elettrica), e tintinnar di sciabole (tentativi di golpe, il piano Solo, golpe Borghese) per bloccare il nuovo corso politico.

Tra alti e bassi, la politica di centrosinistra durò meno di un quindicennio.

Le elezioni del 1976, con i due maggiori partiti italiani – Dc e Pci quasi alla pari e un Psi ridotto al risultato più basso della sua storia – imposero nuove soluzioni politiche e nuovi equilibri: il governo della “non sfiducia”, presieduto da Andreotti, con l’astensione di quasi tutti i partiti, tranne la Destra, e poi il governo di solidarietà nazionale del 1978, con la novità storica del Pci che entrava nella maggioranza (non nel governo). Una prospettiva che aveva causato diversi mal di pancia nelle correnti più moderate della Dc (i dorotei, lo stesso Andreotti), e per converso molte perplessità nello stesso Pci.

 

Berlinguer aveva detto a Moro: facciamo questa operazione, ma il governo lo devi presiedere tu. Moro rispose: se lo presiedo io il governo non dura, gli americani lo osteggeranno, facciamolo presiedere da Andreotti. In realtà Andreotti veniva immaginato come l’uomo gradito agli Stati Uniti. Ma non era la verità, o almeno non era tutta la verità. Come dimostrarono poi alcuni documenti diplomatici desecretati, anni dopo nel caso di Sigonella e dei bombardamenti della Libia di Gheddafi, Andreotti coltivava una politica di attenzione verso il mondo arabo, insieme a Craxi. Questa politica non era gradita agli Stati Uniti d’America, anzi era proprio frenata e osteggiata.

Berlinguer capì che il rifiuto di Moro di presiedere il governo aveva un fondamento e non insisté ma aumentò le sue perplessità. D’altra parte Moro non esagerava quando spiegava al segretario del Pci che non era il caso che andasse proprio lui a Palazzo Chigi. Lo statista pugliese aveva ancora fresco il ricordo – erano passati appena 4 anni!– del tempestoso colloquio avuto con il segretario di Stato Henry Kissinger nel 1974 durante la sua visita negli Stati Uniti.

Kissinger e Moro erano molto diversi, non erano fatti per intendersi. La finezza intellettuale e argomentativa morotea non poteva essere gustata né capita dal pragmatismo muscolare kissingeriano. La verità era che Kissinger non sopportava, letteralmente non sopportava, le aperture di Moro ai comunisti, cominciando da quella che è passata alla storia come “la strategia dell’attenzione”, che da anni Moro proponeva anzitutto come metodo politico di dialogo con la più forte opposizione politica, ma anche prefigurando possibili convergenze future con essa.

Per Kissinger era come agitare un tappeto rosso (sempre di rosso si trattava) davanti a un toro.

Le cronache della commissione d’inchiesta sul caso Moro degli anni ’80 riferirono – e chi scrive ne fece uno scoop per l’Ansa – che Moro durante il colloquio con il segretario di Stato americano era stato minacciato. In sintesi: Kissinger citandogli l’esempio di alcuni leader di Paesi finiti male lo ammonì a non continuare la politica di apertura ai comunisti. (l’anno prima, Salvador Allende, legittimo presidente del Cile, era stato fatto fuori,  e bombardato il palazzo presidenziale della Moneda). (Un evento traumatico per la sinistra mondiale, al punto che Berlinguer ne prese le mosse per proporre con tre articoli sulla rivista Rinascita un’alleanza strategica tra masse cattoliche e laiche, il famoso compromesso storico. Dove la parola compromesso era depurata del suo banale e comune valore di ‘inciucio’ ma nobilitato come una accordo solenne, quasi notarile; e storico perché doveva segnare una svolta epocale).

 

Nel linguaggio diplomatico, si sa, le minacce non si fanno mostrando una canna di fucile ma in  modi allusivi e felpati ma non meno eloquenti. Manzoni, che ci dà un esempio lampante di questa modalità  diplomatica di parlare nel celebre dialogo tra il Conte Zio e il padre provinciale (superiore di padre Cristoforo), scrive in un altro passo dei Promessi sposi che tra diplomatici – e Moro era il capo della diplomazia italiana come Kissinger di quella americana – ci si può soavemente scontrare “fino a sbudellarsi” (metaforicamente, si capisce, aggiungiamo noi).

A tagliar corto: il messaggio kissingeriano dovette essere così minaccioso, intimidatorio e  “persuasivo”, che Moro ne rimase molto scosso, al punto che ci furono due effetti:  da cattolico praticante qual era, cercò conforto recandosi a pregare nella Cattedrale newyorkese di Saint-Patrick; ebbe un malore, e si accasciò sulla panca.

L’altro effetto fu che Moro ritornato in Italia espresse il proposito di ritirarsi dalla politica per almeno tre anni (forse sperando che si allentassero le tensioni?). Il suo capo ufficio stampa, Corrado Guerzoni, ma forse anche altri ‘’amici’’ della Dc,  lo dissuasero. Ed egli nel 1974 presiedette il governo Moro-La Malfa, poi azzoppato il giorno di San Silvestro del 1975 con un articolo sull’Avanti! dal segretario del Psi Francesco De Martino, che dichiarò conclusa la stagione del centrosinistra, invocò la necessità di “equilibri più avanzati” e infine fece la dichiarazione suicida che i socialisti non sarebbero andati al governo se non fossero entrati anche i comunisti. Milioni di elettori, anche socialisti, lo presero in… parola, probabilmente facendo questo ragionamento: ci hai dato un’idea, allora votiamo direttamente Pci.

E così alle elezioni di pochi mesi dopo, nel 1976, il partito di Berlinguer sfiorò il sorpasso sulla Dc, i socialisti precipitarono a un drammatico 9,6 per cento e Nenni sconsolato commentò: noi abbiamo scorso l’albero e i comunisti hanno raccolto i frutti.

In questo, storicamente parlando, Nenni era per così dire recidivo (anche se l’idea degli equilibri più avanzati non era stata sua ma di De Martino, ma la frase originariamente era di Moro!): anche nel 1948 il Psi aveva fatto il donatore di sangue verso i “compagni”comunisti: a quel voto il Psi, che alla Costituente era il primo partito della sinistra, e il Pci secondo, fece la scelta del Fronte popolare. I rapporti di forza si invertirono e mai più tornarono come prima, sebbene Craxi negli anni ’70 –’80 avesse impostato la sua politica sull’obiettivo di un riequilibrio numerico tra i due principali partiti della sinistra.

 

Questo lo sfondo degli avvenimenti nei quali si colloca il discorso che Moro fece ai gruppi parlamentari della Camera e del Senato, nell’auletta di Montecitorio, il 28 febbraio del 1978. Esattamente due settimane prima del tragico agguato di via Fani.

Moro si trovò davanti tutte le anime della Dc: quella che, degasperianamente, guardava a sinistra, il centro doroteo molle come un corpaccione, diffidente e timoroso di sbandamenti politici; la destra dichiarata del partito, piuttosto contraria a quella che giudicava un salto nel buio, un’ avventura. Tra questi ultimi c’erano personaggi come Scalfaro, che, pur ostile alla svolta e alla politica di Moro, non si fece scrupolo di imbarcarsi nel governo. Scalfaro tuttavia non era il solo. Del resto, Moro l’aveva capito bene questo aspetto: l’unità della Dc passava attraverso la spartizione di posti di potere tra le numerose e spesso rissose correnti.

 

Davanti a un mare così tempestoso Moro fece un miracolo: come un Mosé si aprì un varco nel mar rosso, anzi bianco democristiano, e condusse le varie correnti, anche se alcune recalcitranti, verso la terra promessa di una nuova svolta politica. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt (Seneca): alla lettera: “il fato conduce colui che vuole lasciarsi guidare, trascina colui che non vuole”.

Altrove ho definito questo discorso di Moro il suo capolavoro politico, la summa del suo pensiero e del suo metodo di fare politica (dialogante e maieutico), ma purtroppo anche il suo passo fatale. Comunque resta un testamento politico, un modello magistrale di dialogo tra posizioni diverse e contrapposte, e di ricerca di una sintesi politica non in nome di una spartizione di poltrone, ma di una visione politica, dell’apertura di una fase nuova, pensando non solo al domani ma al dopodomani, nella consapevolezza che – disse – “non tutto è nelle nostre mani”.

Leggendo, il lettore noterà la superiore abilità dialettica di Moro, che non è solo virtù oratoria o arte retorica strumentale o fine a se stessa; vedrà come, rivolgendosi a uno a uno dei capi corrente, ne espone le obiezioni e le perplessità sulla politica proposta, e in che modo le fa quasi proprie e per poi rovesciarle con un colpo d’ala dialettico facendone vedere i limiti e le controindicazioni. Eppure, in tutto questo, in Moro non c’è nessuna albagia intellettuale, né toni arroganti, ma un ragionamento pacato, mite, quasi sommesso, che era tipico dello statista.

Doti e modalità di cui si stenta a trovare tracce in questo mondo politico attuale.

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Il discorso di Moro

(i corsivi e i neretti sono nostri, NdR)

 

Cari colleghi ed amici, io mi sento gravato da una grande responsabilità perché ho colto da tante parti una sollecitazione ad intervenire nel corso di questo dibattito; l’ho colta in particolare nelle parole, come sempre affettuose, dell’on. Scalfaro, e mi è sembrato così che parecchi amici pensassero, a torto, che io abbia la chiave per il superamento delle nostri comuni difficoltà. Ho vissuto alcuni anni intensi in diverse esperienze della DC e sono lieto sempre di mettere a disposizione il frutto di questa vita spesa al servizio del partito, ma credo che davvero nessuna persona possa da sola vincere l’ostacolo che è dinanzi a noi; dobbiamo vincerlo insieme nella nostra concordia, nella nostra solidarietà, nella nostra consapevolezza.

E quindi devo dire che non è stato un gioco di parole quel che io ho detto ieri, all’on. Scalfaro, che desideravo ascoltare, desideravo essere illuminato; era una sincera manifestazione di una volontà di dialogo tra noi, che non è cominciato del resto qui e nel corso del quale effettivamente ho potuto saggiare la validità di alcuni miei convincimenti, alla luce delle osservazioni che in un senso o nell’altro sono state avanzate da questa assemblea altamente responsabile.

 

Consentitemi di dire, con assoluta sincerità, che questa è stata una bellissima assemblea, ricca di interventi seri, solidi, responsabili, pur nella loro diversità, come è naturale che sia. E non mi pento certamente di avere trovato naturale un incontro di tutti i parlamentari, in una riunione come questa, avendo piena fiducia nella Democrazia Cristiana e nella verità; perché certamente non sono utili le cose che si nascondono, che si riducono a serpeggianti mormorazioni, mentre non sono mai cattive le cose che vengono dette con sincerità nelle sedi proprie, nell’ambito di un dibattito democratico e responsabile come quello che stiamo vivendo.

Quindi credo che le cose dette e quelle che saranno dette successivamente, siano un contributo importante al superamento della crisi. Sono state dette cose che mi pare non si possano in nessun modo ricondurre ad una meschina ragione di interessi, ma cose comunque formulate che si riportano agli ideali, a quei modi di vita, a quelle ragioni di essere che sono proprie della Democrazia Cristiana.

Mi pare che questa volta l’accusa di portare avanti nel dibattito piccoli interessi particolari, ci sia stata meno nella stampa, la quale ha rispettato il dibattito serio e profondo che si è svolto nella Democrazia Cristiana, ha compreso quanto fosse importante che il nostro partito andasse fino al fondo nella ricerca della verità in un momento come questo, che certamente è un momento di grande responsabilità. Abbiamo, credo, lavorato tutti in questo periodo, ciascuno al proprio posto, chi in modo febbrile, chi in modo un po’ più calmo. Abbiamo fatto tutti il nostro dovere. Credo abbia fatto il suo dovere anche la delegazione che in questo momento mi incarica di dire qualche parola conclusiva.

Tutti abbiamo responsabilmente affrontato il nostro compito, consultandoci tra noi e tenendoci in contatto con i gruppi parlamentari e la base del partito. E credo l’abbiamo fatto con spirito di unità, di concordia, con un continuo collegamento. E voi, cari amici, avete fatto la vostra parte preparando l’assemblea che oggi si celebra e dalla quale noi ci proponiamo di trarre delle indicazioni preziose per vagliarle secondo le indicazioni date dalla Direzione del partito.

 

Possiamo dire, quindi, che abbiamo cercato seriamente e lentamente la verità, la verità nel senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà insorte nel corso di queste settimane. Non dico a caso “lentamente”; mi rendo conto che c’è una certa punta polemica, anche se mi sembra essersi attenuata nel corso di questa crisi, nei confronti della procedura articolata che abbiamo adoperato e che ci ha portato a riflettere, scambiarci idee, riunirci in Direzione, sentire i Direttivi dei Gruppi e poi ritrovarci ancora.

È una procedura un po’ lenta di fronte a un certo rapido procedere di alcune democrazie occidentali; ma vorrei dire non di tutte, infatti si parla dell’Italia come di un caso a sé, ma l’Olanda ha impiegato circa nove mesi per risolvere la sua crisi; è vero che ha un primato di una ventina di partiti, al quale noi non siamo ancora giunti e speriamo di non giungere; anche il Belgio ha conosciuto crisi di mesi e non di settimane.

 

Responsabilità nuove per la Democrazia Cristiana Ma, a parte questo, voglio dire che la mancanza di una vera polemica intorno al moderato snodarsi della crisi si deve alla consapevolezza che le forze politiche e l’opinione pubblica hanno della difficoltà della situazione, dell’importanza nuova e decisiva dei quesiti che ci sono proposti, del carattere altamente responsabile delle decisioni che dobbiamo prendere. Ora, di fronte a questo, certo, non si possono concepire degli ultimatum, di qualsiasi natura, taluni possono essere dolci nell’aspetto, altri più duri; ma ultimatum di qualsiasi genere che effetto avrebbero di fronte ad una maturazione che tende a cercare la via di uno sbocco positivo?

Avrebbe, un qualsiasi ultimatum, il significato di una stretta che rischierebbe di fare precipitare le cose verso una conclusione negativa. Non è che noi abbiamo perso tempo, né abbiamo giocato con nessuno. Abbiamo cercato di riflettere seriamente nel corso di queste settimane sulle cose che erano dinanzi a noi. Che questa lunghezza delle nostre meditazioni non sia stata inutile è dimostrato, credo, anche da questa assemblea di oggi, la quale ha registrato, come era naturale che registrasse, posizioni vigorose, vivacemente polemiche; ma ha registrato anche una serie di indicazioni positive e di intenzioni costruttive, ha dato il senso di una accresciuta consapevolezza della responsabilità che ricade sulla Democrazia Cristiana: se questo si deve al vostro senso di responsabilità, lo si deve anche al modo, al ritmo con cui le cose sono state condotte. Di questo ritmo speriamo di potere dimostrare l’utilità: in definitiva, ne deriva un vantaggio in termini di costruttività nella nostra vita politica.

 

Siamo dinanzi a interrogativi che qualche volta ho definito angosciosi, come è stato rilevato dal Corriere della Sera in un articolo di linguistica politica, che mi riconosce una certa sobrietà, ma mi addebita il fatto di aver pronunciato una volta il termine “angosciosi”. Effettivamente si tratta di interrogativi angosciosi, si tratta di alcuni tra gli interrogativi più gravi, più ricchi di futuro, che ci siano stati proposti nel corso della nostra storia trentennale.

Si può dire che dal momento nel quale si è determinata l’esclusione del Partito Comunista Italiano dall’area di governo, abbiamo avuto momenti difficili, abbiamo realizzato delle svolte; soprattutto nel momento del centro-sinistra, abbiamo sentito che cominciava qualche cosa di profondamente nuovo, ma non abbiamo mai fino ad oggi sentito che eravamo di fronte ad interrogativi grandi come quelli che ci si pongono dinanzi, ed ai quali si deve rispondere con un profondo esame di coscienza.

 

Le elezioni politiche hanno avuto due vincitori Siamo davanti ad una situazione difficile, una situazione nuova, inconsueta, di fronte alla quale gli strumenti adoperati in passato per risolvere le crisi non servono più; è necessario adoperare qualche altro strumento, guardare le cose con grande impegno, con grande coraggio, con grande senso di responsabilità, ma anche con grande fiducia nella Democrazia Cristiana.

Queste cose nuove ed inconsuete nascono dalle elezioni, ma hanno una loro origine un po’ più lontana; già prima delle elezioni vi è stato il risultato di un referendum che ha certamente sconvolto la geografia politica italiana. Prima delle elezioni politiche vi sono state quelle regionali che hanno registrato un forte mutamento di opinioni politiche. Prima delle elezioni vi è stata quella dichiarazione che ha pesato e pesa tuttora nella realtà italiana, con la quale, senza successivi ritorni e pentimenti, il Partito Socialista ha dichiarato chiusa la esperienza di centro-sinistra.

Prima delle elezioni abbiamo visto rattrappirsi l’antica maggioranza di centro-sinistra in un Governo a due che faceva fatica a vivere in considerazione della quotidiana contestazione dei partiti non presenti (il che induce a comprendere quale sforzo di abilità, di pazienza, di serietà abbia dovuto compiere il Presidente Andreotti per gestire un Governo di soli democristiani, con le astensioni degli altri partiti). Già prima di allora avevamo avuto un Governo monocolore con la semplice astensione socialista, ed infine siamo scivolati nelle elezioni. Quindi è una crisi prolungata, un serio deterioramento, che l’amico De Mita definisce con la lucidità di intuizione che gli è propria (io mi tengo un po’ più terra terra); ma certamente devo riconoscere che qualche cosa, da anni, è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana.

 

E, di fronte a questo logoramento propiziato da una stampa pressoché unanime nel denigrare e nel dichiarare decaduta dal trono e dalla sua semplice condizione civile la Democrazia Cristiana, alla luce di questa esperienza si può ritenere che il risultato elettorale del 20 giugno, pur creatore delle novità e delle difficoltà di fronte alle quali ci troviamo, sia stato una risposta sostanzialmente positiva del Paese, il quale, a dispetto di tante polemiche interessate alla distruzione della Democrazia Cristiana, ha tuttavia risposto confermandoci nel ruolo di primo partito italiano, con un soprassalto di consapevolezza che fa onore alla opinione pubblica italiana che si sa ritrovare, come si è ritrovata, nei grandi momenti in questi trenta anni intorno alla Democrazia Cristiana, che ha consacrato e riconsacrato come il più grande partito italiano.

Perciò abbiamo avuto una vittoria, ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi. E questo io credo debba essere oggetto di rispetto da parte nostra; l’ho detto più volte e lo ripeto, perché credo che non sia giusto e non sia utile dare un cattivo significato polemico, un significato di ritorsione, al fatto che siamo rimasti in certo modo soli. Rispettare e capire le altre forze politiche. Possiamo anche renderci conto delle ragioni che hanno determinato questo atteggiamento. Ecco però la necessità ogni tanto di guardare più a fondo nelle cose, di guardare sempre realisticamente quello che ci sta di fronte. Dobbiamo rispettare e capire perché, pur creandoci tanti problemi (e credo creandone anche al Paese), queste forze abbiano assunto certe posizioni. Queste forze hanno visto emergere un altro polo di presenza nella vita politica, di segno diverso, di fronte al quale hanno alcuni elementi in comune, una certa tradizione laica, desiderio di immaginare, di sperimentare qualche cosa di nuovo. Dicevo che noi dobbiamo rispettare queste cose, le dobbiamo capire, ma le dobbiamo anche ricordare a coloro che sono troppo frettolosi nell’attribuire responsabilità alla Democrazia Cristiana.

Ci siamo dunque trovati relativamente isolati; dico relativamente perché non abbiamo di fronte uno schieramento di partiti ostili, anche se in qualche momento abbiamo avuto l’impressione di essere punti con uno spirito non proprio fraterno. Comunque, non abbiamo di fronte uno schieramento di partiti ostili: il fatto nuovo è che fra questi partiti non ostili c’è anche il Partito Comunista.

La situazione è dunque questa: abbiamo di fronte uno schieramento politico nel quale ritroviamo i partiti di antica tradizione comune di governo e il Partito Comunista, tutti in atteggiamento non ostile nei confronti della Democrazia Cristiana. Per questo parlo di una Democrazia Cristiana soltanto relativamente isolata e concordo con gli amici Zaccagnini e Galloni, che hanno rilevato come in questi mesi si sia potuto riaprire il discorso, disgelare un po’ le relazioni con questi partiti, ed è stata una cosa ottima e credo da accreditare agli uomini che hanno così validamente contribuito, come appunto Galloni ha fatto, a portare innanzi questo dialogo includendo il piccolo ma importante Partito Liberale.

 

Non abbiamo perduto in senso proprio l’egemonia, ma certamente la nostra egemonia è attenuata.

 Avendo rifiutato la soluzione drastica, la soluzione di impeto (siamo non omogenei, siamo non omogeneizzabili, e dobbiamo perciò ritornare alla fonte del potere), abbiamo cercato dei rimedi misurati, degli accomodamenti che non si sono dimostrati cattivi nella loro attuazione anche se all’inizio sono stati guardati – e non poteva accadere che non lo fossero – con delle preoccupazioni.

Abbiamo operato, si è detto, “nel quadro del confronto”. Certamente questa espressione meriterebbe di essere approfondita nel suo significato; ceto, essa, per essere una linea politica nuova, di anni nuovi, rispetto al passato deve contenere qualche cosa che si ricolleghi a quel tanto di novità problematica, discutibile quanto si voglia, che è nel Partito Comunista e nel rapporto tra Partito Comunista e gli altri partiti.

Abbiamo cercato di stabilire un certo contatto reciprocamente costruttivo, sulla base non di un urto polemico quotidiano, come era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un certo spirito costruttivo, per ricercare se tra queste due forze antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza, per lo meno su alcune cose; se vi potesse essere interesse a capirsi reciprocamente intorno al modo di soluzione di alcuni problemi del Paese. Ed è in questo quadro di un confronto così intenso che abbiamo potuto inserire – ripeto – con qualche iniziale disagio, ma poi con riconoscimenti positivi, la formula di “non sfiducia”, una sorta di accostamento obiettivo, di atteggiamento non negativo dei partiti.

Questo atteggiamento dei partiti includeva anche il Partito Comunista. Ciò era una novità; non è che noi, cari amici, non ce ne siamo accorti. Voi avete certamente colto questo elemento di novità. Avete avuto presente il contesto storico, il fatto elettorale, gli anni che stavano dietro di noi; avete guardato, abbiamo guardato, al Paese. Abbiamo ritenuto che questo allineamento, in forma di obiettivo e non negoziato contributo, del Partito Comunista, in forma di astensione, potesse esser accettato. Cosa ha significato l’accordo di programma. Abbiamo avuto alcune decisioni in materia istituzionale, anche esse motivo di turbamento, poi comprese nel loro significato. Ad un certo momento abbiamo stipulato un accordo sul programma, nella logica di quel non rompere tutto, come si poteva essere tentati di fare, per la difficoltà di immaginare che cosa sarebbe sopravvissuto a questa generale rottura, e quindi abbiamo cercato (anche qui con molte comuni trepidazioni) di dare un contenuto positivo all’intesa, di sostituire cioè al non opporsi un qualche accordo parziale – abbiamo detto – su alcuni punti particolari: qualche accordo parziale su cose da fare, per un certo tempo.

Abbiamo detto che questa operazione non comportava la formazione di una maggioranza politica il che non è stato contestato. Abbiamo detto che si trattava però di un fatto che aveva un suo significato politico. Cioè, abbiamo arricchito ancora il quadro del confronto ravvicinato, obbedendo alle esigenze del Paese. Dato che non si vuol rompere perché si ha paura delle gravi conseguenze per il Paese, si è naturalmente cercato con ogni cautela, con rispetto per la identità e la sensibilità della Democrazia Cristiana, di fare qualche cosa di positivo, di programmare – ecco il senso dell’accordo di programma – un po’ quell’azione di governo che altrimenti il Presidente del Consiglio doveva faticosamente improvvisare, di giorno in giorno, cercando poi di renderla accettabile per le Camere.

C’è una polemica, che credo francamente ingiusta, intorno al modo con cui abbiamo gestito questo programma; non che esso abbia avuto grande attuazione, non se ne è avuto il tempo; ma respingo fermamente l’idea che vi sia stata una volontà della Democrazia Cristiana di bloccare l’attuazione del programma. Potremmo dire che in alcuni casi il blocco è venuto da altre parti e da parte nostra abbiamo veramente giocato tutte le carte su questo terreno a abbiamo persuaso il partito della bontà di questa idea, del suo valore positivo, si intende, nel quadro non tradizionale in cui ci si inseriva. Questo è diventato patrimonio del partito.

Ci è accaduto di cogliere con soddisfazione, nel corso di questa crisi, indicazioni in senso favorevole sull’accordo di programma integrato anche da un’intesa di politica estera. In non voglio entrare nella storia di questa crisi, perché non mi piace fare il processo agli altri partiti; è vero che c’è stato del nervosismo di base nel Partito Comunista, che vi è stata una decisione che a noi è parsa per lo meno affrettata, e devo dire che non c’era un impegno di durata dell’accordo a sei, questo impegno preciso non c’era, c’era però l’accettazione dell’accordo e la legittima previsione che esso potesse andare avanti ancora qualche tempo. C’è stata qualche cosa, forse l’aggravarsi della situazione, forse l’inquietudine della base sindacale, che ha portato a questa decisione avvenuta al di fuori di noi. Capaci di flessibilità e di assoluta coerenza Ecco, questa è la storia che sta alle nostre spalle; e adesso si tratta di vedere che cosa si debba fare di fronte a questa crisi che è scoppiata coinvolgendo prima alcuni dei partiti intermedi e poi, alla fine, con valore determinante, il Partito Comunista.

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Alcuni interrogativi

Ed è qui naturalmente il nucleo centrale delle nostre riflessioni, ma soprattutto vorrei dire delle nostre comuni preoccupazioni. Cioè, dobbiamo domandarci: è possibile andare avanti, è sperabile di poter andare avanti nella soluzione della crisi camminando in modo lineare nell’ambito di una direttiva che è stata tracciata, che ha già avuto alcuni tempi di svolgimenti, ma che è rimasta nel suo significato complessivo? Che cosa dobbiamo fare? Abbiamo delle difficoltà. Dobbiamo fare qualche cosa, e nel fare qualche cosa rischiamo di cambiare la nostra linea, di menomare la Democrazia Cristiana, di compromettere la identità della Democrazia Cristiana ed il suo dialogo aperto e costruttivo con l’opinione pubblica? Questo è il quesito. Che cosa possiamo fare per fronteggiare la situazione ed insieme per non rompere, per non distruggere, per non far nulla di catastrofico, per non guastare delle cose che sono essenziali, per noi, che sono ragioni di vita per la Democrazia Cristiana? Questo è il punto; e qui vorrei ricordare – avendo sempre in mente la storia della Democrazia Cristiana – i trent’anni che hanno visto tante svolte, se volete svolte piccole, a fronte dei problemi ben più impegnativi che stanno dinanzi a noi. Quale è la garanzia reale del nostro più che trentennale predominio della vita politica italiana? Nella nostra opposizione al comunismo, certamente, abbiamo vissuto, ci siamo fatti forti, siamo restati forti come alternativa ideale di fronte al Partito Comunista.

Ma, pur con questo sfondo, ci siamo trovati dinanzi una infinità di problemi, di esigenze di carattere sociale, di carattere civile, di carattere umano e di carattere politico; ci siamo trovati tante volte a fare delle scelte di forze politiche (dalla scelta centrista fino alla scelta di centro-sinistra). Io mi guardo bene dal parificare l’attuale congiuntura a queste altre, ma voglio dire che sull’umano, sul sociale, sull’economico, sul politico abbiamo saputo cambiare quando era necessario ed era possibile in aderenza alla nostra coscienza democratico-cristiana. Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. L’abbiamo tenuta perché siamo stati capaci di flessibilità ed insieme capaci di una assoluta coerenza con noi stessi, sicché in nessun momento abbiamo smarrito il collegamento con le radici profonde del nostro essere nella società italiana. La nostra flessibilità ha salvato fin qui, più che il nostro potere, la democrazia italiana.

Lo dico sapendo che le cose oggi sono diverse, sono molto più grandi, hanno bisogno di una misura, di un limite, perché le cose alle quali guardiamo insieme problematicamente, si inseriscano nella linea della flessibilità costruttiva e non nell’ambito delle posizioni incoerenti e suicide.

È necessario quindi guardare alla situazione e guardare alle alternative. Qualche volta mi è stato estremamente fastidioso domandare ad amici con i quali si discute in amicizia, quali sono le alternative a qualche cosa che non ci sentiremmo di fare.

E quindi assicuro che, quando dico questo, non intendo rivolgermi con una sfida a nessuno degli amici. Questa domanda credo che ciascuno di noi se la sia posta e se la ponga angosciosamente ogni giorno: quali sono le alternative possibili in presenza di una crisi che è quella che è, in presenza di certe sollecitazioni, in presenza di certi rischi che noi cogliamo all’orizzonte? Quali rischi cogliamo all’orizzonte?

Dico queste cose perché riflettiamo tutti insieme. E quando io fossi certo che abbiamo riflettuto insieme e deciso insieme, io sarei fermissimo, felice di andare con voi qualunque cosa accada, ma l’importante è che noi sappiamo bene che cosa si profila all’orizzonte, almeno che cosa potrebbe profilarsi. Non è facile sapere. C’è della sfida, c’è della realtà, c’è della esasperazione, c’è un’illusione? Che cosa vedo come possibile sulla base di quello che si dice, che si può intuire?

Qualche cosa che può non essere vera, può incontrare delle difficoltà obiettive, ma che ha un determinato grado di pericolosità che noi, cari amici, dobbiamo cogliere nella nostra responsabilità. Ecco, vedo il rischio di una deviazione nella gestione del potere, cioé di quello che si dice “passare la mano”. Non passare la mano da un uomo ad un altro, come accadeva una volta quando avevamo tanto spazio, ma passare la mano da uno schieramento all’altro. È una cosa possibile? È una cosa probabile? Io non lo so.

Mettiamola tra le cose problematiche, tra le tante cose problematiche che devono occupare la nostra coscienza. Senza esitazioni la difesa degli elettori. Potrebbe non essere vero, ma potrebbe anche esserlo, qualora una situazione elettorale si profilasse all’orizzonte e della quale ho una certa convinzione che difficilmente sarebbe fatta con gli strumenti tradizionali della Democrazia Cristiana. Una deviazione nella gestione del potere potrebbe essere una provocazione, una eccitazione o un proposito più serio. Lascio il dubbio su questo.

L’alternativa elettorale – che è stato detto da tutti non essere nelle nostre mani – non avrebbe del resto carattere risolutivo e presumibilmente aggraverebbe, avvenendo a questo punto, quel reciproco condizionamento delle due grandi forze di cui si diceva. Esse si ritroverebbero faccia a faccia, presumibilmente con un ulteriore logoramento delle forze intermedie. Ed allora non sarebbe forse possibile che queste forze intermedie, per parare una minaccia di cui esse devono sentire tutto il peso, acconsentissero, almeno per un certo tempo, ad una certa operazione politica? Sono dei dati che dobbiamo avere dinanzi.

Io mi compiaccio di nostri amici che all’inizio hanno parlato di elezioni con l’impeto di chi dice: c’è qui una dignità offesa, una menomazione della nostra personalità, piuttosto andiamo alle elezioni! Certo, io apprezzo e condivido questo stato d’animo di coraggio. Certamente se ve ne fossero le condizioni, esse risponderebbero per noi ad una ragione di dignità. Dire all’elettore: ritorno a te, fedele, limpido. Ecco un atto di testimonianza (cosa importante)! Ma c’è da considerare altri aspetti: il logoramento delle forze intermedie, il ripristino, presumibile in questa fase politica, della situazione di stallo. Man mano però che si veniva parlando, sembrava evidente che si tratta di un cammino difficile, impervio, probabilmente inconcludente. Non è detto che le elezioni non possano essere desiderate da altri, anche se essi pure si rendono conto del peso che esse avrebbero. Io credo che dobbiamo domandarci sempre di fronte anche ai grandi fatti politici, che non sono regolati dalla pura convenienza (io non credo che la politica si pura convenienza, ha coefficienti di convenienza ma non è pura convenienza; la politica è anche ideale): di fronte a questa situazione vogliamo fare della testimonianza, cioè una cosa idealmente apprezzabile, rendere omaggio alla verità in cui crediamo, ai rapporti di lealtà che ci stringono al Paese, vogliamo promuovere una iniziativa coraggiosa, una iniziativa che sia misurata, che sia nella linea che abbiamo indicato e sia pure nelle condizioni nuove nelle quali noi ci troviamo?

Ecco, ad un amico, nel corso di un piccolo cenacolo che ha avuto il pregio di svolgersi nella più assoluta discrezione (fatto più unico che raro nella politica italiana), il quale mi chiedeva: si va alle elezioni, bisogna fare le elezioni come testimonianza? Ho risposto: questa è certo la cosa più pulita, risponde ad una coscienza cristallina. Ma se dovessi guardare alla difesa, che pur tocca a noi, di alcuni interessi, non grandi interessi, ma i normali, i legittimi interessi di 14 milioni di elettori, se dovessi scegliere per quanto riguarda la loro integrità, ecco, io avrei qualche esitazione (non ho scelto, non scelgo, dico avrei dell’esitazione) a scegliere la via della testimonianza.

Però, certamente non esiterei ad andare alle elezioni o all’opposizione, se mi si rompesse tra le mani il meccanismo di ideali e di valori che abbiamo costruito insieme nel corso di questi anni. Se si trattasse di questo, di fare anche l’ultima elezione per mantenere fede ai nostri ideali democratici cristiani, lo dovremmo fare se la posta in gioco lo richiedesse. Se, invece, vi è, nella pazienza, nella ricerca, nel ritmo della nostra conduzione della crisi, una via che ci si apre dinanzi, che ci permetta di restare sostanzialmente nella nostra linea anche se su un terreno nuovo e più esposto, dicevo: sì, cari amici, questo terreno nuovo e più esposto c’è già, ci siamo sopra nella vita politica (forse, anche per qualche errore di amici periferici, ma anche per situazioni obiettive, difficili da dominare) in molte articolazioni dello Stato democratico che è così multiforme, che nessuna conquista elettorale ce lo può dare tutto.

Ci sono tuttavia dei limiti che non possiamo superare. Ci siamo già – vi dicevo – con altri nella vita sociale, nei sindacati, nelle associazioni civili, negli organismi culturali, nelle innumerevoli tavole rotonde alle quali siamo presenti. Questa è la realtà sociale alla quale io, naturalmente, non vedo una alternativa perché mi rendo conto che le cose camminano con un loro impeto. Ma vogliamo renderci conto di quanto sia diversa la realtà sociale italiana oggi, di fronte a quella di anni fa?

Ricordo che l’on. De Gasperi – ed è la mia unica citazione – raccomandava a noi di essere sostenuti e un po’ riservati in ogni nostro contatto, di aula o di corridoio, con i colleghi comunisti. C’è una diversità che si è determinata per la forza delle cose; non voglio trarne delle illazioni, tutto ciò, cari amici, mi serve per dire che dobbiamo essere consapevoli di quanto le cose siano oggi più difficili in questo Paese che si è rimescolato, un po’ rendendosene conto, un po’ no.

 

Allora il problema, cari amici, è quello di un limite da stabilire nella linea di quella intesa di programma che avevamo portato fino a un certo punto, con alcuni contenuti, ed alcune integrazioni. Ecco, siamo stati unanimi in Direzione (voi avete accolto questa indicazione) nel dire no al governo di emergenza; nel dire no ad una coalizione politica generale con il Partito Comunista. Su questo avete visto, anche dagli interventi, che vi è un atteggiamento così netto, così unanime della Democrazia Cristiana che c’è da stupirsi che il Partito Comunista abbia voluto chiedere una cosa che era scontato non potesse avere. E questa è una cosa importante, e dobbiamo ridirla in questo momento: è importante per ora ed è importante anche per dopo.

C’è un dovere reciproco di lealtà, di far comprendere quali sono i limiti al di là dei quali non possiamo andare. Una intesa politica, che introduca il Partito Comunista in piena solidarietà politica con noi, non la riteniamo possibile; anche se rispettiamo altri partiti che la ritengono possibile in vista di un bene maggiore, come un accordo impegnativo di programma.

Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, nel senso che vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi. Sappiamo che vi è diffidenza in Europa in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose, e sappiamo che sono in gioco, in presenza di una insufficiente esperienza, quel pluralismo, quella libertà che riteniamo siano le cose più importanti del nostro patrimonio ideale che vogliamo ad ogni costo preservare. Dobbiamo preoccuparci dell’ordine democratico.

Vi è la richiesta di qualche cosa che vada al di là del programma concordato a sei; ebbene la Direzione ne ha parlato in termini cauti, naturalmente lasciando un certo margine di interpretazione, immaginando cioè una convergenza sul programma, arricchito, adeguato al momento che attraversiamo, una convergenza che si esprima, mi pare di capire, con adesioni positive. Cioè al sistema della astensione, della non opposizione, dovrebbe sostituirsi un sistema di adesioni. So che vi è un passaggio difficile, a questo punto, relativo al modo come si lega la concordia sul programma con l’adesione al Governo.

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“Io temo l’emergenza”

Credo che questo debba essere oggetto di attenta considerazione nella Direzione e nell’ulteriore lavoro che, se voi consentirete, sarà svolto dalla Delegazione. Ma si tratta appunto di queste cose, non di altre. Intesa quindi sul programma, che risponda alla emergenza reale che è nella nostra società; e questo, mi consentirete, pur nella mia sincera problematicità, di dirlo: io credo alla emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale. Noi possiamo anche dire che qualche altro ha interpretato troppo rapidamente una radunata di metalmeccanici, ma credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale, di fronte ad una situazione che ha bisogno di essere corretta, ha bisogno di un certo tempo per diventare costruttiva.

C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Non guardate, amici, soltanto alle punte acute, per quanto siano estremamente pungenti; guardate alle forme endemiche, alle forme di anarchismo dilagante cui forse ha dato il destro per imprudenza, lo stesso Partito Comunista quando ha deciso di convogliare alla grande opposizione alla Democrazia Cristiana le forze soprattutto giovanili del Paese. Io temo le punte, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, della deformazione della libertà che non sappia accettare né vincoli né solidarietà. Questo io temo e penso che l’aiuto di altri ci possa giovare nel cercare di riparare questa crisi della nostra società. Abbiamo quindi una emergenza economica, una emergenza politica, e io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell’opposizione. Sono in linea di principio pienamente d’accordo: nel nostro sistema che è il migliore, anche se limitato ad un esiguo numero di Stati privilegiati, questa idea di una maggioranza e di una opposizione intangibili e intercambiabili mi pare cosa di grandissimo significato.

Ma immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?

 

Ecco su che cosa consiglio di riflettere per trovare un modo accettabile per uscire da questa crisi. Ho ascoltato con grande interesse le cose che ha detto Donat Cattin, che mi sono sembrate di grande saggezza, non solo, ma molto intelligenti. Egli ha sentito l’importanza di questo momento e ha fornito degli elementi costruttivi, ci ha ricondotto ad una impostazione che collega programmi e quadro politico che fa perno sul programma, sul modo di cooperazione, per fronteggiare quello che si deve fronteggiare. È questo lo spirito che ci ha guidato, e mi pare che si sia lavorato bene da parte del Presidente incaricato, dell’on. Galloni, dei suoi collaboratori, della Delegazione, per identificare un punto di accordo, sulle cose che caratterizzano questo anno di emergenza economica e politica.

 

Dobbiamo, io credo, continuare in questo lavoro, non per un tempo lunghissimo, ci rendiamo conto che il Paese ha le sue esigenze. Ma io ho fiducia, con il vostro consenso, con la guida saggia della Direzione che riflette poi le vostre stesse opinioni e vi ha anche ascoltato, di potere immaginare un accordo opportuno, misurato, legato al momento particolare nel quale viviamo.

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Profetico

Si domanda che cosa accadrà dopo, qualora noi riuscissimo a realizzare la concordia necessaria per questo anno che ci sta davanti. Credo di poter dire che in questo anno non vi sarebbero da temere sorprese. Non mi sento di dire che dopo questo anno non ci saranno novità politiche: non vi è alcuna possibile garanzia. Questo non vuol dire che le cose non continuino, ma certamente una garanzia non c’è. Però voglio guardare un momento a questo anno che sta davanti a noi, questo anno che comincia con l’attuale crisi, che prosegue con le elezioni amministrative, certo difficili, ma che nel caos sarebbero ancora più difficili, prosegue con alcuni referendum, e taluni certamente delicati e termina con un periodo particolare e con un evento costituzionale.

Io non so se sia saggio dire: se non c’è certezza per il domani non vale la pena di avere un’intesa per questo tempo.

Anche questo è problematico, ma onestamente, mi pare che un certo respiro di fronte a scadenze di questo genere non sarebbe male averlo. Un certo respiro che permetta a tutti i partiti, e in primo luogo alla Democrazia Cristiana, di approfondire e far valere la propria identità.

Se mi si chiedesse se la situazione di oggi si riprodurrà domani, in elezioni più o meno ravvicinate, la prima risposta (che può essere sbagliata ma è sincera) è: sì. Se voi mi chiedete fra qualche anno cosa potrà accadere, fra qualche tempo cosa potrà accadere (e io non parlo di logoramenti dei partiti, linguaggio che penso non sia opportuno ma parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche), se mi chiedete fra qualche tempo che cosa accadrà, io dico: può esservi qualche cosa di nuovo.

Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità.

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Il tempo del coraggio e della fiducia

Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà. Quello che è importante è affinare l’anima, delineare meglio la fisionomia, arricchire il patrimonio ideale della Democrazia Cristiana, quello che è importante in questo passaggio (se voi lo vorrete, se sarà possibile obiettivamente, moderato e significativo), è preservare ad ogni costo l’unità della Democrazia Cristiana.

Per questo apprezzo tutti e dico a tutti: stiamo vicini. Non mi piace sentir dire: io voto contro. Perché questo mi sembra una mancanza di fiducia pregiudiziale nella Democrazia Cristiana. È vero quel che io ho detto, che se dovessimo sbagliare, meglio sbagliare insieme; se dovessimo riuscire, ah certo, sarebbe estremamente bello riuscire insieme, a essere sempre insieme.

C’è chi ha parlato, in questi giorni, del timore dell’egemonia comunista e si è domandato che cosa avete voi democratici cristiani da contrapporre democraticamente a questa forza avvolgente che certamente è il Partito Comunista? Dico che noi abbiamo la nostra idealità e la nostra unità. Non disperdiamole; parliamo di un elettorato liberal-democratico, certo, noi siamo veramente capaci di rappresentare a livello di grandi masse questa forza ideale, ma ricordiamoci della nostra caratterizzazione cristiana e della nostra anima popolare.

Ricordiamo quindi quello che siamo. Siamo importanti, ma siamo importanti per quest’amalgama che caratterizza da trenta anni la Democrazia Cristiana. Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme e senza queste cose insieme non saremmo il più grande partito popolare italiano. Conserviamo la nostra fisionomia e conserviamo la nostra unità. Chi pensa di far bene dissociando, dividendo le forze, sappia che fa in tal modo il regalo tardivo del sorpasso al Partito Comunista. Sono certo che nessuno di noi lo farà. che noi procederemo insieme, credo concordando, se è necessario in qualche modo anche discordando, ma con amicizia.

Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi.

 

(fonte: biblioteca Butini)

 

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