...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

ritratti politici

 

Una delle ultime foto all'Istituto Luigi Sturzo.

Amici, avversari, visioni politiche diverse e a volta contrastanti, ma la storia comune dalla gioventù universitaria alla Università Cattolica di Milano fino alla senilità a conclusione di un rilevante impegno parlamentare per la affermazione di ideali comuni, non si possono cancellare.

 

Mai!

ENEA PICCINELLI: un toscano del popolo "basso e lavoratore"
SILVIO LEGA: ricordarlo nel migliore dei modi, con un sorriso
GUIDO CARLI: il lancio dell'economia italiana sul piano internazionale
FRANCA FALCUCCI pioniera dell'inclusione
MINO MARTINAZZOLI E LA REINVENZIONE DEL CATTOLICESIMO POLITICO
RICCARDO MISASI: GUARDARE AL FUTURO CON CUORE ANTICO
GIOVANNI GORIA : UNA VITA AL SERVIZIO DEI CITTADINI E DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE
PAOLO BONOMI: "UOMO DI SALDI PROPOSITI E RISPETTATE PROMESSE"
ANGELA MARIA CINGOLANI: LA PRIMA DONNA AL GOVERNO

FRANCO RESTIVO: A ROMA CON LA SICILIA NEL CUORE

GIULIO PASTORE: UN LEADER AUTOREVOLE DELLA SINISTRA SOCIALE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
PIERSANTI MATTARELLA: DEMOCRATICO E CRISTIANO
ERMANNO GORRIERI: GRANDE “ARTIGIANO DEL SOCIALE”
Franco Foschi, l’umiltà e il servizio alla politica
Achille Ardigò: poliedro con forte identità.
Vito Lattanzio, il democristiano vicino alla gente
Gerardo Bianco "non iscritto al club degli statisti"
Massimiliano Cencelli: oltre il "manuale"
LUIGI GUI: IL MINISTRO DC DELLA "SCUOLA APERTA A TUTTI"
Giovanni Marcora: Il Comandante
Luigi Granelli. L’intellettuale autodidatta
ANTONIO SEGNI: VIGORE SARDO, COSCIENZA DEL CREDENTE, SENSO DEL DOVERE
UMBERTO MERLIN: UN POPOLARE NEL POLESINE
ALCIDE DE GASPERI: PADRE E MAESTRO DI TUTTI I DEMOCRATICI CRISTIANI
ENRICO MATTEI: IL GRANDE TRASFORMATORE
MARIO SCELBA: L'INCORRUTTIBILE
FRANCO MARIA MALFATTI
AMINTORE FANFANI
GIUSEPPE TONIOLO, PROFETA E SIMBOLO DI UN’ECONOMIA PER L’UOMO
LUCIO MAGRI
ARISTIDE, FRANCESCO, PAOLO MERLONI: Una grande storia italiana, una grande famiglia d’imprenditori

NICOLA SIGNORELLO: Ex sindaco di Roma e più volte ministro, ha onorato la Democrazia Cristiana. Ricordo di Emilio Persichetti

GERARDO BIANCO: Ricordo di Gargani
GIOVANNI MARCORA: Gli uomini della Base, la sinistra politica della DC. Ricordo di Marcora nel centenario della nascita.
ALCIDE DE GASPERI: XIX Lectio degasperiana 2022 - Sergio Fabbrini
RICCARDO MISASI: Politico democristiano di alte qualità, nel ricordo di chi lo ha conosciuto

GIORGIO LA PIRA: La Frontiera dell'Apocalisse. L'ultimo discorso di La Pira ai giovani de «La Vela»

CIRIACO DE MITA - Il ricordo di Gerardo Bianco

BARTOLO CICCARDINI - Commemorazione all'Istituto Sturzo
UMBERTO AGNELLI: Politico e parlamentare

ERMANNO GORRIERI: La grande levatura politica e intellettuale di Ermanno Gorrieri. Un esempio, il suo, per i cattolici democratici d’oggi

FRANCO SALVI: Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità dei fini (3 articoli)

UGO LA MALFA: Draghi ricorda La Malfa, riformatore di scuola laico-democratica, sempre attento a bilanciare crescita ed uguaglianza
CARLO DONAT-CATTIN: Pluralismo e unità politica cattolica
ETTORE BERNABEI: Un cattolico in lotta contro il partito dei padroni
ANTONIO SEGNI: Nell'intervista a Mario Segni sul libro "Il Colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news"
GIUSEPPE SINESIO: Una vita per la politica e la sua terra
FRANCESCO COSSIGA: Un ricordo firmato Scotti
FRANCESCO MERLONI: Un protagonista della rinascita
ALDO MORO: TERZIARIO DOMENICANO E COSTRUTTORE DELLA POLITICA: un esempio da seguire oggi

EMILIO COLOMBO: La politica come impegno sociale.

GIULIO ANDREOTTI: La politica a servizio della persona

 
ENEA PICCINELLI: un toscano del popolo "basso e lavoratore"

Era poco più che maggiorenne quando Enea Piccinelli, presidente del centro giovanile di azione cattolica della Diocesi di Pitigliano (Grosseto), inforcò la sua fiammante Lambretta per avventurarsi nelle strade che dal Monte Amiata portavano alla Maremma. Strade bianche, polverose d'estate, fangose d'inverno, i cui tornanti erano stati disegnati nei secoli dai pastori transumanti provenienti dal Casentino e dalla Val Tiberina.

Fu per lui una esperienza che non avrebbe mai scordato. La povertà, che pure abbondava nella montagna amiatina e non mancava nei paesi collinari della Valle dell'Albegna, mano a mano che si scendeva verso la pianura, diventava nerissima miseria.

Il giovane Enea, rientrato a Piancastagnaio (Siena) dove era nato il 9 ottobre 1927 e risiedeva narrò la grande desolazione e solitudine umana che lo aveva colpito piuttosto che le immagini pittoresche di butteri, cavalli selvaggi e mandrie dalle lunghe corna che la parola Maremma evocava. Né poteva nemmeno lontanamente immaginare che, negli anni successivi, il suo impegno politico nella Democrazia cristiana gli avrebbe fatto giocare un ruolo tale da collocarlo tra i protagonisti del "riscatto" di quel territorio e della sua gente.

Amintore Fanfani girava in lungo e in largo la propria circoscrizione (Siena-Arezzo-Grosseto) non solo per mantenere vivo il rapporto con gli elettori, ma anche per verificare con l'ascolto e "de visu" gli effetti sul territorio dei provvedimenti governativi. Nè mancava, allo stesso tempo, di svolgere una qualche attività di "scouting "per individuare giovani promesse da formare politicamente.

Il giacimento più fecondo era, allora, quello dell'azione cattolica, specie in quei luoghi dove la fede, l'insegnamento della dottrina sociale della Chiesa cattolica e la cura del rispetto e dignità della persona umana erano affidati a sacerdoti di grande carisma come era il caso di don Girolamo Vagaggini per la Diocesi di Pitigliano (Grosseto).E proprio a Pitigliano avvenne l'incontro di Enea con il Ministro Fanfani che rimase favorevolmente impressionato da quello "spilungone" che gli rendeva non meno di trenta centimetri in altezza.

Così, quando venne a sapere che quello "spilungone" era in procinto di trasferirsi a Roma per esercitare la professione di avvocato, lo invitò a frequentare "Nuove Cronache", il periodico da lui fondato dopo che Giuseppe Dossetti aveva chiuso "Cronache sociali "ritirandosi dalla politica per approfondire il dono della fede nella meditazione monastica.

Nacque così e trovò nuovi stimoli formativi una impegnativa collaborazione nella quale il giovane avvocato palesò le sue non comuni qualità, tanto che Fanfani, diventato dopo il congresso di Napoli (1954) segretario politico nazionale, lo designò come commissario del comitato provinciale di Grosseto precipitato in crisi. Fu un atto di grande fiducia così ben riposta che, quando Fanfani venne rieletto segretario politico nazionale (1973-1975) lo volle come capo della segreteria politica.

Il neocommissario proveniente da Roma quando scese dal treno alla stazione di Grosseto non trovò ad accoglierlo cori festanti. Sapeva che il compito affidatogli non era facile. Con decisione e autorevolezza, rimboccandosi le maniche, prese in mano la situazione. Registrò presso il Tribunale di Grosseto un periodico "Cronache Maremmane "che avrebbe dovuto essere il diario della rinnovata presenza della Democrazia cristiana nella Maremma e nell’Amiata.

Eravamo nel pieno dell'attuazione della riforma agraria. Gli interventi governativi avevano trasformato la provincia in un cantiere a cielo aperto. Era il colpo di maglio assestato ad una economia depressa, condannata dai grandi latifondi a un immobilismo secolare e senza speranze.

 Ripercorrendo quegli anni attraverso la lettura di "Cronache Maremmane" è palpabile la forza propulsiva impressa al partito inteso come rete d'ascolto solidale e strumento partecipativo per promuovere insieme idee e progetti che rendessero la vita migliore. L'arretrato sociale era enorme. Non si chiedeva il superfluo, ma si lottava per ottenere l'essenziale: la luce elettrica, l'acqua potabile, la strada, la scuola, l'ambulatorio medico, la cabina telefonica. Piccoli passi concreti, considerati vittorie da chi, da sempre dimenticato, cominciava a sentirsi soggetto attivo e partecipe alle scelte per la comunità.

 Questo grande impegno collettivo fu premiato alle elezioni politiche del 1958 e Piccinelli alle elezioni del 1963 (quarta legislatura) fu eletto deputato al Parlamento. Una elezione che si ripeté con crescente fiducia nelle legislature successive fino all'ottava (1983), quando con atto di coerenza e generosità rinunciò a candidarsi per favorire ("rara avis") il ricambio generazionale.

Avrebbe potuto dare ancora molto. Venti anni di presenza in Parlamento, per i suoi elettori un punto di riferimento di grande spessore morale e garanzia di ascolto. Una storia esemplare di iniziative, di presenza, di servizio anche nei luoghi più sperduti e lontani della vastissima circoscrizione. Era stato definito il parlamentare della Maremma e dell'Amiata, ma la sua disponibilità non gli aveva mai fatto dimenticare gli elettori e amministratori locali senesi e aretini. Chiamato a responsabilità di Governo (Sottosegretario al lavoro nel quarto e quinto Governo Andreotti) aveva esercitato le alte e delicate funzioni con riconosciuta capacità e rispetto istituzionale senza che mai, neppure un'ombra sfiorasse il suo operato.

Proprio in questi giorni, cinquanta anni fa, si concludeva l'iter parlamentare della legge Piccinelli n.780/1985 che recava nuove norme per rendere l'accertamento e l'indennizzo della silicosi il più rapido possibile. Le precedenti norme si erano dimostrate più un ostacolo che un aiuto all'accertamento di una malattia professionale devastante, tipica dei minatori, ma non solo. Migliaia di famiglie in Italia (3000 nella sola provincia di Grosseto) attendevano da anni questo atto riparatore di giustizia sociale. Allora si commentò che era un giorno felice per il Parlamento perché quelle semplici norme rappresentavano l'espressione più pura e più vera di umanità e civiltà.

 Da molti anni ormai le miniere sono chiuse in tutto il Paese, ma si continua a morire di silicosi e malattie professionali vecchie e nuove continuano a mietere vittime

Sarebbe di grande significato se nel cinquantesimo dell'entrata in vigore della legge Piccinelli n.780/1975 un Convegno ne ripercorresse la storia rinnovando la sensibilità per un problema, quello delle malattie professionali, purtroppo ancora di grande attualità.

 

Hubert Corsi

SILVIO LEGA: ricordarlo nel migliore dei modi, con un sorriso

 

Provo una certa ritrosia a portare una testimonianza che mi coinvolge sul piano personale, perchè mi riporta addirittura agli anni dell'adolescenza e mi costringe, quasi su un lettino da psicanalista, a ricordare i percorsi di una vita fatta di alti e bassi nei confronti di chi ricordo: Silvio Lega.

In secondo luogo penso di allontanarmi dalle altre commemorazioni che non ho letto, per semplice mancanza di tempo, e che immagino più distanti sul piano emotivo e personale.

In terzo luogo sono convinto che poco serva ricordare che cosa sia stata la Dc: credo si possa far ripartire la Dc, ma su altri piani: una Dc nuova, in continuità ideale con quella vecchia, ma che declini i tempi attuali, tanto lontani da quelli in cui la balena bianca vinceva le elezioni, facendo tesoro degli stessi principi di base ma trasformandoli in una progettualità capace di tenere uniti gli interessi in nome di un bene più prezioso: il senso progressivo della vita che si sviluppa all'interno di un disegno provvidenziale, come ben ci seppe narrare un cattolico-liberale come Alessandro Manzoni. Ma con modalità diverse rispetto alle quattro generazioni di democristiani che si sono succeduti tra il 1943 ed il 1994.

 

Appartengo alla quinta di queste generazioni, triturata dallo scioglimento di Martinazzoli e dalle successive innumerevoli diaspore, alcune delle quali indegne del nome stesso della Democrazia Cristiana.

Silvio Lega ci fu sempre, fino al tentativo del 2014, al Palaeur di Roma, di rimettere in piedi la Dc.

Egli apparteneva alla quarta generazione.

Ma veniamo all'inizio e non alla fine di questa condivisione.

 

Ero un ragazzino appena entrato al Liceo Classico Massimo D'Azeglio, il più prestigioso di Torino, quando incontrai la politica ancor prima delle traduzioni dal greco e dal latino.

Aperti i portoni della scuola era subito occupazione, assemblea, collettivo, elezioni studentesche previste dai decreti decreti delegati ed elezioni alternative ai decreti stessi promosse dagli estremisti di sinistra.

O facevi politica, o subivi la politica.

 

In quell'istituto erano rappresentati tutti i partiti (Psdi e Pdup compresi, altrove assolutamente minoritari se non assenti): scelsi la Dc per una ragione molto semplice, i democristiani presenti al D'Azeglio mi sembravano i più seri ed equilibrati tra quanti salivano sul palco dell'aula magna e procedevano alla enucleazione, quasi quotidiana, dei loro intendimenti. Tra questi voglio ricordare Marco Camoletto, bodratiano, poi confluito nel Pd, di cui non condivido gli ultimi passaggi riconducibili ad una visione remissiva dei propri principi, ma che mi sembra giusto citare come esempio di lucida intelligenza.

Ma ero un simpatizzante democristiano che innanzitutto lavorava per la lista della scuola, non per l'egemonia del partito nei vari ambienti (come faceva il Pci con la Fgci).

 

Come me tanti cattolici che, tra le varie offerte, preferivano quella della nostra lista (Uds - Unione Democratica Studentesca) e, alla fine, dopo tre anni di lavoro, ottennero la maggioranza relativa al Consiglio d'Istituto del liceo rosso.

In questo raggruppamento era presente, con un ruolo significativo, Luca Reteuna, cugino del Segretario Provinciale della Dc di Torino, Silvio Lega, divenuto tale dopo la debacle elettorale del 1975, nel corso della quale la Dc perse contemporaneamente la guida del Comune di Torino, della provincia e della Regione Piemonte.

Uno dei principali artefici della nostra lista e nostro primo consigliere d'Istituto al D'Azeglio (l'anno successivo sarebbe toccato a me questo ruolo piuttosto ambito e lusinghiero) era, appunto, Luca con cui ho scritto a quattro mani il libro Appello Bianco - Studenti cattolico democratici nell'anno della tragedia Moro, Effatà Editrice, in cui ripercorriamo il nostro comune percorso studentesco e quello, collegato, della militanza politica.

 

Luca mi propone ad un certo punto, in quel periodo, di andare presso la sede della Dc torinese per incontrare suo cugino Silvio, Segretario Provinciale, per incominciare a stare in politica non solo al liceo, ma anche nella Dc.

Ero piuttosto scettico per questo incontro con un doroteo, anzi un neo-doroteo, perchè Lega aveva sì rotto con la classe dirigente locale che aveva portato il partito al collasso nel 1975, ma il doroteismo restava sinonimo di compromessi di potere al ribasso e perchè frequentavo con vivo piacere il Teatro Piccola Luce dove periodicamente Carlo Donat Cattin aggiornava i cittadini sullo stato dell'arte della politica nazionale.

 

Insomma, mi piaceva Donat - in questo anche spinto da un mio zio sindacalista Cisl, naturalmente di Forze Nuove, che mi avrebbe anche fatto anche conoscere l'Mcl di Sabatini, quando l'Mcl si occupava di lavoro e non di traffici.

Silvio mi piacque, perché non aveva nulla del notabile doroteo e gli anni e lo spirito che ci distanziavano non erano molti.

Cominciai ad affiancare l'attività nelle scuole con quella di partito.

 

Nelle scuole, perché, partiti dal D'Azeglio, arrivammo in tutti gli istituti della città, grazie alla collaborazione di un mondo cattolico e democristiano unito e compatto, pronto per l'elezione dei distretti scolastici in cui erano presenti scuole statali e scuole paritarie.

In una di queste la Rosa Luxembourg, ragionieri, orientata a sinistra come indica con immediatezza il nome, incontrammo Gabriella Pavesi Negri. Era un continuo passa parola ed una ricerca di giovani cattolici e figli di democristiani per contrapporsi alla marea rossa che avrebbe strumentalizzato la vittoria nelle scuole come ennesima prova che esisteva una società civile contrapposta ad una società legale: il sole dell'avvenire contro quello che in Italia si era fatto e si stava facendo per rendere migliore la vita di tutti, ceti subalterni innanzitutto.

 

Gabriella sarebbe di lì a poco diventata il punto di riferimento della macchina organizzativa per le europee del 1979 in cui Silvio sarebbe diventato eurodeputato; quindi ne sarebbe diventata la segretaria (e punto di riferimento nella sede della corrente in via Montecuccoli a Torino), in seguito avrebbe sposato il fratello Carlo.

Tutto partì da quel biennio esaltante e tragico al tempo stesso.

 

Tornando al colloquio col Segretario provinciale neo-doroteo, che mi diede approfondite spiegazioni sul perché del neo, decisi di aderire alla sua corrente, che era poi quella dell'amico Luca e che sarebbe stata quella di Gabriella.

Incominciai, col prezioso sostegno di Giuseppe Camoletto, a girare la provincia per coordinare i gruppi giovanili vicini a Lega in vista di un congresso del Movimento Giovanile che si sarebbe rivelato molto combattuto: tutti contro Lega, astro nascente della politica torinese, ed i suoi amici, vecchi o giovani che fossero.

 

Vedevo spesso Silvio ed il 15 giugno 1978 ero con lui, ad un comizio che tenne con la consueta facondia ad Aosta, quando giunse la notizia delle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, un uomo preparatissimo ed onesto travolto dalle calunnie messe su da un sistema di potere finalizzato a colpire la Democrazia Cristiana e la sua idea di benessere collettivo.

Era lo stesso disegno che portò al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro.

 

Silvio Lega era Segretario provinciale nei giorni del rapimento ed in quello del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani.

Mirabile il suo comizio e la cornice di pubblico che si raccolse attorno alla Dc il 9 maggio in piazza San Carlo. Non c'ero perchè mio padre mi proibì di scendere in piazza convinto che sarebbe successo qualcosa di molto grave: dovetti scegliere tra l'ansia di un padre, che aveva conosciuto la Resistenza, e la voglia di essere tra quanti riempirono quella piazza.

Ma Lega non era soltanto il Segretario provinciale dei grandi eventi luttuosi.

Lanciò in quei mesi il Progetto Torino, attorno a cui chiamò a raccolta con successo tutte le forze economiche significative della città, dall'Ascom di Giovanni Salerno, alla Camera di Commercio di Enrico Salza, alla Fiat di Umberto Agnelli e Luca Cordero di Montezemolo.

 

Il concetto era semplice ma efficace.

La Torino fordista stava finendo (lo diceva a fine anni Settanta), anche se Fiat costruiva in quel momento il suo centro direzionale in Corso Ferrucci con tanto di pista per elicotteri (che infatti non sarebbe mai stata utilizzata).

Occorreva affiancare al settore manifatturiero un terziario avanzato, di supporto alla produzione, la quale sarebbe, però finita altrove.

 

Anche il commercio si sarebbe evoluto verso quelli che sarebbero poi divenuti i centri commerciali, giusti nell'idea ma pessimi nella realizzazione effettuata.

Si Iniziava a capire la necessità di supportare gli anziani e l'importanza della tenuta del servizio sanitario nazionale.

Inoltre, la crisi di Milano apriva in quegli anni importanti spiragli per Torino anche nel comparto finanziario ed assicurativo.

Le sue intuizioni non vennero seguite, ma restano un esempio di un'intelligenza anticipatrice dei tempi.

Alle prime elezioni europee con designazione dei deputati attraverso il suffragio diretto, Silvio Lega venne eletto a Strasburgo giungendo sesto sugli otto eletti della Dc nel Nord-ovest.

 

Un successo difficilissimo, conseguito grazie ai suoi meriti ed al suo radicamento nella società piemontese, ma anche a quel gruppo di giovani volontari che diedero molto in termini di passione e di entusiasmo al raggiungimento di un obiettivo non scontato.

Donat Cattin gli aveva preconizzato che non sarebbe diventato eurodeputato neanche se avesse concesso sè stesso a tutta Torino (i termini erano molto più triviali, ma permessi al leader della sinistra sociale democristiana).

Fu anche il mio primo voto quello per le europee del 1979. Anzi il secondo, perché la settimana prima si era votato per le politiche.

Alla Camera avevo votato Donat Cattin, per Strasburgo fu la volta, finalmente, di Lega.

 

Dopo la sua elezione si andò, l'anno successivo, al Congresso provinciale di Torino del Movimento Giovanile Dc, quello che stavamo preparando da un anno (era difficile celebrarlo perché le contrapposizioni interne portavano sempre a nuovi rinvii, in una situazione di Commissariamento).

Tutti contro Lega era la sintesi della volontà congressuale dei giovani, alcuni dotati di propria personalità, come Giorgio Merlo, Rodolfo Buat ed Antonello Angeleri, altri eterodiretti.

Pazienza.

Feci la minoranza in solitario ma, dopo alcuni mesi, venni ricompreso in una gestione più aperta, grazie ai rapporti umani e personali che non vennero mai meno con gli altri coscritti.

Nel frattempo, alle comunali ed alle regionali del 1980, il gruppo Lega portò al comune di Torino Giampaolo Zanetta ed alla Regione Piemonte Mario Carletto.

 

Era necessario completare la rappresentanza nelle istituzioni in una situazione in cui il potere aveva il suo peso.

Di quegli anni vale ancora ricordare che Silvio Lega rimase coerentemente doroteo a livello nazionale, con Rumor, Gullotti e Piccoli e, durante la stagione del rinnovamento voluta da Zaccagnini, appoggiò Zac.

Quindi restò sempre lineare con la sua impostazione moderata e rinnovatrice al tempo stesso.

Vennero gli anni dell'ulteriore crescita della corrente.

Anche perché, nell'altro versante della Dc torinese, non vi erano più soltanto Bodrato e Donat Cattin, ma stava crescendo Vito Bonsignore, andreottiano, sia nei consensi che nel peso politico.

 

Per rimpinguare le fila neodorotee Lega arruolò Agostino Angeleri, che probabilmente chiese il mio scalpo all'interno della corrente perché il giovane di riferimento doveva essere il figlio Antonello, allora consigliere comunale, con cui intrattengo ottimi rapporti, ma che avevo commissariato, sostituendolo, al vertice del Movimento Giovanile di Torino, anche grazie al sostegno che mai mi mancò di Pierferdinando Casini, leader dei giovani dorotei dell'epoca.

Così lasciai la corrente di Silvio e tutti scommettevano che sarei approdato a quella di Rossi di Montelera o di Bodrato per il vezzo culturale che mi caratterizza nell'impegno politico.

A sorpresa, scelsi Bonsignore.

Un po' per ripicca (se ce l'hai col Milan scegli l'Inter non l'Atalanta) e, soprattutto, perché ebbi modo di conoscere e stimare Bonsignore che, per alcuni aspetti, riprendeva l'impostazione originaria di Lega: quella del Progetto Torino.

Bonsignore la chiamava modernizzazione della città.

 

Pur nel dualismo tra Lega e Bonsignore che caratterizzò la Dc degli anni Ottanta, va detto che entrambi promossero (assieme al socialista La Ganga ed al liberale Altissimo) un percorso di rinnovamento urbanistico di Torino culminato col nuovo piano regolatore, l'interramento della ferrovia Torino-Milano all'interno della città e la promozione dell'Alta Velocità ferroviaria. Senza dimenticare l'ultima autostrada realizzata in Piemonte, la Torino-Bardonecchia, che è una tratta della Roma-Parigi e non un giocattolo per i borghesi di Torino per arrivare prima in montagna (ci può stare comunque pure questo).

 

Erano gli anni in cui Bonsignore contava su una forte maggioranza all'interno del gruppo consiliare al Comune di Torino ed a lui va dato il merito di aver promosso questa fase, ma Lega non si distaccò mai da una visione propositiva per lo sviluppo di Torino.

Lo avrebbero fatto i post-comunisti, i fautori della decrescita felice e gli interessati alla fuga dai loro stabilimenti previo lauto rimborso per la famiglia e grane ridotte al minimo, sempre per la nota cerchia.

Una delle ultime riunioni che feci in via Montecuccoli fu durante la visita agli amici da parte di Antonio Gava: era il nuovo capo doroteo e non mi fece una bella impressione.

Ma ormai contava la corrente del Golfo nel centro del centro della Dc.

 

Incrociai fugacemente Silvio Lega nei vari successivi congressi della Dc che erano comunque talmente affollati da permettere di non soffermarsi troppo a tu per tu se ne aveva una specifica ragione.

Vidi Silvio all'assemblea provinciale di Torino di trasformazione della Dc in Ppi a fine 1993 quando, alla Galleria d'Arte Moderna, abbandonò con ostentazione ed un certo clamore la riunione. Non avrebbe seguito Martinazzoli, ma sarebbe stato tra i promotori del Ccd.

 

Io rimasi nel Ppi, convintamente lontano dalla Sinistra, ma perplesso su quanto avrebbe potuto fare Berlusconi per il bene della politica.

Ricevetti, in modo assolutamente inaspettato, nel 2014, una convocazione da parte del fedelissimo di Lega, Sergio Deorsola, già consigliere provinciale e regionale, che mi fece innanzitutto piacere perchè significava che l'amicizia di tanti anni aveva ancora un significato, nel corso della quale si prospettava l'idea di far ripartire la Dc.

Era la preparazione del congresso dell'Eur, che avrebbe portato Gianni Fontana alla Segreteria della Dc e Silvio Lega alla Presidenza.

Come è noto il congresso fu annullato, ma per me fu una delle ultime occasioni per rivedere Silvio e scambiare alcune considerazioni sul futuro della politica.

 

La sua idea non era tanto quella di riattivare il vecchio partito della prima repubblica, ma di creare una sorta di fondazione o di think-tank che potesse illuminare il percorso della crisi dell'Occidente e della democrazia che stiamo ormai vivendo in maniera palpabile.

Ancora una volta, si dimostrava intuitivo e lungimirante.

 

In questo, forse, le presunte o vere risorse nascoste della Dc sarebbero state di una certa utilità, ma anche di questo solo lui poteva averne contezza.

Gli altri, mi sembra, avessero al proposito soltanto idee confuse.

Tuttavia, prima della spaccatura tra Ccd e Ppi Silvio Lega, ormai tra i leader o addirittura il leader della corrente Alleanza Popolare, meglio nota come Grande Centro, avrebbe dovuto sostituire il dimissionario Forlani.

Siamo al 17 luglio 1992, ma il 18 luglio venne raggiunto da un avviso di garanzia in grado di vanificare questo estremo tentativo di rinnovamento delle Dc.

 

Era la giustizia ad orologeria, cui non seguì alcuna condanna.

So di un armadio in casa sua sigillato per anni in segno di palese intimidazione, ma inutile per qualsiasi indagine.

Se Lega fosse diventato Segretario sono certo che, con la sua dialettica eccezionale ed la prontezza a cogliere in maniera critica ed autocritica i fenomeni reali, avrebbe salvato il partito.

Avrebbe bucato il video, sarebbe stato un leone nei talk-show che ormai stavano diventando il termometro della politica.

Non avrebbe preteso sconti e benevolenza, come non aveva mai fatto, persino quando si scagliò contro il direttore de La Stampa Arrigo Levi, sempre ostile alla Dc, con apprezzamenti non riportabili.

 

Però avrebbe dimostrato che la Democrazia Cristiana aveva ancora una ragione di esistere e di rappresentare, se non la maggioranza degli italiani, perlomeno una parte consistente di essi.

Avrebbe offerto una speranza ai suoi ed una preziosa indicazione politica agli altri.

Oggi, la Dc nuova di Cuffaro, a Torino, ha ricostituito una sede nel quartiere in cui Silvio è nato ed ha vissuto per molti anni.

A lui è dedicata questa sezione ed il suo ritratto sorridente campeggia sulla parete in suo ricordo.

E' il poco che i democristiani di quinta generazione possono fare per non dimenticarlo.

 

E per ricordarlo nel migliore dei modi, con un sorriso

 

Mauro Carmagnola

GUIDO CARLI: il lancio dell'economia italiana sul piano internazionale

 

Guido Carli nacque a Brescia il 28 marzo 1914 e morì a Spoleto il 23 aprile 1993. Economista e politico, fu una figura centrale della vita istituzionale ed economica dell'Italia del secondo Novecento. La sua carriera si è estesa per decenni, durante i quali ha avuto un'influenza significativa sull'economia e la finanza italiana, contribuendo alla modernizzazione del sistema economico del Paese.


Nel 1953 fu nominato Ministro del Commercio con l'Estero e nel 1959 Direttore Generale della Banca d’Italia. Nel 1960 fu Governatore della medesima Banca d'Italia, ruolo che mantenne fino al 1975. Con Paolo Baffi, il consigliere economico della Banca nominato direttore generale, che nelle sue memorie Carli definisce l’«intelligenza critica al [mio] fianco», e con la vigile e intelligente collaborazione di Antonino Occhiuto, nominato vicedirettore generale addetto al funzionamento della complessa macchina della Banca centrale, Carli completò il lancio dell’economia italiana sul piano internazionale.

Il periodo era caratterizzato da profonde trasformazioni economiche e la gestione della Banca d'Italia fu caratterizzata da un approccio rigoroso e da una forte difesa della stabilità della lira, in un contesto internazionale sempre più complicato.
Nel giugno del 1975 presentò le dimissioni dall’incarico di governatore e lasciò la Banca il 18 agosto 1975.
Nel 1976 divenne presidente dell’Impresit International e, in questa veste, accogliendo la proposta di Gianni Agnelli, accettò di diventare presidente della Confindustria, in presenza di una grave crisi economica e della conseguente crisi sociale.

Attività Politica

Dopo aver lasciato la Banca d'Italia, Carli intraprese una carriera politica attiva. Fu Senatore della Repubblica Italiana dal 1983 al 1992 nella IX e X Legislatura.
Dal 1989 al 1992 ricoprì la carica di Ministro del Tesoro durante il VI e VII Governo Andreotti. In questo ruolo, Carli si trovò ad affrontare una delle crisi economiche più gravi nella storia recente dell'Italia, caratterizzata da un forte debito pubblico e da una crescente pressione internazionale per una riforma economica. Carli fu uno dei principali artefici delle politiche di austerità che cercarono di stabilizzare l'economia italiana e preparare il Paese all'ingresso nell'Unione Europea e, successivamente, nell'euro.
È stato il ministro del Tesoro che negoziò e, poi, firmò il Trattato di Maastricht che, nel 1992, portò l’Italia sulla strada della moneta unica europea.


Eredità

Guido Carli è ricordato come uno degli economisti e banchieri più influenti nella storia dell'Italia contemporanea. La sua visione economica e il suo rigore amministrativo hanno lasciato un'impronta duratura sulle istituzioni italiane. Guido Carli è stato una figura centrale nel panorama economico e politico italiano, con un'influenza che si estende ben oltre la sua epoca, lasciando un'eredità che ancora oggi viene studiata e ammirata.


R
edazione de Il Popolo

FRANCA FALCUCCI pioniera dell'inclusione

 

Per 13 anni restò alla guida del Movimento femminile della DC, per circa cinque anni restò in carica come Ministro della Pubblica istruzione. In entrambi i casi una longevità non comune. Franca Falcucci è stata una personalità di spicco del panorama politico della prima Repubblica, protagonista di una vasta e complessa attività, sul piano politico ideale e realizzativo. Fu delegata nazionale del Movimento Femminile, senatrice, sottosegretario e poi Ministro della Pubblica istruzione, Presidente della Sezione italiana e membro del Consiglio europeo dell’Unione europea femminile.

 

Gli esordi

Nell’immediato dopoguerra rappresentò nella CGIL la corrente sindacale cristiana nella Commissione femminile nazionale dal 1946. Aveva maturato l’interesse per la politica durante gli anni del liceo, quando il fratello di una compagna di scuola l’aveva messa in contatto con i gruppi democristiani clandestini che frequentò fra il 1940 e il 1944. Quando cominciò ad avere contatti con i gruppi clandestini della Dc, lei stessa affermò, «riconobbi in questo movimento le ragioni profonde ed i valori che avevo maturato nel mio animo, come presupposto del mio impegno politico». 

 

Nel Movimento Femminile della DC

Iscritta nel 1944 alla sezione DC di Trastevere, cominciò non ancora diciottenne la sua attività nel partito della DC. Nel 1945, con Clelia D’Inzillo, fu fra coloro che vennero chiamate “le ragazze della Maraglio”, instancabile organizzatrice di leve femminili. Nel marzo del 1947, al secondo congresso nazionale del MF della DC venne eletta nel Comitato centrale. L’allora delegata nazionale Maria De Unterrichter Jervolino, la nominò nel 1951 incaricata delle giovani. Nel primo convegno delle giovani democristiane che si svolse a Roma dal 22 al 24 ottobre del 1950, preparato sulla base di un vasto lavoro di indagine sulla condizione giovanile, svolto in ottanta province, Falcucci tenne la relazione principale dal titolo Istanze della nostra età «la civiltà moderna [affermò], come conseguenza di una evoluzione sociale e tecnica, offre al giovane un’ampia possibilità di realizzare sé stesso. Questa evoluzione porterebbe a delle gravissime disarmonie se ogni uomo, specie se giovane, non sentisse di dovervi partecipare con una presenza cosciente. Questa presenza si concreta in una sincera realizzazione della propria personalità (…)».

L’accento posto sulla realizzazione della “persona umana”, ispirata al pensiero di Mounier segnava, in quegli anni, l’apertura di un nuovo spazio di riflessione, soprattutto fra le avanguardie giovanili, sul concetto cristiano della dignità femminile concepito nei termini più ampi della realizzazione della donna come persona e come soggetto di responsabilità. Insegnamento, questo, appreso nella pratica sotto la guida di Maria Iervolino. Questo concetto diede senso, spessore, coerenza alla sua azione politica. D’altronde ella stessa affermò, in una intervista a Tiziana Noce, «Dossetti, Fanfani hanno contribuito tantissimo alla mia formazione, non parliamo di De Gasperi. (…) e ricordo che soprattutto nei primi anni era forte l’influenza degli autori francesi, di Maritain di Mounier».

 

Delegata nazionale del MF

Venne eletta delegata nazionale al X congresso di Roma, nel 1964.  Come ha affermato Paola Gaiotti, fu un periodo in cui il MF conobbe un notevole salto di qualità anche nei dibattiti politici che animarono gli anni Sessanta. L’evoluzione della società metteva in evidenza i limiti di una pura parità giuridica, c’era il tema irrisolto del diritto di famiglia, sul piano del costume venivano alla ribalta le questioni della moralità sessuale, dell’inserimento professionale paritario. Il 1964 era anche l’anno in cui Paola Gaiotti De Biase pubblicava su Donne d’Italia il suo articolo dal titolo La questione femminile è una questione nazionale. L’approdo a questa consapevolezza era stata parte integrante dell’azione del MF nel suo ruolo essenziale di formazione, di studio, di sollecitazione verso il partito e verso l’opinione pubblica sui temi femminili, nella convinzione che solo un impegno responsabile del Paese avrebbe potuto avviarne la soluzione.

Una guida equilibrata, ferma e autorevole. Così emerge la sua leadership nel MF. Seppe tenere unito il Movimento  in momenti difficili, contenendone spinte centrifughe che avrebbero compromesso anche l’unità del partito, ma senza rinunciare per questo a far sentire la propria voce, anche di dissenso rispetto ai vertici. Con un cambio generazionale, Franca Falcucci succedeva alla dorotea Elsa Conci. L’allora segretario politico della DC Mariano Rumor accolse con favore la sua elezione ma non fu la vicinanza alla maggioranza del partito a determinare di per sé un salto di qualità del MF anzi, la presenza femminile fra le elette, anche negli organi del partito, restò esigua.

Ma ben lontano dall’appiattirsi sulle posizioni maggioritarie, la guida Falcucci vide istanze sempre più critiche rispetto ai pericoli delle derive correntizie del partito e sui grandi temi che agitavano le coscienze soprattutto femminili in quegli anni, in particolare sulle politiche riguardanti la famiglia. Durante gli anni Sessanta erano nati vivaci fermenti provenienti dalla base, dalle sezioni provinciali femminili. Si lamentava una sorta di delega fiduciaria della direzione DC sui temi femminili, di cui si occupava solo il MF. Era, però, difficile stabilire quanto questo significasse un autentico segnale di fiducia da parte del partito o un modo per defilarsi da un impegno organico verso la questione femminile, soprattutto con riguardo alla famiglia. 

A farsi portavoce dei malumori fu Franca Falcucci in una lettera a Mariano Rumor. A scatenare le rimostranze di Falcucci era stato il contegno del partito di fronte al problema della riforma dei codici relativamente al Diritto di famiglia. Alla fine del 1968 il governo presieduto dallo stesso Rumor, dovendo fronteggiare l’avanzata del fronte divorzista, predispose una commissione di esperti in materia. Il MF puntò sulla partecipazione ai lavori di Tina Anselmi che, consigliera nazionale della Dc dal 1959, era già una personalità di rilievo nel partito, impegnata costantemente sui temi  della famiglia e del lavoro femminile.

Le aspettative vennero presto deluse perché nella commissione del governo non venne inclusa nessuna donna democristiana, pur essendo il partito a conoscenza del fatto, come scrisse Falcucci, che il MF era stato «l'unico settore che in questi anni ha approfondito, con la collaborazione di giuristi, i problemi connessi alla riforma del diritto di famiglia», formulando anche proposte concrete. Il crescente malcontento non tarderà a manifestarsi al congresso nazionale di Maiori nel settembre del 1969.  

Il XII congresso delle donne DC venne incentrato sul tema “Democrazia e partecipazione”, erano presenti 420 delegate. Già osservando i documenti preparatori, il congresso si preannunciava ricco di fermenti ed elementi di dibattito, qualche delegata aveva proposto di inserire nell’odg dei lavori anche la questione del cattolicesimo del dissenso, iniziativa prontamente dissuasa dalla delegata nazionale.

L'ultima giornata assunse toni accesi e vide interventi polemici. Quelli più palesemente contestatari verso i vertici del partito furono quelli di Paola Gaiotti De Biase e di Maria Paola Colombo Svevo. In particolare, riferendosi al partito, le argomentazioni di quest’ultima facevano perno sul fatto che una ristretta minoranza detentrice del potere e persuasa, «con scarso senso della realtà, di esercitarlo bene», metteva fuori gioco tutte le spinte provenienti dalla base: «Non intendiamo operare una rottura delle istituzioni esistenti. Vogliamo però che il sistema subisca un cambiamento. Vogliamo partecipare ai livelli decisionali». Colombo Svevo contestò anche la dirigenza del MF, troppo timida nel proporre al partito il vero punto di vista femminile tant’è che, ironizzò Svevo, i documenti del Mf erano «approvati sempre all’unanimità».

L’altro elemento di frizione tale da rasentare la spaccatura, si manifestò in occasione del dibattito sulla introduzione della legge sul divorzio. Molte delegate, soprattutto le giovani, si dichiararono favorevoli al nuovo istituto giuridico ma dichiararono al contempo di volersi uniformare alla disciplina del partito «per rispetto della maggioranza», una motivazione da cui risultava assente il fattore religioso-sacramentale che pure era al centro del dibattito all’interno del mondo cattolico. Fu opera delicata e complessa quella di Falcucci, ma riuscì a riportare ad un clima sereno la discussione che si concluse, non senza difficoltà, con la sua rielezione a delegata nazionale.

 

Senatrice

Da senatrice si spese energicamente contro l’approvazione della legge sul divorzio nonché sul tema della riforma del diritto di famiglia. La presentazione della legge Fortuna provocò un terremoto all'interno dei partiti di Governo. Al principio di giugno del 1969 si riunì a Roma la Direzione nazionale del partito per discutere la questione. L'intervento di Franca Falcucci fu cauto e si limitò ad esporre le ragioni per le quali andassero respinte le tesi divorziste. Falcucci affermava che non era la coercizione del diritto a preservare l'unità della famiglia. Il diritto doveva costituire semmai il punto di riferimento positivo della coscienza civile del paese, che non poteva non avvertire la gravità dell'indebolimento della famiglia, soprattutto in un periodo in cui la crisi dei valori umani appariva così profonda.

L'introduzione del divorzio avrebbe segnato non solo l'affermarsi di una legislazione, ma anche di una “concezione divorzista” e quindi «una spinta positiva alla disgregazione della famiglia». In quella battaglia, che pure rivelò la distanza della DC dal riconoscere il sentire del Paese, le istanze della società, le democristiane non rinunciarono alla propria identità culturale di riferimento, quella cattolica, che ne definiva in parte anche l’identità e l’azione politica.

L’atteggiamento con cui le democristiane arrivarono all’appuntamento e vissero i grandi rivolgimenti degli anni Settanta andrebbe analizzato più che misurando il grado di dissociazione fra fede/religiosità e prassi sociopolitica, tenendo conto del grado di problematicità conferito a tale rapporto.  In cui gli stessi orientamenti pastorali dei vescovi, più che contraddetti, venivano filtrati dalla coscienza personale delle singole donne.

 

Al Ministero della Pubblica Istruzione

Franca Falcucci diresse il ministero di viale Trastevere dal dicembre 1982 al luglio 1987 e per tutta la durata dei governi a guida socialista. Nel dicembre del 1982, quando ottenne l’incarico di Ministro nel breve governo Fanfani sostituendo Guido Bodrato, poteva vantare già molti anni di esperienza all’interno del ministero, compresi cinque anni come sottosegretario alla Pubblica istruzione a partire dal terzo governo Andreotti. Nel campo scolastico e della educazione il suo nome è legato a interventi decisivi.  Nel 1974 il ministro della Pubblica istruzione Malfatti, nominò una Commissione con l’incarico di svolgere un’indagine nazionale sui problemi degli alunni con handicap, Franca Falcucci ne fu la Presidente.

Un anno dopo la commissione produsse il cosiddetto “Documento Falcucci” che tuttora viene segnalato nella letteratura di settore e negli studi storici come il più avanzato a livello europeo e internazionale sulla disabilità. Il documento include di per sé, anticipandoli, alcuni temi chiave di quella politica per l’infanzia che vede il passaggio della persona di minore età da oggetto di protezione a soggetto di diritti che verrà consacrata a livello internazionale nel 1989, con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia.

Dal Documento Falcucci discese la legge 517/1977 sulla abolizione delle classi differenziali. L’integrazione scolastica, per Falcucci, doveva essere considerata «un processo irreversibile» perché «coerente con il fine proprio della scuola che è quello di promuovere le potenzialità di ogni bambino, adeguando alle sue esigenze e alle sue possibilità le metodologie più idonee per suscitare la vita le spinta dinamica che deve alimentarne lo sviluppo».

L’integrazione scolastica dei bambini con handicap fu il tema sociale, politico e culturale di Franca Falcucci in quegli anni, fu un lungo cammino che avrà poi uno sbocco decisivo nella legge quadro del febbraio 1992 n. 104. Questa legge fu promossa e sostenuta dalla ministra per gli Affari sociali pro tempore Jervolino e seguita con assiduità da Leda Colombini.

 Franca Falcucci riconobbe in quella legge del 1977 una conquista di tipo civile e culturale “Certo era cominciata che gli handicappati in classe nessuno li voleva, c’erano molte resistenze. Il problema non era dentro il mondo della scuola, ma fuori: culturale, nelle famiglie. Però ci abbiamo lavorato molto, prima di fare la legge abbiamo preparato a lungo il terreno; quindi, alla fine siamo riusciti a farla passare. Ci fu un clima positivo, anche nella fase attuativa, che poi ho vissuto direttamente, da Ministro>>. Era molto fiera di quella legge:  «Ho sempre creduto nella scuola come luogo dove si sviluppano le potenzialità delle persone e nel diritto di tutti ad essere protagonisti della propria crescita».

Sono ormai diversi gli studi di settore che segnalano la riforma della scuola elementare come uno dei risultati più alti di Falcucci. La scuola elementare del 1985, quando furono approvati i nuovi programmi scolastici, venne concepita come luogo di accoglienza dell’alunno inteso come persona globale. La programmazione didattica prevista dai decreti delegati, la libertà didattica e la professionalità del nuovo maestro, grazie ai piani di aggiornamento, avevano lo scopo di rispondere a questa sfida. La scuola come luogo di valorizzazione delle potenzialità del fanciullo e della integrazione delle diversità.

Per questo la riforma prestò particolare attenzione al tema delle disabilità, mettendo a frutto la sensibilità politica e l’esperienza maturata da Falcucci, già testimoniate dalla legge che nel 1977 aveva abolito le classi differenziali. La sua fu una politica scolastica tesa al rinnovamento della scuola, pur rifuggendo il mito della riforma organica.  La sua immagine venne rappresentata, in quel tempo, come poco adatta all’ansia di modernità che investiva il paese negli anni ’80.

Eppure, fu lei a introdurre l’informatica nelle scuole. Fu sua la decisione di investire risorse pubbliche materiali e intellettuali per introdurre gradualmente ma in modo diffuso le applicazioni informatiche nel sistema scolastico. Per fare questo, furono elaborati due piani sperimentali nazionali: il Piano nazionale informatico (Pni), lanciato nel 1985 e il Progetto ‘92 per l’istruzione professionale che, a partire dal 1988, avrebbe modificato radicalmente (anche sul piano culturale) l’impostazione del settore. 

La sua sensibilità normativa, tuttora persistente nel nostro ordinamento, ha inaugurato la stagione di una scuola aperta e inclusiva, della cultura della inclusione. È un tema su cui, lo sappiamo, si misura la maturità di un paese democratico, la sua democrazia sostanziale. 

 

Stefania Boscato

MINO MARTINAZZOLI E LA REINVENZIONE DEL CATTOLICESIMO POLITICO

 

Il giovane Martinazzoli, conosciuto a Orzinuovi per la sua serietà e preparazione, nel 1953 va in giro ad attaccare manifesti. O almeno così piace immaginarlo, come un militante di altri tempi. La campagna elettorale mette a dura prova la tenuta della maggioranza quadripartita, uscita vincitrice il 18 aprile di cinque anni prima. Stavolta è diverso, De Gasperi ne esce sconfitto perché la sua riforma elettorale, bollata come “legge truffa” secondo la definizione che Stalin avrebbe suggerito in un colloquio a quattr’occhi con Pietro Nenni, non passa. Il paradosso è che la coalizione delle forze di governo avrà comunque la maggioranza assoluta dei seggi, senza tuttavia superare in percentuale la fatidica soglia del 50 per cento. È la fine del centrismo, ed anche la fine di De Gasperi: un ultimo tentativo di formare il governo gli riserverà l’amarezza della bocciatura in Parlamento. I partiti alleati, per motivi diversi e convergenti, ritenevano a quel punto necessario un diverso rapporto tra laici e cattolici nel governo del Paese.  

 

I manifesti di Martinazzoli non sono quelli della Dc. A 22 anni, il futuro (e ultimo) segretario sceglie infatti di schierarsi con Alternativa Democratica Nazionale, il partito fondato dal liberale Corbino pochi mesi prima delle elezioni. Magro per Alternativa il responso delle urne, appena lo 0,3% sul piano nazionale, ma quanto basta, unitamente ai voti raccolti da altri minuscole formazioni politiche, per far deragliare il progetto di stabilizzazione del “polipartito” (Dc, Psdi, Pri, Pli). Era quanto prefigurato dall’iniziativa di De Gasperi, con la protezione di un “centro” favorito dall’attribuzione del premio di maggioranza, sostanzialmente libero dall’ipoteca delle “estreme” (non solo a sinistra, ma anche e soprattutto a destra).

Errori di gioventù? Martinazzoli non ne ha fatto mai menzione. Dopo quell’avventura entra nella Dc, si fa presto valere, assume ruoli importanti: prima assessore ad Orzinuovi e dirigente di partito a Brescia, poi Presidente della Provincia. Siamo nel 1970, due anni dopo approderà a Montecitorio. La professione di avvocato gli aveva permesso d’inseririsi in città nell’ambiente della buona borghesia cattolica, dove a tessere i fili delle alleanze e delle iniziative nel tessuto civile ed economico arriverà presto il notaio Giuseppe Camadini, pur nel contesto di una storia locale di matrice laico-risorgimentale che aveva al centro la figura di Giuseppe Zanardelli. Brescia vivrà per tutto il Novecento, anche nel periodo del Ventennio fascista, sull’equilibrio tra cattolici e liberali. Neppure la Dc, forte in città e in provincia di un largo consenso popolare, ne potrà ignorare la valenza.

Entrare nella Dc significava, in via preliminare, mettere piede in una corrente. La vicenda di Martinazzoli non fa eccezione, visto che il punto d’attrazione sarà quello della “sinistra degasperiana”, vale a dire la Base. Questa nuova sinistra, sorta sulle ceneri del dossettismo, è un luogo di confronto permanente: l’ideale per un avvocato penalista, amante del teatro, abituato dunque alle arringhe nei tribunali e alla malia del palcoscenico. De Mita un giorno chiederà ad Albertino Marcora, uno degli esponenti nazionali della corrente e capo dei basisti lombardi, un giudizio su di lui: “Mino? È un calligrafo della politica”. Insomma, un fine cesellatore di perifrasi e aggettivi in un linguaggio perlopiù sofisticato. Parlava sempre a braccio, ma non sbagliava una consecutio temporis. Non era mai, il suo, un discorso improvvisato (anche se così appariva i virtù di battute e silenzi che trasmettevano ad arte un senso di immediatezza e casualità). Eppure, in questo o quel passaggio poteva accadere che il pensiero risultasse ostico, avvolto in un linguaggio oracolare, per molti aspetti allusivo. Tuttavia, quando finì di parlare nell’ultimo congresso del 1989, celebrato in anticipo di qualche mese rispetto alla caduta del Muro di Berlino, il Palasport dell’Eur venne giù: venticinque minuti di applausi, sicuramente non orchestrati; commozione tra i più giovani per l’esortazione a “non pensare il futuro come ritorno, ma di pensare al nostro ritorno al futuro”; rispetto di una platea smaliziata che pure avvertiva in quel momento tutto il suo carisma.  

Perché Martinazzoli amava la parola? Abbiamo detto della sua predilezione per il teatro, ma forse c’è qualcosa di più. Anzi, c’è senz’altro qualcosa di più; un qualcosa di più profondo e ben coltivato nell’intimo, evocativo di un appello etico. Ecco, gli si poteva attagliare il monito di Huitzinga: “Con la svalutazione della parola, cresce, in proporzione diretta, l’indifferenza verso la verità”. Non lo fece mai suo, forse la frase non la conosceva, ma l’avrebbe condivisa certamente. Ma cos’è la verità? Martinazzoli resta un politico, sempre, anche quando antepone alla politica una motivazione più remota. La verità è una ricerca faticosa, per questo esige misura e senso della realtà. Più che la scolastica adesione alla dottrina sociale della Chiesa, vale per Martinazzoli l‘autonoma capacità di mediazione tra messaggio evangelico e impegno politico. Siamo nel circuito della scuola liberale cattolica, laddove primeggia la figura del Manzoni grande letterato e del Manzoni sincero patriota (come non ricordare il suo voto da Senatore a favore del passaggio della capitale da Torino a Roma, anche se in contrasto con il Vaticano?).

Manzoni e Rosmini, dunque, sono i fari di questo suo cattolicesimo liberale che pur sensibile alle istanze di moderazione non è allineato, sul piano strettamente politico, alla tradizione moderata lombarda, quella ad esempio di un Filippo Meda. Soccorre piuttosto, nelle citazioni ricorrenti in varie circostanze, la feconda lezione del Tocqueville a riguardo della “misura del potere”; una misura necessaria ad evitare che la libertà, facendosi assoluta, trascenda nell’arbitrio e la democrazia, ergendosi a pura sovranità di numeri, devii nel dispotismo della maggioranza. Qui sta il punto più sensibile della visione che abbraccia il pensiero di Martinazzoli: se la politica non è tutto, perché prima viene la vita, allora anche il potere, che della politica è solo strumento, sebbene decisivo, non è tutto. C’è un orizzonte etico, in sostanza, che rende l’agire umano confacente a un bisogno di promozione, sia per la persona in quanto tale che per la comunità che ne accoglie la presenza e l’operato.

S’è detto di lui che era uno “strano democristiano”, diverso dagli altri, a buon conto per la distanza dai giochi di partito e dalle trame di potere. Eppure fu parlamentare di lungo corso e ministro per tre volte, a dimostrazione della capacità di porsi, nei  momenti più significativi della vita politica italiana, come punto di riferimento essenziale di un mondo che andava misurando le difficoltà della Dc e per questo incominciava a guardare avanti, fuori dall’orbita della rappresentanza di partito. Questa spinta, infine, lo portò nella stanza più importante di Piazza del Gesù. Doveva essere lui, il volto pulito di una Dc ormai sotto scacco dei magistrati di Mani Pulite, a traghettare lo Scudo Crociato oltre le colonne d’Ercole della Prima Repubblica. La sua  storia di leader politico è fatalmente concentrata nel poco tempo che ebbe a disposizione per questa impresa di auto rigenerazione della Dc. 

Volle tornare alle origini. A dargli conforto con la sua autorevolezza di storico del popolarismo e di massimo custode della memoria di Sturzo fu Gabriele De Rosa. Il 18 e 19 gennaio, le date di fondazione del “vecchio” Ppi, nacque solennemente il “nuovo” Partito popolare. Pochi mesi dopo si svolsero le elezioni politiche anticipate e l’alleanza elettorale con Segni si attestò su un decorosissimo 15-16 per cento, considerato tuttavia deludente da Formigoni e Buttiglione. E si dimise, con un fax, destando stupore e irritazione. Spiegò così quel gesto clamoroso: “Volendo analizzare criticamente l'esito elettorale, sull'Avvenire Buttiglione chiedeva senza perifrasi: “Cosa fa un generale che ha portato ad una disfatta? Va a casa”. A caldo, mi son sentito di replicare: “Cosa fa Martinazzoli, che non è un generale, e ha tanta voglia di andare a casa? Va a casa”. Questo è tutto, cos'altro dovevo fare?”.

Doveva resistere, anche per i molti che avevano condiviso la sua battaglia. A maggior ragione possiamo dirlo oggi, con lo sguardo rivolto al passato e con la mente aperta al domani, stilando all’occorrenza un rendiconto che serva possibilmente alle dinamiche future. Martinazzoli era ripartito da Sturzo, ma ha fatto come De Gasperi: se il primo aveva raccolto i cattolici in un partito moderno, dirigendo il flusso spontaneo di tante energie sparse sul territorio verso un esperimento unitario, senza eccessive mediazioni; l’altro aveva plasmato la Dc come una nuova proiezione del cattolicesimo politico, costruendo un ponte tra generazioni diverse e amalgamando le diversità, sotto molteplici aspetti. Con lo spirito di chi non è stato degasperiano - lo abbiamo visto su tutt’altre sonde nel 1953 - Martinazzoli riprende tuttavia il lavoro che fece proprio De Gasperi: mise insieme, come il leader trentino, i “pezzi” di un grande mosaico, chiamando al suo fianco chi doveva rappresentare il legame con la Cisl (Marini) e le Acli (Bianchi), con Cl (Buttiglione) e l’Azione cattolica (Monticone), con l’ambiente della Cattolica (Balboni) e le donne più legate alla Chiesa del rinnovamento post conciliare (Maria Eletta Martini). E altro ancora.

Cosa gli si rimprovera, di non aver accettato la proposta di accordo lanciata da Berlusconi? O di aver sottovalutato la polarizzazione della politica a seguito della riforma elettorale di tipo maggioritario? O di aver decapitato, infine, molta parte della vecchia classe dirigente, indebolendo la presa del partito sul territorio e generando un vuoto di rappresentanza? Sono le critiche che più facilmente gli vengono mosse quando, oggi più di ieri, ci si interroga sulla fine della Dc. È un dibattito aperto. Resta il fatto che Martinazzoli colse nel successo del Cavaliere un elemento strutturale di degenerazione - non a caso adattò al fenomeno berlusconiano il giudizio di Gobetti sul fascismo come “autobiografia morale” della nazione - e tracciò per questo una linea di demarcazione a salvaguardia dell’identità dei popolari. Fece dunque una battaglia che costò sacrifici, lasciando tuttavia in eredità il fatto dell’autonomia come requisito essenziale di una politica di centro (per la quale fu prodigo di spiegazioni innovative rispetto al lessico sturziano e degasperiano). Certo, di fronte all’urgenza di una svolta moralizzatrice fu impietoso nell’azione di sradicamento della mala pianta della corruzione all’interno del partito, ma non agì con la faziosità di chi sfrutta le emergenze per l’utile suo e degli amici. Insomma, non ne trasse vantaggio.

A Martinazzoli si deve riconoscere il merito di una tenace e originale “reinvenzione” - cosa che Moro avrebbe apprezzato - dell’esperienza democratico cristiana. Nel suo orizzonte c’era la traversata nel deserto e quindi, concretamente, l’inevitabile scelta dell’opposizione. Era convinto che i valori di una grande tradizione, dove confluivano oltre i “classici di partito” gli apporti di Rosmini e Manzoni, di Tocqueville e Capograssi, di Mounier e Mazzolari, sarebbero tornati alla luce. Il suo realismo non escludeva la speranza. Negli ultimi anni andò in una scuola a parlare di Dante e agli studenti, sulla scia del Poeta, lasciò riflettere sul fatto che “se possiamo parlare di laicità dello Stato, questo si deve al cristianesimo”. Realismo e speranza, dunque, ma anche rivendicazione orgogliosa dell’essere dalla parte giusta, da democratici e da cristiani, senza la corazza dell’integralismo o peggio ancora dell’arroganza. Questo stile, legato strettamente alla sostanza, rende attuale e stimolante la testimonianza politica di Martinazzoli.

 

Lucio D’Ubaldo

 

RICCARDO MISASI: GUARDARE AL FUTURO CON CUORE ANTICO

Parlare di Riccardo Misasi equivale a parlare di Democrazia, tema quantomai importante oggi in un Paese che, progressivamente, sembra allontanarsene. La Democrazia, con la maiuscola. Quella costruita con le mani dei coraggiosi resistenti nel quarantatré del secolo scorso, rafforzata dalla intelligenza colta dei padri della Repubblica e dai costituenti illuminati e coraggiosi, difesa dal popolo italiano negli anni in cui è stata gravemente minacciata dalle trame golpiste, dalle forze delittuose nere e sanguinarie.

E, poi, da quelle del terrorismo rosso, quasi tutte al servizio anche di qualche paese che vedeva l’Italia, nella sua cultura antica, nella sua forza politica, nel suo spirito di autonomia, nella sua ferma vocazione di costruire l’Europa, quale forza di libertà e di progresso, agente di Pace nel mondo attraverso i principi universali della sua Costituzione.

Quella che ha, come ci insegna Misasi, nel valore assoluto e non negoziabile della Persona, tutto ciò che serve per realizzare la Pace nel mondo. Non soltanto nel nostro Paese. Ché Persona è Libertà, il suo elemento vitale e costitutivo. Persona è dignità, irrobustita dal lavoro degno cui si ha diritto. È partecipazione. Anche alle scelte di governo. E perciò è governo stesso delle risorse comuni. Persona, è diritto al libero confronto.

Quello nel quale ciascuna posizione ha pari dignità e pari valore rispetto a tutte le altre espresse. Quella pari dignità che misura la verità possibile non dalla forza maggioritaria, democraticamente realizzatasi, ma dai contenuti ed anzi dal fatto stesso che la singola posizione venga liberamente maturata e culturalmente prodotta.

E dove cultura sia non solo erudizione e profondità e molteplicità delle conoscenze, ma sensibilità con cui ci si approccia alla realtà per cambiarla in direzione del Progresso, il quale è sempre e incessantemente una tappa della Democrazia, che nel suo divenire diviene se stessa.

Persona è, quindi, la maggioranza che liberamente si forma. È, di riflesso, la minoranza che ha il coraggio di esserci, di resistere alla tentazione del conformismo e del trasversalismo, le malattie più gravi del tessuto democratico e della stessa coscienza individuale e collettiva. Persona è l’opposizione che vigila sulle tentazioni dei governi di essere dominatori e impositori della e sulla realtà unitaria e complessa.

Persona è dunque Democrazia.

É Libertà, quella vera. Libertà che si libera e libera. Si libera dai lacci invisibili che la stessa Democrazia usa quando non è piena. Sincera. Quando é affatica o ha paura di essere. Libera uomini e culture, da ogni forma di oppressione. Soprattutto, quelle mascherate e dietro le quali si nascondono interessi preponderanti, prepotenze ed egoismi che creano ingiustizie. E il dominio di pochi, che decidono della vita di tutti.

Libertà che l’obera i popoli.

I popoli liberi sono quelli che si liberano da soli, ché, come la Persona, è nella loro forza intrinseca che possono trovare la spinta inarrestabile alla piena loro libertà. Che è anche autonomia. Costruzione della Pace

Quella vera e duratura, perché fondata sul rispetto di tutti e sul riconoscimento dell’altro come valore. L’altra deriva dal nutrimento principale della Pace, la giustizia e l’equa redistribuzione delle risorse del pianeta nella lotta alla fame, nella sconfitta delle povertà, nella difesa della Vita, da quella umana a quella della Natura, che per la ricchezza della vita umana e nella parità con essa è stata “creata”. Persona è, quindi, la Pace nella giustizia, nella Libertà, nell’eguaglianza.

Sta qui, in buona sintesi, una parte del ricco pensiero politico di Riccardo Misasi. Una parte dico, perché essendo, il suo, un pensiero essenzialmente filosofico, che nella dinamica dell’agire umano e del suo personale agire appassionato e vulcanico, diventa pensiero politico per il farsi della Politica, quel Pensiero così alto e profondo è un Oceano incommensurabile. Impossibile descriverlo tutto, perché come l’Oceano non ha limiti e confini davvero definibili.

E come il mare non sai mai esattamente dove inizi e dove si fermi. Come l’Oceano è imprevedibile nei suoi movimenti, profondo nella magnificenza dei suoi abissi. Come l’oceano è mai calmo, sempre inquieto. A volte tempestoso e fortemente mareggiato. In continuo movimento, restando sempre oceano. Sempre mare.

Mai perdendo di vista il suo compito di mare, quello di unire le terre non coperte dalle sue acque, di dare frutti per la vita, vita all’eco sistema, bagnare i porti su cui far giungere persone e ricchezze, prosperità e civiltà. Far incontrare gli essere umani e territori diversi e lontani, per renderli consapevoli che le diversità che esse recano con il loro pensare e le loro culture, le loro lingue e i il loro colore della pelle il mare non intende cancellarle, ma vinificarle.

 

Franco Cimino

 

GIOVANNI GORIA : UNA VITA AL SERVIZIO DEI CITTADINI E DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE

 

Giovanni Goria nasce ad Asti il 30 luglio 1943. Rivela molto presto la sua vocazione politica iscrivendosi alla Democrazia Cristiana nel 1960, a soli diciassette anni.
Consegue il diploma di ragioniere e, a seguire, la laurea presso la Facoltà di Economia e Commercio, con una tesi dal titolo “
Organismi e istituti operanti nel quadro della programmazione regionale in Italia”.

In questi anni è responsabile dell’Ufficio Studi e programmazione dell’amministrazione provinciale di Asti e in seguito svolge un’intensa attività nell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Asti. Dal 1974 al 1976 è membro del Collegio dei Sindaci della Cassa di Risparmio di Asti. Nel 1975, dopo essere stato a capo del Movimento Giovanile della DC, diventa Segretario Provinciale del partito.

Dagli Anni ‘70 Giovanni Goria milita nella corrente della sinistra di Base. In questi stessi anni diviene uno dei più stretti collaboratori di Ciriaco De Mita, ma conserva una posizione indipendente nell’ambito della sinistra democristiana.

La svolta nella carriera politica avviene nel 1976 quando Giovanni Goria, pur non avendo mai fatto parte delle amministrazioni locali, viene candidato alle elezioni politiche del 20 giugno 1976 ed eletto alla Camera dei Deputati, nella circoscrizione Cuneo-Alessandria-Asti. Durante la sua prima legislatura fa parte della Commissione Finanze e Tesoro della Camera e è membro dell’ufficio economico della DC, nonché consigliere economico del Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti.

Rieletto deputato nel 1979 è Sottosegretario al Bilancio e alla programmazione economica nel primo governo Spadolini (1981-1982), incarico dal quale si dimette nel giugno 1982 per assumere quello di responsabile del Dipartimento Economico della Democrazia Cristiana.

Nel dicembre 1982 è per la prima volta Ministro del Tesoro nel V Governo Fanfani. La sua nomina è una delle più rilevanti novità di quel Governo, egli è infatti il più giovane a ricoprire tale incarico nell’Italia repubblicana. La sua età e la sua immagine di persona più vicina alla gente e al comune buon senso, rispetto alla tradizionale figura del politico italiano, contribuiscono ad accrescerne la popolarità, facendone il prototipo di “uomo nuovo” per la DC.

Negli anni seguenti Giovanni Goria mantiene ininterrottamente l’incarico di Ministro del Tesoro: durante i due Governi Craxi (1983-1986, 1986-1987) e il sesto Governo Fanfani (1987) in cui detiene, ad interim, anche l’incarico di Ministro del Bilancio e della programmazione economica.

Il Ministro Goria regge le sorti del Tesoro in un periodo molto travagliato per l’economia dello Stato, con una crescita incontrollata della spesa pubblica e un aumento del debito pubblico tale da far parlare, nel 1983, dell’eventualità di una tassazione dei Buoni ordinari del tesoro. La contrarietà di Giovanni Goria a tale misura gli vale l’apprezzamento dei risparmiatori, tuttavia il piano varato l’anno successivo per il rientro del debito pubblico manca gli obiettivi e il deficit raggiunge il livello più elevato dal dopoguerra.

La situazione migliora sensibilmente nel 1986, ma dal 1987 una fase di instabilità politica e conflittualità fra i due maggiori partiti di governo, DC e PSI, incide negativamente sull’andamento dei conti pubblici. Dalle consultazioni elettorali del 14 giugno 1987 entrambi i partiti risultano rafforzati, il che contribuisce a mantenere uno stato di tensione, rendendo improponibile la candidatura del segretario della DC De Mita alla guida del Governo.

Si ricorre dunque a un governo di transizione e Giovanni Goria riceve dal Presidente della Repubblica Cossiga l’incarico di formare il Governo. Dal 19 luglio 1987 Giovanni Goria presiede (è il più giovane politico italiano ad aver coperto quella carica fino ad allora) il primo Governo della X legislatura, assumendo ad interim anche il Ministero per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Travagliato da una serie di successive crisi il Governo Goria si scioglie nel marzo 1988.

Durante il corso della sua vita politica Giovanni Goria elabora continuamente nuove idee, che entrano nel dibattito politico attraverso i suoi interventi in occasioni istituzionali e apposite pubblicazioni, per mezzo delle quali cerca di richiamare l’attenzione del mondo politico italiano degli Anni ‘80 e ‘90 sulle emergenze istituzionali ed economiche che si profilano all’orizzonte.

Subito dopo la fine della sua esperienza da Presidente del Consiglio dà vita all’iniziativa del “Progetto Europa ‘92”, finalizzato a richiamare, con convegni, studi e dibattiti, l’attenzione sulle modernizzazioni occorrenti per entrare a pieno titolo nell’Europa unita. Negli stessi anni, all’interno della DC, sviluppa una dura e sfortunata battaglia contro la “nomenklatura” dell’epoca, vanificata dalla sua sostanziale emarginazione durante il congresso nazionale del 1989.

A giugno dello stesso anno partecipa alle Elezioni Europee, risultando il più votato della circoscrizione Nord-Ovest con 640.403 preferenze. L’attività di Giovanni Goria si sposta dunque, dal 1989 al 1991, nel Parlamento Europeo, dove ricopre la carica di Presidente della Commissione politica.

Nell’aprile 1991 si dimette per assumere l’incarico di Ministro dell’Agricoltura e delle foreste nel nuovo governo Andreotti. In questa veste decide il commissariamento della Federconsorzi, che porta alla liquidazione dell’ente, indebitato per 4.000 miliardi, avviando “la trasformazione in senso europeo dell’agricoltura”.

Rieletto per la quinta volta nel 1992, entra a far parte del Governo Amato come Ministro delle Finanze, in una compagine governativa che deve prima di tutto affrontare la difficile situazione economica, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht dal 7 febbraio 1992. Il 19 febbraio 1993 Giovanni Goria si dimette in seguito al suo coinvolgimento come imputato in una vicenda giudiziaria legata alla Cassa di Risparmio di Asti, che si conclude negli anni successivi con il suo proscioglimento.

Gli ultimi mesi di vita sono segnati dall’amarezza per tale vicenda e dall’avanzare della malattia. Muore ad Asti il 21 maggio 1994.

Il presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, partecipando alla cerimonia commemorativa del trentesimo della morte di Giovanni Goria, disse, tra l'altro: «Nella brevità della vita che gli è stata concessa, lo statista piemontese ha messo a frutto i talenti di cui fu dotato, in piena aderenza a quei valori che le genti dell’astigiano hanno sempre manifestato. L’umiltà e il senso del limite, la concretezza, la coscienza, avvertita intimamente, del senso del dovere. Il rispetto della dignità delle funzioni che si trovò a ricoprire, nonostante le sofferenze e qualche amarezza che immeritatamente ebbe a subire nell’ultima parte della sua vita».

 

Fondazione Giovanni Goria

 

PAOLO BONOMI: "UOMO DI SALDI PROPOSITI E RISPETTATE PROMESSE"

 

Paolo Bonomi nasceva a Romentino, in provincia di Novara in Piemonte, il 16 Giugno 1910, da una famiglia di agricoltori. Laureato in scienze economiche e commerciali, manifestò sin da giovane interesse e passione per le problematiche sociali. 

 

Una vita per la giustizia nel mondo contadino

Paolo Bonomi nasceva a Romentino, in provincia di Novara in Piemonte, il 16 Giugno 1910, da una famiglia di agricoltori . Laureato in scienze economiche e commerciali, manifestò sin da giovane interesse e passione per le problematiche sociali.

Passa alla storia del nostro Paese come il fondatore della Coldiretti ed è riuscito a dare nel dopoguerra a otto milioni di coltivatori italiani e alle loro famiglie, fino allora più o meno dimenticati ai margini della società, un' identità precisa e un sistema giuridico e normativo al pari degli altri cittadini italiani. E tutto questo difendendo e promuovendo, sia a livello associativo che parlamentare, gli interessi degli agricoltori, ad esempio, per il riconoscimento di pari diritti con gli altri cittadini e lavoratori, l’assistenza sanitaria (1954), le pensioni (1957), la tutela degli infortuni sul lavoro (1964). Ma il suo più grande successo è nel 1950 la riforma agraria che, in poco meno di quindici anni, toglie 3,7 milioni di ettari al latifondo improduttivo e li redistribuisce a oltre un milione di contadini, realizzando l'unica redistribuzione di ricchezza mai avvenuta dall'Unità d'Italia.

Per mezzo della sua "visione" realizzata, Bonomi ha saputo unire la fedeltà alle «virtù contadine» (il sacrificio del lavoro, la pazienza dei tempi della natura, la preghiera a Dio creatore) con la creatività delle scelte in un mondo in continuo cambiamento.

Paolo Bonomi ha guidato la Coldiretti per ben 36 anni (1944 – 1980), diventadone poi Presidente onorario.

In occasione dei 40 anni della Coldiretti, Amintore Fanfani ricorda sulle pagine de Il Popolo del 12 febbraio 1985, il primo incontro con Bonomi nel settembre del 1945 a Piazza del Gesù. In quell’occasione Bonomi chiese alla DC un prestito di due o tre milioni per avviare la Coldiretti. Gli venne accordato sia per la mediazione di Campilli sia per quella di Giuseppe Dossetti. “La mia considerazione – prosegue Fanfani – crebbe quando dopo pochi mesi constatai che Bonomi era un uomo di saldi propositi e di rispettate promesse: infatti non solo aveva proceduto a dare alla Confederazione dei Coltivatori Diretti una diffusa struttura, ma aveva già restituito la somma chiesta in prestito alla DC, con grandissima meraviglia di Restagno a quel tempo segretario amministrativo, che di richieste molte ne riceveva, ma per la prima volta vedeva uno dei richiedenti puntuale nello sdebitarsi”.

 

Garante della libertà del paese

Il primo avvicinamento diretto con il mondo contadino avviene nel settembre del 1943, quando Bonomi viene nominato Commissario della Federazione Coltivatori Diretti.

Entra poco dopo  in politica e fonda,  30 ottobre 1944, la Coldiretti. Durante il governo provvisorio, designato dalle Associazioni agricole,  fa parte della Consulta nazionale de il 2 giugno 1946 viene eletto deputato della Costituente nelle file della Democrazia Cristiana con 30.929 preferenze, contribuendo alla stesura degli articoli 41 e 42 sulla proprietà privata ed opera come membro della III Sottocommissione per l’esame dei disegni di legge. Nelle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948, è eletto con 79.412 voti di preferenza, riuscendo a far eleggere nelle file della DC altri 23 deputati (Bonomi incluso) e 3 senatori appartenenti alla Coldiretti.

Gli studi sulla politica del Dopoguerra non hanno sufficientemente valorizzato la presenza della Coldiretti nelle elezioni del 18 aprile 1948, che ha contribuito ad evitare la vittoria del blocco social - comunista . Ne dà testimonianza preziosa Aldo Moro, come  presidente del Consiglio, nel suo discorso ai quadri dirigenti Coldiretti il 20 maggio 1976: “La vita democratica del nostro Paese sarebbe stata drammaticamente diversa […] se i coltivatori diretti non avessero garantito l’apporto insostituibile del loro voto e del loro consenso. Voi siete i garanti della libertà del Paese” (F. Occhetta e N. Primavera, Paolo Bonomi e il riscatto delle campagne.)

Bonomi siede alla Camera fino al 1983, per otto legislature,

 

Coldiretti: ispirazione, appoggi importanti e storia all’ombra dei campanili

Il  31 ottobre 1944, Bonomi fonda la Federazione Nazionale dei Coltivatori Diretti a Roma nel Palazzo Serlupi - Crescenzi in via del Seminario, investendo la propria liquidazione, insieme a un gruppo di fidati collaboratori che nominano Luigi Anchisi segretario generale. Partecipano molti dirigenti dell’Azione Cattolica Rurale. L’appoggio dei parroci rurali permette in pochi mesi di svolgere riunioni in tutte le campagne del Paese e questo permette il costituire, in ogni capoluogo, la “Federazione Provinciale Coltivatori Diretti, Mezzadri e Coloni”.

Bonomi trova in questo disegno la concretizzazione dell’ ispirazione sturziana, l’appoggio incondizionato di Alcide De Gasperi e, in Vaticano, di alcune figure quali monsignor Giovanni Battista Montini (allora membro della Segreteria di Stato e futuro Papa Paolo VI) e monsignor Pietro Pavan.

Dallo Statuto della Coldiretti del 1944 appare chiaramente la scelta di campo: la neonata organizzazione s’ispira ai principi della scuola cristiano-sociale e ha lo scopo di “agire in tutti i campi per difendere la gente della terra ed elevare economicamente e socialmente le classi contadine promovendo ogni iniziativa rivolta all’incremento della produzione agricola e al potenziamento delle aziende familiari”.

A causa di questa scelta, alcuni attivisti della Coldiretti nel grossetano e vicino a Terni subirono agguati, rimasti però impuniti per le coperture politiche della sinistra comunista. In Emilia Romagna, Giuseppe Fanin pagò la sua appartenenza alla Federazione con il prezzo della vita. Proprio all’ombra dei campanili la Coldiretti faceva nascere una sezione, e quel modello organizzativo permise al sindacato di ramificarsi fino ai borghi rurali più dimenticati. Nel 1947 le sezioni raggiunsero le 5.500 unità, con 618.000 famiglie aderenti. Nel 1952 la Coldiretti contava 7.421 sezioni periferiche, 958.863 famiglie associate e 4.563.201 persone rappresentate (N. Primavera, La gente dei campi ed il sogno di Bonomi, Laurana)

Sul piano politico la Coldiretti, pur nell’autonomia, diventa l’alleata più stretta della DC e contribuisce a formare il “quadrilatero cattolico” (DC – ACLI – Coldiretti – CISL) che dura sino alla fine degli anni Sessanta, quando le ACLI e la CISL decidono di non avere più solamente la DC come unico interlocutore politico.

Recenti analisi hanno particolarmente tracciato lo specifico dell’organizzazione della Coldiretti, seguendone il percorso dalla fondazione all’insediamento a Palazzo Rospigliosi a Roma e fin nel Dipartimento di Stato a Washington, dove Bonomi si recò per la prima volta nel 1954. Tra livello locale, nazionale e globale, la Coldiretti si è vista coinvolta, anche da protagonista, nei momenti più significativi della storia d’Italia: dagli appuntamenti elettorali alle crisi internazionali (le rivolte nel mondo sovietico del 1956 e 1968; il Muro di Berlino; la strage di piazza Fontana), dai problemi della produzione a quelli dell’ambiente e del welfare state; dalla centralità della quantità del cibo a quella della qualità, con l’affermarsi del «mangiare italiano» (E. Bernardi, La coldiretti e la storia d’Italia, Donzelli Editore).

 

Franco Banchi

 

ANGELA MARIA CINGOLANI: LA PRIMA DONNA AL GOVERNO

 

Moderna, rigorosa, appassionata sostenitrice dei diritti delle donne Angela Maria Guidi affrontò le difficoltà e le ostilità del suo tempo con generoso impegno lasciandoci un’eredità preziosa.

Sono anni difficili quelli in cui visse la sua giovinezza perché coincidono con lo scoppio della Grande Guerra la cui durata, più lunga del previsto, fece sentire da subito i suoi effetti, soprattutto in ambito socio-economico. Molti posti di lavoro negli uffici, nelle fabbriche, nelle industrie tessili, persino in quella bellica e nella produzione agricola rimasero scoperti. Le inderogabili necessità produttive posero tutti i governi di fronte a un dilemma: rinunciare a un gran numero di richiamati o utilizzare una forza lavoro, mai finora sperimentata, quella femminile. Si predilesse quest’ultima strada.

 Per scelta o per necessità, molte donne, dopo un periodo di addestramento fecero il loro ingresso nel mondo del lavoro. In ambito industriale furono assorbite nel settore tessile e militare; nei servizi, dal trasporto dei tram alla distribuzione della posta; nell’agricoltura dove assicurarono così la necessaria produzione per approvvigionare il Paese.

 Al termine del conflitto la situazione peggiorò. La riduzione del numero degli uomini abili, i numerosi morti che la guerra aveva provocato unito a quello causato dall’epidemia “La spagnola” e a quanti emigrarono all’estero, per evitare l’arruolamento, impoverì ancor di più il nostro Paese. Sul piano sociale altri due elementi pesarono notevolmente: l’elevato numero di reduci gravemente feriti e bisognosi di cure e, soprattutto, la presenza massiccia di famiglie monoparentali che impose al Governo la necessità di conferire alle donne il riconoscimento giuridico.

Iniziò così per loro un “nuovo cammino” fatto di parificazione dei diritti e di emancipazione. A partire da quella salariale. Enorme era la disparità a parità di lavoro! Il carovita e il peggioramento della situazione economica fece allargare la protesta nelle fabbriche tessili, manifatturiere e nelle risaie.

 Un elemento importante in questo scenario complesso fu la crescita del numero delle donne diplomate e laureate, l’analfabetismo dilagava. Ad investire sulla formazione delle giovani furono soprattutto le élite, dall’aristocrazia alla borghesia a cui Angela Maria Guidi apparteneva. I suoi genitori, Eugenio e Anna Casini, provenivano entrambi da famiglie borghesi romane di tradizione cattolica.

 Il XX secolo si era aperto con un confronto vivace all’interno del crescente movimento femminista connotato da forti spinte anticlericali alle quali si contrapponeva quello animato da una tradizionale visione cristiana della donna. Ad individuare un altro percorso fu proprio Lei con il suo attivismo che prese forma dopo l’incontro con Armida Barelli, fondatrice della Gioventù Femminile cattolica italiana, e la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini che la portò, appena uscita dal collegio nel 1915, ad iscriversi all’Udaci che promuoveva opere di assistenza per i soldati e in seguito per i reduci.

Dentro questo scenario Angela Maria maturò la scelta che Le consentì di sfuggire all’insidiosa contesa tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica che animava quel periodo storico creando per sé un’originale percorso. Da quel momento fu presente su ciascuna delle tre emergenze di quegli anni: la questione educativa, quella sociale e dei diritti.

Luigi Sturzo, che aveva apprezzato la qualità del suo impegno, nel 1919, La chiamò a lavorare sia nell’Opera nazionale per gli orfani di guerra, da Lui fondata, che nel Partito Popolare, prima donna tesserata, dove guidò la segreteria del gruppo femminile fino allo scioglimento nel 1926.

 Quello con Sturzo si rivelò subito un incontro importante che La portò a scoprire la politica intesa come spazio capace di dare risposte ai tanti problemi della società a partire da quello del lavoro fondando numerose scuole di lavoro femminili, dando vita a fondazioni e cooperative che potessero essere d’aiuto all’inserimento delle donne nel mondo del lavoro.

Gli anni venti e trenta furono per Lei particolarmente intensi. Nel 1921 fondò il Comitato nazionale per il lavoro e la cooperazione femminile legato all’Azione Cattolica di cui rimase segretaria fino al 1926, occupandosi in particolare delle scuole di lavoro per le orfane di guerra, della Federazione delle lavoratrici dell’ago e di quella dell’allevamento dei bachi da seta, delle piccole industrie agricole a Caserta e nel Veneto; fondò cooperative di produzione nel Friuli Venezia Giulia.

Nel 1922 venne nominata dal Ministero dell’Industria e Commercio membro del Comitato delle piccole industrie e dell’artigianato. Nel 1924 partecipò e vinse il concorso presso l’Ispettorato del lavoro. In questa posizione si occupò di assistenza alle mondine e della condizione dei lavoratori stagionali proseguendo l’attività sindacale di orientamento cattolico. Quando poi si consolidò la dittatura fascista non esitò a lasciare tutto come nel 1929 quando, pur contribuendo alla nascita della Federazione nazionale donne professioniste e artiste, se ne allontanò dopo che la stessa fu assorbita dalle organizzazioni fasciste.

Anche di fronte alle tante difficoltà, la sua passione politica non vacillò mai, anzi tutt’altro, partecipò alle riunioni clandestine di partito e qui conobbe l’ex parlamentare del PPI Mario Cingolani, che sposò nel 1935. Divenne mamma ad un’età matura, quarantadue anni, soprattutto per quei tempi, era nata a Roma, il 31 ottobre 1896, e durante la gravidanza riprese gli studi universitari all’Orientale di Napoli, interrotti a causa dell’ostilità del padre, e conseguì la laurea in Lingue e letterature slave.

E’ una donna colta e attenta a sviluppare sempre una lettura più ampia, sopranazionale, degli avvenimenti politici e sociali, resa possibile anche grazie ai suoi numerosi soggiorni – studio fatti in Europa e negli Stati Uniti e per questo fu inserita nella Commissione Esteri della Democrazia Cristiana.

A liberazione avvenuta fu nominata membro del Comitato per la divulgazione del Piano Marshall e componente della Commissione del lavoro femminile dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) a Ginevra. Nel 1945 fu inserita nella Consulta Nazionale Italiana insieme ad altre dodici donne. E qui fece, a Montecitorio, il suo primo intervento. Il primo di una donna in un’aula parlamentare. Già combattiva assertrice del suffragio femminile, la Guidi espresse in quel discorso, intenso e appassionato, tutta l’insoddisfazione per la limitatezza degli spazi politici riservati alle donne, delle quali con orgoglio ribadì la raggiunta maturità a rivestire ruoli determinanti nella politica e nel sociale.

 Alle elezioni del 2 giugno del 1946 fu eletta all’Assemblea Costituente, una delle ventuno, e partecipò ai lavori della Commissione lavoro e previdenza.

Nella seduta del 3 maggio 1947 intervenne in aula riproponendo brani di un discorso fatto su La dichiarazione di Filadelfia e la Costituzione italiana, e definisce l’Italia paese di emigrazione e richiama i principi che sarebbero dovuti entrare nella Costituzione del nostro Paese, primo fra tutti: “il lavoro, che non deve essere una merce”; poi…“la libertà, di espressione e di associazione, come condizione indispensabile per il progresso”; infine.. “la miseria, ovunque si annidi, deve essere combattuta poiché costituisce un pericolo per la prosperità di tutti”.

Alle elezioni del 18 aprile 1948 venne riconfermata alla Camera dei Deputati. Durante il suo mandato dedicò particolare attenzione alla discussione della legge, ratificata nel 1950, sulla tutela della madri lavoratrici; nello stesso anno fondò il Comitato di difesa morale e sociale della donna, che operò a sostegno della legge Merlin (approvata nel ’58) per l’abolizione delle “case chiuse” offrendo assistenza a tutte quelle donne che intendevano uscire dalla condizione di prostitute.

La Guidi Cingolani entra, nel luglio del 1951, nel VII governo De Gasperi, ed è la prima donna a ricoprire la carica Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato e Commercio con delega all’Artigianato.

Quando nelle elezioni del 1953 Angela Maria Guidi Cingolani non venne rieletta in Parlamento si dedicò per un decennio all’attività amministrativa, in qualità di sindaco di Palestrina. Guidò la ricostruzione della città essendo stata pesantemente distrutta dai bombardamenti alleati e lavorò per la valorizzazione del patrimonio artistico e del prestigioso sito del Tempio della Dea Fortuna Primigenia, realizzato verso la fine del II sec. a. C., uno dei più maestosi monumenti dell’antichità, rinvenuto a seguito dei bombardamenti.  

Colse e legò la ricostruzione e la ripartenza della Città alla sua valorizzazione culturale. Nel 1958 fondò l’Accademia internazionale Giovanni Pierluigi da Palestrina, che presiedette fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1991. A lei si ispirò il film, l’On. Angelina, diretto dal regista Luigi Zampa, il cui ruolo venne magicamente interpretato da Anna Magnani. Oggi, nel 70esimo della prima donna al governo, possiamo dire che Angela Maria Guidi Cingolani è certamente una donna che ha ancora molto da insegnarci, vissuta nel suo tempo senza però rimanerne prigioniera.

 

Rita Padovano

 

FRANCO RESTIVO: A ROMA CON LA SICILIA NEL CUORE

 

Franco Restivo nasce a Palermo nel 1911. I Restivo erano tra le prime famiglie di Palermo per il prestigio culturale e per il censo. Il padre di Franco, Empedocle, professore di università e avvocato di grido, fu eletto alla Camera prima del fascismo. Franco Restivo, al pari di suo padre, esercitò l'avvocatura, e fu nominato professore all'università di Palermo. Dal 1943 fu docente di diritto costituzionale e successivamente docente di diritto pubblico nell’ Ateneo cittadino, insegnamento che mantiene fino alla sua morte. Dunque in casa sua si masticavano all’unisono diritto e politica.

 

Dal felice "settennio" al periodo piu' difficile della storia italiana

La sua intera esistenza è segnata da una lunga militanza politica. Nel 1946 viene eletto deputato all’Assemblea Costituente, ma per seguire più da vicino le vicende legate ai problemi della sua isola, nel 1947 rinuncia al mandato parlamentare. Dal 1947 al 1955 è deputato all’Assemblea regionale siciliana, dal 1947 al 1949 è assessore regionale alle finanze e agli enti locali e dal 1949 al 1955 presidente della Regione siciliana, guidando quello che fu definito “Il felice settennio” della storia dell’Autonomia regionale.

Membro del Consiglio Nazionale della DC, il 25 maggio 1958 torna alla politica nazionale essendo eletto deputato nella circoscrizione della Sicilia occidentale e in questa carica riconfermato in tutte le successive consultazioni politiche.

Dal 1958 al 1963 ricopre numerosi ed importanti incarichi parlamentari, su tutti quello di vicepresidente della Camera dei deputati. Inizia poi la sua longeva presenza al Governo , prima come ministro dell’agricoltura dal 1966 al 1968, successivamente ministro dell’interno dal 1968 al 1972 sotto cinque diversi Presidenti del Consiglio.

Restivo, uomo sempre vicino alla destra democristiana, rimarrà nell’esecutivo fino alla fine del centrosinistra. Soprattutto, come già detto, al Viminale, dove affronterà e gestirà alcune delle fasi più difficili per l’ordine pubblico nel nostro Paese.

Al Viminale, infatti, affronterà l'anomalo caso della Repubblica delle Rose (1948), la complicata stagione della contestazione studentesca, l’episodio stragista di Piazza Fontana (1969) , i moti di Reggio Calabria, l’urto della violenza mafiosa (a Palermo nel '71) verrà ucciso il procuratore della Repubblica Pietro Scaglione). Per non parlare dei contraccolpi che seguirono il “golpe Borghese” (1970).

A Roma, nel 1969, subirà anche un attentato dinamitardo contro la sua abitazione privata. L’ordigno verrà prontamente scagliato a distanza da un appuntato di Ps.

Restivo sarà ministro anche del primo – brevissimo – governo Andreotti, non più agli Interni ma alla Difesa. L’ultima esperienza da membro dell’esecutivo. 

La morte lo coglie improvvisamente a Palermo nel 1976, in piena attività parlamentare.

Si spense il 17 aprile 1976. Le esequie si svolsero in città a San Domenico. L'orazione funebre fu pronunciata dal senatore Giuseppe Alessi. Il Comune, mentre era in carica il sindaco Giuseppe Insalaco, già stretto collaboratore di Restivo, gli intestò una piazza del quartiere Matteotti.

 

"Un siciliano placido"

Il profilo di Franco Restivo può essere approfondito anche attraverso la curvatura personale.

In una conversazione-intervista resa al suo vecchio compagno di scuola ed amico Nicola De Feo, che firmò l’articolo con lo pseudonimo di Nicola Adelfi (La Stampa, 24 Agosto 1969) , emergono interessanti "dietro le quinte" del suo carattere e, soprattutto, della sua visione della vita.

 De Feo esordisce facendo notare che “Restivo resta legato ai quattro anni in cui fu a capo del ministero dell'Interno, il più difficile fra tutti i ministeri nell'Italia contemporanea. A dargli quell'incarico la prima volta, nel giugno 1968, e forse si pensava che dovesse essere temporaneo”.

Quando il giornalista, in una torrida notte romana, gli fa notare che “l’elettricità accumulatasi nell’aria non poteva non suscitare temporali e tempeste”, rimproverandolo di essersi cacciato in una barca così sconnessa, su un mare cosi aspro, così minaccioso da correre il rischio di rovinarsi la carriera politica, Restivo ascolta fumando un mezzo sigaro toscano ed ammonisce a non fasciarci il capo prima di esserselo rotto. Emblematica la conclusione di De Feo, che racchiude gran parte della filosofia di colui che viene definito “un siciliano placido”:

“I fatti successivi dimostrarono che aveva ragione lui, e torto io. La democrazia per reggersi ha bisogno di una certa dose di prudente ottimismo. Guai a lasciarsi prendere dal panico al primo stormire di fronde”.

Restivo incarna così perfettamente la figura di un moderato che guardava al sociale con grande interesse, che si rendeva cioè conto della necessità di riequilibrare i rapporti fra capitale e lavoro per obbedire a principi di giustizia sostanziale. Ma Restivo era, soprattutto, uomo delle istituzioni, che rifiuta l'enfasi delle visioni palingenetiche e, all'oposto, presidia la frontiera di un riformismo tanto cauto quanto incisivo, convinto com’è che la storia non procede per salti.

 

L'autonomismo

Decisive, nella sua formazione politica, furono le frequentazioni con Gaspare Ambrosini, con Bernardo Mattarella e Salvatore Aldisio . Il primo, ancora un giurista, lo avvicinò al regionalismo; gli altri due, epigoni del popolarismo sturziano, ne indirizzarono il percorso politico. Fatto è che Franco Restivo, ancor prima che il fascismo crollasse rovinosamente, era già una figura di rilievo fra quelle che avrebbero guidato la Democrazia cristiana e avrebbero condotto la battaglia, vincente, per dare vita a quell’Autonomia regionale, aspirazione insoddisfatta dei siciliani dall’Unità in poi.

Le sue convinzioni, maturate con grande travaglio intellettuale, si espressero in modo evidente già nel corso del convegno della Democrazia cristiana tenutosi ad Acireale nel 1944. In quell’occasione Restivo, cui era stata affidata la relazione ufficiale sull’Autonomia regionale, presentò le regioni come “membrature naturali d’Italia, come la migliore garanzia delle libertà della nazione” e il regionalismo come “processo di democratizzazione, fattore di difesa” e ancora “funzione di equilibrio nella vita dello Stato”.

Il suo regionalismo, come quello di Alessi, Aldisio e altri cattolici ex popolari, rigettava dunque l’ipotesi separatista avanzata dal Mis (Movimento indipendentista siciliano) e sposava l’idea sturziana della “Regione nella nazione”.

 

L'amore per la Sicilia

Restivo è un siciliano che amava la terra di Sicilia e la sua millenaria storia. Viveva a Palermo, ma volentieri, specialmente dopo il distacco dalla politica attiva, andava a trascorrere lunghi periodi in una sua fattoria nel Messinese, dove arricchiva di continuo una prestigiosa raccolta di libri di autori siciliani o che parlavano della sua terra. L'accesso alla fattoria era difficile ed implicava guado di un torrente. E li per l'appunto, in quel suo rifugio campestre, fu colto da malore improvviso.

Nel Marzo 2004 la biblioteca dell'ex ministro dell'Interno Franco Restivo (che conta circa ottomila volumi) è stata donata dalla sua famiglia alla Fondazione Banco di Sicilia e si trova a Villa Zino . Restivo non era solo un collezionista di libri, ma un fine studioso del periodo che nella sua regione precede l'Unità d'Italia e dei movimenti e fermenti autonomistici.

I figli hanno deciso di compiere questo passo per mantenere viva la memoria del padre, studioso ed intellettuale prima che uomo politico, e per ricordare il ruolo che ha avuto nella storia della Sicilia.

 

Franco Banchi

 

GIULIO PASTORE: UN LEADER AUTOREVOLE DELLA SINISTRA SOCIALE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA

Giulio Pastore appartiene a quella generazione di cattolici impegnati in politica che hanno fatto un percorso all’insegna della coerenza culturale, della profonda adesione ai valori della dottrina sociale della Chiesa e della totale dedizione agli altri. Quella che un tempo si definiva “il prossimo”.

Nato nel 1902, Pastore è parlamentare nella circoscrizione piemontese Torino/Novara/ Vercelli ininterrottamente dal 1948 al 1969 e ricopre il prestigioso ruolo di Ministro in tutti i governi che si succedono tra il 1958 il 1968. È stato fondatore e primo segretario nazionale della Cisl che ha guidato dal 1950 al 1958. Giulio Pastore, con Carlo Donat-Cattin e Franco Marini, è stato tra i principali protagonisti della esperienza, della storia e della tradizione della sinistra sociale di ispirazione cristiana all’interno della Democrazia Cristiana svolgendo sempre un ruolo di difesa e di promozione dei ceti popolari, in particolare delle classi lavoratrici.

Sin dalla giovanissima età si impegna nell’associazionismo giovanile cattolico - per la precisione nella Giac, la Gioventù italiana dell’Azione cattolica -. Ha contrastato sin dall’inizio il regime fascista e, come conseguenza di questa sua coerenza personale e politica, dovette trasferirsi in varie città per sfuggire dalle rappresaglie della dittatura. Aderì immediatamente alla Dc e in qualità di segretario organizzativo ne gestì la campagna elettorale nelle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente alla quale venne eletto.

Primo segretario nazionale delle Acli, alla scomparsa del suo maestro Achille Grandi lo sostituì come responsabile della corrente sindacale cristiana della Cgil unitaria. Ben presto, però, Pastore si convinse dell’impossibilità di collaborare tra componenti così reciprocamente ostili e diede vita alla LCGIL, cioè alla Libera Confederazione Generale del Lavoro. Nel 1950 fu tra i fondatori della Cisl e diventa segretario generale sino al 1958, anno in cui entra nella compagine governativa dell’esecutivo guidato da Amintore Fanfani come Ministro per lo sviluppo del mezzogiorno e delle aree depresse del Centro Nord, avviando la stagione dell’intervento straordinario dello Stato nelle aree meridionali.

In quel contesto nei primi anni ‘60 concepì e realizzò col supporto della Cassa del mezzogiorno i Centri interaziendali di addestramento professionale nell’industria per favorire ed accelerare il processo di industrializzazione mediante la formazione professionale. Venne successivamente confermato in tutti i governi sino al 1968. Si dimise dal governo Tambroni nel momento in cui ebbe l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, appoggio che provocò poi i noti fatti di Genova.

Infine, Pastore fu profondamente legato sin dall’età giovanile alla sua terra natale, la Val Sesia dove ricoprì, nel secondo dopoguerra, gli incarichi istituzionali di Sindaco del comune di Varallo e di Presidente del Consiglio di Valle-Valsesia. Esempio, quest’ultimo, di coordinamento delle attività degli enti locali nelle zone dell’alta montagna piemontese.

Muore nell’ottobre del 1969.

Giorgio Merlo

 

PIERSANTI MATTARELLA: DEMOCRATICO E CRISTIANO

 

Piersanti Mattarella nacque a Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935. Secondogenito di Bernardo Mattarella, uomo politico della Democrazia Cristiana e fratello di Sergio, 12° Presidente della Repubblica Italiana. Si trasferì a Roma con la famiglia nel 1948. Studiò al San Leone Magno, retto dai Fratelli maristi, e militò nell’Azione cattolica mostrandosi attento conoscitore della dottrina sociale della Chiesa. Si laureò a pieni voti in Giurisprudenza alla Sapienza con una tesi sui problemi dell’integrazione economica europea. Tornò in Sicilia nel 1958 per sposarsi. Divenne assistente ordinario di diritto privato all'Università di Palermo. Ebbe due figli: Bernardo e Maria.

Entrò nella Dc nel 1963 e nel novembre del 1964 si candidò alle elezioni comunali di Palermo per lo scudo crociato, ottenendo un grande successo personale. La sua consiliatura coincise con l'apogeo del “Sacco di Palermo”. Furono anni di grande tormento e crisi per Dc in Sicilia, con durissime spaccature correntizie e la presenza a dir poco ingombrante di figure come Lima e Cianacimino.

Nel 1967 Piersanti entrò nell’Assemblea Regionale e fu rieletto parlamentare regionale per altre due legislature. Fu anche assessore regionale alla Presidenza con delega al Bilancio nelle diverse giunte ( 1971- 76 ). Il 9 febbraio 1978 fu eletto dall'Assemblea presidente della Regione Siciliana, alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l'appoggio esterno del Partito Comunista Italiano.

Era il giorno dell’Epifania del 1980 quando, in via della Libertà a Palermo, una grandine di pallottole lo sorprese, mentre si stava recando a messa con moglie e figli. Di quel giorno, quando un killer si è avvicinato all’automobile su cui c’era Piersanti con la moglie e con la figlia, rimane la fotografia di Sergio che estrae dall’auto il corpo del fratello, in un abbraccio che è passato alla storia.

Nella sentenza della Corte di Assise del 12 aprile 1995 n. 9/95, che ha giudicato gli imputati per il suo assassinio, si legge che «l'istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l'azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti interessi» e si aggiunge che da anni aveva «caratterizzato in modo non equivoco la sua azione per una Sicilia con le carte in regola».

Nel 1995, vennero condannati all'ergastolo quali mandanti dell'omicidio Mattarella i boss della “cupola” mafiosa. Le condanne vennero confermate in Cassazione. Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati con certezza.

 

Profondo rinnovamento, non superamento della DC

La passione politica di Piersanti Mattarella non nasce dunque da una conversione fulminea, ma è il frutto di una lunga gestazione tra più componenti, che si distendono nel tempo: l’esempio paterno, gli ideali di rinnovamento respirati negli ambienti cattolici, la frequentazione di grandi uomini politici e – non ultimo – la rivolta morale contro la condizione della politica siciliana, contrassegnata da pratiche arcaiche, lotte di potere e interessi poco trasparenti…

Il Card. Pappalardo, nel corso dell'omelia funebre, così descrisse in modo mirabilmente riassuntivo l'azione politica di Piersanti: “Egli poteva ben attribuirsi, senza dover arrossire, la duplice qualifica di democratico, nel senso vero ed ampio della parola, e di cristiano”.

Questa ispirazione viene da lontano, tanto che in appunti personali giovanili conservati dal figlio, Piersanti parlava di un'azione politica e di governo “troppo lunga e impacciata nell’elaborazione di riforme sociali” . Già un appello non per la distruzione o il superamento della Dc, ma per il suo rinnovamento. Il partito d'ispirazione cattolica doveva ripartire dal recupero delle radici religiose e morali e spingersi sul terreno di più decise riforme sociali.

 

Responsabilità, trasparenza e concretezza

Ma la sua ispirazione si incarna in precisi e inequivocabili gesti di concretezza politica, soprattutto quando eserciterà ruoli fondamentali e delicati nell' ARS. Come assessore al bilancio, per esempio, ha finalmente l’occasione per sperimentare programmazione e lo sviluppo. Le sue parole d'ordine, di fatto sconosciute prima nel parlamento regionale, diventano: coordinamento, collegialità, responsabilità e trasparenza.

I risultati sono sorprendenti. Negli anni successivi, infatti, presenta e fa votare entro i termini di legge i bilanci di previsione, evitando l’annoso e umiliante ricorso all’esercizio provvisorio.

Nel Novembre 1975, poi, la novità assoluta del patto programmatico di fine legislatura regionale, con l'inedita sponda anche del PCI. E non può sfuggire il fatto di come la Sicilia si candidi ad essere il laboratorio della politica italiana. Sono gli anni, infatti, in cui si discute della questione comunista, dopo la strategia del compromesso storico, lanciata da Enrico Berlinguer nel 1973. E tutto questo mentre Aldo Moro sta portando a compimento la sua riflessione sulla terza fase. Non a caso alcuni giornalistici lo definiscono “il Moro siciliano”.

E tutto questo percorso di novità non può in nessun caso prescindere da una radicale rigenerazione della vita del partito, cominciando a ristabilire la legalità del tesseramento.

Aldo Moro, amico e maestro, diventa in questi anni per Piersanti Mattarella qualcosa di più di un riferimento politico nazionale. E’ l’erede e il continuatore della linea storica e politica del cattolicesimo democratico che passa per Sturzo e per De Gasperi.

 

È finita anche per me, è finita anche per noi”

Leoluca Orlando racconta così la reazione di Piersanti quando, appena avuta la notizia del rapimento di Moro, corse subito nella sua stanza: “E' finita anche per me. E' finita anche per noi”.

L’azione riformatrice di Mattarella conosce le prime difficoltà per l'improvviso stop di Botteghe oscure, che ha dato l’aut - aut alle federazioni locali del Pci che sostengono giunte dall’esterno. Siamo nel 1979, Berlinguer sta infatti operando un ripensamento della strategia del compromesso storico. Ma l'attività politico – amministrativa di Piersanti prosegue, anche attraverso la rielezione a Presidente del mrzo dello stesso anno. Il 3 aprile rivela al Giornale di Sicilia di essere stato contattato da Zaccagnini che gli ha offerto un posto in lista per Roma. All’intervistatore Piersanti risponde fermo: “A questo punto, no”. Chiarendo che la sua è’ una scelta dettata dal senso di responsabilità in un momento di grande crisi alla Regione.

Le insidie per la Giunta regionale arrivano sia dall'interno, tanto che il ritorno prepotente nel partito dei vecchi e discussi personaggi porta Piersanti a chiedere a Zaccagnini di commissariare il partito siciliano, ed anche dal livello politico esterno, con i socialisti che, facendosi improvvisamente portavoce dell’esigenza di allargare nuovamente al Pci, aprono la crisi. Mattarella e la sua Giunta si dimettono il 18 dicembre.

 

La realtà è vincibile e battibile

Il 13 novembre 1979, 54 giorni prima dell’omicidio, Mattarella, parlando al congresso dell’Associazione siciliana della stampa a Cefalù, diceva: “Non possono diventare notizie solo i fatti di cronaca nera o i fatti di mafia».

Per poi proseguire:” Io credo che voi possiate fare molto...per vincere il pericolo della rassegnazione”.

Ed incalzava ancora i rappresentanti dell'informazione siciliana: “I nostri giovani debbono pensare, leggendo i grandi giornali d’informazione o vedendo la televisione, che la Sicilia è immodificabile, perché questa realtà è talmente forte da non essere cambiata? Perché non debbono cominciare a credere che questa realtà non è invincibile? Quando si convinceranno che questa realtà è vincibile ed è battibile avranno preso più coraggio anche loro, anche i giovani che sono così attenti, così aperti alle cose che cambiano, ma che corrono il rischio, crescendo, di apparire dei rassegnati in una comunità che questi mali non può abbattere e non può distruggere».

 

Franco Banchi

ERMANNO GORRIERI: GRANDE “ARTIGIANO DEL SOCIALE”


Ermanno Gorrieri, fu comandante partigiano, uno dei padri fondatori della Cisl, fine intellettuale , uomo politico e delle Istituzioni, divenuto famoso per la sua instancabile battaglia per l’uguaglianza sociale e la solidale gratuità, che lo portò anche ad essere cooperatore del mondo contadino.

 

Quel filo rosso chiamato giustizia

Nasce a Magreta (Modena) il 26 novembre 1920. Il padre coltivatore diretto, la madre maestra, sposato, aveva cinque figli. Nel 1928 si trasferisce a Modena, dove ha abitato fino alla morte.

Gorrieri è particolarmente attivo anche nel mondo cattolico. Nel 1935 entra nell’Associazione studenti medi di Azione Cattolica (“Paradisino”) della quale è Presidente dal 1937 al 1942. Si iscrive e partecipa all’attività della FUCI. E’ delegato diocesano studenti della Giac (Gioventù italiana di Azione Cattolica).

Si riveleranno tutte ottime scuole e palestre di formazione al rigore morale, educando a vivere intensi e duraturi rapporti amicali e di gruppo e sviluppano le attitudini organizzative. Queste caratteristiche favoriranno in seguito la partecipazione non individuale ed episodica alla Resistenza e all’impegno politico.

Protagonista della Resistenza partigiana cattolica, nel maggio del ‘44, guida in montagna il primo nucleo partigiano democristiano. Il battaglione che si è sviluppato dal nucleo iniziale, di cui è comandante col nome di battaglia “Claudio”, partecipa ad operazioni varie, prima e dopo la conquista di Montefiorino, e, alla fine dei 45 giorni della Repubblica, al più lungo ed impegnativo combattimento dei partigiani modenesi.

Dal Maggio ’45 è segretario provinciale della Dc modenese. Dopo il luglio 1948, è tra i promotori dei Sindacati liberi e dell’Unione provinciale della Libera Cgil e , successivamente, della nascita della Cisl, di cui ricopre l’incarico di segretario dell’Unione provinciale della Cisl di Modena.

Laureatosi  in Giurisprudenza nel 1950, sceglie l’impegno diretto in politico e viene eletto deputato per la Dc (1958-1963). Preferisce in seguito dedicarsi agli studi di economia, alle varie attività culturali ed alle ricerche in ambito sociale. Queste ultime si concentreranno in particolare sulle storture e disuguaglianze della società italiana. Tra i libri più importanti in merito ricordiamo La giungla retributiva (1972), un testo che fece scuola e La giungla dei bilanci familiari (1979).

Gorrieri ricopre anche importanti incarichi istituzionali. Nel corso degli anni ’80, nell'ordine,  è Presidente della Commissione nazionale per i problemi della famiglia (Ministero del Lavoro), membro della Commissione d’indagine sulla povertà (Presidenza del Consiglio dei ministri), presidente della Commissione per l’analisi dell’impatto sociale dei provvedimenti normativi (Presidenza del Consiglio dei ministri).

Nel 1987 ricopre la carica di ministro del Lavoro nel governo Fanfani.

Nel 1993 dà vita, assieme a Pierre Carniti, al movimento politico dei Cristiano-sociali di cui diviene portavoce e presidente. Nonostante i problemi di salute, prosegue ad approfondire il tema principale dei suoi studi: lo stato sociale. Collabora anche con i principali  giornali e riviste nazionali producendo articoli e dando interviste sugli argomenti di cui sopra. Partecipa anche a diverse trasmissioni televisive e radiofoniche. L’8 marzo 1999 l’Università di Trento gli attribuisce la laurea honoris causa in sociologia a riconoscimento della sua lunga carriera. Nell’occasione tiene un’ apprezzatissima lectio brevis sul tema “Uguaglianza: una parola in disuso”. Il giorno 14 dicembre 2000 il presidente della Repubblica Ciampi gli conferisce la nomina a Cavaliere di Gran Croce per i meriti acquisiti nel campo politico e sociale.

Le ultime sue fatiche editoriali sono: Parti uguali fra disuguali  (2002), quasi un  compendio delle sue idee sulla povertà, sulla disuguaglianza e sulle politiche redistributive nell’Italia di oggi, e Ritorno a Montefiorino (2005), ove compie un’accurata rivisitazione de La repubblica di Montefiorino (scritto nel 1966).

Muore a Modena il 29 dicembre 2004.

 

I suoi tre grandi presidi

Ripercorrere l’operosa vita di Gorrieri significa misurarsi con una coscienza libera e tracciare contemporaneamente alcuni momenti salienti della storia italiana del Novecento. Tre sono i «luoghi» che Gorrieri  presidia nel corso del sua lunga storia personale e pubblica: la lotta appassionata e militante contro la dittatura negli anni della Resistenza (come testimonia la breve ma intensa esperienza, da lui stesso narrata, della Repubblica di Montefiorino); la convinta partecipazione, all’interno delle più vivaci correnti della sinistra DC e cristiano -sociale al grande progetto di rinnovamento della politica e della società italiana; la lunga fatica, come sindacalista e studioso, per concorrere alla promozione in Italia di una più reale eguaglianza e di una più piena giustizia sociale a servizio delle componenti più deboli della società

Tipico il suo "marchio di fabbrica", che lo portava a  trattare le problematiche sociali con il rigore dello studioso, ma anche con la mai sopita  anima sindacale. Per questo non si stancava mai di elaborare proposte e sollecitare interventi sulle questioni del lavoro, della famiglia, della natalità, del contrasto della povertà e della indigenza. Con un metodo, oggi quasi dimenticato, che lo collocava sempre su posizioni non estreme, per scoraggiare lo scontro ideologico sui grandi principi e favorire il dialogo e la convergenza politica sulle scelte concrete.

Uomo di "frontiera" mai pentito, ha criticato spesso ed  aspramente  la stessa della sinistra,  a cui non ha perdonato di aver abbandonato progressivamente la battaglia contro le disuguaglianze.

 

Il potere di “scuotimento”

In un significativo ricordo che la CISL ha dedicato al suo “patriarca” nel centenario della nascita, Franco Bentivogli  nota che Gorrieri ha continuato a esercitare quello che Mounier chiamava “il potere di scuotimento”, tipico dei grandi maestri, degli educatori, come richiamo forte di protesta, testimonianza ed impegno nel sociale. E cita al riguardo il discorso che Gorrieri tenne a conclusione dell’Assemblea Organizzativa Cisl a Novara (Ottobre 1964): 

Ai lavoratori, alle classi popolari è affidato questo grande compito di realizzare quella nuova società, quella società in cui la libertà non sia soltanto un fatto vuoto, ma sia la sostanza cui tutti partecipano in misura veramente uguale; è quindi vostro compito di realizzare questa nuova società, più libera, più giusta, che è stata l’obiettivo e la speranza del movimento di liberazione”.

Per Gorrieri proprio dallo spirito della Resistenza nasce una profonda "aspirazione", che non deve mai essere acquietata. Per lui  il post-fascismo vive solo se si basa e continuerà a poggiarsi  su tre pilastri: "Libertà, tolleranza, solidarietà".

Da questa "fonte" e solo da questa può scaturire una società nuova "diversa dal passato, non solo sul piano del regime politico, ma anche della strutturazione sociale ed economica. Una società nuova non concessa dalle classi dirigenti come con la guerra 15-18, ma una società conquistata attraverso la lotta e la partecipazione diretta delle classi popolari”.

 

Franco Banchi

Franco Foschi, l’umiltà e il servizio alla politica

 

Franco Foschi è stato un importante esponente della sinistra sociale della Democrazia Cristiana, la celebre corrente guidata a livello nazionale da Carlo Donat-Cattin. Deputato della Dc dal 1968 al 1994, Foschi ha ricoperto gli incarichi di Sottosegretario al Lavoro, alla Sanità e agli Esteri e di Ministro del Lavoro durante i governi Cossiga ll e Forlani. Un uomo integerrimo ed espressione di quella generazione - Foschi nasce a Recanati nel 1931 e muore ad Ancona nel 2007 - di cattolici impegnati in politica che hanno percorso l’intero curriculum politico partendo dall’Amministrazione Comunale. E Foschi, infatti, fu Sindaco della sua città natale dal 1960 al 1970.

Insomma, Foschi appartiene ad una generazione che ha fatto dell’impegno politico una sorta di vocazione laica a servizio degli altri e, di conseguenza, hanno dedicato l’intera vita a questa missione pubblica. Ed è proprio alla luce di questo percorso politico e culturale concreto che l’incidente della iscrizione alla loggia massonica P2 fu semplicemente devastante per Foschi e anche per la sua comunità̀ politica. Anche se va pur detto che Foschi dichiarò ripetutamente di essere estraneo alla loggia medesima e il suo nome, del resto, non comparve mai nelle molte vicende legate alla loggia P2.

Ma, al di là di questa spiacevole vicenda che comunque segnò la sua esperienza politica ed umana, non si può̀ non sottolineare che Foschi ha sempre rappresentato nella sua lunga e feconda attività̀ politica e pubblica una forte e convita adesione ai valori e ai principi del cattolicesimo sociale italiano.

Un faro che ha sempre illuminato il suo percorso politico e che ha segnato i suoi vari passaggi nelle istituzioni. Tanto in quelle locali quanto a livello nazionali. E questo perché̀ la difesa e la promozione dei ceti popolari, e nello specifico dei lavoratori, da un lato e la centralità̀ della politica sociale nella legislazione nazionale dall’altro sono sempre stati gli elementi nevralgici che hanno accompagnato la sua intensa militanza. E questa militanza non poteva che esercitarsi nella sinistra sociale di Forze Nuove, la sua casa naturale.

Nel 1987 fu nominato Direttore del Centro nazionale di Studi Leopardiani e proprio sotto la sua presidenza ventennale il Centro divenne una prestigiosa istituzione di carattere internazionale, collaborando con università̀ e studiosi di ogni paese e portando l’opera di Leopardi in tutte le nazioni. Nel 2001, inoltre, fondò ed inaugurò sulla sommità̀ del Colle dell’infinito a Recanati il Centro Mondiale della Poesia con lo scopo di promuovere e favorire la poesia e la cultura in qualsiasi parte del mondo ed in qualsiasi lingua e forma si possa esplicare. Rimase presidente del Centro Nazionale di Studi Leopardiani e del Centro mondiale della Poesia sino alla sua morte. Medaglia d’oro al valore della sanità pubblica e membro associato d’onore dell’Assemblea del Consiglio d’Europa.

Infine, un dato da non sottovalutare a conferma della stretta correlazione tra il pensiero e l’azione nella dimensione politica e legislativa. E cioè̀, nell’arco della sua carriera parlamentare ha presentato 420 progetti di legge.

Giorgio Merlo

Achille Ardigò: poliedro con forte identità.

 

Come definire questo importante personaggio “eclettico”?

La cifra eclettica

Un laico cattolico che ha testimoniato e vissuto come indivisibile il proprio impegno per l’evangelizzazione e la promozione umana attraverso livelli  creativi, successivi e diffusivi: ispirazione religiosa, interesse culturale (curvato sulla sociologia ) ed impegno civile (con forti incursioni politiche).

L'obiettivo del nostro articolo è quello di incrociare e tentare di unificare le varie dimensioni del suo ricco pensiero e della sua vita operosa: giornalista, accademico, soggetto istituzionale, politico, sempre in costante dialogo con la società civile del nostro Paese.

Infatti, la sua “cifra” emerge fino dall'età giovanile. In lui l’impegno civile divenne subito culturale e presto politico, intersecandosi inestricabilmente  con la storia democratica e repubblicana.

Fede, cultura, politica

Nato in Friuli nel 1921, da una famiglia che, per la precoce morte del padre, era stata portata avanti dalla mamma, che riuscì a far laureare tutti i cinque figli, trascorse tutta la sua vita in Emilia-Romagna, particolarmente a Bologna. Qui Ardigò negli anni '30 prese parte all'attività dell'Azione cattolica bolognese e dal 1938 specialmente alla vita della FUCI.

Dopo l’armistizio, infatti, già laureato in lettere e filosofia a Bologna, militò, dal 1° settembre 1944, nella VI Brigata “Matteotti” col compito di staffetta. Nello stesso periodo  iniziò anche la sua attività giornalistica, curando la pubblicazione del quindicinale clandestino La Punta, organo dei giovani democristiani. Nel dopoguerra fu redattore del quotidiano cattolico L’Avvenire d’Italia e della rivista Cronache sociali.

Partecipò da protagonista, ancorché non nella prima fila del potere di governo, a quelli che sono stati i momenti più importanti e più alti della oggi cosiddetta “prima” Repubblica, quella che potremmo, da storici, chiamare la Repubblica democristiana, capace, come dirà più tardi il professore, di creare una “nuova sintesi politica “.

Ardigò visse così l’età degasperiana della Ricostruzione, nel doppio ruolo di studioso ed attore, a fianco di Giuseppe Dossetti. Partecipò alla stagione del centro-sinistra, come pensatore di punta accanto ad Aldo Moro. E, a partire dagli anni '70,  fu ancora supporto culturale della leadership di Benigno Zaccagnini e di Aldo Moro, durante la drammatica stagione della «solidarietà nazionale».

A partire da questo decennio, che lo vedrà sempre più protagonista del mondo accademico bolognese e nazionale fino a fondare l' Istituto Nazionale di Sociologia, rallenta la sua presenza diretta nella DC, per poi lasciare il Consiglio nazionale del partito nel 1973. Scelta che comunque non lo farà allontanare dalla politica. Nel 1975, dopo la sua dichiarazione per il NO nel referendum del 1974 per l’abrogazione della legge sul divorzio, fonda la Lega Democratica con Gorrieri e Scoppola.

Collaborò con Tina Anselmi e Rosy Bindi nel settore sanitario. Fu vicino ai giovani cattolici democratici della Rosa bianca, partecipando alla scuola di politica di Brentonico e agli incontri della sinistra democristiana a Lavarone. Contribuì, insieme con Lazzati, Clemente Riva, Giuseppe De Rita, padre Bartolomeo Sorge, Domenico Rosati, Vittorio Bachelet e Giovanni Nervo, a preparare il primo convegno ecclesiale nazionale, indetto dalla Conferenza episcopale italiana (CEI), sul tema Evangelizzazione e promozione umana (1976).

Dal 1995 in poi, come intellettuale cattolico militante, sostenne dapprima l’esperienza politica di centro-sinistra de L’Ulivo (sfociata nel 2007 nel Partito democratico) e successivamente de I Democratici di Romano Prodi e del sociologo politico Arturo Parisi.

Gli anni ‘90 e l’inizio del nuovo secolo per Ardigò costituiscono un'ulteriore fase di studio e ricerca, focalizzati, in particolare, sulle nuove tecnologie e sulla loro applicazione in ambito sanitario, coerentemente con i ruoli ricoperti a CUP 2000 S.p.A. e all’Istituto Ortopedico Rizzoli.

La sua bussola per un intero secolo

In un suo articolo in Nuova Democrazia ( primi del 1945 ), riprendendo l'allocuzione natalizia del 1944 di Pio XII, Ardigò scrive: “Per un vero cristiano oggi non è più lecito credere alle possibilità della rinuncia alla vita sociale. La tranquillità e l'ordine saranno il frutto solo della nostra forte azione politica, severa verso gli opportunismi e la disonestà d'ogni condizione e gravezza”. E' questo il suo sguardo lungo che accompagnerà il suo pensiero e l'azione sociale e politica per tutto il secolo.

E ci piace fare un volo cronologico fino ad un'altra sua intervista, contenuta nel libro Professare la sociologia (pubblicata nel 2022 a cura di E. Minardi). In essa il professore offre un affresco ricco e di vasto respiro sul senso del mestiere di sociologo, dove spiega come la sua visione ponga sempre al centro la categoria di “persona”, rifiutandosi di abbracciare le derive normative e ideologiche oppure individualistiche, tipiche di alcune importanti tradizioni del pensiero sociologico.

Questa visione influenzerà sempre la sua produzione editoriale, ma costituirà anche la filigrana delle sue innumerevoli conferenze e corsi di formazione. Nell'intervento che terrà a S. Pellegrino nel 1961 emerge una simmetrica filosofia applicabile allo Stato: ”Ma quale tipo di Stato? Ecco il problema. […] Lo Stato moderno, che, sul modello inglese assume la libertà come proprio fine è uno Stato in crisi perché il vero fine dello Stato deve essere la felicità umana, il bonum humanum simpliciter e tale finalismo deve essere deliberato e programmatico; non astratto ed episodico».

Il coraggio di capire il futuro

Ardigò fu infaticabile promotore, divulgatore, teorico e ricercatore scientifico sin dai primi anni Settanta. Fin dagli anni '80 è sempre più forte in lui l’interesse per le tecnologie. Per questo è uno dei precursori che analizzano il tema dell’intelligenza artificiale e quello delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con particolare attenzione per  la questione delle applicazioni informatico-telematiche a supporto delle fasce più deboli di popolazione.  La sua “lettura”  vede l'innovazione al servizio della promozione umana, per un continuo potenziamento e rafforzamento dei diritti di cittadinanza, verso nuovi modelli di servizi socio-assistenziali, sanitari e di welfare. Achille Ardigò è stato anche il fondatore della sociologia della salute, che la collega ad ambiente, famiglia, organizzazione del lavoro, comunicazione e tecnologie. E non ultima la dimensione spirituale.  Di questa materia egli fu non solo infaticabile teorico, ma ricercatore e divulgatore. In tale ambito ricoprì anche incarichi operativi nel campo delle istituzioni ( es, Presidente prima sezione del consiglio superiore della sanità ).

Politica e trascendenza

Da sociologo Ardigò è stato sempre attentissimo sulla necessità  di costruire la politica sul recupero dei valori all’interno di una comunità. Sia per l'Europa che per l'Italia, come per tutto il mondo occidentale, percepisce che la vera crisi non riguarda solo o tanto i parametri economici e le relative implicazioni sociali. Il fattore critico più preoccupante  è  la progressiva frattura fra la gente e lo Stato, frattura che si è acuita esponenzialmente nel tempo. Il professore avvertiva con chiarezza che  la grande fiducia nella funzione architettonica e direttiva della politica negli anni '50 e '60  era un lontano ricordo.

Forse proprio per questo uno dei momenti paradigmatici scelti da Ardigò è la stagione del Concilio Vaticano II. “Lho vissuto al fianco di Dossetti – dice il professore in un'intervista a Repubblica del 2005. “Ero all´Avvenire. Fu la grande stagione della nostra vita, gravida di enormi energie spirituali. Ci investì come un fiume in piena. Ricordo come fosse ora quando il cardinal Lercaro, con tono entusiasta e agitato, telefonò da Roma, alle tre di notte, a Dossetti che era il suo segretario: “Stanno succedendo grandi cose, venga subito, ho bisogno del suo aiuto

 

Franco Banchi

 

Ardigò non scorderà mai nella sua vita la frase che l´«onorevole di Dio», poi frate di Monte Sole e suo maestro, gli consegnerà:”Per un credente la politica è pensabile solo se illuminata dalla trascendenza”.

Vito Lattanzio, il democristiano vicino alla gente

 

Vito Lattanzio e Aldo Moro, nella Regione Puglia, erano i Democristiani più votati. Giovanni Copertino, un Amico del Gruppo politico che faceva capo a Lattanzio, in questa intervista, fatta da Antonino Giannone, racconta le fasi più significative della vita di Vito Lattanzio, del suo rapporto con la gente, dei tratti della sua personalità, del suo pensiero politico che, poi, Copertino ha continuato con il suo impegno nella Democrazia Cristiana, nelle Istituzioni Comunali, Provinciali e Regionali. 

Cenni biografici di Vito Lattanzio: Nasce a Bari il 31 ottobre 1926 - Deceduto il 31 ottobre 2010. Laurea in Medicina e Chirurgia; Medico Chirurgo. Lattanzio è stato un Politico con grandissimi consensi elettorali in Puglia, un "pilastro" della Democrazia Cristiana, un leale antagonista di Aldo Moro: nei Comitati Provinciali non c'era altro se non un confronto tra i due. Lattanzio è stato eletto ininterrottamente in Parlamento dal 1958 al 1994. Ha ricoperto moltissimi incarichi di Governo, Ministro cinque volte, e Sottosegretario; è stato vicepresidente della Camera dei Deputati per due legislaturetra il 1983 e 1988. Nella Dc è stato anche componente della Direzione Nazionale e Responsabile della Politica Estera. È Stato, In Puglia, uno dei Politici di massimo riferimento della Dc, ancor più dopo la morte di Aldo Moro. Segnaliamo il libro di Vito Lattanzio: Il silenzio - riflessioni per poter sperare nel domani. Editore. Giuseppe Laterza 01/01/95 

 

Antonino domanda: Giovanni, per numerosi anni, hai operato, politicamente nel Gruppo di Amici dell'on. le Vito Lattanzio. La sua segreteria politica di via Fratelli Rosselli era considerata una centrale del divenire della cosa pubblica in ogni espressione. Tu ci puoi raccontare l'approccio umano di Vito Lattanzio con le Persone, con i suoi Elettori?

Giovanni risponde: Ricordo che nei weekend, quando Vito Lattanzio tornava a Bari da Roma, davanti al suo uscio si infoltivano impressionanti code di "postulanti": l'idraulico, il marinaio pescatore, il commerciante del mercato rionale, il venditore al minuto, il coltivatore diretto, il muratore, l'Imprenditore, l'Avvocato, il Medico, il Notaio, anche i Sacerdoti per una richiesta di beneficienza per una festa parrocchiale o per una famiglia particolarmente bisognosa. Lattanzio ascoltavacon attenzione non formale, tuttisempre, uno per uno: "Vedrò di fare quello che posso". La Segretaria di turno, annotava e prendeva appunti per tenere aggiornate le richieste che erano uno "specchio dei bisogni delle esigenze sociali di quel tempo". Lattanzio si circondava di persone molto competenti con valori etici: trasparenza lealtà. In particolarevoglio citare l'Amico Michele Caldarola che era il Capo della Segreteria PoliticaPurtroppo, nell'era digitale non c'è più il rapporto diretto tra la gente e il Politico che, quindi, non ha più il "polso della situazione del territorio che rappresenta" spesso le scelte dei Collaboratori non premiano competenzamerito valori della persona.

 

Antonino domanda: I Pugliesi che votavano per decenni Democrazia Cristiana erano Lattanziani MoroteiCi potresti spiegare in che cosa consisteva questa rivalità contrapposizione? 

Giovanni risponde:Lattanzio Moro erano due autentici Democristiani quindi si consideravano, prima di tutto già AmiciSul piano personale si rispettavano sia in pubblico, sia in privato, ma la cronaca politica, per aumentare l'interesse della gente, aveva l'abitudine di amplificare le loro differenze sulle scelte politiche

 

Antonino domanda: Giovanni, Ti chiedo come se facessimo del Gossip negli anni '60-'70 per nulla paragonabile agli eccessi del Gossip dell'era digitale: in che cosa Lattanzio e Moro tra più votati rivali nella DC in Puglia erano dei rivali politici? 

Giovanni risponde:Innanzi tutto, vorrei chiarire che noi Democristiani anche quando su temi di carattere politico abbiamo opinioni diverse, siamo sempre degli Amici e come tali ci rispettiamo sempre. È una caratteristica che come abbiamo visto in questi ultimi 30 anni, non rientra nel DNA di altri Partiti, specialmente quelli che si basano sulla gestione di un unico leader non sulla naturale selezione della classe dirigentema soprattutto sulla fedeltà al leader di turno. Comunque stiamo parlando di due Persone con alti Valori etici Cristiani, due grandi Servitori per la Politica.

 

Antonino domanda: Quali sono stati provvedimenti e i progetti più importanti che ricordi della concretezza politica che veniva attribuita a Lattanzio? 

Giovanni risponde:Vito Lattanzio si è sempre interessato, in prima persona, nell'esercizio del suo potere istituzionale, con interventi a favore della Regione Puglia. Ricordo, in primis, il suo impegno per la Sanità: lo sviluppo concreto del Policlinico di Baricon significativi investimenti per le infrastrutture, le tecnologie il personale. Da quell'impegno anch'io ho potuto continuarequando sono stato Presidente della Giunta Regionale della Puglia (1993)con l'avvio del Progetto Asclepios con il Prof. Paolo Livrea, Preside della Facoltà di Medicina Chirurgia dell'Università di Bari. Ma Lattanzio è intervenuto anche in altri settori, ad esempio l'Agricoltura, era stato Presidente della grande organizzazione Coldiretti. 

 

Antonino domanda: Vito Lattanzio, resta, nell'immaginario collettivo, il Ministro della Difesa che, nel 1977, si dimise, un mese dopo la fuga del criminale di guerra nazista Herbert Kappler dal Policlinico militare del Celio, a Roma.

Giovanni risponde:Innanzi tutto affermo che il Ministro della Difesa Vito Lattanzio non c'entrava nulla con quella fuga, ma si assunse la responsabilità politica si dimise. Ma conferma del suo operato che fu da tutti considerato trasparente, nel rimpasto governativo Lattanzio, senza soluzione di continuità, fu nominato alla guida del Ministero dei Trasporti e della Marina Mercantile che a quell'epoca erano Ministeri divisi, mentre oggi sono stati accorpati.

 

Antonino domanda: Negli anni '90 arrivò Mani Pulite: un flagello per i Politici Democristiani e Socialisti che governavano allora. Il clima di Mani Pulite, travolse, con l'inchiesta "Speranza", anche due Politici, Ministri, in quegli anni. Cosi scrivevano i giornalisti di quel tempo: "Si può dire che la carriera politica di Lattanzio sia finita il 28 marzo del 1995, quando fu posto agli arresti domiciliari assieme all'altro ex ministro barese Rino Formica, socialista, indagato per corruzione finanziamento illecito nell'ambito dell'inchiesta "Speranza" condotta dall'allora pm Alberto Maritati". Il processo "Speranza" fu devastante per la politica nella Regione Puglia per poi concludersi nel nulla: tutti innocenti tranne uno che avrebbe fatto associazione a delinquere con sé stesso  il riferimento rimasto di quell'inchiesta è Francesco Cavallari, detto CicciPresidente del Gruppo Case di Cura Riunite (4mila dipendenti), che operava nella Sanità che è morto da colpevole, ma era innocente Giovanni, ci potresti dire cosa pensi oggi di quella vicenda?

 

Giovanni risponde:Vito Lattanzio, democristiano, e Rino Formica, socialista del Garofano furono coinvolti nell'inchiesta «Speranza» II 28 marzo del '95, i due Ministri condivisero la sorte di quell'inchiesta degli arresti domiciliari per finanziamento illecito corruzione. Titoloni sui giornali, TG nazionali regionaligrande clamore. Dopo 14 anni di processi, veleni in corpo, i due Politici, travolti dai mass media nella polvere, furono assolti nel dicembre del 2009, perché «Il fatto non sussiste»Per entrambi gli accusati fu certamente meglio saperlo da vivi che da morti. Ma questo punto, ogginon posso non evidenziare un fatto riguardo quell'inchiesta che è figlia del clima inquisitorio di Mani Pulite che oggi, si può affermareche è stato un golpe mediatico-giudiziario, perché recentemente (2023), così è stato reso noto da un Magistrato protagonista: il Giudice Gherardo Colombo che lo scrive nero su bianco nell'introduzione al libro "L'Ultima Repubblica" di Enzo Carra, l'ultimo portavoce della Dcscomparso il febbraio Esemplare è una testimonianza resa proprio nei giorni in cui tutto cominciò, tra il gennaio e il marzo del 1993. In quei giorni, Daniel Server, Incaricato d'Affari dell'Ambasciata statunitense in Italia, ragguaglia su Tangentopoli il Dipartimento di Stato osserva che i magistrati hanno "intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente", perché la loro "responsabilità è quella d'assicurarsi che giustizia sia fatta, non di indicare linee politiche per stabilire quando abbastanza è abbastanza"...........Gherardo Colombo dice poi  "che se i politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto "a che fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta Stato-Tangentopoli, del tutto illegale così infatti ha commentato Piero Sansonetti su Il Riformista: "Dal punto di vista del codice penale, se Colombo racconta il veroil pool commise un reato piuttosto serio. Violò l'articolo 338 che punisce severamente la minaccia corpo politicoNella sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parla di singoli politicio di imputati: parla di "politica", al singolare, cioè si riferisce esattamente al "soggetto collettivo" al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la minaccia del carcere. L'articolo 338 del c.p. prevede pene fino sette anni di reclusioneOvviamente i reati sono caduti in prescrizione, però resta la ferita allo StatoLa Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano sempre se è vero quello che dice il dottor Colombo fu comunque portato avanti, con gli arresti sistematici, con l'aggiramento del Gip, con i mandati di cattura rate, col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni con nuovi mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi" Un altro riferimento disponibile è "Tangentopoli fu colpo di StatoLo dicono le toghe"scritto da Ruben Razzante su La Nuova Bussola Quotidiana"l'inchiesta di Mani Pulite fu in realtà un vero Colpo di Stato per sgominare la DCLa furia giacobina di quelle toghe ha distrutto la Prima Repubblica con l'intento di costruirne un'altra governata da un'altra forza politica: la sinistra" Mi sono soffermato su questa pagina di Tangentopoli perché ha colpito anche Vito LattanzioPolitico, grande servitore dello Stato bella persona che grazie alla sua Fede Cristiana seppe affrontare tutte le accuse dei PM he si sono rivelate del tutto infondateInfine, inviterei riflettere su quanto ha scritto il Capo della Procura del Tribunale di Milano, Francesco Saverio Borrelli: "Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito Mani PuliteNon valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale". Un dato di fatto va ricordato: Mani Pulite ha provocato 40 Suicidi centinaia di Politici arrestati assolti!

 

Antonino domanda: Giovanni, potresti spiegarci il pensiero politico di Vito Lattanzio e il suo "Servire la Politica e non servirsi della politica" come diceva Don Luigi Sturzo nell'Appello ai Liberi e Forti (104 anni fa che è sempre attuale) che poi Tu hai praticato nel tuo percorso politico di Democristiano di Centro? 

Giovanni risponde:Mi ha unito Vito Lattanzio una comunanza di principi ideali di Umanesimo cristiano di sensibilità che è stata segnata da un lungo rapporto di amicizia profondo che non è stato mai scalfito durante l'impegno comune di realizzare le nostre scelte politiche con la Democrazia Cristiana per il miglioramento del Bene Comune della gente di Puglia dell'intero Paese. Una Visione comune: eravamo contrari all'idea di Stato padrone, dei Cittadini sudditi, ma avevamo continuo ad avere una Visione che vede lo Stato come regolatore dei processi con l'affermazione dei principi di sussidiarietà, di lasciare ai cittadini la libertà d'intraprendere di operare in un mercato libero che si è andato globalizzando, senza più barriere con servizi commerciali in internet in tutto il mondo. Mi piace ricordare in particolare, il tenace impegno che Vito ha sempre profuso per la nostra terra, la Puglia, e la sua risoluzione ai problemi del Mezzogiorno con proposte concreta di LeggeSe rileggessimo le cronache politiche di qualche decennio fa, scopriremmo che Vito Lattanzio, era rispettato dai suoi avversari politici sia di Sinistrasia di Destra che oggi, come il Sen. La Russa, Presidente del Senato della Repubblica, così scriveva quando era Ministro della Difesa del Governo Berlusconi: "Vito Lattanzio ha lasciato un segno profondo nella storia delle istituzioni democratiche del nostro Paese in tutti noi un ricordo indelebile quale uomo politico di cultura di altissimo spessore al servizio della Repubblica”

 

Antonino domanda: Se guardiamo al futuro nell'era dell'Intelligenza Artificiale, con un Relativismo etico sempre più esteso e anti cristiano, come l'inaugurazione delle Olimpiadi ha dimostrato, ritorneranno i principi e gli insegnamenti della Democrazia Cristiana? Ritorneranno i Politici con la P maiuscola, come sono stati Lattanzio e Moro?

Giovanni risponde: Non lo so, ma prima di risponderti, faccio una considerazione: dopo Mani Pulite che ha di fatto distrutto un'intera classe dirigente, abbiamo appreso di recente che lo fece con un vero colpo di Stato per sostituirla. Così, la Politica è stata, da allora, troppo spesso immeritatamente vituperata anche causa dello spettacolo offerto da numerosi politici da nuovi partiti che, poi, si sono liquefatti in pochi anni. La Politica, che scrivo sempre con la P maiuscola, è stata bersaglio di ironie sberleffi e i giovani giovanissimi, non avendo più esempi di Testimoni di Vita, autentici Servitori dello Statonon sono più attratti dalla Politica, per costruire la Polis nel proprio territorio. Oggi, dopo aver superato da poco 80 anni, Ti confesso, innanzi tuttoche continuerò dire NO coloro che promuovono diffondono il Pensiero che Dio non esiste che con le nuove tecnologie è l'Uomo-dio, assistito e/o sostituito dalla "macchina dell'Intelligenza Artificiale". Questo pensiero, che alimenta la diffusione del Nichilismo del Relativismo individuale, è una prospettiva davvero disumanizzante che, oggi, Vito Lattanzio avrebbe combattuto, come faccio lo, con tanti Amici DemocristianiLattanziani Morotei della mia generazione, ma anche con i più giovani che non si sentono rappresentati non vanno a votare. Oggi, purtroppo, esistono solo posizioni partitiche di Sinistra di Destra, perché lo schema è bipolareIo ho sempre operato dal Centro della Politica che purtroppo oggi non è più rappresentato come lo era con la Dc. Da numerosi anni, servirebbe una legge elettorale proporzionale, unica legge democraticache chiuderebbe la lunga fase di transizione, iniziata negli anni '90, con la legge cosiddetta "mattarellum". Oggi s'impone per tutti di ridare identità ai gruppi politici protagonismo all'Elettore che è escluso dalla scelta del Candidato sul suo Territorio, come invece accadeva ai tempi di Lattanzio di Moro che avevano un larghissimo consenso con centinaia di migliaia di preferenze, come tanti Politici Dc in altre Regioni.

 

Antonino domanda: Un'ultima domanda: nello scenario politico italiano, sarà possibile la presenza di una Democrazia Cristiana storica? Oppure la presenza di Una DC 2.0 dell'era digitale? 

Giovanni risponde: Caro Antonino, intanto Ti ringrazio per questa tua pregevole intervista, quindi rispondo questa tua ultima domanda che lo considero non possa avere una risposta con una certezza di previsione: sarebbe velleitario formularla per chiunque. Ma, per l'interesse dei moltissimi cittadini specialmente dei più giovani che leggeranno le Testimonianze dei grandi Padri della Dc storica, non mi sottraggo. mio avviso, per realizzare nell'era digitale un obiettivo così ambiziososervirà che i giovani delle nuove classi dirigenti abbiano desiderio determinazione a impegnarsi in Politica per affermare nella Società un nuovo Umanesimo, certamente digitale, ma anche un Umanesimo cristianoA tale riguardo, mi auguro, che le numerose riflessioni in corso, che anche Tu stai sviluppando in tanti Convegni in Italia, sul temaIntelligenza Artificiale ed Etica: la Società va verso un nuovo Umanesimo un Transumanesimofaranno nascere una diffusa passione civile nei più giovani, come è accaduto, dopo la II^ guerra mondiale, per la nostra generazione per quelle immediatamente successive per la Ricostruzione dell'Italia. Il futuro, certamente, appartiene ai Giovani Millenials, Alpha, Zeta ancora ai più giovanisaranno loro che dovranno sentire l'impegno per ricostruire la Polis con la tutela della Persona della sua Dignità, dell'Ambientedel Creato, per realizzare il Miglioramento del Bene ComuneConcluderei con questa considerazione: l'impresa di ricostruire la Dc storica è ormai un'impresa quasi impossibile perché troppo diversi sono: contesto sociale, economico, tecnologico, geopolitico e, inoltre, ci sono le vicende di carattere amministrativo, patrimoniale, giudiziario che sono state utilizzate per alimentare solo un'immagine negativa della Dc storica. Penso, comunque, che debba continuare l'impegno di ex Democristiani, Cattolici Laici, ispirati cristianamente, che possiedono e/o condividono Valori etici, cristiani e la cultura politica della Dc storica. Servirà promuovere sul territorio nella comunitàdove si vive e si opera, la presenza di questi Valori nella Società, attraverso aggregazioni partitiche che saranno scelte spero che ci sia anche un nuovo Partito di Cattolici e Laici nell'era del cambiamento d'Epoca, previsto nei prossimi 20/30 anni con l'Intelligenza Artificiale. Infatti, sono convinto che un nuovo Partito: Dc 2.0, inserito nel Partito Popolare Europeo, voluto da Alcide De Gasperi, Schuman e Adenaueri veri Fondatori dell'Europa dei Popoli, potrà contribuire stabilmente realizzare un progetto politico. Ma ci vorrebbero Politici, come Vito Lattanzio Aldo Moro, uomini d'onore, Cattolici che non si vergognino di essere frequentatori di Messe di Curie, che abbiano Virtù etiche nell'esercitare il loro potere, senza approfittarsi per sé e per loro familiari amici. Sarebbe questa una prova di moralità della nuova Politica: un'incarnazione dell'ideologia associata un esercizio del potere! Vito Lattanzio ha lasciato, sulla "sponda dei viventi", 84 anni di vita democristiana, è stato e resta un Testimone anche per i Giovani dell'era digitale perché sappiano impegnarsi, nel loro futuro, a realizzare un Mondo Migliore. 

 

 A cura di Giovanni Copertino *, intervistato da Antonino Giannone **

Nell'intervista, Copertino e Giannone si chiamano per nome: sono Amici dagli anni '90. 

nel 70esimo anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi (9 agosto 1954) 

 

* Giovanni Copertino, nato a Monopoli (25 Gennaio 1943) dove risiede e vive; Laureato in Agraria, è stato Ufficiale del Corpo Forestale dello Stato. Copertino è chiamato dai Cittadini e dagli Amici, Giovanni, ha ereditato la "corrente dei Democristiani che fanno capo a Vito Lattanzio". È stato Presidente della Regione Puglia dal 4 dicembre 1992 al 3 settembre 1993. Nel 1994, con lo scioglimento della Dc, aderisce al Centro Cristiano Democratico di Pier Ferdinando Casini, con il quale venne rieletto in Regione; ha ricoperto l'incarico di Presidente del Consiglio Regionale dal 1995 al 2000; Vice Presidente della Giunta Regionale (2000-2005) e Consigliere Regionale ininterrottamente fino al 2015. È stato anche Presidente della Provincia di Bari e Sindaco di Monopoli. Copertino, in numerosi anni, si è adoperato nelle Istituzioni come promotore per approvare, in particolare: La legge sull'Università del tempo libero e della Terza Età e la Legge sulla Famiglia.  Per le iniziative politiche della Democrazia Cristiana, Copertino, con tanti altri Amici della Regione Puglia, ha sostenuto, per numerosi anni, il Progetto che, purtroppo, non si è realizzato, di un'autentica rinascita della Dc storica. 

 

** Antonino Giannone, barese (11 Giugno 1943), Ingegnere, intervista Giovanni Copertino È stato Top Manager di aziende fino agli anni duemila; Professore a contratto all'Università degli Studi di Bari e per oltre quindici anni al Politecnico di Torino. Dal 2019 al 2023, Presidente del Comitato Scientifico (C.S.) della Fondazione Fiorentino Sullo/Democrazia Cristiana, con Presidente l'on. le Gianfranco Rotondi. Nel C.S. partecipavano 80 Esperti su 22 Aree tematiche di diverse generazioni che hanno sviluppato, in eventi culturali, temi attuali, principi e valori anche della cultura politica della DC storica. Nel 2024 è stato tra i Fondatori dell'Associazione culturale "Umanesimo ed Etica per la Società Digitale.  

Gerardo Bianco "non iscritto al club degli statisti"

 

Gerardo Bianco nasce a Guardia dei Lombardi nel 1931 da Bonifacio Bianco, veterinario e geometra, e donna Maria, nobildonna originaria di Morra de Sanctis imparentata coi principi Biondi Morra: una famiglia della buona borghesia, si direbbe oggi, ma il piccolo Gerardo, come si suol dire, non ‘se la tirava’, giocava con tutti, studiava, aiutava i compagni meno bravi a fare i compiti, insomma era una perla di ragazzo di cui giustamente andavano orgogliosi i fortunati genitori.

Nulla faceva presagire l’impegno politico del piccolo Gerardo, che tuttavia si interessava alla contesa locale, ed esprimeva le sue idee con libertà, seguendo con curiosità la nascita della Dc, e così dissociandosi dalla tradizione leggermente più  conservatrice delle famiglie di origine.

Come tanti ragazzi del Sud, allora come oggi, Gerardo Bianco a diciotto anni diverrà ‘milanese’: entrerà nella prestigiosa università Cattolica, facoltà di lettere e filosofia. L’impronta milanese accompagnerà sempre Gerardo Bianco e altri compagni di università destinati a splendide carriere: Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi, per dire i più noti.

Il sodalizio con De Mita nacque a Milano, nella frequentazione degli ambienti della sinistra cattolica lombarda, dove i due giovanotti irpini furono notati da quello che a buon diritto veniva considerato uno dei potenti d’Italia: Enrico Mattei, il presidente dell’Eni il cui nome si lega al sogno della autonomia energetica italiana. Mattei fondò una sua corrente personale nella Dc: la sinistra di ‘Base’, e ne affidò la leadership all’ex partigiano ,futuro ministro dell’agricoltura, Giovanni Marcora. De Mita, Marcora e Bianco crearono un ponte tra quel ‘milieu’ lombardo e il fervido laboratorio della Dc irpina, dove imperava un giovane parlamentare che fu arruolato da Mattei come leader parlamentare della corrente: Fiorentino Sullo.

Gerardo Bianco era l’ intellettuale del gruppo, ‘il migliore dei numeri due’ lo definiva De Mita, laddove il numero uno era lui. Bianco mise a disposizione del gruppo le sue relazioni di impronta borghese, compresa la frequentazione del salotto romano del suo parente  principe Biondi Morra, dove si narra che si mangiasse ancor meno che in casa Agnelli, al punto che una volta a fine serata Sullo e De Mita imposero una puntatina in pizzeria.

Gerardo Bianco si laureò con tesi su ‘Iunio moderato Cocumella’, di cui diverrà - secondo la Treccani- il massimo studioso nel mondo. Seguirà una cattedra universitaria in vari atenei italiani, l’ultima a Parma. Ma non sarà l’università l’approdo esclusivo del professor Bianco: terminati gli studi, il suo amico De Mita era tornato ad Avellino, ed era divenuto- sulla scia di Sullo- segretario provinciale della Dc. Il numero due Gerardo Bianco lo seguì a ruota, prima succedendogli da segretario provinciale, quando Ciriaco divenne deputato, poi raggiungendolo a Montecitorio nelle elezioni del 1968.

Le immancabili baruffe democristiane divisero prima il duo della ‘Cattolica’ dal leader Sullo, e successivamente frantumarono anche il sodalizio tra De Mita e Bianco, che pareva impossibile da scalfire. Scrisse il giornalista irpino Pasquale Grasso: ‘Sullo, De Mita e Bianco sono tra le intelligenze più attrezzate della Dc, uniti dominerebbero la scena e non ce ne sarebbe per nessuno’. La scena l’hanno dominata per anni, ma ognuno per conto suo: uniti non furono più. De Mita  e Bianco scalzeranno Sullo dalla leadership della Base e dalla guida della Dc irpina, fino a costringerlo ad abbandonare il partito( tranne poi rientrarvi anni dopo, su iniziativa proprio di Gerardo Bianco).

A dividere Bianco e de Mita sarà un diverso giudizio sulla solidarietà nazionale e l’autonomia dei gruppi parlamentari : la maggioranza dei deputati dc diffidava dell’intesa col PCI, e voleva essere guidato dal giovane vicepresidente Gerardo Bianco, che però era ostacolato dalle correnti; a quella carica teneva De Mita, ma i numeri non erano dalla sua. Bianco si candidò e vinse, contro ogni previsione. Ma con la vittoria si consumò una rottura personale che lo addolorò infinitamente.

Nella lotta al potere demitiano nel collegio irpino Bianco ebbe poche solidarietà: principalmente gli fummo a fianco noi giovani che fondammo in gruppo chiamato Proposta 80, sulla scia del gruppo nazionale del deputato lombardo Roberto Mazzotta, allievo di Marcora ,divenuto fieramente anticomunista ( l’asse Avellino-Milano continuava a funzionare).

Bianco combatterà il correntismo democristiano, e si rifiuterà di organizzare una corrente propria, individuando nel frazionismo la fonte della dissoluzione del partito e della nascita di circoli di malaffare. Verrà tangentopoli, che risparmierà quasi soltanto lui, l’onesto Gerardo che - immune da ogni sospetto- sarà anche il solo ad alzarsi virilmente in parlamento a denunciare l’attacco di alcune procure a corpi dello Stato( presenterà in proposito anche un esposto alla procura di Roma, mai preso in considerazione).

‘ Il cristiano è segno di contraddizione ‘ diceva Paolo VI e Bianco incarnava contraddizioni virtuose: lui onesto difendeva la Dc dall’ordalia animata da procure e giornali; lui anticomunista , qualche anno dopo, sarà chiamato a guidare il Partito Popolare alleato della sinistra, contro la frazione del partito che Rocco Buttiglione porterà all’intesa con Berlusconi.

In quella occasione le nostre strade si separarono, con grande dolore mio e suo. Prevarrà sempre il suo carattere mite e sincero, sia nel mantenimento dell’amicizia con me, sia nella ricomposizione umana con Buttiglione, che io celebrai con una memorabile serata a tre in birreria.

‘Non sono iscritto al club degli statisti’ amava dire Bianco, con un filo di snobismo. Invece era un uomo di Stato, come pochi e ben oltre un corso di onori che è stato generoso ma infinitamente al di sotto delle potenzialità di un personaggio che la Dc non aveva valorizzato fino in fondo.

Rimane il tenero ricordo dell’ultimo viaggio assieme a Nusco, per salutare Ciriaco De Mita. Bianco non volle avvicinarsi alla salma, ‘alla nostra età è solo un arrivederci’ sussurrò commosso. E infatti se ne andrà sei mesi dopo, nel dicembre del 2022.

 

Gianfranco Rotondi

Massimiliano Cencelli: oltre il "manuale"

 

Massimiliano Cencelli nasce a Roma nel 1936. Di suo padre, collaboratore di Pio XII, ricorda l’estrema semplicità. Proprio lui gli descriveva  il Papa di quegli anni bui come un uomo essenziale, che cenava in quei tempi con un bicchiere di latte, e che tradiva con i suoi collaboratori il dolore per quanto accadeva.

 

Gli anni belli e difficili della guerra. Il ruolo nella DC

Masimiliano Cencelli  ha raccontato (fonte Vatican News) di aver spesso ascoltato in casa storie di tanti altri salvataggi di ebrei voluti e messi in atto dallo stesso Pio XII, a partire dalle centinaia di uomini nascosti come guardie palatine o delle donne accolte in palazzi del Vaticano o in conventi.

Una mattina – racconta – bussò alla porta un vecchio amico di mio padre e disse che i tedeschi stavano portando via tutti gli ebrei dal ghetto. Poi indicò il bambino e disse : “Questo è mio figlio”. E mio padre rispose senza indugio: “Entra”. Fu così che all’età di sette anni Massimiliano si trovò a vivere con un nuovo fratello sotto lo stesso tetto durante l’occupazione nazista di Roma. Quel ragazzino, Leone Terracina,  non ha dimenticato, come non lo ha fatto lo Stato di Israele che ha consegnato a Massimiliano Cencelli, non molti anni fa, la medaglia d’oro del padre e della madre, Armando e Luisa, insigniti del titolo di Giusti fra le Nazioni.

“Quando parliamo di umanità e di diversità religiose -  afferma Massimiliano Cencelli, pensando a quei momenti di grande solidarietà “- dobbiamo esser fermi nella convinzione che in ogni caso esiste una sola razza umana, il resto sono invenzioni di potere”. E delle religioni dice: “Non possono definirsi tali se non conservano umanità”.   

Negli anni seguenti post-bellici - il padre, che era stato l’autista personale di Pio XII, pensava per lui a un lavoro in Vaticano e l’affidò a Raimondo Manzini, direttore dell’Osservatore Romano, il quale, vista la sua passione per la politica, gli trovò un lavoro nella segreteria democristiana in piazza del Gesù.

Inizia da qui la lunga carriera politica di Massimiliano Cencelli nella DC. Diverrà un brillante ed ascoltato funzionario negli anni seguenti e, in particolare, sarà segretario di  Adolfo Sarti.  Successivamente diventerà collaboratore di Nicola Mancino,  prima che questi \ricoprisse la carica di Vicepresidente del CSM. Cencelli, non ha mai avuto grandi incarichi elettivi, se non quello di Sindaco  del Comune di Caldarola, un paesino agricolo di 1500 abitanti in Provincia di Macerata.

 

Quel nome ingombrante

Il suo nome, a partire dal 1981, è tirato in ballo dal solo archivio digitale dell’Ansa 799 volte in relazione al suo celeberrimo "manuale". Il termine "cencellismo" compare ufficialmente anche nella Treccani. Inoltre, non c'è intervista remota o presente in cui il giornalista di turno non chieda lumi sulla sua quasi pitagorica invenzione.

"Per vanità io dovrei essere contento che il mio nome continui a girare - dice in un'intervista al Fatto Quotidiano - però adesso basta".

Con spiccato senso dell'ironia, ma insieme con una punta di orgoglio, Cencelli racconta anche qualche aneddoto al riguardo. Berlusconi, la prima volta che glielo presentarono, a metà degli anni Novanta, gli chiese se era figlio dell’autore del codice. Gianni Letta corresse prontamente: «Manuale, Presidente, non codice». Cencelli, che a quel tempo curava le pubbliche relazioni del San Raffaele, gli rispose che l’autore era lui.

 

Il piccolo chimico della politica

Noi però non possiamo esimerci dallo spiegare ai lettori questo "congegno", affidandoci alle stesse parole del suo creatore, secondo un'intervista rilasciata ad  Avvenire il 25 Luglio 2003. «Nel 1967 Sarti, con Cossiga e Taviani, fondò al congresso di Milano la corrente dei ‘pontieri’, cosiddetta perché doveva fare da ponte fra maggioranza e sinistra. Ottenemmo il 12% e c’era da decidere gli incarichi in direzione. Allora io proposi: se abbiamo il 12%, come nel consiglio di amministrazione di una società gli incarichi vengono divisi in base alle azioni possedute, lo stesso deve avvenire per gli incarichi di partito e di governo in base alle tessere. Sarti mi disse di lavorarci su. In quel modo Taviani mantenne l’Interno, Gaspari fu Sottosegretario alle Poste, Cossiga alla Difesa, Sarti al Turismo e spettacolo. La cosa divenne di pubblico dominio perché durante le crisi di governo, Sarti, che amava scherzare, rispondeva sempre ai giornalisti che volevano anticipazioni: chiedetelo a Cencelli».

Ma entriamo nello specifico. Caratteristica di questo metodo era il doppio peso tra qualità e quantità. Cencelli aveva calcolato la forza di ogni corrente, tenendo conto delle percentuali ottenute ai congressi (queste cifre le aggiorna periodicamente) e aveva poi diviso in categorie di importanza decrescente i posti appetibili: i ministeri sono ripartiti in “grossissimi”, in “grossi”, “piccoli”, e “senza portafogli”. Tra i primi ci sono l’Interno, gli Esteri, la Difesa e il Tesoro per molto sempre in mani DC . La distribuzione dei posti diventava un problema matematico. Tra due correnti di uguale forza, se una avesse ottenuto un ministero “grossissimo”, avrebbe potuto avere, per esempio solo due sottosegretari. L’altra corrente, se avesse ottenuto un ministero di seconda categoria sarebbe stato compensato con un numero maggiore di sottosegretari, alcuni dei quali nei ministeri di prima categoria».

Era anche previsto un equilibrio nella rappresentanza geografica. Gli incarichi erano ovviamente assegnati a seconda della percentuale dei voti ottenuti dal partito e le correnti interne ottenevano gli incarichi che spettavano al partito in proporzione al numero di iscritti al partito e dai risultati congressi.

In un' Intervista  a Metropolitan  del 2021, Cencelli esterna tutto il fascino ed insieme la fatica del suo oscuro lavoro: “Alla fine sulla scrivania tenevo sempre una calcolatrice e un faldone aggiornato sulle fibrillazioni interne. Una vitaccia”.  E Continua così “C’è stato un momento in cui avevo un potere enorme: i posti di governo passavano tutti dalla mia scrivania. E un vicepresidente americano mi confidò che il mio sistema era utilizzato anche a Washington.

 

La DC nel cuore e quella firma autografa di De Gasperi

“La prima tessera me l’aveva data proprio De Gasperi con la sua firma autografa e la scrittura di pugno del mio’ nome e cognome”. E  prosegue:  "Abitavamo a due passi, di fronte al Vaticano”. Mio zio era segretario della sezione Borgo. Io avevo solo 15 anni e lui chiese proprio allo Statista di fare un'eccezione.

"Sono questi i grandi ricordi della vita",  dice Cencelli con le lacrime agli occhi in un’intervista dei primi del nuovo secolo, non più il suo ormai.

 

Franco Banchi

Luigi Gui, il ministro DC della “scuola aperta a tutti”

 

Luigi Gui ha fatto parte di quella generazione di giovani cattolici che assunsero l’impegno della ricostruzione dell’Italia dopo la tragedia del fascismo e della guerra perduta.

Veniva da una famiglia modesta, con una borsa di studio poté studiare alla Università Cattolica, dove ebbe incontri decisivi per la sua futura vita politica, lì conobbe i “professorini” Fanfani, Dossetti, Lazzati, La Pira che rincontrò in Assemblea Costituente e tramite l’esperienza nella Fuci entrò in contatto con Aldo Moro che ne era diventato il presidente nazionale nel 1939.

Tenente degli Alpini in Russia al rientro in Italia prese i primi contatti con il mondo partigiano, scrisse nel 1944 un opuscolo intitolato “Uno qualunque, la politica del buon senso”. L’opuscolo di una ventina di pagine fu ciclostilato presso il collegio cattolico padovano Barbarigo, dove operavano due sacerdoti fortemente impegnati nella lotta antifascista, don Mario Apolloni e don Giovanni Nervo, e diffuso clandestinamente ebbe una notevole fortuna, come primo orientamento per la ricostruzione democratica del paese.

Come il coetaneo Mariano Rumor entrò in politica avendo già alle spalle una esperienza dirigenziale nel mondo associativo: Rumor Presidente provinciale delle Acli vicentine, Gui presidente provinciale della Coldiretti padovana. Nel 1946 viene eletto consigliere comunale a Padova e diventa capogruppo della Dc, guidando la formazione della nuova giunta post Cln con l’estromissione dei comunisti dal governo cittadino, poi l’elezione alla Assemblea Costituente e alla Camera nel 1948.

A Roma è tra i deputati dossettiani, Gui diviene segretario di Civitas Humana, che era il gruppo culturale fondato da Giuseppe Dossetti e poi redattore di Cronache sociali, la rivista del gruppo che tra il 1947 e il 1951 rappresentò le idee più avanzate nell’esperienza politica della Dc, con l’ambizione di costruire un progetto culturale per la società italiana, dotandosi di strumenti scientifici e culturali adeguati all’impresa.

Iniziano presto le responsabilità di governo, a partire da quello di sottosegretario all’Agricoltura nel 1951 (Ministro era Amintore Fanfani) con la delega di dare attuazione alla legge sulla riforma agraria, di cui era stato relatore alla Camera dei deputati. Aveva scelto del resto in quella prima legislatura di essere assegnato alla Commissione Agricoltura ed Alimentazione, di cui era stato eletto segretario, contando evidentemente sulla conoscenza del mondo agricolo che aveva acquisito con il lavoro svolto per la nascita della Coldiretti padovana.

Un primo impegno governativo di forte impatto sociale con l’esproprio di oltre 700.000 ettari di grandi proprietà terriere a favore di coltivatori diretti. A questo primo impegno sarebbero succeduti incarichi ministeriali di primo livello: Ministro del Lavoro (1957), Ministro della Pubblica istruzione (1962 – 1968), Ministro della Difesa (1968 – 1970), Ministro della Sanità (1973 – 1974), Ministro dell’Interno (1974 -1976), Ministro della Pubblica Amministrazione e delle Regioni (1974).

Un ruolo governativo sostenuto da una lunga una esperienza parlamentare, che si sarebbe succeduta per sette legislature alla Camera e per una ulteriore al Senato. E incarichi tutti conquistati con un rapporto costante con il collegio di elezione, come dimostra il consenso espresso con il voto di preferenza, con il picco di oltre 63.000 voti raggiunti nel 1963, secondo degli eletti democristiani nella circoscrizione Verona, Padova, Vicenza, Rovigo, dietro il capolista Mariano Rumor.

Della lunga esperienza governativa di Luigi Gui va ricordato soprattutto (così voleva lui) l’approvazione la legge per la scuola media unica nel 1962. Rimuovendo un inaccettabile strumento di diseguaglianza che discriminava i bambini fin dalle elementari, tra chi poteva accedere a livelli di studio superiori e chi doveva prendere la strada dell’avviamento professionale. Le statistiche di allora ci dicono che oltre l’80% dei ragazzi dopo i 10 anni abbandonava gli studi, avviandosi precocemente al lavoro o all’istruzione professionale di base: un grande progetto di alfabetizzazione del paese, senza preclusioni di classe.

La riforma della scuola media unica è stata una vera riforma. Che ha cambiato in meglio la vita degli italiani, ha dato attuazione ai principi costituzionali di eguaglianza, non a caso il primo articolo della legge di riforma fa riferimento all’articolo 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”.

Come tutte le riforme vere Gui dovette vincere resistenze, conservatorismi, interessi corporativi, tra chi temeva che vi fosse un abbassamento della qualità dell’insegnamento, che vi fosse un sovraccarico per il corpo insegnante, che si sprecassero risorse per formare giovani che avrebbero dovuto comunque avviarsi ad assicurare la necessaria manodopera alle attività produttive.

Non riuscì invece a portare a termine il progetto di riforma universitaria, osteggiata dai conservatori perché troppo innovativa, dagli innovatori perché troppo timida. Sarebbe stata invece una riforma importante, che avrebbe con equilibrio avviato un processo essenziale di riforma per il quale si dovette poi aspettare moltissimi anni. Va invece ricordato che da Ministro della Sanità impostò i fondamenti di una riforma sanitaria che pio fu portata a termine da Tina Anselmi.

Gui fu capogruppo della Dc tra il 1958 ed il 1962, periodo delicatissimo tra le dimissioni di Fanfani dalla Segreteria nazionale della DC nel 1959, l'elezione di Aldo Moro, la preparazione della nuova fase dell’apertura a sinistra con l’entrata dei socialisti nel governo, fortemente osteggiata dagli ambienti conservatori e da una parte della gerarchia cattolica.

Gui si trovò ad essere un necessario punto di equilibrio tra l’esuberante iniziativa politica di Amintore Fanfani, allora insieme Presidente del Consiglio e Segretario Politico nazionale e quella parte del partito e dei gruppi che mal tolleravano questa concentrazione di potere e l’iniziativa riformatrice sia nel campo della politica interna che in quella estera.

Nacque uno stretto sodalizio con Aldo Moro che durò fino all’assassinio dello statista pugliese. Nel Veneto capeggiò la corrente morotea, fortemente maggioritaria a Padova e da quelle posizioni contestò tra l’altro in particolare l’ascesa di Toni Bisaglia, di cui non condivideva metodi e linea politica.

Gui dovette affrontare anche prove difficili, quando, ingiustamente tirato in causa nello scandalo Lockheed nel febbraio del 1976 si dimise immediatamente da Ministro dell’Interno, pur sapendosi totalmente innocente. Dovette aspettare il 1979 perché la Corte Costituzionale lo assolvesse con formula piena per non aver commesso il fatto.

Per capire il clima a cui fu sottoposto un uomo onesto vale la testimonianza di Mino Martinazzoli, che aveva presieduto la Commissione Inquirente: “Rivedo Gui vicino alla moglie, davanti all’ingresso di Montecitorio. Lo insultavano e la folla gli buttava le monetine. Ho un ricordo penoso nella memoria lontana: quel giorno fu l’epifania di una tendenziale disumanità della politica”.

Di fatto quella vicenda pose termine alla carriera politica di Gui, anche la scomparsa di Moro lo privò del suo principale riferimento politico. Luigi Gui seppe terminare comunque con dignità la sua lunga e operosa carriera politica. Nel 1983 accettò la candidatura nel collegio senatoriale di Padova, un collegio che tutte le previsioni davano perdente, ma Gui considerò suo dovere condurre la battaglia elettorale. In quelle elezioni la Dc conquistò nel Veneto ancora 14 deputati e 12 senatori.

Gui avrebbe ancora meritato una presenza in un collegio sicuro. Aveva in fondo 69 anni e avrebbe potuto dare ancora un apporto significativo alla iniziativa parlamentare del gruppo democristiano. Non si usava il termine inurbano di rottamazione, tuttavia il rinnovamento avveniva egualmente, ma fu una vera ingiustizia: di una parte consistente dei molti democristiani veneti eletti in quella occasione non restò traccia significativa a livello nazionale.

Ripensando alla sua lunga vita politica Luigi Gui così scriveva nel 1987: “esperienze, avvenimenti, e problemi sono ripensati dal punto di vista che vorrebbe essere quello di umanesimo consapevole, nello sforzo di cimentarne l’ispirazione cristiana con le concretezze della realtà quotidiana e delle vie da rimediare o da escogitare in essa al fine del bene comune”. Sono parole che possono applicarsi ad altri esponenti di quella generazione di cattolici che si trovarono a guidare la ricostruzione del paese e la sua rinascita economica, sociale e culturale, nel tentativo costante di tradurre una alta ispirazione ideale nella dura concretezza della vita politica.

 

Paolo Giaretta *  20 Agosto 2024 

 

* Padovano. Dal 1987 al 1993 sindaco di Padova. Nel 1996 è eletto senatore della Repubblica per la XIII legislatura. Riconfermato nel 2001  per la XIV legislatura, e nel 2006 eletto al Senato per la terza volta. Nelle elezioni del 13 e 14 aprile 2008 è nuovamente eletto senatore.

Giovanni Marcora: Il Comandante

 

Quando  il senatore e ministro Giovanni Marcora morì nel 1983 a soli sessant’anni, il presidente del Senato Francesco Cossiga venne a Milano per commemorarlo al teatro San Carlo. Erano intervenute molte centinaia di persone e tanti stavano in piedi per mancanza di posti. Cossiga iniziò il suo discorso con una frase che è certamente rimasta nella memoria di tutti i presenti. Disse: «Mentre venivo qui mi domandavo cosa avrei detto nel luogo dove lui aveva operato così bene per tutta la vita e mi chiedevo come avrei potuto non essere retorico di fronte ai suoi amici, a chi lo conosceva bene, ai suoi collaboratori, a chi aveva combattuto con lui per anni cambiando profondamente la natura della Democrazia Cristiana anche a livello nazionale. Ero confuso dalla retorica quando all’improvviso mi sentii esplodere nella mente la sua voce roca che mi diceva: ‘Francesco, non fare il pirla, ricordati che non ero Napoleone’».

Bisognerà aspettare l’ex allenatore dell’Inter Mourinho per sentire qualcosa di simile. Fu chiamato per tutta la vita «Albertino», nome di battaglia assunto come vicecomandante del raggruppamento divisione Fratelli Di Dio, due eroi della Resistenza uccisi dai nazisti. Il suo comandante era Eugenio Cefis futuro presidente dell’ENI e della Montedison. Zona di operazioni l’Ossola e il Mottarone, punto di appoggio la parrocchia di Lesa, retta da don Federico Mercalli, futuro vicario episcopale della diocesi di Novara e sacerdote che celebrò le nozze di Cefis e battezzò i figli di Marcora.

In vetta alla piramide del comando c’era Enrico Mattei, che fu il tesoriere della Resistenza e il comandante in capo di tutte le forze partigiane di ispirazione cristiana con il fazzoletto azzurro al collo. Tra gli uomini sotto il comando di Marcora ricordo Gian Angelo Mauri, mio amico personale, e Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza, torturato dai nazisti e futuro capo della guardia personale di Enrico Mattei, presidente dell’ENI.

La Resistenza ha segnato dunque per sempre la vita di Marcora che, nato a Inveruno, figlio di contadini, rimase ben presto orfano di entrambi i genitori e allevato dalla zia, che lui chiamò per tutta la vita mamma. Fu uomo dotato di un forte carisma personale, un vero capo, e con notevoli capacità imprenditoriali.

De Gasperi e Mattei lo incaricarono di organizzare la sfilata della vittoria a Milano. In un primo tempo si dedicò all’autotrasporto tra Milano e Genova. Quando Fanfani diventò segretario della DC, Mattei, che stava creando un impero economico con l’aiuto di Cefis, su suggerimento di don Federico e dell’ingegner Gianmaria Capuani, futuro presidente della Camera di Commercio di Novara, decise di convocare Marcora perché́ desse vita nella DC a una corrente che coprisse lo spazio politico della sinistra degasperiana. Nel 1956 nacque a Belgirate la corrente di Base.

A fianco di Capuani e Marcora si schierarono ben presto due giovani studenti della Cattolica provenienti dal Sud, ossia Misasi e Ciriaco De Mita, ma anche Luigi Granelli, ex operaio della Dalmine, autodidatta, nonché́ le prime donne impegnate in politica nella DC, come Lidia Brisca Menapace, Tina Anselmi e Adriana Guerrini. Sin dall’inizio aderirono alla Base il bergamasco Rampa, Marchetti di Varese, Arnaud di Torino, Follini (padre) di Piacenza, De Poli di Treviso e tanti ex partigiani tutti futuri parlamentari e imprenditori di successo.  

Dal 1956 agli inizi degli anni Sessanta la corrente di Marcora, che si collegò presto a Firenze con La Pira e Pistelli, a Bologna con Ardigò e Prodi e a Roma con Galloni e Sullo, crebbe fino a superare il 6% nazionale della DC e soprattutto conquistò la provincia di Milano, di cui Marcora divenne segretario provinciale. Dopo la morte di Mattei la Base subì̀ un trauma e perse il controllo di Milano, per riprenderlo a metà degli anni Sessanta, realizzando il primo esperimento di alleanza con i socialisti nell’amministrazione provinciale e comunale della città.

La vicenda fu duramente contestata dal mondo cattolico milanese e ci fu in particolare, alla fine degli anni Cinquanta, una dura polemica tra l’arcivescovo Montini, futuro Paolo VI, e Luigi Granelli, che per questo non ebbe il numero di preferenze necessario per essere eletto deputato. Quando Marcora tornò alla guida del partito a Milano capì che era necessario creare un gruppo dirigente dotato di un maggior livello culturale e tutto questo organizzò con la collaborazione determinante di chi scrive, che trovò in lui, oltre che una guida politica, un secondo padre, tanto che accettò volentieri di farmi da testimone di nozze.

Si creò un gruppo di giovani che sostenne la corrente sia in Lombardia sia nel resto d’Italia, soprattutto a Roma, dove si aprì una sede nazionale in via Uffici del Vicario. Alle elezioni del 1968 furono eletti una trentina di parlamentari della corrente, tra cui Beccaria, Gargani, Bianco, Granelli, De Mita e De Poli. Nel 1970 la corrente ebbe la forza di acquisire la presidenza della Lombardia con Piero Bassetti e importanti incarichi per Rino Golfari e Beppe Guzzetti, futuri presidenti della Regione.

La corrente superò il 10% nazionale e De Mita divenne vicesegretario nazionale della DC con la segreteria di Piccoli prima e di Forlani dopo. Anche Marcora per un brevissimo periodo fu vicesegretario nazionale con Fanfani, per poi ricoprire, all’inizio degli anni Settanta, il posto adatto a lui: il Ministero dell’Agricoltura che tenne per sette anni, riuscendo a essere il miglior ministro mai visto in quel settore.

Nel 1980 divenne ministro dell’Industria, pur conservando il ruolo di capo storico della corrente e, anche grazie a un’intelligente politica delle alleanze, si rivelò come la testa pensante della DC, tanto da portare nel 1982 Ciriaco De Mita alla segreteria nazionale del partito e Francesco Cossiga, che da tempo era entrato nella corrente di Base, alla presidenza del Consiglio prima e poi a quella del Senato. Marcora era un punto di forza per quanto riguardava le necessità economiche della sua corrente in tutta Italia, nonché́ del partito laddove c’erano basisti alla guida della DC sul territorio.

Aveva dato vita anche a un’agenzia giornalistica nazionale chiamata Radar, con sede a Roma e diretta da un intellettuale, autore di numerosi libri e pubblicazioni, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, Giovanni Di Capua. La sua principale fonte di approvvigionamento economico era ovviamente il «cane a sei zampe», ossia l’ENI. Perché́ non ci siano equivoci di alcun genere su come Marcora conciliasse la raccolta dei mezzi necessari per la politica con l’attività̀ politica stessa, è utile ricordare che in un grande convegno, presenti centinaia di dirigenti della corrente di Base della Lombardia, si rivolse a un membro dell’assemblea che doveva lasciare un incarico per acquisirne uno più̀ importante dicendogli: «Mi raccomando, per il mestiere che fai sei abituato a rubare sul gasolio, ma questo non lo puoi fare nella banca dove andrai».

Quando, molti anni dopo la morte di Mattei, divenne presidente dell’ENI il marchigiano Girotti, mi capitò di scambiare qualche parola con un autorevole marchigiano, l’onorevole Forlani, e gli dissi: «Adesso con Girotti sei sicuramente più̀ forte nell’ENI»«Eh no», mi rispose Forlani, «sull’ENI si protende più̀ che mai la lunga ombra del ministro Marcora.»

In effetti Marcora ricavava da questi autorevoli contatti la concessione di molte pompe di benzina che gestiva in proprio o affittava, procurandosi così quella liquidità che in buona parte veniva investita nella politica. Quando fu approvato il finanziamento pubblico dei partiti con una legge che Marcora non aveva per nulla gradito, si incontrò con me per invitarmi a studiare qualcosa di nuovo, perché́ secondo lui la legge non risolveva il problema, come dimostrerà̀ poi Tangentopoli. Marcora non voleva violare tale legge per poter dormire tranquillo.

Dopo tanti scambi di idee, giungemmo alla soluzione che occorresse mettere in piedi qualcosa di simile a quello che avevano fatto i comunisti con le cooperative rosse. Fu questa la ragione per cui, pur continuando a occuparmi del partito, impiegai tutte le mie energie per dar vita a un grande consorzio cooperativo edilizio di cui fui presidente per qualche anno. Va notato che, mentre il PCI era unito e coeso e quello che decideva il segretario nazionale del partito veniva attuato pronta- mente ovunque, nella DC la presenza di correnti di ogni genere creava problemi concorrenziali interni, per cui i democristiani, invece di aiutarsi, si ostacolavano l’un l’altro.

Questo spiega sia il fallimento delle cooperative dell’onorevole Franco Verga, sia in parte di quelle che facevano riferimento a me e alle ACLI nelle altre zone del Paese. Marcora era estremamente contrario, nell’ambito della spartizione degli enti a livello nazionale, a cedere l’ENI al PSI, e riuscì̀ a inserire un membro della sua corrente nel consiglio di amministrazione di tale ente: il giovane Gianni dell’Orto, che io stesso gli avevo presentato anni prima. Comunque, il destino cinico non favorì Marcora.

Infatti, De Mita divenne segretario del partito e Craxi iniziava la sua breve marcia verso la guida del Paese, mentre lui cominciava a manifestare i segni della grave malattia che lo aveva colpito. Non ebbe quindi più̀ la forza di lottare contemporaneamente contro De Mita e Craxi. Si preoccupò, comunque, che l’ex onorevole De Poli arrivasse alla presidenza dell’ente Cellulosa, carica che poi lasciò per assumere la presidenza di una grande fondazione bancaria, cedendo il posto a Giovanni Di Capua, indicato pure da Marcora. Rognoni, un altro basista, andava a occupare il Ministero degli Interni lasciato vacante da Cossiga, che diventava presidente del Senato, e Galloni infine veniva nominato vicepresidente del CSM.

Come si vede, si verificava quello che tante volte il leader aveva immaginato: la sinistra di Base avrebbe acquisito nella DC un potere senza precedenti. Se fosse vissuto avrebbe anche impedito a Goria di liquidare la Federconsorzi, errore le cui ripercussioni gravano ancora oggi sul nostro Paese. Fra l’altro era uno dei pochi leader politici disponibili al ricambio generazionale; un aspetto questo a cui molti altri eminenti esponenti della DC erano poco sensibili.

A tale proposito ricordo un episodio che ebbe come protagonista Siro Brondoni, già direttore del Popolo Lombardo e presidente dell’UNURI (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana). Durante una riunione della direzione provinciale presieduta da Marcora, in cui si discuteva per l’inserimento di alcuni nominativi fra i candidati dell’elezione del 1968, Brondoni ricordò ciò che Lal Bahadur Shastri, succeduto a Nehru, dopo la sua morte, nella carica di primo ministro della Repubblica Indiana, rispose ai giornalisti che gli chiedevano da dove fosse spuntato, dal momento che non avevano mai udito il suo nome. Shastri rispose pressappoco così: «Gli uomini di potere sono come gli alberi dalla grande chioma sotto la cui ombra non cresce nulla. Io sono sbucato fuori solo ora perché́ ho avuto l’audacia di arrampicarmi sull’albero».

Marcora non era un moralista, ma era impregnato di una forte componente di moralità̀ cristiana tradizionale derivante dal mondo contadino. Viveva veramente i problemi di quelli vicini a lui e non usava «a vanvera» la parola amico. Mi ricordo benissimo di quando, appena tornato da Bruxelles, venne a riferirci che l’assessore di Firenze Remo Giannelli, direttore di Politica, era stato accusato di corruzione e arrestato in relazione alla costruzione di un forno di incenerimento.

Nel darci la notizia aveva gli occhi gonfi di pianto e ci ricordava che Giannelli era una persona per bene, probabilmente caduto nelle mani di qualche furbacchione che aveva approfittato della sua buona fede. Marcora avvertiva che si stava avvicinando un periodo buio, in cui i politici avrebbero corso molti rischi, sia a causa della furbizia di certi imprenditori sia dei pesanti interventi della magistratura.

Concluse dicendoci che, se qualcosa del genere fosse accaduto a lui, noi dovevamo sapere che tutto quello che aveva fatto era stato finalizzato agli interessi della corrente e del partito e che per lui era importante che noi manifestassimo la nostra solidarietà̀. Quando, non molto tempo dopo, venne il momento della scarcerazione di Giannelli, Marcora gli fece trovare davanti alle porte del carcere una sua vettura con autista e con a bordo l’intera famiglia.

La macchina si diresse verso Bedonia, la nota tenuta agricola che Marcora aveva nel parmense, e ospitò tutta la famiglia Giannelli per un certo periodo. È noto che Marcora era solito ospitare a Bedonia anche i suoi colleghi europei, ministri dell’Agricoltura, ai quali mostrava con orgoglio le sue mandrie di mucche pezzate o brunalpine. Più passa il tempo e più̀ la gente che ne ha semplicemente sentito parlare chiede notizie sul ruolo che Marcora ha avuto nella vita politica italiana. Oltre che per l’abilità, competenza e concretezza mostrate nella gestione del Ministero dell’Agricoltura e dell’Industria, va ricordato per la legge Marcora sull’obiezione di coscienza, alla quale anche il sottoscritto diede un importante contributo, e per la legge Gozzini, riguardante il trattamento dei detenuti nelle carceri.

Un’altra legge da lui voluta è quella tesa ad agevolare le cooperative nei vari settori produttivi, legge più̀ volte modificata, ma tuttora in vigore. Marcora, memore della sua esperienza nella Resistenza, non condivideva l’idea di De Mita che si potesse dar vita a un Patto costituzionale con i comunisti. Mi aveva raccontato che almeno in due circostanze, durante la Resistenza, i partigiani comunisti avevano cercato di eliminarlo fisicamente. Da qui la sua giustificata diffidenza nei confronti dei comunisti.

Purtroppo, la persona delegata a polemizzare con il leader campano su tali problemi ero proprio io, e in tal modo non mi conquistai certo la simpatia di De Mita, destinato a diventare il futuro segretario nazionale della DC. Marcora scrisse anche tre lettere al presidente del Consiglio Cossiga nelle quali, sia pure in modo garbato, criticava la politica economica sul lavoro del suo governo. Secondo lui si stava esagerando nel fare una politica tesa a garantire i posti di lavoro già̀ esistenti, rinunciando a una politica di crescita globale.

Il buon senso, infatti, suggeriva che, il giorno in cui in Italia ci fossero stati cinquanta milioni di assistiti, nessuno avrebbe potuto mantenerli a meno di non fare invadere l’Italia dalla Svizzera o dalla Germania. Nell’ultima lettera annunciava le sue dimissioni da ministro, ma Cossiga riuscì̀ a dissuaderlo.

Marcora, come Mosè, non poté́ però entrare nella terra promessa. Infatti, quasi sicuramente sarebbe diventato segretario nazionale della DC o presidente del Consiglio. Afflitto da alcuni anni da un tumore, pochi mesi dopo la morte di don Federico, ai primi di febbraio del 1983, a sessant’anni appena compiuti, morì. Ai suoi funerali la chiesa di Inveruno era piena all’inverosimile di tante persone che si erano legate a lui; in un angolo mi ricordo di aver visto piangere Donat-Cattin, il duro che aveva litigato tanto e tante volte con lui.

Nell’editoriale dedicato alla sua morte, Montanelli concluse così: «Già̀ ridotta al lumicino come qualità̀ e quantità̀ di effettivi, la classe politica del Nord perde con Marcora uno dei maggiori protagonisti e forse il più̀ difficile da sostituire. Non vedo infatti chi possa riempire il vuoto che egli lascia. Non solo nella DC, ma anche negli altri partiti, dei Marcora si è perso lo stampo. Di un personaggio politico che muore è raro poter dire: ‘Era un uomo’, di Marcora è impossibile dire altro».

Io che lo conoscevo molto più̀ di Montanelli, non posso che associarmi pienamente al suo intelligente commento. Ho ancora vivo il ricordo di Marcora mentre sedevamo a un tavolo per una frettolosa colazione. Terminato il piccolo pasto, Marcora si accese una sigaretta, ma all’improvviso la spense dicendo: «Che sciocco, mi ero dimenticato che siamo in Quaresima».

 

Ezio Cartotto* 12 Agosto 2024 

 

*Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi - 2012 Sperling & Kupfer- su gentile autorizzazione di Elena Cartotto.

Luigi Granelli. L’intellettuale autodidatta

 

Luigi Granelli si colloca tra i maggiori dirigenti della DC lombarda e nazionale. Estremamente forte fu il suo legame con Marcora, senza che sfociasse mai in forme di servilismo. Bergamasco, nato alla fine degli anni Venti, è stato uno dei più̀ giovani partigiani della sua zona e militò, data la sua educazione cattolica, nelle brigate dei partigiani bianchi.

Ancora ragazzo, alla fine della guerra ritornò a lavorare con il padre, esercitando il mestiere di imbianchino. A sedici anni verniciava di minio i cancelli della Dalmine. Di media statura, aveva lineamenti fini ed era dotato di una straordinaria intelligenza dialettica e oratoria. Per queste ragioni, agli inizi degli anni Cinquanta fece una rapida carriera nella DC di Bergamo, ricoprendo il ruolo di direttore del giornale locale Il Campanone e collaborando con altri personaggi dotati di una cultura più̀ vasta della sua, come Beppe Chiarante e Luigi Magri, futuri parlamentari del PCI.

Granelli si formò da solo e quando la stima nei suoi confronti crebbe cominciò a essere chiamato fuori dalla sua provincia. Dopo la fondazione della corrente di Base fu avvicinato da Marcora, che gli propose di dirigere una rivista chiamata proprio La Base. In quella redazione incontrò la giovane dottoressa Adriana Guerrini, assistente alla cattedra di Diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, con la quale si sposò. Impegnati entrambi in politica, ebbero un solo figlio.  

Quando Fanfani divenne segretario al congresso nazionale di Trento, si scontrò subito con Granelli che lo accusava di voler fare e agire senza pensare e progettare. In modo sprezzante Fanfani gli rispose: «Non si preoccupi, per voi faremo un pensatoio!» In seguito Fanfani sospese dal partito Granelli, Magri, Chiarante, l’onorevole Bartesaghi di Lecco e Mario Melloni, che con lo pseudonimo di Fortebraccio sarebbe diventato un bravissimo umorista dell’Unità, famoso per le sue vignette e le sue battute.

Mentre Magri, Chiarante e Bartesaghi finirono nel PCI, Granelli resistette nella DC con l’aiuto di Marcora, di sua moglie e della professoressa Brisca Menapace, di origine trentina e docente alla Cattolica di Milano. Quest’ultima finirà̀ anche lei nel PCI e poi al manifesto.

Granelli si trasferì̀ a Milano dove, a metà degli anni Cinquanta, Marcora aveva vinto il congresso provinciale, dando respiro a nuove e importanti prospettive. Divenne, come capiterà̀ più̀ tardi a chi scrive, prima dirigente degli enti locali e in seguito direttore del Popolo Lombardo, il settimanale della DC milanese.

Granelli tentò, ancora giovanissimo, di presentarsi candidato alle elezioni del 1958, sfruttando le sue capacità dialettiche e di abile giornalista. Purtroppo, in quella circostanza si scontrò con il vicario della diocesi di Milano monsignor Manfredini, futuro vescovo e delegato dall’arcivescovo Montini ai rapporti con il laicato cattolico milanese. Granelli era convinto sostenitore di quell’apertura a sinistra che prevedeva un accordo con il PSI, rifacendosi alla famosa frase di De Gasperi: «La DC è un partito di centro che guarda a sinistra».

Per lui, la Base era la sinistra degasperiana, cioè̀ una sinistra più̀ laica di quella aclista di Vittorino Colombo a Milano o di La Pira a Firenze. Monsignor Manfredini, invece, era su posizioni decisamente diverse, che lo portavano a caldeggiare il mantenimento del centrismo sia al comune di Milano sia in provincia. Nel momento cruciale delle elezioni del 1958 ebbe luogo un disastroso confronto tra Granelli da una parte e l’arcivescovo Montini, destinato alla carica di pontefice come Paolo VI, dall’altra. Dopo un incontro privato con Montini, Granelli pubblicò un comunicato nel quale diceva che le divergenze erano state chiarite in modo positivo. Gli piombò addosso una pesantissima smentita della curia milanese, nella quale si negava non solo l’esito positivo del suddetto chiarimento, ma proprio che il chiarimento ci fosse stato.

Come è facile immaginare, Granelli non fu eletto e, dato che Marcora perse un congresso provinciale agli inizi degli anni Sessanta, poté́ presentarsi candidato solo dieci anni dopo, nel 1968, a circa quarant’anni, quando lo stesso Marcora divenne senatore. Chi scrive s’era messo a disposizione di Marcora alla metà degli anni Sessanta, prima quindi che Marcora vincesse nuovamente il congresso provinciale di Milano, ritornando alla segreteria del partito. In vista delle elezioni del 1968 Marcora progettò e attuò un ricambio generazionale di vaste dimensioni. Io ero perfettamente d’accordo con tale progetto e ho contribuito con tutte le mie forze al suo successo.

Tra l’altro, anche per la profonda stima che nutrivo nei confronti di Luigi Granelli, ho contribuito a farlo inserire tra i primi degli eletti (allora c’erano i voti di preferenza). A questo scopo organizzai diverse manifestazioni, una delle quali con migliaia di persone al Palalido di Milano e super ospite la cantante Patty Pravo, che in quel periodo lanciava la famosa canzone La bambola. Feci anche venire Fanfani al teatro Dal Verme che era strapieno. Tutti questi successi convinsero Marcora, dopo le elezioni, a chiedermi di collaborare con lui per organizzare a livello nazionale la corrente di Base che era riuscita a eleggere in tutta Italia più̀ di trenta fra deputati e senatori. Io accettai e mi trovai a dover svolgere un’enorme mole di lavoro perché́, con il dono dell’ubiquità̀ che non avevo, dovevo essere presente a Roma circa tre giorni alla settimana e contemporaneamente seguire la mia attività̀ politica a Milano, dove presto divenni direttore del Popolo Lombardo, entrai a far parte del comitato regionale e perfino del consiglio di amministrazione dell’ATM.

In quel periodo potevo contare su una squadra di amici quasi tutti laureati o studenti universitari che costituivano i miei più̀ stretti collaboratori e con cui avevamo preso una felice abitudine: incontrare una volta alla settimana l’onorevole Granelli, vero maestro di politica. A volte le nostre chiacchierate nel suo ufficio di corso Pellegrini finivano ben oltre le due del mattino. Luigi Granelli era il personaggio politico che invitavamo sempre a concludere i corsi di formazione dei giovani democristiani perché́ aveva quel dono raro di accendere istantaneamente l’entusiasmo. Una volta, a un congresso nazionale gli toccò la parola in un momento favorevole in cui l’assemblea era piena di gente e, forse spinto dai tanti applausi e incoraggiamenti, fece un incredibile exploit.

Rivolgendosi alla maggioranza dorotea e fanfaniana disse: «Non ho alcun dubbio che il nostro gruppo, ricco come è di giovani intelligenze, sarà̀ domani l’intera DC». Questa frase divenne famosa e noi, orgogliosi di essere le «giovani intelligenze» di cui sopra, la ripetemmo ovviamente in tutta Italia.

Granelli era venuto con noi nelle università̀ occupate a Milano e in altre città e aveva polemizzato molto abilmente con il professor Miglio, favorevole all’ipotesi di nazioni guidate da élite conservatrici. Granelli divenne in seguito membro del governo in qualità̀ di sottosegretario agli Esteri e si avvicinò molto, assieme all’onorevole Galloni, alle posizioni di Aldo Moro.

Questo suo atteggiamento suscitò il rancore di Marcora e De Mita che si sentivano più̀ affini a Piccoli e Forlani. Quando cadde sulla nostra testa il fulmine della morte di Marcora, che avveniva a pochi anni di distanza dall’assassinio di Moro, Granelli divenne il sostituto di Marcora a Milano, prendendo anche il suo posto di senatore di Vimercate, senza peraltro lasciare la vita governativa che continuò come ministro delle Partecipazioni statali.

Anche lui fu però danneggiato dall’arrivo nella segreteria del partito di De Mita, che decise di collocare nei punti chiave uomini della sua squadra, come per esempio Tabacci in Lombardia. Nel linguaggio demitiano Granelli divenne la «Vecchia Guardia», e ciò̀ segna sempre l’inizio del declino. Luigi, però, non si arrese tanto facilmente e, a differenza di me, imparò a usare le nuove tecniche informatiche, continuando a partecipare al dibattito politico.

Da quando Luigi è morto, poco più che settantenne, ho sofferto della sua assenza come di pochi altri e spesso e volentieri mi ricordo il pensiero e le frasi così belle e vigorose di quest’autodidatta destinato a diventare un maestro, per me tra i più̀ grandi.

 

Ezio Cartotto* 10 Agosto 2024 

 

Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi - 2012 Sperling & Kupfer-su gentile autorizzazione di Elena Cartotto.

ANTONIO SEGNI: VIGORE SARDO, COSCIENZA DEL CREDENTE, SENSO DEL DOVERE

 

Un giurista, un politico, un cattolico. Soprattutto un sardo, anzi un sassarese, profondamente legato alla sua città natale, culla di grandi dinastie politiche come i Berlinguer ed i Cossiga. 

Qui nacque nel 1891 da una nobile famiglia e divise la sua età giovanile tra lo studio del diritto, di cui divenne professore nel 1920 e la passione politica, che lo portò a unirsi al Partito Popolare di Don Sturzo sin dalla fondazione nel 1919. La carriera accademica proseguì tra Perugia, Cagliari, Pavia e Sassari (ma non Napoli, dove la sua nomina fu impedita dalle autorità fasciste) mentre quella politica si fermò per tutto il ventennio.  

Da Sassari a Palazzo Chigi

Dopo la Liberazione  fu uno dei principali fondatori della Democrazia Cristiana in Sardegna e dirigente nazionale  del partito.  Membro della Costituente, ricoprì per ben undici volte l'incarico di ministro. Fu due volte presidente del Consiglio, infine, capo dello Stato. Un uomo di governo, un legislatore, più che un leader di partito. 

Il suo nome si lega anche alla riforma agraria, una delle più importanti riforme nella storia d’Italia dal 1861 in poi.  

Secondo lo stesso comunista Giorgio Amendola, la legge aveva dato un colpo alle vecchie classi latifondiste e rotto il vecchio equilibrio delle classi dominanti in Italia, l’equilibrio del blocco industriale e agrario. La riforma offrì un lavoro e una vita stabile a più di centomila famiglie, aumentò la produzione, favorì lo sviluppo della cooperazione, costituì una sorta di potente incentivo allo sviluppo economico generale. 

Deputato dalla prima legislatura fino all’elezione al Quirinale, in quel periodo ricoprì numerosi incarichi di governo. Come Presidente del Consiglio formò due governi: il primo (1955-57), con una coalizione di centro (DC con PDSI e PLI). Il secondo (1959-60) fu invece un monocolore DC ma con appoggio esterno di liberali, monarchici e del MSI.

Il primo governo è ricordato in quanto ci fu la firma, il 25 marzo 1957, dei Trattati di Roma, che segnarono la nascita della CEE e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom). Sono stati anche anni di consolidamento delle istituzioni italiane con la formazione e l’insediamento della Corte Costituzionale, prevista dalla Costituzione, ma fino al 1957 mai insediata. Ci fu inoltre una riorganizzazione dell’assetto di governance delle imprese di stato con la creazione del Ministero per le Partecipazioni Statali. Questo rese le imprese di proprietà pubblica autonome dal punto di vista sindacale e non legate alla Confindustria. 

Quando le categorie sono insufficienti

Definirlo un conservatore, come molti politologi e pubblicisti hanno fatto, è un giudizio semplicistico. Per molti uomini politici è sufficiente un aggettivo per definirli: conservatore, progressista, riformista. Per Antonio Segni un aggettivo non basta. Il suo non è un profilo semplificabile. L’interpretazione articolata della sua opera sembra quella più seria e rispettosa. A volte gli accadde di essere avanti rispetto al processo politico-sociale, quando per esempio elaborò il già citato e ambizioso progetto della riforma fondiaria generale. Altre  si trovò più titubante, a esempio sul percorso riformista, in particolare durante la stagione del centro-sinistra. E' per  questo che la complessa figura di Antonio Segni non va  né etichettata in modo rigido né mitizzata. Il ricordo più equilibrato è stato quello dell'attuale Presidente Mattarella, in occasione dei 130 anni dalla nascita: “La sua figura e l'opera  appartengono alla storia repubblicana, che lo annovera tra gli artefici della ricostruzione e dello sviluppo del Paese” 

Il ricordo va dunque a uno statista che si è impegnato con tutte le sue forze per costruire l’Italia repubblicana.  

Al Quirinale, senza dubbio, fu un presidente “conservatore”, perché avrebbe voluto conservare gli equilibri politici che si erano affermati durante gli anni Cinquanta: la Dc al centro, con i piccoli partiti (Psdi, Pli, Pri) attorno. 

La comprensione del rapporto tra Segni e  le gerarchie cattoliche fornisce elementi interessanti circa la sua cautela nell'avallare il processo di apertura verso i governi di centro-sinistra, già prima di diventare Presidente della Repubblica. 

Tardini, allora Segretario di Stato Vaticano, si dichiarò contro ogni governo sostenuto anche dalla sola astensione dei socialisti. L’apertura a sinistra avrebbe portato − avvertì l’autorevole porporato − alla scissione interna della Dc. Nel 1960 Segni si trovò al centro delle pressioni del Vaticano. Cedette, convinto della necessita di non procedere immediatamente all’apertura a sinistra. Tuttavia, denotando un grande senso tattico, scrisse a Giuseppe Siri, presidente della Cei: occorre mettere alla prova i socialisti; se non per altro, per una questione di strategia politica: una risposta negativa da parte del Psi avrebbe marcato la scelta dei socialisti di non differenziarsi dai comunisti; una risposta positiva, invece, avrebbe separato il Psi dal Pci, e reso la sinistra italiana più debole».  

Nel cuore sempre il Parlamento, ma la via è il Quirinale

“Mi sia consentita un' ultima espressione: quella del profondo mio rimpianto di lasciare quest'aula, dove nell'Assemblea Costituente e sin dall'inizio del Parlamento della Repubblica ho servito quelli che sono gli ideali di tutta la mia vita: democrazia, libertà, giustizia e ordinato progresso.”
Questa citazione, che risale già i tempi del “salto” di Segni dal Parlamento a Palazzo Chigi, fa capire in modo molto preciso quanto il futuro Presidente avesse a cuore la dialettica politica nell'agorà della democrazia . Ma il suo “destino” era altrove.

Le elezioni del 1962 videro Segni da subito individuato come candidato della DC da Aldo Moro. Questa scelta serviva per soddisfare la parte più conservatrice del partito, della società e dell'economia nazionale e rendere possibile al contempo l’avvicinamento ai socialisti. A livello internazionale a equilibrare i rapporti con la politica stelle e strisce, che, pur vedendo governare i democratici, non poteva indispettire l'ala repubblicana.

Il 6 maggio 1962 venne eletto presidente della Repubblica, e l'11 maggio, prestando giuramento davanti al parlamento, indirizzò a questo un messaggio, nel quale indicò alcuni punti fermi cui ispirare il compimento del suo mandato: l' ideale europeistico, la fedeltà all'alleanza atlantica, il rigoroso rispetto della Costituzione e delle prerogative politiche del parlamento e del governo, l'impegno a operare per l'ordinato progresso della democrazia italiana, in un collegamento forte  con i valori della libertà, della giustizia e dell’indipendenza per i quali si erano immolati i protagonisti del Risorgimento e della Resistenza (menzionata in ideale continuità con il primo, quale “secondo Risorgimento”). 

Significativo il nesso tra europeismo e adesione alla visione atlantica. Ecco cosa scrive al riguardo Segni: “L'Italia ha dato e, a mio avviso, continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di un' unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei trattati di Roma.” E prosegue così:“A questo punto, non esito ad affermare che tanto l’alleanza atlantica quanto l’Unione europea occidentale non solo non impediscono in alcun modo una politica distensiva, ma contribuiscono a realizzarla.”

Negli anni al Quirinale fu alle prese con i tentativi di nascita della coalizione di centrosinistra. Il 1963 fu l’anno delle elezioni a seguito delle quali ci fu, a opera di un primo tentativo di Aldo Moro, la formazione del governo Leone I, monocolore DC transitorio. Nel dicembre dello stesso anno Aldo Moro riuscì a formare un governo con PRI, PSDI e PSI, il primo governo di centrosinistra della storia italiana.  

Anni difficili: ombre estere ed interne

Nel messaggio agli italiani in occasione del Capodanno 1964, trasmesso in diretta radiotelevisiva dal palazzo del Quirinale il 31 dicembre 1963, Segni ricordò come fra gli «avvenimenti gravi e memorabili che hanno contrassegnato il corso del 1963» vi era stata la scomparsa di papa Giovanni XXIII e quella del presidente Kennedy, «due grandi fiamme che avevano illuminato a tutti la difficile via verso la pace nella libertà e nella giustizia: quella pace nella quale profondamente credevano e nella quale anche noi profondamente crediamo». 

Il 1964 fu l’ultimo della breve e travagliata presidenza, quando Segni rivelò di essere assai preoccupato per le conseguenze che la crisi economica avrebbe potuto produrre, in termini di destabilizzazione sociale.

Nelle more, aveva suscitato viva apprensione il fatto che il Capo dello Stato avesse ritenuto di consultare, oltre ai rappresentanti delle forze politiche, il generale De Lorenzo, Capo del Sifar e il gen. AloiaCapo di Stato Maggiore dell’Esercito, per sapere se, in caso di ricorso anticipato alle urne, vi sarebbero stati dei pericoli per l’ordine pubblico, ricevendone ampie assicurazioni sull’inesistenza di qualsivoglia rischio di tumulti di piazza, in grado di mettere a repentaglio le istituzioni democratiche.

Andreotti, commemorandolo Segni nel 1991 (centenario dalla nascita), aiutò a capire meglio il delicato contesto di quello che molta pubblicista ha ricondotto al “Piano solo”. Per Andreotti il Presidente Segni ebbe la preoccupazione costante delle minacce incombenti dall’Est comunista e aveva invitato, conseguentemente, a curare le Forze Armate convenzionali, per scongiurare i rischi di una difesa atomica, prendendo a cuore il correlato aspetto dell’effettiva capacità dei Carabinieri a mantenere l’ordine interno, dietro le linee di un’eventuale resistenza militare avverso aggressioni esterne.

E, proseguì Andreotti, non andava dimenticato che la commistione tra comunismo interno e internazionale “non era allora fantasiosa”.

Il 7 agosto 1964, nel pieno di un’estate densa di emozioni per l’anziano statista, ebbe termine de factoseppure non ancora de jure, il mandato di Segni, che – secondo allo scarno comunicato emesso dalla Presidenza della Repubblica - era stato improvvisamente colpito da “disturbi circolatori cerebrali”.

All’ictus seguì l’accertamento della sua condizione di “impedimento temporaneo”. Come da procedura assunse le funzioni il presidente del Senato Cesare Merzagora. Nonostante la gravità della condizione non si arrivò ad accertare la condizione di “impedimento permanente” che avrebbe comportato la decadenza dall’incarico e nuove elezioni. Risolse lui l’impasse con le dimissioni volontarie il 6 dicembre dello stesso anno. Divenne Senatore a vita di diritto e morì nel 1972 a 81 anni.

Coscienza di credente, rigore e  senso del dovere

Giovani Leone, da Capo dello Stato, volle ricordarlo nella circostanza dello scoprimento di un busto in onore dello scomparso: “Nella personalità di Antonio Segni –  disse - confluivano il rigore morale della sua coscienza di credente, la linearità di pensiero e azione del finissimo giurista, il vigore del suo carattere sardo, tutto ciò fuso ed armonizzato dalla consapevolezza che ogni servizio reso alla vita pubblica, deve essere illuminato esclusivamente dal senso del dovere”.

Crediamo pertanto, aggiungiamo noi, che non sia opera vana dare giusto risalto al ruolo di Segni come europeista convinto, lungimirante fautore del moderno sviluppo dell’agricoltura, sostenitore appassionato della solidarietà internazionale, difensore delle libertà entro un quadro internazionale di guerra fredda, soprattutto integerrimo servitore dello Stato, alieno da ogni personale, egoistico interesse. 

 

Franco Banchi

(da www.ilpopolo.cloud) 13 Agosto 2024

UMBERTO MERLIN: UN POPOLARE NEL POLESINE

 

Umberto Merlin (1885-1964) fu personaggio di spicco prima nel movimento cattolico polesano e veneto e poi, dopo la Prima guerra mondiale, nel Partito popolare, di cui era stato uno dei fondatori, firmando l’ “Appello ai liberi e forti” di Luigi Sturzo.

Fu consigliere provinciale e comunale di Rovigo e poi deputato del partito sturziano, eletto nel 1919, 1921 e 1924. Nei governi Bonomi, Facta e nel primo governo Mussolini fu sottosegretario alle Terre liberate.

In quegli anni la carriera politica di Merlin fu parallela a quella del suo coetaneo Giacomo Matteotti, del quale era stato compagno di liceo. Gli scontri politici fra i due, al Parlamento e in una provincia come il Polesine, dominata dai socialisti, fanno parte ormai della storia travagliata di quegli anni.

Nei suoi lucidi interventi – discorsi parlamentari e articoli – colse perfettamente il nodo centrale della politica italiana del tempo: l’impossibilità pratica dell’intesa fra cattolici e socialisti, che impedì la formazione di una maggioranza democratica e riformatrice e spianò la strada alla vittoria del fascismo.

Durante il ventennio si dedicò esclusivamente alla professione forense, che esercitò con successo a Rovigo e a Padova. Lo stesso Matteotti aveva consigliato sua mamma di farsi assistere da Merlin in alcune controversie legali.

Dopo la Seconda guerra mondiale fece parte della Consulta nazionale e ritornò al Parlamento come senatore dal 1946 fino alla morte. Per brevi periodi fu ministro delle Poste e dei Lavori Pubblici nei governi a formula centrista.

Ma la stagione politica di Umberto Merlin era ormai tramontata. Suo figlio Luigi, pure avvocato, fu sindaco di Padova dal 1977 al 1980.

Sulla figura di Umberto Merlin, ampiamente ricordata negli studi sul popolarismo, manca uno studio adeguato.

 

Gianpaolo Romanato 18 agosto 2024 www.ilpopolo.cloud

ALCIDE DE GASPERI: PADRE E MAESTRO DI TUTTI I DEMOCRATICI CRISTIANI

 

Alcide Amedeo Francesco De Gasperi, nacque 3 aprile 1881 a Pieve Tesino in Tirolo che all’epoca apparteneva all’Impero austrungarico. Il 14 giugno 1922 De Gasperi sposò Francesca Romani (30 agosto 1894 - 20 agosto 1998) ed ebbe quattro figlie, Maria Romana, Lucia, Cecilia e Paola.

Dal 1896 De Gasperi fu attivo nel movimento cristiano sociale. Nel 1900 entra a far parte della Facoltà di Lettere e Filosofia di Vienna, dove ha svolto un ruolo importante all’inizio del movimento studentesco cristiano. Egli è stato molto ispirato dall’enciclica Rerum novarum

Nel 1905, De Gasperi si laureò in filologia. Nel 1911 divenne membro del Parlamento dell'Unione politica popolare del Trentino (UPPT) nel Reichsrat d'Austria, incarico che ricoperse per sei anni. All'inizio della prima guerra mondiale, fu politicamente neutrale e simpatizzò con gli sforzi di Papa Benedetto XV e Carlo I d'Austria per ottenere una pace onorevole e fermare la guerra.

Nel 1919 fu tra i fondatori del Partito Popolare Italiano (PPI), con Luigi Sturzo. Fu membro del Parlamento italiano dal 1921 al 1924, periodo segnato dall'ascesa del fascismo. Inizialmente sostenne la partecipazione del PPI al primo governo di Benito Mussolini nell'ottobre 1922.

De Gasperi fu arrestato nel marzo 1927 e condannato a quattro anni di carcere. Il Vaticano ha negoziato la sua liberazione. Nel 1929 i suoi contatti ecclesiastici gli assicurarono un lavoro come catalogatore nella Biblioteca Vaticana, dove trascorse i successivi quattordici anni fino al crollo del fascismo nel luglio 1943.


Fondazione della Democrazia Cristiana

Durante la seconda guerra mondiale, organizzò l'istituzione del primo partito della Democrazia Cristiana (DC), basato sull'ideologia del PPI. Divenne il primo segretario nazionale del nuovo partito nel 1944.

De Gasperi fu il leader indiscusso della Democrazia Cristiana, il partito che dominò il Parlamento per decenni. De Gasperi nel gabinetto di Ferruccio Parri, divenne ministro degli Esteri.


Il Primo Ministro d'Italia

Dal 1945 al 1953 fu il primo ministro di otto governi successivi guidati dalla DC. La sua regola di otto anni rimane una pietra miliare nella longevità politica di un leader nella moderna politica italiana. Durante i suoi governi successivi, l'Italia divenne una repubblica (1946), firmò un trattato di pace con gli Alleati (1947), si unì alla NATO nel 1949 e divenne un alleato degli Stati Uniti, che contribuì a rilanciare l'economia italiana attraverso il Piano Marshall. Durante questo periodo, l'Italia è diventata membro della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), che in seguito sarebbe diventata l'Unione europea (UE).

Nel dicembre 1945 divenne primo ministro per la prima volta e guidò un governo di coalizione che comprendeva sia il Partito Comunista Italiano (PCI) che il Partito Socialista Italiano (PSI), insieme ad altri partiti minori come il Partito Repubblicano Italiano (PRI). Il leader comunista Palmiro Togliatti è stato vice primo ministro.

Nel giugno 1946, l'Italia tenne il referendum costituzionale per decidere se l'Italia sarebbe rimasta una monarchia o sarebbe diventata una repubblica; i repubblicani vinsero con il 54% dei voti. De Gasperi è stato nominato capo di Stato ad interim dal 18 al 28 giugno, quando l'Assemblea Costituente ha eletto il Liberale Enrico De Nicola come capo di Stato ad interim.

Come capo della delegazione italiana alla conferenza di pace della seconda guerra mondiale a Parigi, De Gasperi criticò duramente le sanzioni imposte all'Italia, ma ottenne concessioni dagli Alleati che garantivano la sovranità italiana. Secondo il Trattato di pace con l'Italia del 1947, la Jugoslavia perse l'area di confine orientale e il territorio libero di Trieste fu diviso tra i due stati.

Uno dei suoi più eclatanti risultati in materia di politica estera fu l'accordo Gruber-De Gasperi con l'Austria nel settembre 1946, che stabilì che Il Trentino Alto Adige sarebbe diventata regione autonoma.


Elezioni generali nel 1948

Le elezioni generali dell'aprile 1948 furono fortemente influenzate dalla Guerra Fredda tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La campagna elettorale fu ineguagliata nell'aggressione verbale e nel fanatismo nella storia dell'Italia da entrambe le parti. La scelta è stata tra due visioni opposte del futuro della società italiana. Da una parte, un’Italia cattolica romana, conservatrice e capitalista, rappresentata dai governanti democratici cristiani di De Gasperi; dall’altra, una società laica, rivoluzionaria e socialista, rappresentata dal Fronte Democratico Popolare.


Alcide De Gasperi, l’uomo della ricostruzione nazionale

La Democrazia Cristiana ottenne una clamorosa vittoria con il 48,5% dei voti (il miglior risultato della sua storia). Con la maggioranza assoluta in entrambe le camere, De Gasperi avrebbe potuto formare un governo esclusivamente democristiano. Invece, ha formato una coalizione con liberali, repubblicani e socialdemocratici. De Gasperi formò tre ministeri, il secondo nel 1950 dopo la defezione dei liberali, che si aspettavano più politiche di destra, e il terzo nel 1951 dopo la defezione dei socialdemocratici, che si aspettavano più politiche di sinistra. Ha governato per altri cinque anni, guidando quattro coalizioni aggiuntive.


Le riforme della sicurezza sociale

Nella politica interna, diversi ministri dei gabinetti di De Gasperi hanno attuato una serie di riforme della sicurezza sociale nei settori dell'affitto e dell'edilizia sociale, dell'assicurazione contro la disoccupazione e delle pensioni.

Nel 1952, De Gasperi fu oggetto di crescenti critiche da parte dell'ala sinistra emergente del partito..

Le elezioni generali del 1953 furono caratterizzate da cambiamenti nella legge elettorale. Anche se la struttura complessiva rimaneva incorrotta, il governo ha introdotto un superbo due terzi dei seggi della Camera per la coalizione che avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. I partiti di opposizione della DC definì la nuova legge “ legge truffa”.


La coalizione di governo (DC, PSDI, PLI, PRI, SVP e il Partito dell’Unione Sarda) ha ottenuto il 49,9% dei voti nazionali.

Tecnicamente, il governo ha vinto le elezioni con una chiara maggioranza, ma la frustrazione per non aver vinto con una maggioranza più ampia ha portato a tensioni significative nella coalizione di leadership. De Gasperi è stato costretto a dimettersi dal Parlamento il 2 agosto. Nel 1954, De Gasperi dovette anche dimettersi dalla leadership del partito, e Amintore Fanfani fu nominato nuovo segretario della Democrazia Cristiana nel mese di giugno.


La morte e l'eredità

Il 19 agosto 1954 De Gasperi morì a Sella di Valsugana, nel suo amato Trentino. È sepolto nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, basilica di Roma.

Insieme a Konrad Adenauer, Robert Schuman e Jean Monnet, è considerato padre dell'Europa. Dalla fine della guerra, De Gasperi aveva attivamente condotto una campagna per l'unità europea, convinto che questo fosse l'unico modo per evitare i conflitti in futuro. La loro motivazione era una chiara visione di un’Europa unita che non avrebbe sostituito i vari Stati, ma che avrebbe permesso loro di completarsi a vicenda, di sostenersi, aiutarsi, completarsi e di lavorare insieme.

Nonostante non abbia vissuto abbastanza per vederne l’attuazione (morì nell’agosto del 1954), il suo ruolo ricevette ampio riconoscimento quando nel 1957 vennero firmati i Trattati di Roma.


Il processo di beatificazione

Il processo di beatificazione è stato aperto nel 1993.

“Tutte le sue azioni personali e politiche sono state dettate da un grande senso di umanità e vero spirito cristiano: per questo credo che Alcide De Gasperi debba essere fatto beato”. Lo ha dichiarato Giulio Andreotti che di De Gasperi fu stretto collaboratore per molti anni.

Ho molto studiato la figura dello Statista trentino e ravviso nella sua vita i tratti di colui che ha vissuto in grado eroico le virtù della fede, della speranza e della carità. I suoi scritti trasudano di “imitatio Christi”. E’ sempre stato devoto figlio della Chiesa, distinguendo bene il ministero/magistero della Chiesa e il suo ruolo di uomo politico.

Sulle virtù personali dello Statista di Trento vi è una corale convergenza. Quando, il 19 agosto 1954, egli morì improvvisamente a Sella di Valsugana, dove si trovava in vacanza, subito si parlò di fama di santità, come le cronache dei giornali sottolinearono. L’allora patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, prima di diventare papa Giovanni XXIII, rilevò immediatamente questo diffuso sentimento e così commentò: «Venissi interrogato in un eventuale processo di beatificazione, la mia testimonianza sarebbe nettamente favorevole a riconoscere la virtù dello statista, evidentemente ispirato da una visione biblica della vita, del servizio di Dio, della Chiesa, della Patria».

Anche Giovanni Paolo II ebbe per lui in varie occasioni molte buone parole. In una lettera ai vescovi italiani, ricordò così il suo europeismo: «Non è significativo che, tra i principali promotori dell’unificazione del continente, vi siano uomini… quali De Gasperi, Adenauer, Schuman… animati da profonda fede cristiana? Non fu forse dai valori evangelici della libertà e della solidarietà che essi trassero ispirazione per il loro coraggioso disegno?»


De Gasperi, Alcide - Hrvatska enciklopedija

Il processo di canonizzazione è avviato da tempo. Convinto ammiratore della singolare ed esemplare testimonianza cristiana di Alcide De Gasperi e raccogliendo le crescenti sollecitazioni per avviare l'iter per la canonizzazione, l'arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi il 28 gennaio 1987 volle sentire il parere dei Vescovi della Conferenza Episcopale delle Tre Venezie sull'ipotesi di iniziare un procedimento canonico per il riconoscimento da parte della Chiesa delle singolari, e certamente eminenti virtù cristiane dello Statista trentino, uomo libero e forte che nelle circostanze più dolorose e nelle occasioni più difficile rispose alla chiamata divina con il suo singolare servizio, dimostrandosi modello di sapienza, maestro di speranza e, divenendo nel suo delicato e arduo ministero, lungimirante profeta e coraggioso testimone. Pur ottenendo l'assenso unanime dei vescovi Triveneti, l'iniziativa rimase allo stato di proposta.

L’8 dicembre 1992 il Successore dell'arcivescovo Gottardi, monsignor Giovanni Sartori, si rivolse alla Santa Sede, «avendo ricevuto istanza dal postulatore padre Tito M. Sartori osm e il consenso della Conferenza episcopale triveneta», per chiedere il nulla osta all’introduzione della causa. Il cardinale Felici, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, il 29 aprile 1993 concesse il nulla osta e si aprì così la “fase diocesana” del processo di canonizzazione.

Alcide De Gasperi fu davvero un grande uomo politico, e un credente tutto d’un pezzo. Dalla documentazione che si sta esaminando a Trento, oltre tutto ciò che è stato pubblicato soprattutto dalla figlia Maria Romana traspare l’uomo e il credente che pone la sua fiducia totale nel Signore. In una lettera indirizzata alla moglie il 31 maggio 1927, giorno in cui venne condannato a quattro anni di carcere da un tribunale fascista, per le sue idee di democrazia e di libertà, scrisse: «…Dio ha un disegno imperscrutabile, di fronte al quale m’inchino adorandolo… Egli ci ama e fa di noi qualcosa che oggi non comprendiamo…».

E nel suo servizio politico egli esercitò davvero – come disse più tardi Paolo VI - la più alta forma di carità. Egli seppe tenersi ammirevolmente lontano dalle vischiosità quotidiane della pratica di Governo, dalle ombre di un mestiere che troppo spesso richiede gravi compromessi.

Una «convinta fama di santità», la esprime il sacerdote di Vicenza, don Domenico Piccoli, che scrisse alla figlia Maria Romana: «Mi convinco sempre più dell’opportunità di beatificazione del suo papà… Quando la Provvidenza ci manderà altri uomini come suo padre e Adenauer e Schuman? Bisogna meritarseli…».

Perché allora si è ... fermato o va molto a rilento il processo diocesano nonostante l’accordo dei vescovi del Triveneto? Il 18 settembre 1993, il compianto monsignor Wilhem Egger, vescovo di Bolzano e Bressanone, pur riconoscendo «le forti motivazioni cristiane e ideali» che avevano permesso l’avvio del processo di canonizzazione di Alcide De Gasperi, fece capire senza troppi giri di parole che dichiarò che la popolazione altoatesina «non aveva accolto favorevolmente” l’introduzione del processo di beatificazione. Ed erano espresse “severe riserve circa l’azione politica di De Gasperi, in rapporto alla soluzione del problema dell’Alto Adige… al punto tale che il processo canonico potrebbe costituire, almeno per una certa parte di fedeli di lingua tedesca, un problema anche sul piano religioso».

Il riferimento è al noto “accordo De Gasperi/Gruber” raggiunto a Parigi il 5 settembre 1946 per regolare la questione altoatesina. In base a esso veniva garantita alla popolazione di lingua tedesca e di tradizioni tirolesi una larga autonomia e un esteso potere esecutivo in ambito regionale, che sarebbero stati formalizzati nella costituzione della Provincia autonoma di Bolzano e in seguito nello statuto speciale concesso dal governo italiano al Trentino-Alto Adige.

La decisione di Alcide De Gasperi di estendere i privilegi concessi a Bolzano anche a Trento non poté non scontentare una parte dell’opinione pubblica: quella di ceppo tedesco della propria regione d’origine che accusò di menzogna il Presidente del Consiglio.

Ho avuto modo di farne parola della questione direttamente con il senatore a Giulio Andreotti il quale, dimenticando la sua proverbiale calma e pazienza mi disse animatamente: “Posso assicurare e testimoniare che Alcide De Gasperi non mentì. Anzi: posso dire che la provincia di Bolzano non avrebbe mai ottenuto la sua autonomia se non fosse stata concessa anche alla provincia di Trento”. E mi pregò di dire all’allora arcivescovo di Trento S.E. mons. Luigi Bressan di mettersi in contatto personale con lui - “fin che è in vita” -per essere ascoltato come teste e dissipare questo dubbio assolutamente inesistente.

Una conferma autorevole di questa ipotesi è offerta da monsignor Igino Rogger, sacerdote della Diocesi di Trento, il quale scrive: «L'11 novembre 1991 mi trovai a fungere da interprete per la deposizione resa da Gruber a Vienna nei preliminari del processo canonico per la beatificazione di Alcide De Gasperi. Profittando alquanto della mia posizione cercai di approfondire l'interrogativo su quelle che potevano essere state le intenzioni di De Gasperi nel dilatare al Trentino l'autonomia prevista come necessaria per la salvaguardia del carattere etnico e dello sviluppo culturale ed economico degli abitanti di lingua tedesca dell'Alto Adige. Chiesi infatti a Gruber se fosse possibile che De Gasperi, nell'idea di agganciare l'autonomia dei trentini a quella dei sudtirolesi, secondo un'idea che egli certo favoriva e per la quale aveva acquisito simpatizzanti anche nel Sudtirolo, avesse fiducia che tale inclusione tornasse a vantaggio dei sudtirolesi stessi nel processo di realizzazione di essa. Gruber rispose testualmente: "De Gasperi ne era convinto: se l'autonomia si realizza per i trentini, diventa un fatto irreversibile. Se si realizza per i trentini, si realizza anche per i sudtirolesi; ogni pericolo di vanificarla verrà respinto anche dai trentini".

Recentemente è venuta alla luce una lettera indirizzata a Karl Gruber il 4 febbraio 1948, in cui De Gasperi scrive testualmente: "Rispondo in ritardo alla sua cortese lettera del 10 gennaio scorso ... Sono lieto di farlo oggi, essendo in grado di poterle comunicare che le consultazioni coi rappresentanti delle popolazioni locali hanno avuto per esito la definitiva elaborazione di uno Statuto per l'autonimia della Regione "Trentino Alto Adige" (approvato dall'Assemblea costituente), nei quali sono stati pressoché interamente accolti i desiderata espressi da Vostra Eccellenza nella lettera cui rispondo...." (Alcide Degasperi, Una vita a tappe, Lettere e commenti, Ed. l'Adige2021).

Mi dispiace che non siano stati fatti passi in questa direzione e che per la “questione altoatesina” la fase diocesana del processo di beatificazione del grande Statista trentino Alcide De Gasperi conosca un tempo di stasi. De Gasperi non lo merita. Anche se (ne sono persuaso) egli già gode della venerazione di molti e certamente la visione beatifica di quel Dio che ha amato e servito anche attraverso la più alta forma della carità: la politica a servizio dell’uomo e del bene comune in tempo ardui e difficilissimi.


Tommaso Stenico

ENRICO MATTEI: IL GRANDE TRASFORMATORE

 

Dietro il successo di molti uomini spesso ci stanno grandi sogni o grandi emozioni provate in circostanza particolari. Enrico Mattei diceva di trovare in una situazione vissuta da bambino la giusta motivazione per dare una certa impostazione alla sua vita, non solo di uomo, ma anche di imprenditore.

Raccontava pressappoco così: «Ero un bambino di sette o otto anni e mi trovavo nel cortile di una cascina in un caldo mezzogiorno d’estate. Vidi avvicinarsi una ragazza che portava una grossa marmitta di cibo a un gruppo di cani radunati sotto l’ombra di un albero. Appena la giovane ebbe posato la grossa ciotola per terra i cani si avventarono sul cibo avidamente. Quasi subito si avvicinò un gattino che timidamente cercava di procurarsi qualche boccone, ma il cane più̀ grosso gli diede immediatamente una zampata scaraventandolo lontano. Mi avvicinai allo sfortunato gattino con l’intenzione di soccorrerlo, ma mi accorsi che era morto. In quel momento giurai a me stesso che avrei fatto di tutto perché́ scene simili non si verificassero nel mondo degli uomini».

 

Indubbiamente Enrico Mattei fu uno dei più̀ grandi uomini del secolo scorso ai quali dobbiamo immensa gratitudine per aver egli dato una svolta radicale positiva all’economia del nostro Paese. Chi era?

Nacque nelle Marche ad Acqualagna nel 1906, figlio di un brigadiere, poi maresciallo, dei carabinieri. Non aveva molta voglia di studiare, tuttavia, dotato di una volontà̀ ferrea, riuscì̀ a diplomarsi perito industriale per compiacere il padre. Trasferitasi la famiglia a Matelica, ottenne il diploma e cominciò giovane a lavorare, per poi recarsi a Milano.

Avrebbe potuto fare l’attore del cinema dato il suo aspetto attraente: alto, grintoso, dotato di una parlantina capace di convincere anche i compratori più̀ riottosi ad acquistare ciò̀ che lui proponeva. Alla periferia di Milano aprì un piccolo laboratorio di prodotti chimici che trovarono una vasta clientela.

Negli anni Trenta il giovane Mattei, oltre che ottimo venditore, si rivelò anche eccellente imprenditore, pronto ad avvalersi delle innovazioni più̀ moderne per far funzionare la propria azienda. Aveva anche intuito che per aver successo negli affari era importante curare la propria immagine e adottare un certo stile di vita. Infatti, fu uno dei primi imprenditori milanesi a girare con macchine di lusso con tanto di autista, acquistò uno splendido appartamento nel centro di Milano e organizzò incontri e feste con scadenza quasi settimanale, finalizzati al successo della sua attività̀.

Vi invitava, oltre ai suoi tecnici e venditori, persone di prestigio del mondo della cultura, professori universitari, in primis quelli dell’Università̀ Cattolica, dalle cui intelligenti conversazioni sapeva trarre spunti per dar vita a cose nuove. Uno dei suoi più̀ assidui commensali fu Marcello Boldrini, professore di Statistica della Cattolica, che gli fece conoscere altri personaggi che diventeranno poi famosi nel mondo della politica come Fanfani, La Pira e Dossetti.


Mattei, da buon cattolico praticante, non venne mai meno ai suoi principi religiosi, conservando una fede salda unita a una profonda lealtà̀ verso i membri della sua famiglia di origine, della cui collaborazione si valse per tutto il periodo del suo frenetico «fare». Fu per lui importante soprattutto la sorella, che era a conoscenza di tutte le sue operazioni finanziarie.

Il giovane e brillante Enrico Mattei suscitava ovviamente ammirazione anche nel mondo femminile, ed essendo lui desideroso di farsi una famiglia propria, godeva di un’ampia possibilità̀ di scelta. Scelta che cadde su una bella ballerina austriaca che divenne sua moglie. L’unione si rivelò felice e duratura ma non fu allietata dalla nascita di figli, che i coniugi tanto desideravano, a causa di un’interruzione spontanea di gravidanza che precluse alla moglie ogni speranza di maternità̀.

 

Mentre l’Italia entrava in guerra, Mattei ebbe modo di conoscere altri personaggi che sarebbero diventati politici di prima grandezza, come Ezio Vanoni e Ferrari Aggradi. Quando cadde il fascismo Mattei, che era sempre stato antifascista, ma senza esporsi troppo come tale, per non avere guai con le sue aziende, fu invitato da De Gasperi, che stava dando vita alla Democrazia Cristiana, a rappresentare la DC nel CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e, viste le sue caratteristiche di capo, a organizzare le formazioni partigiane di matrice cattolica, quelle con il fazzoletto azzurro. Durante la resistenza si procurò grande fama sia per la sua onestà, tanto che gli stessi partigiani comunisti si affidavano a lui come tesoriere del CLN, sia per il coraggio con cui seppe affrontare difficili situazioni. Ebbe la sventura di essere arrestato sotto falso nome e poi incarcerato al San Donnino di Como.

Fortunatamente, i fascisti non si accorsero di avere nelle mani il tesoriere del CLN. Riuscì̀ poi a evadere dal carcere con la complicità̀ di una guardia che era riuscito a corrompere. Ad attenderlo fuori dalle mura, che era riuscito a scavalcare grazie a un non casuale blackout, c’era la fidata sorella con un’aut mobile pronta a portarlo in un covo sicuro. Tra i suoi più stretti collaboratori di allora ricordo don Federico Mercalli, parroco di Lesa, l’ufficiale dell’esercito Eugenio Cefis, conosciuto tra i partigiani come Alberto, e Giovanni Marcora, chiamato Albertino.


Le Brigate Azzurre operarono nell’Ossola, sul Mottarone e, verso la fine della guerra, sul Lago Maggiore, dove, fra l’altro, ebbero modo di salvare la famiglia Mondadori dalle minacce dei partigiani comunisti. Per ordine di De Gasperi partecipò in prima fila alla sfilata dei partigiani in piazza Duomo a Milano, mentre Marcora (Albertino) distribuiva fazzoletti azzurri sia ai partigiani presenti sia a tutti quelli che gli capitavano sottomano, pur di far vedere che erano in tanti. In quel momento della sua vita Mattei, a quasi quarant’anni, godeva di una stima totale, non solo da parte dei cattolici, ma anche da parte di tutti coloro che avevano partecipato alla Resistenza, dai liberali ai comunisti.


Nel 1945 fu nominato commissario straordinario per liquidare un ente pubblico considerato di serie B, l’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli). Mattei, lavoratore infaticabile, abituato ad agire velocemente, andò̀ subito a controllare l’archivio dell’AGIP e, da quel grande imprenditore che era, sentì odore di grandi affari. Incerto se darsi alla politica o all’impresa, chiese consiglio a monsignor Mercalli, il quale senza esitazione gli disse: «Tu sei nato per gli affari, dedicati all’AGIP che secondo me è una sicura fonte di ricchezza per la nostra Italia; lascia che la politica la facciano gli altri».

Mattei riuscì̀ scovare gli ex dipendenti dell’AGIP che se ne stavano nascosti temendo di essere accusati come fascisti. Al loro capo fissò un appuntamento alle cinque del mattino in piazza Duomo. Fecero una lunga passeggiata per le vie della città ancora addormentata, durante la quale Mattei si fece dire tutto quello che c’era da sapere su quell’ente che correva il rischio di essere messo in liquidazione. Alla fine, promise al suo interlocutore la riassunzione immediata, purché́ fosse in grado di rimettere in funzione l’azienda. Insieme si recarono poi a Caviaga, nella pianura padana, e furono iniziate le trivellazioni.

Il metano, l’oro italiano di allora, scaturì̀ in abbondanza. La buona notizia fu subito comunicata a De Gasperi e Vanoni che, pur molto soddisfatti, invitarono Mattei a non comunicare ufficiale notizia dell’evento finché non avessero trovato anche un po’ di petrolio. Solo allora avrebbero potuto offrire una rassicurante immagine dell’Italia agli amici americani. Il petrolio non c’era, se non in minima quantità̀, ma nei film Luce di allora lo si vide sgorgare abbondantemente assieme al metano (trucco all’italiana).

Mattei non si scoraggiò, sapeva che il solo metano avrebbe provveduto a rifornire l’Italia di energia per circa un decennio; il petrolio lo avrebbe procurato per altre vie. Infatti, diede il via a rapide trattative con i Paesi che ne erano ricchi, come quelli del Nord Africa, del Medio Oriente e con la stessa Russia, firmando contratti vantaggiosi sia per chi comprava, sia per chi possedeva il prezioso idrocarburo (utili divisi a metà), comportamento corretto ben diverso da quello adottato dai vari Paesi occidentali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, ispirato allo sfruttamento del più̀ debole. È evidente che questo nuovo modo di gestire gli affari gli procurò dei nemici potenti, tra i primi le Sette sorelle. Il metano da solo fu sufficiente a dare a tutta l’industria italiana l’energia a basso costo che le mancava per diventare una potenza industriale.


Alla scoperta del metano fece seguito un fiorire di aziende e società̀ destinate al suo utilizzo più razionale e meno dispendioso, facendolo arrivare alle fabbriche e alle singole abitazioni. Nacquero così la SNAM (Società̀ Nazionale Metanodotti) e altre aziende indispensabili a gestire i vari settori che furono da lui affidati alla guida dei suoi amici ex partigiani.

Cefis gestì la parte economica e Marcora quella edilizia e dei trasporti. Allo stesso don Federico fu affidata la Gasburner, società̀ che forniva metano a piccole città come Domodossola in Piemonte e Cesano Maderno in Lombardia. Va detto che Mattei non era del tutto rispettoso delle norme vigenti che regolavano i lavori pubblici e sovente rasentava i limiti della legalità̀. Ne sanno qualcosa i cremonesi che una mattina, senza che fosse stato dato loro alcun preavviso, si svegliarono e trovarono la città forata da buche e lastricata da tubi. Infatti, Mattei aveva individuato Cremona come passaggio ideale per posare i metanodotti che dovevano poi proseguire verso Milano e altri importanti centri lombardi.

Consapevole della lentezza della burocrazia e voglioso di realizzare la rete in tempi brevi, non chiese di proposito l’autorizzazione ai lavori. Dopo aver messo sottosopra Cremona, Mattei si rese irreperibile per due giorni, per poi ricomparire davanti al sindaco e al prefetto addossandosi ogni responsabilità̀ e promettendo che i lavori sarebbero stati immediatamente sospesi. Si sentì rispondere che i lavori non andavano affatto interrotti, ma che bisognava in tutta fretta ultimarli per rendere agibile la città.

Era proprio ciò̀ che Mattei voleva sentirsi dire, aveva vinto contro la burocrazia. I cremonesi, da parte loro, superato il disagio temporaneo, constatato l’esito positivo dei lavori, si sentirono grati al disinvolto imprenditore. Interpellato da un giornalista su questo modo troppo spigliato di usare i fondi dell’azienda, che in fin dei conti erano pubblici, allo scopo di corrompere i vari politici i cui voti gli erano necessari, diede la famosa risposta: «Non capisco come si possa parlare di corruttela: per me i partiti e i politici sono tutti uguali. Sono come un taxi, ci salgo sopra, mi faccio portare dove intendo andare, pago e me ne vado. Che c’è di illegale?»


“Il primo gesto terroristico del nostro Paese”. Alcune valutazioni ...


Mattei diede poi il via alla costruzione di due centri operativi, a San Donato Milanese e all’EUR di Roma, e realizzò i porti petroliferi di Gela e Ravenna. Comprò diversi aerei per l’azienda e viaggiò per tutto il mondo, sempre alla ricerca di buoni affari per il suo Paese. Quando nacque l’ENI tutti gli italiani poterono ammirare il cane a sei zampe, che ne era il simbolo (frutto della genialità̀ di Leo Longanesi) e che faceva la sua comparsa sui giornali e sui cartelloni pubblicitari di tutta Italia.

L’AGIP che aveva ottenuto l’esclusiva per la ricerca di idrocarburi nel sottosuolo italiano, era guardata con ostilità̀ dalle Sette sorelle, le grandi compagnie angloamericane che controllavano il petrolio nel mondo, anche perché́, come ho già̀ ricordato, erano infastidite dal modo inconsueto di operare dell’imprenditore italiano, che ovviamente danneggiava i loro interessi.

Mattei tentò di accordarsi con loro, ma tutto si concluse in un violento litigio. Trovò invece un alleato in De Gaulle, con il quale si accordò per l’utilizzo del petrolio algerino. Sul versante interno, l’operato di Mattei fu spesso oggetto di attacchi da parte di diversi quotidiani italiani. Per questo fondò un proprio giornale, Il Giorno, che si diffuse in tutta Italia con molto successo anche grazie a grandi direttori come Baldacci, Pietra, Zincone e Afeltra.

Ogni cosa che Mattei intraprendeva sembrava avere esito più̀ che positivo e produceva soldi. Questo lo sapeva anche La Pira, allora sindaco di Firenze, che, trovandosi una marea di cittadini senza lavoro perché́ era fallita la Pignone, azienda che operava sul suo territorio, si rivolse a lui per chiedere aiuto. Mattei in un primo momento gli rispose che, pure sentendosi amareggiato, non poteva farci niente, anche perché́ era in partenza per l’Iran, dove l’attendeva la conclusione di un grosso affare.

Anche se l’amico La Pira in un sogno lo aveva visto come un salvatore, questo salvatore non era lui. Mentre si accingeva a partire fu avvisato che lo scià aveva sospeso l’appuntamento. Mattei, da buon credente, interpretò tale contrattempo come un segno della Provvidenza: la sua meta non doveva essere la Persia, ma Firenze, come voleva La Pira. Comunicò all’amico che avrebbe realizzato il suo sogno. Si recò nel capoluogo toscano e in breve tempo mise in piedi La Nuova Pignone, che avrebbe costruito i distributori del suo gruppo destinati a tutto il mondo e che avrebbe quindi riassunto tutti gli operai disoccupati.

Mattei sapeva che la sua vita era in pericolo, nonostante fosse sorvegliato da un’agguerrita guardia del corpo capitanata da Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza. Un giorno la moglie, con la quale viveva in un albergo (da anni non aveva una residenza stabile), lo sorprese a piangere: temeva di dover presto morire. Ciò̀ accadde nel cielo di Bascapè, vicino a Milano, quando l’aereo su cui viaggiava esplose.

Era il 1962. Sicuramente si trattò di un attentato riuscito, ma ordito chissà̀ dove e chissà̀ da chi: ancora oggi è un mistero, anche se non mancano diverse ipotesi credibili. Se ne andava così il più̀ grande imprenditore italiano del secolo scorso che tanto si era dato da fare, non per arricchire se stesso, ma per migliorare il tenore di vita di tutto il popolo italiano.

 

All’estero Mattei era molto apprezzato, lo testimonia un incontro avvenuto a Mosca tra un furibondo Krusciov e l’ambasciatore italiano. Il capo sovietico aggredì̀ quest’ultimo con le seguenti parole: «Voi italiani avevate l’uomo più importante del mondo, Enrico Mattei, e lo avete lasciato ammazzare. Dovevate dirlo a noi che non eravate in grado di proteggerlo, la nostra ottima polizia segreta l’avrebbe sicuramente salvato».


Ezio Cartotto *

* Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica- L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi- 2012 Sperling & Kupfer-su gentile autorizzazione di Elena Cartotto

MARIO SCELBA: L'INCORRUTTIBILE

 

Mario Scelba nacque a Caltagirone, la città di Luigi Sturzo, il 5 settembre 1901. Morì a Roma il  29 ottobre 1991.

Giovanissimo, dopo aver ottenuto la laurea in Giurisprudenza, divenne segretario particolare.

Sturzo non fu formalmente esiliato dal governo fascista, ma volontariamente, su consiglio del cardinal Gasparri, andò a fare il viceparroco in un sobborgo di Londra. A causa dei bombardamenti del 1940 Sturzo emigrò negli USA, dove poté curare i gravi disturbi respiratori di cui soffriva in un ospedale della Florida. Nel 1946 rientrò in Italia su una nave che lo portò a Napoli.

Scelba, informato del suo arrivo, emozionatissimo, avvertì De Gasperi, Spataro e Silvio Gava invitandoli ad andare ad accoglierlo. Con loro salì su una piccola imbarcazione e si avvicinò al transatlantico il cui comandante, avvertito dalle autorità̀ portuali, fece calare la scaletta su cui si arrampicarono ansiosi di riabbracciare il vecchio amico. Quando arrivarono sul ponte seppero che Sturzo non si trovava nella sua cabina, ma sul ponte della nave a prendere il sole della sua Italia, su una sedia a sdraio, dopo più̀ di vent’anni di esilio.

Immaginatevi lo stupore di Sturzo quando Scelba, non visto, gli posò le mani sugli occhi gridando «Sorpresa!» con accento siciliano. Fu un indescrivibile momento quello in cui cinque uomini si misero contemporaneamente a ridere e a piangere. Superato il primo attimo di grande emozione, vennero a parlare di cose più̀ serie e Sturzo raccomandò a tutti di seguire rigorosamente la guida di De Gasperi.  

Mario Scelba era un uomo forte, estremamente dinamico, che De Gasperi volle sempre al suo fianco, soprattutto per affrontare i problemi dell’ordine pubblico. Terminato il secondo conflitto mondiale si era evidenziato estremamente pericoloso, in Sicilia, il tentativo, già in atto da qualche tempo e capeggiato dal regionalista Finocchiaro Aprile, di rendere l’isola indipendente.

Va ricordato a tale proposito che il presidente degli USA Roosevelt, per favorire lo sbarco alleato in Sicilia, si era accordato con i capi della mafia americana Lucky Luciano e Vito Genovese. Costoro ebbero buon gioco a indurre la mafia isolana, già̀ inviperita contro il fascismo per la repressione del prefetto Mori, ad aiutare gli americani a sbarcare a Gela e lungo tutta la costa meridionale, facendoli poi risalire rapidamente fino a Messina.

Il colonnello Charles Poletti, italoamericano, affiancato da Vito Genovese in qualità̀ di interprete, approfittò della buona fede degli americani per razziare viveri e ogni cosa potesse servire alla popolazione, per far vedere che mentre lo Stato perseguitava la gente, la mafia sapeva aiutarla concretamente, trucco che durava dai tempi dei Vespri siciliani.

De Gasperi, che da buon trentino aveva saputo discutere alla pari con gli austriaci dei problemi del Trentino-Alto Adige, ritenne opportuno affidare al siciliano Scelba la complicata situazione dell’isola. Infatti, Scelba, prima si liberò del problema di Finocchiaro Aprile con l’aiuto degli americani, poi affrontò le bande di uomini armati capeggiati da Giuliano e Pisciotta, che volevano con l’uso della forza cacciare l’Italia dalla Sicilia.

Il loro intento era di fare dell’isola una regione autonoma anche dal punto di vista giudiziario e penale, dotata di un’Alta Corte di Giustizia indipendente dalla Cassazione e con un presidente regionale avente il diritto di partecipare a ogni Consiglio dei ministri italiano in cui si discutessero i problemi della Sicilia. Scelba ebbe quindi pieni poteri e tutti i mezzi necessari per portare l’isola nell’ambito dell’unità d’Italia.

Inoltre, in Sicilia erano in corso lotte sindacali e sociali legate al latifondo, che contrapponeva pochi ricchi proprietari terrieri a una massa di braccianti in gravi difficoltà economiche. Esisteva anche il problema dell’acqua. Non perché́ tale prezioso e indispensabile elemento scarseggiasse, ma perché́ c’era chi, nel proprio interesse, ne controllava la distribuzione.

In questo contesto accadde che, durante una manifestazione per la ridistribuzione delle terre, promossa dai sindacati e dai partiti di sinistra a Portella delle Ginestre, Giuliano aprisse il fuoco sulla folla facendo molte vittime. Subito la sinistra fece nascere la leggenda dell’«odioso e odiato» ministro degli Interni Scelba che, colluso con la mafia, avrebbe avuto la machiavellica pensata di spingere Giuliano, proprio attraverso la mafia, a sparare sulla gente comune. Il fine sarebbe stato quello di rendere l’immagine del bandito invisa alla folla, che ne avrebbe favorito la cattura.

Fra l’altro la mafia, che i testimoni li preferisce piuttosto morti che vivi, avrebbe pagato Pisciotta, braccio destro di Giuliano, per uccidere quest’ultimo. Pisciotta si dichiarò colpevole e qualche tempo dopo, mentre era in attesa di processo, morì in carcere avvelenato dal solito caffè. Addirittura, persone dotate di fantasia dicevano che forse l’uomo assassinato non fosse il vero Giuliano, ma un altro bandito creduto tale. Il vero Giuliano sarebbe stato fatto fuggire all’estero.

Per chiarire questi dubbi nel 2010 il procuratore Ingroia avrebbe ordinato di disseppellire Giuliano per verificarne il DNA. È molto difficile dimostrare una qualsiasi contiguità̀ di Scelba con la mafia, non solo perché́ Scelba era un cattolico praticante e un fedele discepolo di Sturzo, ma anche perché́ non cercò mai, nei congressi della DC, di crearsi una corrente siciliana propria (possibilmente gradita alla mafia), come fece invece Andreotti.

In ogni caso, fu a Scelba che vennero affidati i poteri sull’ordine pubblico di tutta Italia e, grazie alla capillare propaganda comunista, Scelba divenne il manganellatore, il macellaio, il torturatore. È pur vero che durante le manifestazioni e gli scioperi ci furono caroselli della polizia e più̀ di una persona fu investita e uccisa, ma Scelba non espresse mai compiacimento per queste disgrazie. Tuttavia, egli non si tirò mai indietro e, quando Pajetta e i comunisti più̀ focosi saltavano i banchi del Parlamento per aggredirlo mentre lui si trovava sui banchi del governo, non ebbe mai momenti di reazione se non per dire con parole ferme: «I poliziotti non sono colpevoli, l’unico colpevole sono io che ho dato gli ordini. Che vi piaccia o no, quando voi andate in giro a distruggere e a provocare caos troverete sulla vostra strada la mia polizia, di cui mi assumo ogni responsabilità̀».

Fu Scelba, imitato poi da Fanfani, a consigliare che i pompieri irrorassero con acqua colorata i manifestanti, allo scopo di sedare i bollori, ma soprattutto di poter individuare con una certa facilità i colpevoli di eventuali fatti criminosi. Scelba fu solidale con De Gasperi quando quest’ultimo rifiutò l’invito di Pio XII di fare una lista comune con le destre in occasione delle elezioni comunali di Roma e diede il suo nome alla legge elettorale che i comunisti chiamarono «Legge truffa».

Quando De Gasperi scomparve dalla scena politica gli succedette alla guida del governo l’economista Pella con Fanfani al Ministero degli Interni, il quale dovette affrontare questa volta i disordini di piazza al grido di «Trieste all’Italia». Mentre gli alleati si apprestavano ad abbandonare Trieste, si profilò il pericolo che i partigiani occupassero la città e Pella mobilitò un piccolo esercito italiano per difenderla. La vicenda si risolse salomonicamente: gli alleati garantirono alla Jugoslavia la provincia di Trieste, chiamata zona B, e all’Italia la città di Trieste, zona A.

Dopo questa controversia con gli alleati Pella si dimise lasciando la guida del governo a Scelba, affiancato dal sottosegretario Oscar Luigi Scalfaro, governo che durò quasi due anni. Scelba si disinteressò sempre della vita interna del partito, pur avendo molto consenso nel Paese, che lo apprezzava per la grinta e la chiarezza delle idee e, come già dissi, non intendeva organizzare una sua corrente.

Tuttavia, a causa del mutamento del sistema elettorale all’interno della Democrazia Cristiana, che da maggioritario divenne proporzionale, anche Scelba fu costretto a crearsi una corrente chiamata «centrismo popolare» che, però, si estinse in breve tempo e alla quale aderirono quasi tutti gli ex degasperiani come Spataro, Tupini, Gonella. Quest’ultimo inventò una felice metafora in cui diceva, a proposito dei socialisti: «Troppo spesso i lupi si travestono da pecore tra gli applausi dei pastori».

Dopo la scissione di Iniziativa Democratica e dopo la brutta esperienza del governo Tambroni, Fanfani, ritornato alla guida del governo, si diresse come un treno verso l’abbraccio con Nenni, anche se rallentato dai Moro-dorotei.

In sede congressuale a Napoli Scelba fece il miglior discorso di opposizione all’accordo con i socialisti. Con una chiarezza di ragionamento degna di Luigi Sturzo, egli affermò che una DC alleata con il PSI avrebbe provocato due disastri contemporaneamente. Anzitutto la DC avrebbe perso la sua credibilità̀ e un certo numero di elettori moderati, non più̀ trattenuti da una motivazione cattolica, avrebbe votato per il Partito liberale. Questa perdita di voti si sarebbe consolidata a favore dei liberali e il peso complessivo dei parlamentari DC sarebbe sempre più̀ diminuito.

Inoltre, il PSI, anche se si fosse alleato con i saragattiani, avrebbe perso voti a sinistra a favore dei secessionisti del PSIUP e degli stessi comunisti. Fatti i conti, la maggioranza di governo avrebbe avuto ben pochi voti in più̀ dell’opposizione. A questo punto, dato il nostro sistema parlamentare, con una maggioranza così fragile si sarebbe dovuto trattare ogni cosa con i comunisti che, senza assumersi responsabilità̀ di governo, avrebbero di fatto partecipato alla guida del Paese. Così avevano insegnato Gramsci e Togliatti e questo si stava verificando. 

Scelba ebbe un vasto consenso, pari al 20% del partito, ma non aveva nessuna intenzione di organizzare questo consenso, come si è visto, in una corrente. Perciò̀, i suoi ragionamenti così lineari finirono a poco a poco per essere demoliti o dimenticati e Scelba venne di fatto emarginato dalla guida politica del partito e dal governo. Si dedicò quindi sempre di più̀ alla politica europea, dove riceveva maggiori soddisfazioni.

In sede europea una volta si verificò un simpatico scambio di battute tra lui e La Pira durante un pranzo a Strasburgo, al quale io partecipavo con un gruppo di giovani. Ricordo che a un certo punto Scelba, rivolto a La Pira, disse: «Giorgio, spero di morire dopo di te perché́ quando tu sarai morto, tutti vorranno farti subito santo e allora io interverrò̀ e scriverò̀ alla Congregazione per le Cause dei Santi che La Pira non può̀ essere santificato perché́ nel corso della sua vita, almeno una volta, è stato un imbroglione e un truffatore, cosa che io posso dimostrare».

La Pira, colpito in modo così inaspettato, abbandonò le posate e si mise ad agitare le mani dicendo: «Ma Mario, cosa mai stai dicendo davanti a questi giovani. Io non pretendo di diventare santo ma non posso permettere che tu mi definisca imbroglione e truffatore. Quando questo sarebbe accaduto?» Scelba rispose subito: «Ti ricordi quando tu eri sottosegretario al Lavoro e ti occupasti della controversia tra armatori e sindacati?» «Certo che me ne ricordo. C’erano le navi cariche di carbone e di grano ferme nei porti e, se non si fosse provveduto a scaricarle subito, il Paese avrebbe sofferto il freddo e la fame. Gli armatori, nella persona del comandante Lauro, loro presidente, ci fecero sapere che gli aumenti chiesti dai sindacati non si potevano concedere a meno che il governo non fosse intervenuto con finanziamenti a fondo perduto a favore della loro categoria. Allora io chiamai il comandante Lauro e gli dissi che il governo avrebbe acconsentito alla richiesta. In questo modo le navi scaricarono il grano e il carbone e il pericolo fu superato», concluse con aria ispirata La Pira.

Scelba però implacabile riprese: «Vedi, non solo sei un peccatore, ma perseveri nel peccato perché́ sai benissimo che io ero presente al Consiglio dei ministri che decise di non concedere prestiti agli armatori e Fanfani assicurò che te l’avrebbe comunicato». Allora La Pira concluse dicendo: «Beh, forse avrò̀ capito male, ma a fin di bene, anche perché́ gli armatori i soldi li hanno poi avuti». «Certo», concluse Scelba. «Come facevo a quel punto a non concedere il finanziamento che tu ti eri impegnato a far pervenire a nome del governo. Si rischiava una rivolta e io ti diedi una mano sostenendo che per motivi di ordine pubblico bisognava chiudere la vertenza. Ma tu resti sempre quello che ti ho definito prima.» Ci fu una risata generale che coinvolse Scelba, La Pira e tutti coloro che erano presenti.

È interessante sapere che Scelba, mentre era ancora vivo, cosa molto insolita, poté́ vedere innalzato in suo onore un monumento nella cittadina di Caltagirone, dove era nato. Ciò̀ gli portò fortuna: morì quasi centenario.

 

Ezio Cartotto *

* (Pagine tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi,- 2012 Sperling & Kupfer. Per gentile autorizzazione di Elena Cartotto)

FRANCO MARIA MALFATTI

 

Franco Maria Malfatti nacque il 13 giugno 1927 a Roma dove mori il 10 dicembre 1991. Le onoranze funebri si celebrarono nella Chiesa del Gesù, proprio davanti al palazzetto sede della direzione nazionale della Democrazia cristiana di cui aveva fatto parte, ininterrottamente, per circa quaranta anni. L'orazione funebre fu tenuta da Arnaldo Forlani. La partecipazione alle esequie del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga era stata anticipata da un messaggio di cordoglio ai familiari e a Arnaldo Forlani: "..Ho appreso con animo rattristato la dolorosa notizia dell'improvvisa scomparsa di Franco Maria Malfatti, capo della segreteria politica della Democrazia cristiana. Con lui il Paese, il Parlamento ed il partito perdono un costante punto di riferimento di grande rigore morale e di altissimo ingegno,che gli valsero unanime apprezzamento non meno che la sincera, saldissima amicizia di tutti coloro, tra i quali mi onoro di annoverarmi, che condivisero con lui anni di fraterna e proficua consuetudine intellettuale ed umana. Egli seppe indirizzare la sua appassionata militanza politica,ispirata a una forte e consapevole adesione ai più alti valori cristiani e civili, all'ideale del liberalismo democratico e a una coerente dedizione al partito, nel senso di un severo e convinto impegno al servizio del Paese e delle istituzioni, che illustrò attraverso la sua opera di parlamentare e di ministro della Repubblica, al cui alto ufficio venne più volte chiamato..".
La commossa e inusuale densità  anche umana, del messaggio presidenziale dava conto dello straordinario spessore intellettuale, etico e politico di un personaggio che aveva attraversato, con ruoli di altissime responsabilità, quaranta anni di storia repubblicana senza indulgere a protagonismi , attento e rigoroso nella gestione del potere, inteso come servizio agli altri da esercitare con mite umiltà e discrezione. Come ben sanno e sperimentato gli elettori del suo collegio elettorale, in particolare i sabini (ma non solo!) che addirittura hanno  creato una fondazione, ricca di iniziative per manifestare la loro gratitudine a un  parlamentare che non aveva mai dimenticato di ascoltare i propri elettori.


Franco Maria Malfatti aveva raccolto l'invito di Giuseppe Dossetti,che ne aveva intuito le grandi qualità, a collaborare a "Cronache sociali", periodico che  dal 1947 era diventato fulcro di un vivace dibattito nel mondo cattolico alla ricerca di progetti per la nuova società svincolati dai retaggi del passato e da proiettare in un futuro tutto da costruire. Così Dossetti selezionava e preparava giovani che avrebbero dovuto formare la nuova classe dirigente e Malfatti si trovò a respirare l'aria impegnata, vivace e talora divertente, della comunità del Porcellino con "professorini "del calibro e del carattere di Giuseppe
Lazzati, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e, naturalmente, lo stesso Dossetti. A quei giovani i "professorini" richiedevano di studiare i problemi, legarli alla realtà, quantificare le risorse a disposizione, i tempi di realizzazione. Solo dopo questa complessa analisi era lecito passare alla proposta operativa secondo una scala di priorità che doveva privilegiare i bisogni delle fasce di popolazione più vulnerabili. Nell'Italia devastata dalla guerra la politica non poteva permettersi improvvisazioni. Le risorse erano poche e dovevano essere utilizzate nella maniera più efficace.
Dossetti nel 1951 rinunciò alla sua avventura politica scegliendo la vocazione monastica."Cronache  sociali" chiuse e, su quella esperienza nacque "Nuove Cronache" diretto da Amintore Fanfani che diventò la palestra, insieme ad altri periodici come "Per l'Azione ", in cui Malfatti e altri giovani  di grande talento si confronteranno nella fervida ricerca di coniugare la libertà con la responsabilità, la democrazia con la partecipazione, la dignità del lavoro e la giustizia sociale, gli Stati Uniti D'Europa e il patto atlantico come scelta di civiltà  e di pace.
Nel 1957 Malfatti fu nominato dirigente nazionale della SPES  e, in quella veste, varò il manifesto il cui slogan " Progresso senza avventure" avrebbe ispirato anche molte campagne elettorali successive perché coglieva nel profondo le speranze  del grande popolo democristiano.
Nel 1958 (terza legislatura repubblicana) Malfatti venne eletto in Parlamento (circoscrizione Perugia-Terni-Rieti) dove rimase fino alla sua scomparsa. Nel gruppo parlamentare  della Democrazia cristiana vigeva la regola che i deputati di prima legislatura non potevano candidarsi a cariche di Governo. Prima dovevano dare buona prova nel loro incarico parlamentare. Sicché  Malfatti ebbe il suo primo incarico di Governo (Sottosegretario di Stato al Ministero dell'industria, del Commercio e dell'Artigianato) nella quarta legislatura, rimanendo poi ininterrottamente nel Governo con incarichi di crescente  importanza (Ministro  della pubblica istruzione ,delle Finanze, delle Poste, delle Partecipazioni statali,  degli Esteri) senza che mai, neppure un'ombra, sfiorasse il suo operato.
Nel 1974 da Ministro della pubblica istruzione intervenne con i decreti delegati
(DD) per porre ordine e un argine alle contrapposizioni ideologiche che devastavano la scuola. L'onda lunga del '68, le rivendicazioni salariali, la stagione del terrorismo che non accennava a placarsi rendevano la materia incandescente. I DD, come allora si chiamarono, vennero criticati da destra e da sinistra con mugugni anche al centro, ma rappresentarono un solido e pragmatico punto di equilibrio, ovviamente perfettibile, che spezzò un sistema chiuso, selettivo e verticistico per aprirsi alle istanze di democratizzazione e di partecipazione. Le elezioni per gli organi  collegiali si risolsero con un successo del movimento studentesco di comunione e liberazione che relegò, quasi ovunque, in minoranza le tesi vocianti, confusionarie e  meramente agitatorie di una certa sinistra più scioperaiola che propositiva. A cinquanta anni di distanza da quei decreti, uno studioso dei problemi scolastici Enrico Nistri ( in beemagazine. it) ha concluso il suo saggio di raffronto con la situazione odierna con queste parole:"I DD saranno stati anche "malfatti", ma scaturivano pur sempre da una visione alta della scuola che, al giorno d'oggi, sembra a volte, irrimediabilmente smarrita.
Nei giorni più bui della storia della nostra Repubblica  quelli segnati dal rapimento di Aldo Moro e dell'uccisione della sua scorta, Malfatti era Ministro delle finanze e, in quanto tale, partecipava alle riunioni del Comitato tecnico-operativo preposto alla gestione della crisi. Si parlò di supposte lettere a lui indirizzate, peraltro mai rese pubbliche dalle Brigate rosse nè pervenute al destinatario di cui era nota l'assoluta affidabilità unita a un senso di grande e rispettoso riserbo istituzionale. Sicchè, se la questione delle lettere  forse mai scritte e, comunque,  mai pervenute non ha convinto tutti (sembra che l'unico punto sul quale si è raggiunto l'unanimità sia la morte del rapito!) è, invece, probabile che Malfatti abbia concorso alla tessitura della delicatissima trama dei rapporti che portò il Presidente del Senato Amintore Fsnfani a valutare la possibilità di un estremo tentativo per salvare la vita dell'on.Moro. Il tentativo fanfaniano che recuperava un principio fondante della Democrazia cristiana ("al centro la persona non lo Stato") si infranse, in quel drammatico 9 maggio 1978. sabotata dalla feroce violenza  che trasformò il corpo martoriato  del Presidente della DC in un martire della democrazia e della libertà. Perché le Brigate rosse scelsero con quel gesto di odio insensato di suicidarsi politicamente è ormai materia per gli storici che verranno.
Appartiene invece all'attualità il discorso che Malfatti,  Presidente della commissione europea, pronunciò il 22 gennaio 1972 al Castello di Egmont, in occasione della storica adesione al Trattato della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda. Per la prima volta si andava oltre i confini dei Paesi fondatori. Un piccolo passo, ma un sogno per gli europeista di ogni colore.Si concludeva una trattativa difficilissima in cui il ruolo del Presidente Malfatti era emerso in tutto il suo vigore nella fermezza con cui aveva inteso aprire la Commissione europea ad una visione politica che accelerasse i processi verso una Europa sempre più solidale e unita. Non si aspettava il Presidente francese Pompidou, più incline al freno che alle accelerazioni quando si parlava di processi unitari da perseguire, sia pure con prudente tenacia, la risposta ferma del giovane Presidente italiano:"Se volevate un tecnocrate avete sbagliato a scegliere  la mia persona!" Gli studi recenti tendono ad apprezzare  il ruolo complicato, ma positivo dell'esperienza di Malfatti al vertice della Commissione europea che era stato appannato dalla decisione di dimettersi due mesi prima della scadenza  naturale del mandato per poter partecipare alle elezioni politiche anticipate che si sarebbero tenute in Italia. Le vestali di una Europa ferma e conservatrice espressero la loro puzza sotto il naso. Ironia della sorte i partiti di opposizione, che avevano votato sempre contro i Trattati  si scandalizzarono. Ma i tempi lunghi della storia servono a distinguere il grano da loglio. E così oggi possiamo apprezzare la visione anticipatrice del discorso di Egmont alla ricerca del tempo perduto in tante miopi liti condominiali (leggi: egoismi, nazionalismi, sovranismi e così via) di cui oggi la realtà ci presenta il conto. Aveva detto Malfatti all'augusto uditorio:..."Dobbiamo  essere realisti, ma non per frenare la nostra immaginazione; dobbiamo essere pragmatici, ma non per limitare la nostra impazienza; dobbiamo essere prudenti, ma non per indebolire il nostro coraggio". Parole chiave di una scuola lontana, quella della comunità del "Porcellino",e, in qualche modo, un autoritratto del Presidente Malfatti che così proseguiva:
"Uniti noi avremo la possibilità di scrivere una nuova pagina di storia, di essere un fattore importante di libertà, di sicurezza, di pace, di progresso nel mondo. Divisi noi potremo essere spettatori dello sviluppo della storia".
Frasi pronunciate 52 anni fa, ma che conservano drammaticamente intatta la loro attualità.
 

Hubert Corsi

AMINTORE FANFANI

articolo di Hubert Corsi

 

Amintore Fanfani, nato a Pieve S. Stefano in provincia di Arezzo il 6 febbraio 1908 si spense a Roma il 20 novembre 1999. I funerali si svolsero nella Basilica di S.Maria degli Angeli al cospetto delle massime Autorità dello Stato e di una grande folla che rendeva onore a uno dei più importanti protagonisti della politica italiana del secondo Novecento.

Quella folla avvertiva la profondità della perdita dell'ultimo "cavallo di razza" di un partito, la Democrazia Cristiana, che, in quel tempo, non esisteva più mentre continuavano a esistere i democratici cristiani. Forse qualcuno ricordava che quando si cominciò a parlare, nel marasma dell'antipolitica avviato da "mani pulite”, di cambiare nome alla D.C. Fanfani, per rispondere alla domanda di un giornalista, aveva scomodato la saggezza dei contadini della sua terra aretina: “A correr troppo si ruzzola e qualche volta ci si rompe la testa".

"Guai se il tuo sforzo fallisse!“ gli aveva scritto, poco prima di morire, Alcide De Gasperi in una lettera che apparve subito come un ideale passaggio di testimone al prescelto di una nuova generazione di politici di alto livello che, uniti ("Solo se saremo uniti saremo forti, solo se saremo forti saremo liberi") avrebbero proseguito nelle scelte di civiltà, atlantiche e europeiste, dell’Era degasperiana guidando gli straordinari processi di sviluppo economic, di trasformazione sociale e di partecipazione politica che interesseranno l'Italia nei decenni successivi.

Amintore Fanfani economista, pittore, docente universitario fu sei volte Presidente del Consiglio dei Ministri, titolare degli Esteri, degli Interni e di altri importanti Dicasteri, Segretario nazionale della Democrazia cristiana, attivissimo membro dell'Assemblea Costituente (sua è la formulazione del primo articolo della Costituzione "l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro").

Deputato nelle prime cinque legislature repubblicane e, successivamente, senatore eletto fino alla nomina a vita (1972) da parte del Presidente della repubblica Leone: per circa quindici anni Presidente del Senato nonché, negli anni 1965-1966,Presidente dell'Assemblea Generale dell'ONU.

Semplici titoli, tuttavia non esaustivi, di un "cursus honorum"e di responsabilità esercitate con grande rigore morale. saldi principi, indiscussa preparazione e un dinamismo eccezionale. Fanfani ebbe il privilegio di poter testare sul campo i risultati dei suoi studi accademici e delle sue riflessioni sulle teorie economiche nonché delle elaborazioni programmatiche frutto del dibattito sul Codice di Camaldoli e degli accesi confronti nella comunità del Porcellino (Dossetti, La Pira,Fanfani, Lazzati).

Sicché,applicati alla realtà con criteri lontani dal liberismo senza freni e dal collettivismo autoritario, gli schemi keynesiani, l'umanesimo integrale di Maritain, la dottrina sociale della Chiesa cattolica si chiamarono Piano INA-Case, Legge per la Montagna, Riforma agraria, Riforma della scuola, partecipazioni statali, nazionalizzazione dell'industria elettrica e così via. Il tutto impegnandosi in una politica internazionale di distensione e di pace attenta ai bisogni della povera gente e del terzo mondo.

Ettore Bernabei ha raccontato ("L'Italia del Miracolo e del Futuro"- 2012) che il Presidente Kennedy volle che Fanfani andasse a incontrarlo negli Stati Uniti. Al primo incontro gli disse: “Ho bisogno che Lei mi assista perché ho studiato economia nel suo testo "Capitalismo, protestantesimo e cattolicesimo”. Vorrei che le sue idee fossero applicate negli Stati Uniti e nei paesi in via di sviluppo".

Amato, stimato, temuto, contestato, da taluni maledetto, Fanfani andò incontro anche a cocenti sconfitte che, in politica, avrebbero demolito chiunque. Ma lui, dopo una pausa di ripensamento in cui si dedicava maggiormente alla sua adorata pittura e all'approfondimento delle sue ricerche sull'economia, non mancava di rialzarsi e tornare con il suo trascinante dinamismo nell'agone politico, tanto che il famoso giornalista Indro Montanelli lo aveva soprannominato "Rieccolo ".

Fanfani spiegava che qualche suo insuccesso dipendeva dalla sua capacità di anticipare i tempi, di prevedere gli accadimenti molto prima degli altri e dunque ,spesso, di non essere compreso. Ma in politica, concludeva amaramente, “avere ragione dopo dieci anni quando sei già morto e sepolto non serve! “Una considerazione di orgogliosa autostima accolta con perfida ironia dai suoi detrattori, allora vivaci nelle cronache quotidiane, ma di cui la storia ha perso le tracce.

Nel 1970, alla Conferenza di San Francisco per il XXV Anniversario della Fondazione dell’ONU, Fanfani denunciò i gravi danni che uno sconsiderato sfruttamento della natura stava arrecando all'umanità, invitando tutti i Paesi del mondo a adottare una comune strategia della sopravvivenza. Pochi lo compresero e molti considerarono stravaganze quelle che oggi descriverebbero come lungimiranza.

Oggi le ricerche degli studiosi sull'imponente archivio di Amintore Fanfani, depositato al Senato dalla Fondazione che reca il suo nome, ci restituiscono, senza le distorsioni della strumentalità politica, l'immagine della grande capacità di visione e lungimiranza dello Statista aretino.

In una pubblicazione uscita postuma (2014), curata da M.Poetinger, "Dall'Eden alla terza guerra mondiale”, basata su manoscritti (1991) frutto di decenni di studi, Fanfani si concentra sulle innovazioni tecnologiche della terza rivoluzione industriale intuendo l'approssimarsi di quel vertiginoso cambiamento epocale di cui oggi parla Papa Francesco. Percepisce i rischi manipolatori dell'evoluzione informatica (oggi intelligenza artificiale) e l'inadeguatezza delle istituzioni a farvi fronte con la stessa velocità.

Di qui il messaggio, quasi un testamento, rivolto specialmente ai giovani a riappropriarsi della responsabilità del progresso economico e della pace di tutta l'umanità nella convinzione scriveva Fanfani nel 1991, che se non si opera per una strategia della pace e della sopravvivenza in un mondo nuclearizzato si rischia una sfida missilistica. apocalittica.

GIUSEPPE TONIOLO,
PROFETA E SIMBOLO DI UN’ECONOMIA PER L’UOMO

articolo di Marco Zabotti (1)

Il 5 dicembre 1873 la sua lezione fondamentale su etica ed economia all’Università di Padova

“Università di Padova, 5 dicembre 1873. Giuseppe Toniolo, ventotto anni, è un professore che
inizia trepidante la sua carriera accademica con una “prelezione” per la libera docenza di economia politica.
Tema: “Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi
economiche”
Parla a un qualificato uditorio che registra la presenza di professori come
Angelo Messedaglia e Luigi Luzzatti, suoi ex docenti, che egli venera come maestri. Quanto basta perché dal loro ascolto, egli si senta insieme onorato e preoccupato. Sarà all’altezza delle loro attese?”.
Esordisce così Domenico Sorrentino nel suo recente, prezioso volume
“Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo. Una rilettura sistematica” (Vita e Pensiero, 2021), ricordando il contributo dottrinale che rimarrà fondamentale per tutto il percorso scientifico dell’insigne sociologo ed economista cattolico, manifestato esattamente nell’occasione di 150 anni fa.
Il giovane Toniolo sarà sicuramente all’altezza di questo arduo compito,
come dimostrerà allora e come testimonierà con il suo “pensiero- azione” lungo tutte le fasi della sua esistenza.
Al primo posto, dunque, la visione di un’economia umana, che - come sosteneva il Toniolo nella
sua lezione attualissima e lungimirante di un secolo e mezzo orsono - “contribuisca più efficacemente alla soluzione del grande problema del secolo nostro, che è quello di conciliare i nuovi sistemi industriali e la nuova vita economica da cui dipendono le ragioni dell’utile, col rispetto e il rinnovamento dei sentimenti etici da cui dipendono i destini, il decoro e la pace della società”.

Tutto dunque inizia con la famosa lezione nelle aule dell’Università patavina, che contiene “in nuce” quello che sarà lo straordinario magistero del futuro beato, cristiano laico che credeva e agiva per una “società di santi”, primo economista salito agli onori degli altari con la beatificazione avvenuta a Roma nella basilica di San Paolo fuori le Mura il 29 aprile 2012.
Oggi Giuseppe Toniolo? Certo. A oltre 105 anni dalla sua morte, avvenuta a Pisa il 7 ottobre 1918,
la grande attualità del “pensiero-azione” dell’insigne professore di economia politica risalta con particolare rilievo nella vita della Chiesa e del Paese.
(1) direttore scientifico Istituto Diocesano Beato Toniolo. Le vie dei Santi
L'arcivescovo Domenico Sorrentino insieme a Francesco Bortolini nel Duomo di Pieve di Soligo. Il pensiero e l’azione di un protagonista della storia della Chiesa e del Paese
 

Nato a Treviso il 7 marzo 1845, formatosi a Venezia, laureato in giurisprudenza a Padova, docente universitario di economia politica per quarant’anni a Pisa, sepolto nel Duomo di Pieve di Soligo, il beato è modello riconosciuto di virtù umane e cristiane. “Voglio farmi santo” era il suo intento di vita, sin da giovanissimo. Il suo diario spirituale è specchio e conferma di questo impegno quotidiano, nella vita di sposo, padre, docente universitario ed educatore dei giovani, animatore instancabile e guida autorevole del movimento cattolico tra fine
‘800 e inizi ‘900, teorico del primato dell’etica in economia, della cooperazione e della solidarietà
sociale, consulente di Leone XIII per l’enciclica “Rerum Novarum” del 1891, guida e riformatore di Azione Cattolica e presidente dell’Unione Popolare, fondatore di riviste e studi internazionali e delle Settimane Sociali (Pistoia, 1907), sostenitore della nascita dell’Università Cattolica e di un futuro “Istituto cattolico di diritto internazionale” per la pace (1917). Un nuovo modello per la vita buona della società
Primato della persona e dei corpi intermedi; alleanza tra capitale, impresa e lavoro; mutualità e
cooperazione; una riforma sociale in cui prevalgono l’etica, la giustizia e lo spirito cristiano sulle leggi rigide dell’economia come “dottrina dei bilanci del dare e dell’avere”, superando sia l’individualismo utilitarista, sia il collettivismo materialista; una visione complessiva di democrazia sociale ordinata secondo i principi della sussidiarietà e dal bene comune; i percorsi ispirati della pace e della cooperazione internazionale, temi tutti di drammatica attualità nello scenario mondiale odierno.
Sono le intuizioni anticipatrici e gli obiettivi concreti del Toniolo, le antiche e nuove vie della
dottrina sociale della Chiesa, che oggi mettono al primo posto l’importanza della cultura del dono, il ruolo dell’economia civile, l’esigenza di un modello di sviluppo più umano, giusto e solidale a livello planetario, contro le logiche dell’economia senza volto, dello strapotere delle oligarchie tecnologiche
e finanziarie, della disumanizzazione del lavoro; la salvaguardia del creato come “casa comune” e
bene universale.
150 anni fa Toniolo aveva visto giusto, aveva guardato lontano, e nel nostro tempo sentiamo
ancora vivissime e irrisolti le sue inquietudini e il suo impegno rigoroso e generoso di fronte alle ingiustizie patite dal proletariato della terra e degli opifici di allora. Un esempio concreto e innovativo di questa sua azione illuminata di riforma economica e sociale?
La Latteria Soligo, con gli statuti firmati proprio dal Toniolo, agli albori di una cooperativa che
proprio in questo 2023 ha celebrato i 140 anni dalla sua fondazione.

Toniolo santo, simbolo di una economia umana per il XXI secolo
Maestro nella nostra epoca perché testimone autorevole, coerente e credibile nel suo tempo, come
direbbe papa San Paolo VI, Giuseppe Toniolo si candida a divenire un simbolo autentico di una nuova dottrina dell’umano in campo economico e sociale. Lo è sempre stato, in effetti, ma la sua beatificazione ha finalmente allontanato il rischio della possibile dissipazione di questa magnifica eredità, ma anche dei ritardi e delle distrazioni da parte di alcune cerchie di intellettuali, portando all’attenzione del popolo cristiano e della cultura
contemporanea lo straordinario apporto scientifico e vitale di questo protagonista autentico della
storia del movimento cattolico.
La parrocchia e la città di Pieve di Soligo, nella diocesi di Vittorio Veneto, hanno il dono e la
responsabilità di custodire le reliquie tonioliane nel Duomo di Santa Maria Assunta e di aver contribuito con lungo percorso di fede, di devozione popolare e di impegno culturale, e pure con miracolo della guarigione di Francesco Bortolini per intercessione del Toniolo, alla conoscenza, alla
valorizzazione e alla stessa beatificazione dell’insigne docente trevigiano.
D’altronde, proprio Giuseppe Toniolo aveva manifestato il desiderio di essere sepolto a Pieve di
Soligo, luogo di origine dell’amata consorte Maria Schiratti e da lui stesso ben conosciuto e frequentato, cosicché “gli umili verranno a deporre un “requiem” sulla mia tomba”, come egli diceva.
Ora si tratta di rafforzare l’impegno di tutti i soggetti ecclesiali coinvolti per poter giungere a quel
nuovo miracolo che porterebbe al felicissimo traguardo della canonizzazione del Toniolo, così come auspicato anche nella recente riunione del comitato nazionale presieduto dall’arcivescovo Domenico Sorrentino, presenti anche il Vescovo Corrado Pizziolo e la rappresentanza dell’Istituto
Diocesano Beato Toniolo.
L’intuizione anticipatrice di una economia autenticamente umana, che era nella mente e nel
cuore del beato Toniolo alle origini della sua missione di uomo e di docente, esattamente 150 anni fa, possa motivare un rinnovato e instancabile impegno di consapevolezza, comunicazione e condivisione della bellezza e dell’attualità della sua opera e del suo esempio, per donare simboli, riferimenti e buone notizie all’umanità smarrita del nostro tempo.
 

LUCIO MAGRI

La figura di Lucio Magri è stata ricordata all'istituto Sturzo nel dibattito sul tema "Bianchi e Rossi nel dopoguerra" e Bartolo Ciccardini ha portato un contributo storico.

A proposito di Lucio Magri
Intervento di Bartolo Ciccardini il 22 Ottobre all’Istituto Sturzo

1. Il partito: primo amore della nostra generazione

Non so perchè Luciana mi abbia chiesto di parlare del libro che raccoglie alcuni scritti di Lucio. Ma una cosa è certa. La nostra fu una generazione che ebbe come tema della sua vita il “partito”, il “principe” gramsciano, lo strumento rivoluzionario per eccellenza, indaffarati a tempo pieno per costruirlo, per rinnovarlo, per distruggerlo, per amarlo, per rifiutarlo, in una esperienza totalizzante amara e dolcissima. In questa malattia seguimmo strade diverse e forse per questo si voleva da me un giudizio non casalingo, ma contrapposto, capace però di capire, di essere su quella lunghezza d’onda, di sentire sim-patia e cum-passione. E leggiamo questa storia come una storia d’amore, combattuto ed inevitabile, continuamente conquistato e sempre perduto.

2. Il ritorno del cattolicesimo politico e lo scontro-incontro con il comunismo

Il cattolicesimo, dopo la fine della persecuzione dei modernisti, esce dalla torre in cui si difendeva ed affronta il confronto, ma anche il dialogo, con la modernità. In Francia, in Belgio, in Germania c’è una forte ripresa della filosofia, della teologia, degli studi biblici, storici e sociali. Queste idee si incontrano con la cultura della crisi, sotto la impressione delle grandi catastrofi europee: le due guerre ed il male assoluto del nazismo e del totalitarismo.

Benedetto XV, con scandalo di tutta l’Europa, si pronuncia contro “l’inutile strage” ed è questa la prima scelta di rottura contro la piaga delle guerre civili europee. La seconda rottura è la scelta della democrazia, proprio nel momento in cui l’Europa è nelle mani di Hitler. Una generazione di cattolici si forma in questi anni ed il loro frutto si chiamerà “Comunità Europea”.

La cultura del cattolicesimo sociale non poteva non misurarsi con il problema posto dal comunismo, che si era affermato “in un solo paese” e “nel punto più basso”. Il contributo dei comunisti alla lotta antifascista poneva il comunismo nella condizione di proporsi in molti paesi e nello stesso “punto più alto” dell’Europa che per metà era già stata conquistata e che avrebbe potuto conquistare con le armi, come conquistò poi gran parte dell’Asia. Contrariamente al nazismo il comunismo era una filosofia, anzi la filosofia figlia ultima del pensiero storicista, considerata già esaurita da Benedetto Croce al principio del secolo, ma vivissima ed assisa sul carro dei vincitori alla fine della guerra.

Ed il Pci era innanzitutto la soluzione scientifica del problema posto dalla insufficienza del capitalismo, l’incarnazione del materialismo storico, frutto di teoria e di prassi, di strategia e di tattica.

L’incontro, il confronto, lo scontro, avrebbero avuto un significato speciale in Italia, dove aveva sede il centro della Chiesa cattolica e dove aveva messo le tende il Partito Comunista più forte del mondo occidentale.

3. L’intuizione di Gramsci

La singolarità di questa situazione storica era già presente in un giudizio di Gramsci sulla nascita del Partito Popolare. Gramsci, alla fine della prima guerra mondiale, dette un giudizio che apparve strano e che rimase ignorato per molto tempo: l’ingresso dei cattolici in politica con il Partito Popolare, significava, per Gramsci, il compimento dell’unità italiana ed il componimento della sua identità con l’inserimento di contadini che finora erano rimasti estranei al Risorgimento. Questo, secondo Gramsci, avrebbe portato alla secolarizzazione ed infine alla scomparsa della Chiesa cattolica, perchè quel movimento popolare non avrebbe potuto non inserirsi (non inverarsi, avrebbero detto i cattolici) nella costruzione della società nuova, frutto della rivoluzione  proletaria. Questa seconda parte appare oggi meno probabile, anche se certamente il Concilio, che ha profondamente mutato la Chiesa cattolica, potrebbe essere considerato qualcosa di simile nella prospettiva profetica della secolarizzazione e del dissolvimento prevista da Gramsci.

Inoltre, un armistizio fra cattolici e comunisti era di fatto sopravvenuto nella Resistenza e nel comune sentire dell’antifascismo.

4. Il primo compromesso storico

Alla Costituente poi l’antifascismo, questo comune sentire, permise un primo compromesso storico fra principi liberali, socialisti, democratici-cristiani e comunisti, che fu alla base di una buona Costituzione.  E’ significativo che Togliatti, nella sua dichiarazione di voto, sull’ordine del giorno organizzativo dei lavori, proposto da Dossetti, accettasse il concetto fondamentale di “persona umana”, come non contrastante alla concezione comunista della democrazia. Ed accettasse perfino l’idea di Dossetti che una definizione dello spazio legittimo della Chiesa cattolica fosse anche una garanzia ed un confine per gli spazi della laicità dello Stato. Dossetti sperò anche in una utilizzazione dei comunisti, seppur nel rispetto di principi diversi per giungere al rinnovamento radicale, in senso democratico, dello Stato in Italia, dopo aver convinto i cattolici a non considerare lo Stato come un nemico.

Ma la divisione del mondo in due blocchi, il mostrarsi duro e totalitario del dominio sovietico sulla parte dell’Europa conquistata e la dura reazione americana, raggelarono i fiori della primavera antifascista, denunciando il limite dell’antifascismo, che era capace di riunire contro qualcosa e non per qualcosa.

Non c’è dubbio che per realizzare questo proposito Dossetti partiva dalla possibilità di utilizzare il comunismo, come se si trattasse di una eresia cristiana. E su questo dovette subire alcune delusioni che lo portarono a ritenere impossibile senza i comunisti la riforma dello Stato democratico e quindi necessaria, prima di altre cosa, una trasformazione profonda del pensiero cattolico. Di qui il suo ritiro dalla politica, che non fu una fuga, ma piuttosto una rincorsa.

5. Comunisti perché cattolici

Ma vi era anche un altro gruppo di cattolici, che avevano una posizione minoritaria, ma che si ponevano, senza propositi egemonici, lo stesso problema, che, essi per primi, chiamarono “l’inveramento cristiano del comunismo”. Erano i cattolici comunisti che con questo titolo parteciparono alla Resistenza. Questo nome fu dettato da Monsignor De Luca, con la spiegazione che “cattolico” era un sostantivo e “comunista” un aggettivo. Monsignor De Luca, personaggio straordinario fu, tanti anni dopo, alla fine dei suoi giorni, quello che portò a Togliatti il messaggio di Giovanni XXIII, diretto e Krusciov: “Fatevi vivi!”.

Dopo la Liberazione si chiamarono “sinistra cristiana”. E quando si resero conto di non poter influire con la loro forza sul Pci, decisero di sciogliersi per portare il loro pensiero all’interno di quel partito che consideravano lo strumento scientifico esatto per costruire una nuova società umana, per cui era doveroso per un cattolico prendervi parte. Comunisti perché cattolici.

Il Pci, che a quei tempi era impassibile, non si accorse molto di loro, li trattò con proletaria ospitalità e per loro scrisse nel suo statuto il famoso articolo 2, che ammetteva l’adesione di membri di fede cattolica. Ho la maliziosa interpretazione che fossero preoccupati che questi cattolici provocassero qualche danno nei confronti del necessario rapporto con la DC. Quando alcuni di essi rinunciarono al disegno di “inverare” il comunismo dall’interno del partito, il Pci accolse la loro decisione con il duro malizioso trattamento che dedicavano ai transfughi, che però somigliava più ad un sospiro di sollievo che ad una scomunica. (Ma questo è un sospetto da democristiano).

Per una strana ragione, forse per quella lettura di Gramsci che allora era più praticata dai giovani cattolici che dai giovani comunisti, quel gruppo ebbe per un periodo necessariamente breve, una forte influenza sui giovani democratici-cristiani e sui giovani della Gioventù Cattolica.

Del Noce afferma che la novità anzi, addirittura l’unicità delle tesi di questo gruppo è che esso fu il primo a pronunciare nel campo della cultura cattolica la formula “dell’inveramento cristiano del marxismo”.

6. Il  mitico 1952

Il 1952 fu un anno straordinario. Dossetti, profeta della cultura della crisi, secondo la grammatica di Maritain lascia il piano della politica per  portarsi ad un piano più alto della riforma della pietas cristiana, ordinando con cura le sua eredità, come suo costume. Da un lato affidando a Rumor “Iniziativa Democratica”, la seconda generazione dossettiana che porterà a termine il ralliement degasperiano; dall’altro alimentando una zona di libero scambio, che raccoglierà il meglio della cultura della crisi. E’ infatti l’anno della uscita dei cattolici comunisti di Torino dal Pci, del riesame della sofferta questione che essi avevano chiamato “inveramento del comunismo”. E’ l’anno in cui si prepara “Terza Generazione”; in cui Guerzoni prende in mano “Per l’Azione”, rivista dal dolce titolo leninista; in cui “Lo studente d’Italia” viene affidato a Baduel e Fogu; in cui vengono chiamati a Roma Beppe Chiarante e Lucio Magri[1] .

I comunisti cattolici erano un movimento liceale, nato nel liceo Visconti di Roma e nel liceo Massimo d’Azeglio di Torino. Fu comunista perché antianarchico e modernista, ma, dice Del Noce “rispettò lo scrupolo della più rigorosa ortodossia nei riguardi del dogma cattolico”.

Nel 1952 il collettivo di lavoro torinese formato da Felice Balbo, Mario Motta, Giorgio Sebregondi, Alessandro Fe’ d’Ostiani, Ubaldo Scassellati, scende a Roma e si incontra con Dossetti e praticamente si trasferisce a casa sua. Forse si trasferirono a Roma per ricongiungersi con il gruppo romano, formato da Franco Rodano, sua moglie Marisa Cinciari, Antonio Tatò, Gabriele De Rosa, Adriano Ossicini, Luciano Barca. Quando Dossetti incontra il gruppo dei torinesi, scatta una sintonia. Il problema che essi si ponevano non era un’abiura del comunismo. Era piuttosto la constatazione dell’impossibilità di realizzare l’inveramento del Pci, come Dossetti ormai giudicava impossibile un inveramento della DC.

I due gruppi erano fatti per intendersi, per capirsi, per stimarsi, per incontrarsi in questo crocevia, ma avendo mete diverse[2].

7. Cosa significa l’inveramento del comunismo?

Lo dice Del Noce in una bella pagina, che sarebbe troppo lunga da rileggere qui, e che riassumo con parole povere.  Non si è cattolici comunisti, ma comunisti perché cattolici, non potendo non essere dalla parte dei poveri e degli sfruttati, ma proprio perchè il comunismo dava la chiave di lettura del mondo moderno. Così si accettava il materialismo storico come scienza della storia, facilmente separabile dal materialismo dialettico che loro consideravano sovrastruttura ideologica non essenziale. Da questa posizione Felice Balbo cercherà di dare una nuova interpretazione del comunismo, sostituendo al materialismo dialettico una teoria dello sviluppo dell’essere, non più fondata sul contrasto fra tesi ed antitesi di Hegel, ma fondata sulla filosofia dell’essere di San Tommaso.

E fu questa teoria la ragione della rottura con Rodano che poneva in primo piano un obiettivo politico, quello di un’intesa fra Partito Comunista e Chiesa Cattolica, senza mediazioni e senza invasioni di campo. Come si vede stiamo parlando di ben altre cose, ben diverse dal chiacchiericcio di oggi. Abbiamo frequentato questo crocevia affollato di gioventù, che non è mai stato uno spazio per trasmigrare. Ma un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del mondo nuovo. O come lo definiva Balbo: “Un buscar l’occidente per trovare l’oriente”. Tutto questo nodo filosofico, da me rozzamente riassunto, presupponeva una grande utopia: il dialogo cattolico comunista, il programma di inveramento cristiano del marxismo come fondamento della politica militante antifascista ed infine la certezza della necessaria evoluzione del comunismo italiano[3].

8. Il crocevia

Quello che io ho chiamato crocevia è uno snodo interessante del pensiero politico, una sorta di incontro, di percorsi diversi che non abbiamo il tempo di descrivere, ma appena di accennare.

C’è il “ritorno” a Roma di un collettivo di comunisti provenienti dalla sinistra cristiana, che cercano di collocare nel mondo cattolico la loro esigenza di rinnovamento della politica. Vorrebbero ricongiungersi con Franco Rodano, che è stato loro compagno di pensiero sulla questione cattolica, ma egli decide di restare nel Pci e sarà l’ispiratore di riviste come “Lo Spettatore Italiano” e “Dibattito politico”.

C’è Gabriele De Rosa che, come ci racconta in un suo prezioso librettino, ha maturato ad El Alamein la sua vocazione antifascista e democratica. De Rosa viene indirizzato sia da Monsignor De Luca, sia da Franco Rodano, ad andare a conoscere Luigi Sturzo. Intraprende così un viaggio molto lungo che lo porterà a dirigere, molti anni dopo, il Gruppo Senatoriale della DC (e questo Istituto). Ma nel frattempo dirige “Lo Spettatore Italiano” in cui scrivono fra gli altri Benedetto Croce, Vittorio De Caprariis ed Ettore Passerin d’Entrèves.

E c’è una generazione di giovani che cerca un superamento delle “parti” abbeverandosi a questa cultura, superamento che avverrà in forma diversa e con esiti non felici con il “Sessantotto” solo 20 anni dopo. Ed ancora, una buona parte del gruppo Einaudiano, con Saraceno, Mario Motta, Cesare Pavese e Natalia Ginzburg. Per non parlare poi di “Terza Generazione”.

Il giudizio su de Gasperi di Dossetti e di Rodano è simile. Ma Rodano pensa ad un rapporto del Pci con la Chiesa Cattolica, senza mediazione di partiti cristiani. E condanna con forza il pensiero di Dossetti: “Il tanto conclamato sinistrismo dei dossettiani non deve dunque trarre in inganno. Esso era, alla fin dei conti, un ammodernata forma integralista e ad altro non ha servito, né poteva servire che a misconoscere nella maniera più comprensiva, e a cercare di farci obliterare il reale significato storico e possibili contributi innovatori dei più grandi e decisivi partiti italiani”. (E da qui parte un ampio riconoscimento dei meriti della DC, di Luigi Sturzo e di De Gasperi).

Mentre invece la posizione di De Gasperi appare a Rodano “come quella più capace di collocarsi – entro i limiti per essa possibili – nella dimensione laica della società civile. In effetti accettando la democrazia liberale come forma suprema della dimensione politica (…) Sturzo e De Gasperi avevano appunto saputo ricondurre pienamente i cattolici nella continuità dello sviluppo concreto del loro Paese ed insomma nella storia reale”.

Beppe Chiarante nel suo libro ricorda il percorso dei giovani democratici cristiani ed il loro avvicinamento a De Gasperi che avvenne, non sotto l’influenza di Rodano, ma proprio per una indicazione di Dossetti. Non fu Rodano ad influenzare la linea di “Per l’Azione”,ma Balbo come, sia Beppe Chiarante sia Augusto Del Noce, ricordano.

9. Il cronotopo

In tutte queste valutazioni c’era una caratteristica comune: l’idea che l’Italia fosse il laboratorio mondiale da cui potesse uscire la soluzione del grande problema della crisi. Non si capiscono queste posizioni se non si ricorda la cultura della crisi, nata fra le due guerre, ma che emerge in Italia nella Resistenza e nel dopoguerra.

Felice Balbo chiamerà questa occasione “il cronotopo”, il luogo ed il tempo adatto e preciso per far trovare la soluzione della crisi.

In tutti era presente la particolarità dell’Italia per la presenza in Italia del più forte Partito Comunista dell’Occidente, e della sede della Chiesa cattolica, punto di riferimento essenziale dell’occidente.  Augusto Del Noce, che ha dedicato a Rodano un libro di 400 pagine, con il titolo “Il cattolico comunista”, parla di “giobertismo rodaniano”.

10. Lucio Magri

Il ricordo di questo ciclone di pensiero che ho chiamato crocevia, ci illumina sul particolare cammino percorso da Lucio Magri. A lui ben si addice il motto e la motivazione dei comunisti cattolici: “Comunisti perché cattolici”. E fu comunista al punto, non di dimenticare il cattolico, ma di renderlo politicamente superfluo. Un particolare curioso: applicò in forma così estrema il suo essere comunista perché cattolico, che per un certo periodo fu comunista clandestino con la etichetta di cattolico e non per una tattica maliziosa, ma per una interpretazione integralista, come lui era, di essere comunista.

Effettivamente non era più cattolico perché la sua formazione democratica-cristiana proveniva più dall’ambiente sociale che non dalla militanza nelle associazioni cattoliche. Quindi non si poneva i problemi dell’inveramento del comunismo, alla maniera di Dossetti e di Rodano. Arrivava al comunismo come una scelta definitiva e non problematica. Anche se io, su questo, ho dei dubbi.

Quando, parlando con ammirazione di Berlinguer dice: “Le masse lo accoglievano come una madonna pellegrina”, Lucio usa una espressione profondamente cattolica. Detta da un laico quella frase sarebbe solo malevola.

Lucio attraversò quel crocevia avendo contatti con tutti. Lucio entrò nell’esecutivo di Malfatti, mentre Beppe divenne consigliere nazionale del partito. Collaborarono più tardi con riviste che erano espressione lombarda della sinistra di base (“Il Ribelle” ed “Il Conformista”). È vero che lui e Beppe non si intesero con Felice Balbo, che sentirono più vicinanza con Franco Rodano, da cui poi si distaccarono. Ma, soprattutto per Lucio, “l’inveramento del comunismo” sfociava in una soluzione tanto personale quanto logica: diventare comunista.

Non si poneva il problema di risolvere il materialismo dialettico con San Tommaso, ma solo quello di esperimentare la militanza del partito, lo strumento perfetto ed indefettibile. Adopero “indefettibile” nel suo significato cattolico: completo e perfetto per i suoi fini.

Questo percorso è importante a spiegarsi perché ci illumina sul suo integralismo, sulla ricerca continua ed assoluta della forma partito, della sua azione liberatrice, della sua sacra moralità.

Ma la ricerca rivoluzionaria, l’amore del progetto liberatore era sempre di marca cattolica. Non voglio dire che in lui non ci fosse la sete di giustizia che è la forza intima della militanza comunista: c’era, ma era preponderante l’intelligenza e la ricerca di perfezione del disegno rivoluzionario, come un alchimista che cerchi instancabilmente l’oro, cercava la formula superba e lucida di quando, a Lenin, cadde addosso il mondo, per un felice concatenarsi delle contraddizioni del sistema, quelle contraddizioni che Lucio  instancabilmente studiava.

Cercava quella combinazione di elementi che scatenasse di nuovo l’incendio, non in un solo Paese, non nel punto più basso, ma qui e ora.

Lucio Magri, finalmente accettato nel Pci, scopre la difficoltà di tradurre le sue convinzioni nella politica quotidiana di un grande partito alle prese con i problemi della sua corposità. In realtà è le sua stessa intelligenza che lo mette in difficoltà. Non era semplice che personaggi storici che avevano fatto la prigione, accettassero lezioni di leninismo da un giovane che proveniva dal movimento giovanile DC.

La difficoltà che poi si incontrò era che il più forte partito comunista dell’occidente non era nelle condizioni di essere generativo in occidente per il suo rigido legame con l’Unione Sovietica. Come risolvevamo allora questo problema? (Io stesso mi ricordo che in un convegno di studio delle Acli a Vallembrosa, nel 1956, sostenni che in realtà esistevano due partiti comunisti. Uno indisponibile nella politica estera, ed uno invece disponibile per la crescita democratica italiana, perché promotore di una emancipazione democratica nazionale).

Anche Rodano si pone questo problema, della vera natura del partito comunista, che si risolverebbe solamente, come lui dice, “in un non dogmatico rapporto con il leninismo”. Del resto così era in Gramsci sostenitore della linea leninista al congresso a Lione contro Bordiga, ma “italianamente”, secondo Rodano, “aperta ai consigli di fabbrica, a Gobetti ed in maniera particolarmente profetica alla comprensione del popolarismo”. Lucio, fatto il suo noviziato di cattolico comunista, entra decisamente nel dibattito sulla natura del partito.

E questa linea seguirà con la tenacia e con la intransigenza che caratterizzano tutta la sua vita.

11. Gli anni ‘60

Nel 1962, Lucio Magri scrive un saggio per la rivista “Les Temps Modernes”, diretta da Jean Paul Sartre, in cui cerca di inquadrare nello schema marxista-leninista classico le nuove forme del capitalismo, in un Paese che attraversava un periodo di grande espansione economica, che veniva superficialmente chiamato da altri neo-capitalismo. Ma non è un saggio scolastico e ripetitivo. Già ci sono in lui le domande significative che lo porteranno ad essere un uomo scomodo per qualsiasi partito. Scrive: “Cosa significa una società di uomini liberi? Cosa significa concretamente l’eliminazione del lavoro alienato ed il passaggio dalla preistoria alla storia dell’uomo? Come si può concepire l’economia in una società che non sia governata dallo sfruttamento e dalla scambio? Che cosa significa deterioramento dello Stato e società regolata dagli individui? In quale senso si può concepire la storicità della società comunista e delle sue istituzioni? Queste domande condizionano ormai in maniera molto stretta la strategia e la tattica del Movimento Operaio in Occidente”.

Questi interrogativi sviluppati in uno studio lungo e particolareggiato mettono in discussione la solida semplicità ideologica su cui si fonda la strategia e la tattica del Pci.

Lucio non si pone dalla parte dei revisionisti, anzi riconferma in pieno “la sola linea di pensiero e la sola esperienza non possono essere che quelle del marxismo ortodosso e dell’internazionalismo leninista”. Aggiungendo subito che era sbagliato considerare il destino della rivoluzione mondiale legato unicamente alla dinamica dei paesi socialisti.

E poi ancora: “Senza l’apporto del proletariato europeo i problemi potrebbero essere  difficilmente risolti”.

12. Il centro-sinistra

Luciana Castellina descrive le difficoltà di Lucio, quando era direttore di “Per l’Azione”, con il segretario politico DC Fanfani. Questo le fa dare un giudizio di eccessiva esemplificazione sul neocapitalismo di Fanfani. In realtà Fanfani si batte, con molte opposizioni, per una politica di centro-sinistra all’interno e “terzomondista” all’estero, comunque la si voglia giudicare. È il momento in cui la sinistra democratica si batte per il centro-sinistra a cui si oppone fortemente il Partito Comunista.

Il Partito Comunista dette un giudizio molto duro nei confronti del centro-sinistra e nei confronti del partito socialista e della sua alleanza di governo con i democratici cristiani. Rodano si differenzia dalla linea di Togliatti con un giudizio sul centro sinistra. Ma il suo obiettivo finale è sempre l’accordo fra Pci e cattolici.

Ed anche nella elaborazione di Lucio Magri notiamo questa differenza che io ritengo molto significativa.

L’apprezzamento di Rodano per il centro sinistra non è disgiunto però dalla condanna definitiva ed incomprensibile della socialdemocrazia.

Sentiamo questa tensione nella parole scritte da Lucio dopo il 1968: “Abbiamo sostenuto con forza i consigli di zona e le 150 ore dedicate alla formazione presenti nel contratto dei metalmeccanici, siamo stati un punto di riferimento nei consigli di fabbrica, nella critica della organizzazione del lavoro ed abbiamo portato avanti nelle scuole e nelle Università la critica ed i ruoli professionali tradizionali ed alla divisione sociale del lavoro. Questo nostro importante impegno si scontrava però con l’insieme delle politiche della sinistra vecchia e nuova. L’idea che con tutti gli altri della nuova sinistra si potesse fare il partito rivoluzionario si è rapidamente rivelata una ipotesi velleitaria. Ed il PCI intanto avviava la politica del “compromesso storico”, rendendo ancora più difficile la ripresa di un dialogo”.

In quel momento i suoi vecchi amici restati nella DC si battevano per il centro sinistra come elemento evolutivo di una società che era già cambiata con la riorganizzazione dell’economia, con la rifondazione delle industrie, con la fine dell’agricoltura, con le grandi migrazioni interne ed esterne e chiedevano una nuova e più vera democrazia.

Ci sembrava che il problema centrale per l’Italia divenuta quinta potenza mondiale con il sacrificio di milioni di profughi meritasse una nuova democrazia. Perdemmo quella battaglia e tuttavia non ci sembrano estranee queste analisi in cui non c’è traccia della nuova situazione e del blocco storico politico che le aveva causate. Eravamo iscritti fra i

nemici e lavoravamo per le stesse passioni in due pianeti diversi, al punto che certe raffinate considerazioni ci appaiono irreali come tele di ragno. Perché non ci parlavamo? (Ci parlavamo tutti i giorni ma non di questo).

Eppure la storia del tentativo di aprire il sistema dei partiti a quella febbre intensa ed inconsistente che colpì l’Italia dell’Oscar della moneta. Lo stesso rifiuto di cui si lamenta Lucio si manifestò anche nella DC, dove il tentativo di adeguare il partito ad una società più viva ed aperta fu soffocato ed estinto.

Sarebbe troppo lungo parlare qui di questo ma gli argomenti della conservazione del “grande monumento”del sistema  furono gli stessi di quelli del PCI. E l’obiettivo indicato per sfuggire al rinnovamento era lo stesso “compromesso storico”.

13. Gli anni ‘70

Nel 1969, ai tempi dei fatti di Praga e dell’insorgere del movimento studentesco, Lucio Magri è parte importante del gruppo che fonda il Manifesto e che viene espulso dal Partito Comunista. Incomincia una lunga marcia dedicata al tentativo di trasformare il tumultuoso torrente della rivolta italiana in partito politico.

Nel 1970, in un saggio dall’impegnativo titolo “Problemi e la teoria marxista del partito rivoluzionario”, scrive: “Il partito diventa inevitabilmente un apparato autoritario e burocratico se coesiste una massa disorganizzata. (…) Fra il partito e le masse deve esserci un terzo momento che media il rapporto che corre fra loro: istituzioni politiche autonome ed unitarie della classe operaia. Tali istituzioni devono emergere direttamente dalla società (fabbriche, uffici e scuole)”. È il tentativo più alto di ricondurre il disordinato movimento sociale da cui scaturiranno le Brigate Rosse, alla forma storica ideale di partito della teoria marxista. Era una linea che avrebbe impedito al movimento di diventare collaterali con le BR ed avrebbe impedito al partito di annegare nella social democrazia europea.

Nel tragico 1977 Lucio Magri tiene una relazione al seminario del PDUP a Bellaria, dal titolo: “Le ragioni di una sconfitta”.

Lucio Magri liquida l’esperienza movimentista e pensa al PDUP come “una forza organizzata minoritaria (che) intende agire insieme ad altre forze che critica e combatte ma alle quali si sente organicamente unita”.

È ancora la speranza di poter influire su un Partito Comunista che in quel momento, dopo l’uccisione di Moro, dà il suo appoggio indiretto al Governo Andreotti.

Eppure trovo nell’analisi di Lucio Magri, insieme all’indifferenza di quello che avveniva nel grande partito che governava l’Italia, un’attenzione non casuale ad un fatto che sembra secondario ma che io considero molto significativo: la crisi del collateralismo.

Le Acli, che erano gran parte della DC, che nella loro carta costitutiva mettevano al primo punto la “fedeltà alla classe lavoratrice”, si distaccarono dalla DC. Non fu, come si suol dire, una crisi del collateralismo, fu principalmente l’inizio della crisi esistenziale di un partito popolare, di un partito che non riusciva più a contenere i movimenti della società da cui era nato.

Lucio in quel periodo si occupa con attenzione della scelta di Livio Labor, che fu impropriamente chiamata la “scelta socialista”. Infatti non era la trasmigrazione in un altro partito, ma piuttosto il disegno di rifondare la sinistra democratica a partire dalle nuove condizioni del Paese. Il tentativo di Labor era immaturo: il Partito Comunista e persino il Partito Socialista non erano in grado di pensare ad un partito unitario della sinistra democratica attraverso la mediazione dei cattolici. Il Partito Comunista era fermo nella sua identità che presupponeva un’egemonia, considerava i socialdemocratici quasi socialfascisti, e lo stesso Partito Socialista si avviava verso una linea di guerra dura al Partito Comunista.

Eppure l’idea di un nuovo partito della sinistra democratica che superasse le divisioni fra comunisti, socialisti e cristiano-sociali non era assurda.

Fu proprio il disegno del “compromesso storico” ad uccidere quella idea nella culla.

Sulla sponda DC, Moro in quel periodo liquida Forlani, spinge la rottura del centro-sinistra, ritira l’adesione di Donat-Cattin al progetto di Labor. Anche Labor fu espulso, seppure alla maniera democristiana. I due grandi partiti si appoggiarono reciprocamente nel fugare il pericolo di cambiare. Se guardiamo bene da questo speculare rifiuto di guardare alla realtà, non nacque forse la partitocrazia? Ed il percorso di questo regime ingessato non ricorda la lunga decadenza sovietica? Ed i due regimi, il sovietico in Russia ed il partitocratico in Italia, non caddero nello stesso anno? La pagina in cui Lucio narra l’XI Congresso e la sua sconfitta elettorale del 72, non c’è straniera. E la sua attenzione alla cosiddetta crisi del collateralismo ci rivela che neppure a lui era straniero lo speculare tentativo di rinnovamento della DC.

14. Caso Moro

Qui finisce il lungo avventuroso viaggio di Lucio Magri alla ricerca di una possibile unità della sinistra. Egli compie con i suoi amici l’unico vero tentativo di dare forma politica, partendo dal tumulto dei movimenti, ad un vero partito alla sinistra del Pci, ma non contro il Pci. Ed in parte ci riesce. Ma è come un viaggio sulla banchisa ghiacciata, con i banchi di giaccio che si scontrano, si allontanano e si disperdono. Scrive: “Il regime di DC-PCI non c’era, ma la rabbia e la delusione c’erano”.

 Il lungo periodo della ricerca finisce con la morte di Moro. (Senza soffermarmi troppo devo qui accennare, solo per memoria, che quando andai a chiedere a Zaccagnini la riunione del Consiglio Nazionale, con altri quattro consiglieri  favorevoli alla trattativa per salvare Moro, trovai l’anticamera presidiata da un sospettoso Tatò, sostenitore della fermezza).

Alla fine dello sconsolato racconto del fallimento della onda lunga del ’68, Lucio ritrova una sua valutazione conclusiva che prevede la prossima catastrofe in un episodio particolare che io trovo fortemente esplicativo e profetico. Lucio ricorda una intuizione di Togliatti, di un Togliatti che sembra avere ancora una simpatia dossettiana. È la considerazione del 1965 di Togliatti sulla natura della Chiesa cattolica (che era sulla stessa lunghezza d’onda del giudizio di Gramsci sul Partito Popolare).

Quella convinzione sparì nelle vicende della guerra fredda fra DC e PCI degli ani ’50 per riemergere come un lampo solitario nel famoso discorso di Bergamo che fu occasionato da una iniziativa del buon Eliseo Milani.

Ed è significativo che a commento del fallimento della sinistra movimentista e del tentativo di unità nazionale, provocato dalla morte di Moro, Lucio, che aveva di persona vissuto il dramma della ricerca di una proposta politica unificante ritorna a quel discorso di Togliatti: “Berlinguer era stato molto influenzato dall’equivoco rodaniano che teneva insieme in un tuttuno DC e mondo cattolico. C’è proprio il capovolgimento della cosa più innovativa prodotta da Togliatti con il discorso di Bergamo sui cattolici. Ai tempi di Gramsci la questione cattolica era la questione contadina. Dopo la guerra la questione cattolica è diventata la questione democratica. Dopo il 1960, Togliatti fa un vero e proprio salto. A Bergamo Togliatti dice che la fede religiosa, seriamente intesa, avrebbe messo in discussione, l’equazione: libertà uguale individualismo. E che i cattolici avrebbero potuto essere parte importante del cambiamento radicale della società. Togliatti si avvede che nella problematica religiosa vi sono questioni fondamentali che possono entrare in relazione positiva con il socialismo. Supera l’identificazione fra questione cattolica e DC”.  Lucio annota e sottolinea nel discorso di Togliatti la condanna della “equazione libertà uguale individualismo”, che ricorda un concetto fondamentale di Felice Balbo: “Questi problemi (…) si determinano per la scomparsa fallimentare del modello umano (…) del sistema storico sociale individualistico: questo modello umano può definirsi nei termini de“l’autosufficienza dell’individuo” e va dalla Grecia a Marx”. Ed annota sempre Balbo: “E’ individualistico contro le apparenze anche il sistema comunista per la sua originaria ed ineliminabile ispirazione anarchica”.

Lucio emerge da un’esperienza in cui l’esasperato individualismo portato fino all’anarchismo era riuscito a buttare via acqua sporca, acqua pulita e bambino. E ritorna con la memoria al giorno felice in cui Eliseo Milani riuscì a portare a Bergamo un Togliatti inspirato che, già intimamente scosso dal problema sovietico, ritornava al suo momento “dossettiano” della Costituente. E trova quella condanna della “equazione libertà uguale individualismo”, che ancora oggi potrebbe essere un punto di incontro generativo fra le aspirazioni della sinistra e dei cattolici.

15. Ritorno a casa

Da quel momento Lucio pensa solo a ritornare al suo Partito, al suo principe. In quel momento eravamo al nostro perielio. Io cercavo la strada per colpire la partitocrazia e Lucio non si rassegnava alla fine del Pci, strumento indefettibile per la costruzione di un mondo senza sfruttamento. Lucio  parla del Congresso di Firenze del 1986, il primo Congresso dopo il suo rientro. Ma non pensavo mai di trovare un suo giudizio molto importante sullo strumento che dà forma ai partiti, la legge elettorale: “Il problema che io ponevo era quello di affrontare i limiti del sistema elettorale proporzionale e guardavo con interesse al modello tedesco perchè già si avvertiva che il sistema proporzionale in quanto tale non avrebbe più retto. Era una questione delicata e sociale che si sarebbe dovuta affrontare per tempo”.

E per me  è una sorpresa date alcune nostre dissensi proprio sulle leggi elettorali al tempo dei referendum.

Ci avviamo al 1989, al Congresso di Roma, che dà una delega in bianco ad Occhetto, il quale cambierà il nome al partito e metterà fine a quell’esperienza. Non c’è una mozione della sinistra e sembra non esserci una vera opposizione. Lucio annota che in quel congresso non parlò di politica ma parlò di economia.

Di fatto fece una fuga in avanti di dieci anni, perché parlò di debito pubblico, di imposta patrimoniale, di austerità necessaria. Lungimirante era arrivato ai temi della crisi che si stava per aprire.

In quella occasione Lucio si lamenta che il Partito Comunista non avesse mai proposto l’Europa come terza forza nel mondo. La pagina critica sull’assenza della politica estera degli anni ’80 e sulla mancata comprensione della funzione dell’Europa è disperante. Eppure è una pagina che va riletta, perché è ancora attualissima. In una situazione diversa, senza più PCI e URSS, il problema è rimasto identico.

16. Una attenzione particolare all’Europa

Vi era stato un precedente, già negli anni sessanta, quando pensare all’Europa ed una Europa addirittura sganciata dalla politica estera sovietica era ancor più difficile.

In quel periodo La Pira, come sindaco di Firenze, aveva preso delle iniziative come il Convegno per la Pace e la Civiltà Cristiana dal 1952 al ’56, l’incontro coi sindaci delle capitali di tutto il mondo nel 1955, ed i colloqui mediterranei nel 1958.

Secondo La Pira l’Italia doveva rappresentare una terza forza negli equilibri internazionali come elemento di polarizzazione e di guida. La politica energetica di Mattei andava in questa direzione. È interessante notare che nella collaborazione a “Prospettive” sia Magri che Chiarante si inserivano sulla linea dettata da una collaborazione molto interessante: quella di G. Rovan. Cito testualmente: “Un Europa neutrale ed armata, indipendente dai due blocchi ed in grado di giocare un ruolo pacifico, sarebbe possibile solo a condizione che l’America rinunciasse alla sua volontà di guida sui paesi occidentali e che l’Unione Sovietica abbandonasse contemporaneamente il suo controllo sulla Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria”.

Questo spiraglio veniva esplorato da Chiarante in un articolo su Prospettive del 1955: “E non è del resto evidente che per gli europei il solo modo di restar presenti in Asia ed in Africa è ormai quello di rigettare ogni velleità di sfruttamento colonialistico e di cercare invece di favorire l‘ascesa dei popoli coloniali, sia con un continuo apporto di civiltà, sia difendendone il libero sviluppo contro i pericoli dell’imperialismo sovietico e di quello americano?”.

Ed è, non senza sorpresa, ma con sincera ammirazione, che prendiamo nota della posizione di Lucio Magri, che scrive sempre in Prospettive del 1955: “Non è sufficiente creare una fascia di paesi neutrali che impedisca l’immediato e pericoloso contatto tra le posizioni militari di due blocchi . è invece necessario ed essenziale che si sviluppi una forza nuova, culturalmente e politicamente capace di risolvere i problemi che da anni si trascinano insoluti: una forza in altri termini non meccanicamente ma politicamente mediatrice”.

Ed in questa politica chiaramente ispirata alla posizione di La Pira, Lucio Magri vede importante la posizione della Chiesa cattolica che “si trova oggi nella necessità di non subordinarsi alla pressione americana e di riconquistare anche politicamente le basi della propria universalità”. L’Europa si farà soltanto quando avrà un riferimento politico, non solo nei confronti degli USA, ma anche nei confronti della Russia.

17. Una annotazione particolare all’inizio degli anni ‘90

(È il caso di fare un confronto con quello che stava succedendo a noi pur dovendoci essere una ragione per la quale eravamo schegge simili che seguivano traiettorie diverse. Nel 1963 quando Lucio Magri si impegna nella macchina del Partito Comunista noi ci battevamo per il centro-sinistra, la più grande novità politica di quel periodo che, il PCI combatteva duramente. Nel ’70, quando Lucio viene espulso ed inizia il suo tentativo di rendere “partito” il movimento sessantottino, noi iniziavamo una critica ai partiti ed alla partitocrazia, per una struttura politica più aperta alla società civile attraverso l’elezione democratica diretta dei sindaci e l’opposizione al compromesso storico, comune ad entrambi. Nel ’77 votando, con molte riserve, sia Pertini sia Andreotti, incominciavamo un lungo percorso che ci avrebbe portato a quella vittoria referendaria del 1991 che Lucio deplorerà amaramente).

Nel 1990 io e Mario Segni salimmo intimiditi le scale di Via Botteghe Oscure, per chiedere ad Occhetto di salvare il referendum favorevole al sistema maggioritario, impresa in cui avevamo puntato tutto. Ci ricevettero Occhetto, D’Alema e Veltroni. Noi non ci aspettavamo nulla ed Occhetto, coraggioso ed incosciente, ci dette tutto. (Ma alcuni mesi dopo Occhetto avrebbe consegnato – verbo che in latino si esprime con il verbo tradere – Segni a Scalfaro permettendogli di fare Presidente del Consiglio Ciampi e non Segni). Ma è interessante confrontare questo ricordo con il giudizio di Lucio: “La cosa ancor più grave è che il PCI non solo ha scelto di suicidarsi, ma ha, con Occhetto, deciso di sostenere il referendum promosso da Mario Segni  sul passaggio dal proporzionale al sistema maggioritario, un referendum che è stato il primo atto di una campagna contro i partiti e poi di rifiuto della politica. Silvio Berlusconi ha vinto proprio sull’onda di quella campagna referendaria, sull’esaltazione del nuovo e sulla parola d’ordine tutti i partiti sono eguali”.

Questo l’anatema di Lucio. A me resta soltanto il grido di dolore di Santoro: “Io che ho votato Bartolo Ciccardini!”.

18. L’ultima battaglia

Passeranno 27 anni di coraggiosi esperimenti per arrivare stanchi e disperati agli errori di Rifondazione Comunista. Pregano di scrivere il testo di una relazione che spiegasse le ragioni di coloro che non si rassegnavano alla liquidazione del Pci. E’ un testo di speranza che guarda al futuro. Ma di nuovo i gruppuscoli raggiungono l’unanimità solo nel respingere quel testo. Ed all’ultimo capitolo di questa storia quel Bertinotti che così accuratamente ha di nuovo espulso Lucio Magri finirà, guarda caso, col pugnalare il dossettiano Prodi. Una tragedia italiana.

Lucio fa ancora una rivista, scrive ancora un libro in cui riassume il senso della sua battaglia e prese congedo dalla politica. Dice Perry Anderson: “La causa immediata che lo aveva spinto a prendere quella decisione fu il miope tatticismo delle svariate componenti della sinistra italiana”. Ma in realtà secondo Anderson la ragione è un’altra: “L’intransigente coerenza rispetto al proposito che aveva dettato la sua adesione al comunismo”. Ed io, di persona, so quanto fosse serio e profondo in lui quell’impegno.

Fu l’unico comunista in Italia a sostenere fino alla fine la filosofia dell’unità fra teoria e pratica che era stata la pietra angolare del materialismo storico, ormai scomparso dagli annali del marxismo occidentale. Quella pietra miliare che i cattolici comunisti avevano considerato essere la condizione per “l’inveramento del comunismo”. Magri non aveva mai dimenticato quella accettazione del materialismo storico, appresa nel crocevia del 1952 per la quale aveva scritto il suo primo articolo su “Per l’Azione” intitolato: “I limiti del riformismo”. E che, dice Luciana Castellina: “E’ più o meno lo stesso di un saggio scritto vent’anni dopo sul Manifesto”.

19. Preghiera

Quando Lucio morì scrissi di lui un ricordo personale della prima giovinezza che qui non voglio rileggere.

Ma voglio ripetere la citazione di Thomas Mann che la sua dipartita mi aveva suggerito. Il protagonista del Doctor Faustus, in cui Mann si rappresenta perde il suo più straordinario amico, nei giorni in cui la sua patria, la Germania, sprofonda nell’abisso “coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro”. E noi, in un momento tragico della nostra Patria, parlando di un amico che ha dedicato tutta la vita al disperato progetto di salvarla dal suo destino, rileggiamo quel saluto di Thomas Mann: “Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari ad un miracolo superiore ad ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani ed invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!”.

Bartolo Ciccardini

[1] Contrariamente a quanto si dice o si scrive fui io a chiedere a Malfatti di portare in esecutivo Chiarante e  Magri, ad affidare “Lo studente d’Italia” a Paolo Valmarana e Corrado Guerzoni, a portare dal mio gruppo perugino a Roma Gianni Fogu ed Ugo Baduel. In quell’anno il Movimento Giovanile DC portò a termine due importanti iniziative: gli incontri della Gioventù (un concorso per i migliori lavori in diverse materie) ed il Congresso della Stampa Studentesca.

[2] Dossetti aveva sostenuto un rinnovamento totale dello Stato rovesciando l’antica diffidenza cattolica per lo Stato. Si rendeva conto del fallimento ed indicava la strada di una intesa con De Gasperi. Beppe Chiarante ne trova una traccia espressamente citata su “Per l’Azione”: il noto articolo “De Gasperi e lo Stato Democratico” e l’ancor più noto titolo   “Conservare lo Stato per la rivoluzione”.

[3] Il documento più significativo della sinistra cattolica è l’opuscolo “Il Comunismo ed i cattolici” composto nell’inverno 1943-1944. Fu pensato da Rodano e da Balbo, discusso con Ossicini e Tatò e redatto da Fedele D’Amico. Aveva nel risvolto un brano di “L’imitazione di Cristo”.

ARISTIDE, FRANCESCO, PAOLO MERLONI: Una grande storia italiana, una grande famiglia d’imprenditori

articolo di Maurizio Eufemi  tratto dal giornale online “beemagazine” del 19 Dicembre 2022 relativo al libro di Giorgio Mangani "Francesco Merloni, il secolo dello sviluppo. Internazionalizzazione e coscienza territoriale"


Fra i regali più graditi di queste festività c’è stato un bel libro scritto da Giorgio Mangani, che ho letto con grande piacere e interesse. È su Francesco Merloni, ingegnere, imprenditore, politico, protagonista del secolo dello sviluppo, ma è una storia che parte  da Aristide Merloni, il padre.

 

È un libro ricco di ricordi e di aneddoti su un passaggio generazionale. Entrambi esponenti della Dc con cariche elettive sia locali, sia nazionali, al Senato e alla Camera per numerose legislature, con un passaggio di testimone nel 1970 dopo il decesso di Aristide.

È una storia che sembra un romanzo di avventura, tanti sono gli episodi e i personaggi su cui verrebbe voglia di soffermarsi. È un secolo che vede la nascita e l’affermazione del movimento cattolico, poi la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, la grande crisi finanziaria del 1929,  la seconda guerra mondiale,la Resistenza,  la ricostruzione degasperiana, il miracolo economico, la crisi economica e sociale, la internazionalizzazione nella globalizzazione, la quarta fase del capitalismo.

È una storia, imprenditoriale e industriale; è una storia politica; è una storia di una famiglia con un forte legame con il territorio di Fabriano e le Marche, che rappresenteranno un sentiero di sviluppo sociologico originale, con il modello marchigiano e  la via Adriatica, i metalmezzadri, di cui si faranno interpreti studiosi ed intellettuali, come Corrado Barberis e Giuseppe De Rita.

È una storia di valori familiari, politici, economici e sociali con radici profonde nella comunità.  Poi con la fase della crisi del miracolo economico si determina la svolta nella quarta fase della ricerca tecnologica applicata nella società della conoscenza. In questa storia entrano di prepotenza alcuni personaggi che con Aristide prima e Francesco Merloni poi, sapranno dare il meglio nelle opzioni di scelte che saranno decisive nella affermazione e nella crescita delle azienda di famiglia fino a diventare da multinazionale tascabile una holding internazionale.

Mi riferisco a Enrico Mattei, prima, poi con i Dc della prima generazione, da Fernando Tambroni, Umberto Delle Fave, a De Cocci, poi al rapporto di amicizia con Nino Andreatta, a Romano Prodi, Franco Grassini, Mario Baldassarri e a tanti altri. Poi si avviano rapporti di intensa collaborazione culturale e politica con l’agenzia Arel e Oikos, oltre che con la casa editrice il Mulino. Francesco Merloni amava e ama circondarsi di competenze alte che lo portavano a scegliere il meglio delle professionalità culturali e manageriali per affidare loro responsabilità di innovare e crescere.


Aristide Merloni è un politico che fa l’imprenditore, avviando una azienda nel 1930 a Albacina che negli anni sessanta diventerà una tra le prime trecento italiane. Il suo progetto imprenditoriale è la concretizzazione della dottrina sociale ed economica della Chiesa, teorizzata dal sociologo cattolico  Giuseppe Toniolo, ma con radici profonde nel movimento cattolico di Romolo Murri, nei principi della Rerum Novarum, per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e nelle idee del popolarismo sturziano. Lo fa fin alle origini, in continuità, da esponente “popolare” prima e da democristiano poi.

L’avventura industriale di Aristide inizia dopo la prima guerra mondiale, quando  i suoi studi all’istituto Montani di Fermo, dove si formeranno altri pionieri della industria marchigiana, come Cecchetti di  Civitanova, Benelli di Pesaro, Nardi di Ascoli, Clementoni di Potenza Picena, lo porteranno a dirigere a Pinerolo la ditta Buroni, fabbrica di basculle, stadere e strumenti per pesare. Poi la Buroni acquisirá la Opessi. Li stringerà un forte rapporto politico con un giovane popolare figlio di un panettiere, accentratore, stacanovista e ambizioso, Lorenzo Guglielmone che diventerà sindaco, senatore e fondatore della banca Balbis Guglielmone.

A Pinerolo frequenta Attilio Piccioni che poi sarà segretario nazionale della Dc e vicinissimo a De Gasperi. Poi decide di tornare ad Albacina e di creare con dodicimila lire di risparmi, una propria attività avviando una impresa di bascule interamente in ferro e di grande precisione. Sviluppa accordi commerciali tra Pinerolo e Albacina come formula di produzione e contoterzismo. Nel 1938 raggiunge un fatturato di cinquecentomila lire!

La sua idea era di fermare la emigrazione e portare il lavoro a casa dei lavoratori creando migliori condizioni di vita, superando il sottosviluppo.

Si univano ambizioni imprenditoriali  e un progetto politico e sociale. Il parroco del paese, don Giuseppe Rinaldi detto Titta, osteggiato dal fascismo, intraprendente, coraggioso e sostenitore del progetto svolse la funzione di merchant bank coinvolgendo e garantendo i risparmi dei contadini più agiati.

Con la prima fabbrica di Albacina si affermerà un modello di stabilimenti monoprodotto, moderni, con un limite di occupati, diffusi sulle colline, dove prevaleva un atteggiamento rurale con  piccola proprietà contadina come fattore di stabilità economica e sociale, in contrapposizione all’urbanesimo alienante che portava alla concentrazione delle masse operaie sindacalizzate nel centri industriali del nord italia. Erano valori centrali del movimento dei popolari marchigiani insieme alla vocazione autonomistica e regionalistica emarginate dallo Stato liberale. Non a caso il PPI nel 1919 ottiene il 27,4 dei voti nelle circoscrizioni marchigiane e il 29,9 contro una media nazionale del 20 per cento.

Poi viene la crisi con la seconda guerra mondiale. Mancavano le materie prime e la fabbrica va in rovina. Francesco è renitente alla leva e fu nascosto da don Pacifico Veschi nel campanile della Chiesa di Poggeto insieme ad altri ospiti scomodi ed armati tra cui Dalmato Seneghini dirigente della piccola repubblica partigiana. Poi sfuggì all’arresto ad Albacina mostrando i documenti del fratello Antonio.

Al suo posto fu imprigionata, per rappresaglia, la madre, che fu liberata solo a seguito del bombardamento di Fabriano dell’11 gennaio 1945.   Finita la guerra Francesco si laurea in ingegneria meccanica a Pisa, i fratelli Antonio  in scienze economiche e Vittorio in economia e commercio. Il padre Aristide si impegna nella azione Cattolica e poi nella Cassa di risparmio   che viene risanata con capacità e rigore.

Poi verranno i successi nelle produzioni di gabbie per allevamenti, su idea del fratello Vittorio, i primi mobili metallici da cucina, le lavastoviglie, il sistema di cucina componibile l’Unibloc Ariston, con la formula della casa.

Il legame con Enrico Mattei non era solo familiare e territoriale. Si concretizzò nel 1953, quando Aristide e Francesco suggeriscono l’idea di avviare in Fabriano la produzione di bombole di gas liquido. La frequentazione universitaria di Francesco a Pisa, con Luca Benini, figlio del proprietario della Pignone di Firenze, portó ad una idea industriale, alla diversificazione produttiva, sviluppando le competenze e le tecniche consolidate da “piegalamiere”.

La crisi della Pignone si riverberó sulla produzione di Fabriano.

Aristide punta prima sulla Liquigas guidata dal vecchio amico Tereso Guglielmone di Pinerolo e poi sulla Ultragas, appena nata, ma capace di ordinare trecentomila pezzi. Erano le condizioni per potere ripartire, portando energia nelle campagne, nei posti più sperduti, anche nei luoghi privi di distribuzione centralizzata. La produzione di bombole diventerà la banca di famiglia e terrá in piedi il conto economico dell’azienda.

Poi verrà il successo negli scaldabagni  nel principio della “diversificazione concentrata” con il passaggio dai beni strumentali ai beni durevoli.

Verranno il Presidente del Consiglio Aldo Moro nel 1968 e Forlani nel 1973, a inaugurare nuovi stabilimenti a Borgo Tufico e a Melano Marischio , poi seguiranno quelli di Vico Pisano, di Rieti e di Arcevia. L’apertura ai mercati esteri avvia la fase della internazionalizzazione con stabilimenti in Polonia, Russia, Ungheria, Jugoslavia, Cile, Portogallo, Arabia Saudita, Belgio.

 

Dopo una prima organizzazione aziendale nel 1959, i fratelli Merloni realizzano una forma che coniuga la organizzativa divisionale sul modello delle corporation americane, con le  esigenze dei fratelli che volevano affermarsi autonomamente con la loro propria personalità in settori produttivi diversi.

Poi Aristide Merloni muore nel 1970 in un tragico incidente automobilistico. Nel 1930 aveva iniziato in piena crisi finanziaria mondiale, prevedendo gli orientamenti del mercato, gli sviluppi della tecnologia, il coraggio di scommettere sul futuro, l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione.

La storia insegna che nel 2022 occorre affrontare la crisi geopolitica e dei conflitti nelle aree strategiche del globo che spingono all’accorciamento della catena del valore con strumenti nuovi, non con quelli del passato, e chi ci riesce guadagna il futuro. !

Francesco Merloni prende il testimone del padre con la elezioni politiche del 1972 prima senatore, poi deputato e Ministro dei governi Amato e Ciampi. Fu una scelta favorita dal suo amico Gerardo Bianco, capogruppo e membro della delegazione Dc. Durante la crisi degli anni Novanta realizzó la grande riforma degli appalti.

Ma ora metto da parte il libro e affondo nei ricordi con quello del primo incontro negli anni Settanta quando nella stagione di solidarietà nazionale si affrontavano le  questioni della ristrutturazione industriale, delle grande imprese in crisi, dell’Egam. Francesco Merloni partecipava attivamente alla elaborazione di testi legislativi che richiedevano molte correzioni.

La sua linea, con parole misurate ed essenziali, era sempre chiara e razionale: ridurre gli elementi di socialismo che erano stati introdotti nel sistema economico e  ritornare alla mission delle Partecipazioni Statali, quindi alla economicità di gestione, senza costosi e distorsivi oneri impropri.

Ne ebbi contezza quando a fine anni Settanta si pose il problema di trovare una soluzione legislativa per la storica azienda Cartiere Miliani di Fabriano in una fase di crisi. Non c’era solo un legame affettivo, avendo il nonno lavorato in quella azienda; non c’era solo un legame territoriale con la sua Fabriano; c’era un marchio e una storia da difendere. Non voleva che quella azienda così specializzata in produzioni di qualità, ad alto valore aggiunto, fino alle carte valori, fosse equiparata ad un cartonificio qualsiasi.!

Poi un lungo rapporto di amicizia anche attraverso Gerardo Bianco e tante occasioni di incontro su questioni politiche ed economiche, dagli incontri di Fiuggi con i giovani di Bartolo Ciccardini, alle iniziative dell’Arel con Nino Andreatta. Non mancava, quando i suoi impegni  potevano consentirlo – una volta perfino per una visita ortopedica al Rizzoli  – con la presentazione dei rapporti trimestrali di Prometeia, all’hotel Royal Carlton di Bologna, di immergersi nell’attualità dell’economia in una sintesi tra mondo accademico ed economia reale. Era il suo modo costante di ascoltare e capire.

Una giornata indimenticabile fu a Cerreto d’Esi in occasione della commemorazione di Bartolo Ciccardini nel teatro comunale Casanova, promossa dal centro studi Riganelli del Prof Aldo Crialesi con la lectio magistralis del Prof. Francesco Malgeri e tante testimonianze personali sulle vicende della loro gioventù nella Resistenza di una comunità tra Fabriano e Matelica.

In quell’incontro così ricco di significati, intervennero Adriano Ciaffi, Alessandro Forlani e  Cristina Olini per l’associazione Nazionale Partigiani Cristiani. Francesco Merloni volle ricordare gli anni della gioventù, della resistenza durante l’occupazione nazista, dell’impegno universitario, il legame con il territorio  e a tanti scritti su Cerreto.

È stata l’occasione per ricordare l’episodio di quando il ricercato, Enrico Mattei, futuro capo dei partigiani Alta Italia, si salvò da una squadra di fascisti alla ricerca di un carro di fieno che nascondeva armi nascosto proprio in casa Mattei. Fu una storia di vita vissuta.

Poi i tanti racconti dei viaggi in Vietnam dove aveva insediamenti produttivi, con delegazioni governative, dove portava la sua esperienza per affermare prodotti nei  nuovi mercati del sud est asiatico.

Dopo il sisma del Centroitalia del 2016 diede con la Fondazione Merloni nella sede delle banche popolari,  un contributo originale per la ripresa delle aree interne, con idee originali e innovative puntando su investimenti infrastrutturali con completamento ed integrazione del Quadrilatero con le reti viarie,  agricoltura di montagna in colture specializzate,  e un welfare tecnologico con servizi alla persona.

Poi partecipò con soddisfazione alla cerimonia commemorativa per i suoi novant’anni, con lo stesso spirito con cui fu premiato qualche anno prima Giorgio Tupini. Era come se la comunità marchigiana dopo tante battaglie politiche e tante vittorie si ritrovasse per guardare insieme l’orizzonte e trovare idee nuove per una fase di sviluppo del quarto capitalismo.

Poi il passaggio generazionale ha trasferito il testimone da Francesco al figlio Paolo, per una nuova fase

In conclusione: Francesco Merloni, classe 1925, 97 anni, una storia italiana, saggezza e tenacia con sguardo lungo con radici, valori, progetti, sfide e  successi!

 

Maurizio Eufemi

NICOLA SIGNORELLO, EX SINDACO DI ROMA E PIÙ VOLTE MINISTRO, HA ONORATO LA DEMOCRAZIA CRISTIANA.

“A me piace ricordare Nicola - scrive qui Persichetti - così come mi apparve fin dal primo momento: sorridente, gioviale, espansivo ed allegro, nonostante la ben nota riservatezza e la contenuta discrezione”.

Articolo di Emilio Persichetti comparso sul giornale online "ildomaniditalia.it" del 29 Dicembre 2022

Così proprio nel bel mezzo delle feste del Santo Natale ci ha lasciato il nostro Nicola Signorello. E con lui se ne va anche un pezzo della bellissima storia della Democrazia cristiana romana, che ci ha visto giovani ma precocemente maturi, convinti protagonisti di tante battaglie politiche alimentate da grandi ideali e profondi convincimenti. Ed è in fondo questa la vera eredità che ci lascia Nicola: una profonda coerenza a un ideale politico vissuto con passione e lealtà sin dall’esordio come giovanissimo Consigliere provinciale a Palazzo Valentini, di cui si ha traccia nel bel libro di memorie – A piccoli passi. Storie di un militante dal 1943 al 1988, Newton Compton editore – certamente specchio di sé e insieme testimonianza viva per le generazioni future di una vita spesa interamente e generosamente al servizio della comunità.

È questo ciò che conta nella vita di un uomo politico: il ricordo non di ciò che hai fatto, che alla fine svanisce, ma di ciò che sei stato. Conta, insomma, il ricordo che lasci di te. Allora, nel giorno dell’ultimo incontro con i suoi amici e i suoi cari, non va dimenticato il suo profondo senso religioso caratterizzante, in modo discreto, i lunghi anni di militanza politica. È evidente, poi, che spicca nella memoria il curriculum politico di Nicola, davvero ricco e snodatosi in molteplici e delicati incarichi tutti assolti con grande passione e con grande senso di responsabilità. Mi piace ricordarne i tre davvero significativi: Segretario di partito a più riprese, di Sindaco di Roma e Ministro in due diversi governi. Incarichi svolti brillantemente nella continuità di una esperienza politica e anche amministrativa, multiforme e ricchissima, quale fu appunto quella della Democrazia cristiana romana. Non posso non ricordare che dopo nove anni di guida capitolina della sinistra, riconquistato alla fine il Campidoglio nel 1983, Nicola Signorello riorientò le forze e tutte le energie culturali e politiche di Roma, e non solo, nella direzione di una progettualità urbanistica complessiva, accantonata perché non compresa nella sua sostanza dalle giunte di sinistra di allora (e oggi, nondimeno, vale la stessa trascuratezza).

Un’attenzione particolare allo sviluppo urbanistico della città che fu il tratto qualificante e proprio di quella classe dirigente democristiana che era giunta alla guida del partito alla fine degli anni cinquanta provenendo dalle sezioni e perciò da un lungo confronto con i bisogni del territorio e delle periferie cresciute troppo in fretta. Fu proprio quella classe dirigente popolare e sinceramente democratica a mettere in pista, dopo l’esaltante esperienza delle Olimpiadi del 1960, l’idea di un Nuovo Piano Regolatore centrato sul famoso “Asse Attrezzato” (poi SDO) nella parte orientale della città. E fu merito di Nicola, in quella breve stagione da Sindaco, l’aver tentato il rilancio della più organica e strategica operazione urbanistica che mai la città abbia conosciuto.

Più complessa ed articolata la sua esperienza di Ministro negli anni che la storia sicuramente rivaluterà, durante i quali il centro sinistra contribuì, e non poco, a strutturare una parte della Italia di oggi nella continuità con il centrismo degasperiano, ma anche nella discontinuità imposta dall’ingresso del partito socialista nell’area di governo. La riflessione storica ancora non è giunta a maturazione su quella stagione eccezionale e dunque rimane fatalmente in ombra l’intenso lavoro svolto da Nicola. Né potrebbe essere diversamente. Il giudizio storico non può appartenere alla generazione che è stata protagonista degli avvenimenti presi in esame, la quale invece ha il compito di dare fedele testimonianza dei fatti avvenuti lasciando alle generazioni future la valutazione più serena e distaccata. E chi è stato appunto testimone sa che Andreotti, sempre attento alle vicende della città, affidava volentieri alla paziente e riservata iniziativa di Nicola l’onere di sbrogliare, come si suol dire, qualche matassa particolarmente ingarbugliata.

Nel giorno dell’ultimo addio voglio però portare la mia piccola testimonianza su quello che invece è stato un fatto storico importante, e perciò da riscoprire e ben studiare: la Dc di Roma. Non parlerò, ancora per riguardo a Nicola, delle sue ben note doti di organizzatore e animatore di innumerevoli gruppi, né della sua capacità di comunicatore, dono innato e messo fedelmente al servizio del partito e degli ideali che lo animavano. Non a caso gli fu affidata la responsabilità della Spes, l’ufficio Studi e Propaganda – così Dossetti aveva voluto che si chiamasse – di Piazza del Gesù. Voglio invece ricordare Nicola così come l’ho conosciuto e visto da vicino la prima volta, lui neo eletto segretario del Comitato romano ed io giovanissimo dirigente del Movimento giovanile.

C’è fermento e un via vai frenetico quel lunedì sera, lì nella grande e spaziosa stanza del Segretario al secondo piano di piazza Nicosia. I seggi elettorali si sono chiusi come sempre alle due e finalmente cominciano ad arrivare i segretari sezionali e le staffette che portano i risultati elettorali quartiere a quartiere, sezione elettorale a sezione elettorale. Internet non esiste e la comunicazione istantanea neanche concepibile. Occorrerà aspettare molte ore per avere dati certi dal Ministero dell’Interno e dal seggio Centrale di via dei Cerchi dove pure ci sono i “nostri”. Ed invece noi abbiamo fretta. Dobbiamo arrivare per primi. Come sempre siamo riusciti a trovare un rappresentante di seggio per ogni sezione elettorale e dunque, per fortuna, ora siamo in grado di avere i dati per ogni sezione sin da quando il seggio ha terminato lo scrutinio.

Occorre prendere una decisione difficile: esporre la bandiera della Dc al balcone che dà sul lungotevere in segno di vittoria o no. È una decisone importante perché se sbagliassimo inevitabilmente ed implacabilmente verremmo svillaneggiati il giorno dopo dall’Unità: si dichiarano vincitori ed invece non lo sono. Attorno al grande tavolo alcuni stanno seduti a corona di fronte al segretario e altri stanno in piedi. La discussione è accesa. Cominciamo ad elaborare proiezioni, a fare i conti, a vedere i rapporti con i risultati delle elezioni precedenti. Fumo, battutacce per i segretari dove la Dc è in calo e lodi per quelli dove siamo cresciuti: il clima è febbrile e la tensione si taglia a fette. Alla fine sarà lui, il nostro Nicola, a tirare le righe ed ad assumere la decisione: sì la bandiera si espone, la vittoria è nostra. Sospiro di sollievo, volti sorridenti e allegria nei cuori.

Ecco, in un giorno di dolore, mentre il sacerdote impartisce la benedizione e chiama gli Angeli e i Santi ad accompagnare in cielo quell’anima, a me piace ricordare Nicola così come mi apparve fin dal primo momento: sorridente, gioviale, espansivo ed allegro, nonostante la ben nota riservatezza e la contenuta discrezione. E lo ricordo volentieri così ricordando anche quella che fu la Dc romana, non perché sia un barboso “laudator temporis acti”, ma perché quel modello di partito va oggi ripreso ristudiato e riproposto. Per difendere le libertà civili e la stessa democrazia, è essenziale tornare infatti al modello di partito popolare e saldamente ancorato al territorio dopo che la disintermediazione digitale imposta da movimenti come i ‘5 Stelle’ ha reso i partiti liquidi, devitalizzati e legati al carro del capo con più ‘like’ e con meno idee.

GERARDO BIANCO: Ricordo di Gargani

 

Lo scorso anno quando abbiamo consegnato la medaglia al presidente Bianco chiesi a Falomi di volere dare un saluto a Gerardo.

Volevo dopo tanti anni di vita in comune e di collaborazione politica, dirgli in pubblico che lo ringraziavo per quello che aveva fatto per me, perché era stato il mio maestro e il mio riferimento.

Siamo nati in Alta Irpinia in paesi distanti pochi chilometri e abbiamo riferimento di parentela per cui, se pure nella differenza di pochi anni di età, abbiamo giocato insieme.

Gerardo sin dalle scuole medie era un riferimento per tutti, per il paese, per i compagni di scuola.

Negli anni universitari le discussioni tra noi erano culturali e politiche e per questo e anche per l’amicizia con De Mita diventai socio onorario di quella grande scuola dell’Università cattolica che condivideva appunto con De Mita e Misasi.

Gerardo, insomma, ha coltivato la mia passione politica e mi ha aiutato a inserirmi in quella rigorosa scuola politica che faceva capo alla DC.

Ci siamo impegnati a creare una classe dirigente che in Campania e in Irpinia aveva forte tradizione da Francesco De Sanctis in poi e che si è imposta all’attenzione nazionale. Ma Bianco a differenza di tutti noi non rinunziava ai suoi studi storici e letterari e all’inizio dell’estate di ogni anno ci salutava e andava in Germania per tre mesi ad approfondire le sue ricerche.

Siamo una generazione, noi tutti ex deputati, con un po’ di anni ed esperienza sulle spalle, che ha considerato la politica come emanazione della cultura, con un riferimento ideologico che sempre dovrebbe ispirare le azioni della politica, ma Gerardo Bianco dava prevalenza alla cultura e alle sue ricerche storiche e latiniste. Una prova di questa particolarità è che Gerardo è stato in Italia il più grande interprete e conoscitore di Francesco De Sanctis; questo non gli è stato riconosciuto per rivalità accademiche che alcune volte ha confessato a me.

Egli riteneva De Sanctis un campione dell’umanità per aver inventato la letteratura, come lui diceva, e questo era la linfa vitale per il conseguente impegno politico.

La generazione intorno a De Sanctis aveva costruito l’unità d’Italia e posto sin da allora il problema del mezzogiorno.

Il meridionalismo è stata la ragione dell’impegno politico di Bianco. In Parlamento nelle sue diverse responsabilità ha portato con il prestigio e la forza morale che aveva, il problema del riscatto del mezzogiorno per completare l’unità del nostro Paese, e poi, dopo la costruzione europea, per avere un’Europa unita con il sud d’Italia. Bisognava e bisogna evitare che vi sia una differenza tra il Nord Europa e il Sud dell’Italia.
Tutto il suo impegno politico lo ha profuso nel difendere il Parlamento.da capo gruppo della DC ha difeso le ragioni del partito ma la sua particolare convinzione era che il gruppo parlamentare dovesse dialetticamente contribuire a rafforzare insieme agli altri gruppi la democrazia nel Parlamento.
Credeva nella militanza nel partito e l’ha praticata, ma credeva ancor più, per le responsabilità istituzioni che ha avuto, nel ruolo dei gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione che insieme superano le parzialità dei partiti.
Rileggete i discorsi fatti in Parlamento e avrete questa precisa valutazione. siamo stati insieme nel partito e nel Parlamento per molte legislature e abbiamo avuto contese dialettiche, potrei dire anche ideologiche, ma che hanno rafforzato l’amicizia e la stima. Bianco da presidente dell’Associazione ha continuato a difendere il Parlamento e mi diceva che aveva accettato quel ruolo proprio per questo,
per difendere le istituzioni.
Questo il significato che dava alla difesa dei nostri diritti istituzionali e le polemiche sostenute per convincere che l’autonomia del parlamentare è la condizione della Repubblica parlamentare e il presupposto per una rappresentanza adeguata dei cittadini, rispondevano a quelle motivazioni.
Nell’ultimo periodo è stato ostinato nel contestare il presidenzialismo, cioè il cambiamento della Costituzione e l’ autonomia “sfrenata” (è sua la parola) delle Regioni con il carico di poteri abnormi che non possano coesistere con l’unità del Paese.
Nelle ultime settimane è stato costretto a casa ma mi aveva garantito che sarebbe stato presente oggi per registrare questa unità che abbiamorealizzato tra esperienze diverse ma con una forte tradizione di politica che ispira le nostre azioni e il nostro stare insieme.
Io ho il dovere di dirvi che voleva essere presente oggi per raccomandare di continuare a difendere il Parlamento e quindi la complessa e completa struttura istituzionale disegnata dalla Costituzione.
Credo di poter dire che l’impegno di tutta la lista che si presenta alla vostra attenzione è in questo senso, ed è sulla scia del programma e del metodo scrupoloso e attento che ha portato avanti il presidente Falomi, eccezionale nostro riferimento, intellettualmente legato a Bianco e degnissimo suo successore.
Speriamo anche noi del nuovo direttivo di essere degni successori

GIOVANNI MARCORA: Gli uomini della Base, la sinistra politica della DC. Ricordo di Marcora nel centenario della nascita.

articolo tratto dal giornale online "ildomaniditalia.it" del 2 novembre 2022

Il prossimo 12 novembre, nell’anno centenario della nascita di Giovanni Marcora (Inveruno, 28 dicembre 1922), il Comune di Inveruno ed il Centro Studi Marcora organizzano una mostra convegno commemorativa in coincidenza con l’apertura della 415esima edizione dell’Antica Fiera di San Martino. Tra gli altri parleranno, oltre alla sindaca Sara Bettinelli, Gianni Borsa, Mariapia Garavaglia, Patrizia Toia.

Di seguito riportiamo il ricordo tracciato anni fa da Camillo Ripamonti, amico e collaboratore di Marcora, esponente di spicco della sinistra di Base, parlamentare e ministro, in ultimo Presidente dell’Anci. 

Lo scritto di Ripamonti, “Una sensibilità unica”, fa parte di un volume di testimonianze dal titolo “Ribelle e statista. Albertino Marcora”.

Camillo Ripamonti

Le testimonianze che si possono rendere su “Albertino” rischiano d’essere sempre incomplete, tanto è stato l’impegno che Marcora profuse nella sua non lunga, e tuttavia intensissima, vita, tanti sono gli insegnamenti che andrebbero tratti dalle attività di un personaggio davvero unico, che sapeva farsi apprezzare – ed anche farsi volere bene — da amici ed avversari, da chiunque avesse la ventura d’incontrarlo nei suoi poliedrici interessi, umani e politici.

Albertino” fu un politico singolare. Trascorse più tempo a preparare una cordata che mirasse alle idee del futuro, che non a tessere una organizzazione per la contemporaneità. Certo, non gli erano estranei gli interessi concreti ed immediati; al contrario, egli fu fra i rari politici che badavano al sodo, alle cose da fare, subito, e sulle quali impegnare, senza indugi, la propria parte di responsabilità. Ma la sua esperienza va letta in maniera più compiuta, riflettendo sulle ragioni che lo condussero, lui uomo d’azione, a circondarsi di intellettuali ai quali affidare la progettazione del domani.

Ricorda, nella sua testimonianza qui prodotta, Giovanni Galloni taluni momenti significativi di quella irripetibile vicenda che fu la Base, un movimento di idee che andava a scavare in un macrocosmo pigro, aduso a non porsi i problemi dell’avvenire dando per scontato ch’esso non potesse essere che più fulgido del presente. Di quei momenti andrebbero analizzati risvolti ancor più profondi: perché ricchissima fu quella stagione, alla quale Marcora seppe sempre imprimere un personale segno; e perché quelle esperienze valgono a capire meglio come si è formata una classe dirigente, ora in prima linea politica, che non aspirava a sostituire altri gruppi, ma solo ad adeguare la politica ai tempi mutati.
Si fa presto a dire rinnovamento.

Specie oggi che tutti ne parlano, ognuno cercando più nuove immagini, facciate rinfrescate, che indirizzi e visioni volti al futuro. Si fa presto a conclamarsi progressisti, se poi, nei fatti, si tende ad ostacolare ogni pur timida novità, ci si preoccupa della difesa d’una antica, certamente gloriosa, bandiera, senza però riprenderne lo spirito rinnovatore, senza lasciar spazio ad idee più fresche, a mutamenti sostanziosi nel sistema dei partiti, senza abbandonare il bagaglio della demagogia spicciola e farsi responsabili: appunto classe dirigente. Giovanni Marcora fu responsabile. Solo così si spiega la sua lunga attesa per un proprio, personale impegno politico. Solo così si spiega come egli sia potuto passare dalla vita partigiana al rango di statista, dei più apprezzati fra l’altro. ‘

Se rileggessimo, tutti, al di là degli steccati di partito, ed ovviamente al di là delle divisioni fra gruppi e gruppuscoli tradizionali nella vita interna alla democrazia cristiana, con occhio davvero vigile l’intera esperienza di “Albertino” Marcora, forse ci aiuteremmo l’un l’altro a comprendere meglio gli stessi ultimi quarant’anni di vita democratica. Scopriremmo il significato dei “ribelli” cristiani, che volevano cambiare l’Italia, ma per farla avanzare sul terreno della libertà e della democrazia. Scopriremmo il senso di responsabilità che fu presente a tanta parte del movimento clandestino, che mirava a far maturare una coscienza nuova, civile ancorché politica, fra la gente, fra le nuove generazioni soprattutto, perché esse erano sbandate, corrotte da un propagandismo che le aveva gettate allo sbaraglio e, una volta deluse, esposte al rischio di facili abbandoni nei miraggi di inesistenti, impossibili paradisi terreni.

Scopriremmo che la repubblica è stata animata, non sui giornali e nella pubblicistica di comodo, ma nella realtà di ogni giorno, da un popolo di formiche: quello di cui parlava Tommaso Fiore, a proposito della sua Puglia, ma che, a maggior ragione forse, è rintracciabile in tutte le aree nazionali dove si manifestavano, in operoso silenzio, come diceva Aldo Moro, anima e volontà di andare avanti, di non fermarsi a contemplare l’avuto o il presunto irraggiungibile. Indubbiamente “Albertino” si qualificò per il suo radicamento lombardo, per quel suo sfrenato amore per tutto ciò che la sua terra d’origine sapeva dare alla comunità nazionale.

Il suo fastidio, persino ossessivo, per tutto ciò che non fosse efficiente e produttivo esprimeva una connotazione ed una condizione assieme, prima che il segno d’un carattere forte, deciso e di una volontà laboriosa, instancabile. La sua alta considerazione per il mondo delle campagne, oltre che per quello delle ciminiere e degli uffici, è legata a quella sua origine ed a quel desiderio – comune a tanti padani – di vedere crescere la società ricorrendo agli strumenti i più nuovi e sofisticati, senza tuttavia cancellare la terra, fonte primaria della stessa vita umana. Appunto per questo Giovanni Marcora è stato l’uomo politico più popolare della Lombardia. Come sottolineato anche, in un club milanese, dal professor Rumi, Marcora ha rappresentato – e, forse, ancor più avrebbe potuto rappresentare nel tempo — l’espressione più autentica e genuina della gente lombarda, come da decenni non si ritrovava – e, forse non si ritroverà più —, pur nella numerosa schiera di uomini politici lombardi presenti in tutti i partiti.

Rammento, in proposito, un articolo -“Linea ambrosiana e linea lombarda” -, apparso sulla rivista Itinerari diretta da Francesco Rossi, un amico la cui vicenda umana si è troppo presto conclusa. L’anno, il 1967, ahimè quasi vent’anni fa.

Il luogo: la sede della Dc di Milano. “Chi parla, seduto nervosamente su un divano, alzandosi di scatto come per inseguire altre idee o una telefonata, non è il direttore generale di una industria all’avanguardia, ma Giovanni Marcora, segretario provinciale della Dc milanese. Marcora, è un personaggio quasi leggendario per la sinistra democristiana di tutta Italia. Marcora, che sembra rappresentare l’uomo dell’organizzazione e dell’efficienza anche in politica, a ben guardare impersona, nel suo generoso volontarismo e nell’intransigente spirito critico (“sono entrato nella resistenza per desiderio di libertà e ne sono uscito civile”, egli dice) le ansie, le contraddizioni e, soprattutto, il realismo politico della sinistra democristiana milanese…Marcora non ambisce ad essere leadership ideologica, non è soltanto il manager politico che sa raccogliere i voti per la Dc e quelli preferenziali per i suoi amici, ma il politico conoscitore di uomini e di situazioni che ha compreso come, muovendosi da posizioni di sinistra, si possano interpretare le esigenze di un elettorato popolare qual è quello di Milano e del suo vasto hinterland”.

Di quel periodo milanese quasi non esistono tracce: almeno nelle ricostruzioni. Eppure, basterebbe andare a spulciare la collezione del Popolo lombardo, riguardare le stesse annotazioni di Marcora, rileggere, con più distacco, se si vuole, purché con spirito di verità, il complesso delle vicende che precedettero la fase della contestazione giovanile ed operaia, che fra l’altro coincise col matricolato di “Albertino” nella vita parlamentare, per comprendere cosa Marcora ha rappresentato per un’altra leva di politici, dopo quella che gli era stata a fianco nella fase più gloriosa del noviziato e della costruzione della corrente di Base.

Di quei momenti varrebbe la pena di rammentare le tensioni, le passioni, le incomprensioni. Di alcune dice Giovanni Galloni, nel discorso del 6 febbraio 1986 al Museo del Duomo di Milano il cui testo viene qui riproposto anche per rispondere ad un desiderio espresso da tanti giovani presenti a quell’incontro, organizzato dal Centro culturale “Puecher”, così bene animato dal suo presidente, avvocato Dittrich.

Mi limito a ricordare alcuni riferimenti – Nicola Pistelli, Vincenzo Gagliardi, e gli incontri di via Brera, via Santa Eufemia, via Cosimo del Fante – così cari alla memoria di quella limitata pattuglia che, con Marcora e sotto il suo quotidiano stimolo, animò le battaglie della Base contrassegnando un lungo periodo, certa-mente il più fervido di idee e di apporti di nuove leve intellettuali e giovanili alla democrazia cristiana.

Anche Giovanni Di Capua porge qui un suo contributo alla conoscenza di “Albertino” Marcora, scegliendo la testimonianza su uno strumento di azione politica, la agenzia Radar, di cui egli stesso è stato inventore e attore. Non è la storia di quella agenzia, che viene proposta, ma la spiegazione della sua origine, cui moltissimo si deve appunto alla fantasia di Marcora, lombardo deciso a far valere nuove idee in campo nazionale e però attento a stabilire un caposaldo nell’osservatorio politico per eccellenza, Montecitorio.

Ai giovani che poco sanno o che troppo poco conoscono se non per informazioni distorte fornite da chi non aveva interesse alcuno ad esporre fatti, situazioni, personaggi e idee per ciò che veramente furono e per ciò che effettivamente erano in grado di significare nella vicenda politica nazionale, i contributi di Giovanni Galloni e di Giovanni Di Capua, possono tornare utili: se non altro, a sapere come si faceva politica un tempo, nel disinteresse personale, pensando a far crescere gli altri, a sentirsi paghi solo di aver partecipato alla definizione di un grande rivolgimento ideale.

Non si potrebbe concludere una sia pur rapida carrellata su Giovanni Marcora senza rammentare gli uomini che nella sua vita, ed in quella della Dc, hanno lasciato una loro impronta profonda.

Sono, quasi elencandoli: dopo Alcide De Gasperi, il presidente della ricostruzione, Enrico Mattei, soprattutto per quello ch’egli rappresentò nella lotta di liberazione, “scuola di coraggio civile e di virtù eroiche”, oltre che per la fondazione dell’Eni; e, ancora, Giovanni Gronchi, con le speranze che suscitò col suo avvento al Quirinale, ed Ezio Vanoni, con le sue lezioni di politica economica non disgiunte da consigli di vita e da una solidarietà nella medesima battaglia interna alla democrazia cristiana; e, infine, Aldo Moro, cui “Albertino” guardava con rispetto, avvertendone il fascino intellettuale, criticandone le lentezze operative, e che, tuttavia, seppe tradurre le prospettazioni politiche della Base nella politica dei governi di centro sinistra, portando tutto il partito laddove uno sparuto nugolo di giovani aveva da tempo detto che fosse giusto andare.

Marcora, però, ebbe per somma maestra la vita, i fatti della gente operosa, le idee miranti all’avvenire. Quella fu la sua vera scuola. Su di essa fondò la sua azione di governo. Per questo riuscì a farsi capire anche all’estero, dove l’Italia di Marcora veniva guardata con rispetto, non coi paraocchi di detrattori o imbonitori, individui estranei ad una cultura europea quale “Albertino”, l’opposto dell’intellettuale, pure possedeva.

 Per approfondimenti e ulteriori informazioni

https://www.centrostudimarcora.it/index.php

 ALCIDE DE GASPERI: XIX Lectio degasperiana* 2022. - Sergio Fabbrini

articolo di Sergio Fabbrini da Il Popolo - Quotidiano della Democrazia Cristiana fondato nel 1923

XIX Lectio degasperiana 2022

Il ritorno della guerra in Europa:

De Gasperi settant’anni dopo

di Sergio Fabbrini**

Pieve Tesino, 18 agosto 2022

Premessa

Vorrei innanzitutto ringraziare la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi (nelle persone del suo presidente, Prof. Giuseppe Tognon, e del suo direttore, Dott. Marco Odorizzi) per l’invito che mi è stato rivolto a tenere la Lectio degasperiana 2022. È un grande onore per me, oltre che un piacere per via dei legami familiari, sentimentali e intellettuali che mi legano al Trentino.

L’argomento che mi è stato chiesto di discutere è L’aggressione russa dell’Ucraina, iniziata il il ritorno della guerra in Europa. 24 febbraio scorso, rappresenta un evento drammatico, di proporzioni storiche. Sebbene l’Unione europea (Ue) abbia reagito compatta all’aggressione russa, è tuttavia indubbio che essa si sia trovata impreparata ad affrontare il problema della guerra. Un problema, invece, che i leader europei (a cominciare da Alcide De Gasperi) si erano posti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, elaborando e quindi sottoscrivendo (il 27 maggio 1952) il progetto più avanzato di integrazione militare e politica, la Comunità europea della difesa (CED).

Tenendo presente quell’esperienza, analizzerò le implicazioni dell’aggressione russa per l’Europa integrata. Procederò come segue.

Primo, discuterò le ragioni che hanno reso l’Europa impreparata ad affrontare l’invasione russa dell’Ucraina.

Secondo, discuterò il Trattato della CED, così come era stato pensato da Alcide De Gasperi nel dialogo con Altiero Spinelli, progetto finalizzato a difendere l’Europa da minacce esterne ed interne.

Terzo, discuterò le conseguenze del fallimento della CED (1954) sullo sviluppo successivo dell’Europa integrata.

Concluderò derivando da questa analisi, sulla base dell’azione di De Gasperi e del pensiero di Spinelli, una agenda per il futuro della sicurezza

24 febbraio 2022.

L’Ue ha risposto con immediatezza e compattezza all’aggressione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022, decidendo di inviare armi letali al governo ucraino per potersi difendere e concordando con gli alleati atlantici diversi di pacchetti di sanzioni economiche nei confronti del governo russo.

Tuttavia, è indubbio che l’Ue si sia trovata impreparata, sul piano istituzionale e culturale, ad affrontare la guerra in casa propria. Durante la Guerra Fredda (1950-1991) alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) il compito di garantire la sicurezza dei Paesi europei, dopo la Guerra Fredda ha finito per ritenere che la sicurezza non fosse più in pericolo nel continente europeo. Per l’Ue, con il crollo del muro di Ber lino (1989) e l’implosione dell’Unione Sovietica (1991), la “storia era finita”.

L’epoca della violenza tra stati avrebbe lasciato il posto alla cooperazione economica e culturale tra di essi. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, le leadership europee (sotto la pressione di quelle tedesche) hanno finito per pensare che la lotta per il potere tra gli stati sarebbe scomparsa dalla politica internazionale, in quanto le relazioni interstatali si sarebbero svolte all’interno di regimi internazionali istituzionalizzati le cui norme e aspettative avrebbero mitigato le loro pulsioni aggressive.

E così è avvenuto.  L’interdipendenza economica e culturale è stata causa ed effetto della formazione di un sistema di istituzioni internazionali incaricate di risolvere le dispute e i conflitti tra stati e attori privati attraverso il multilateralismo o ricorrendo alla mediazione di magistrature internazionali. Si è infatti formato un ordine legale globale capace di influenzare le scelte degli stati così come degli altri attori internazionali (corporations multinazionali, lobbies internazionali, organizzazioni non-governative).

L’Ue è stata la protagonista di tale normazione della globalizzazione, divenendo una vera e propria potenza normativa, un attore internazionale specializzato nell’esportazione di regole e nella promozione di commerci. L’Ue si è talmente identificata con questo suo ruolo che ha finito per pensare che, come se fossimo in un mondo post moderno, la guerra era stata ormai delegittimata in quanto strumento per la soluzione delle contese. Certamente, attraverso la diffusione di intensi scambi commerciali, finanziari, industriali, culturali, il sistema internazionale si globalizzato, di persone dei Paesi non industriali di uscire consentendo a milioni dalla miseria.

Anche se non erano mancati conflitti (si pensi a quelli generati dal fallimento della ex Jugoslavia) che avevano messo in discussione l’interdipendenza economica, è stata soprattutto la decisione di Putin del 24 febbraio scorso a mostrare l’altra faccia di quest’ultima.

Sebbene, negli ultimi trent’anni, l’economia russa si sia venuta ad intrecciare con le economie dei Paesi europei, in particolare della Germania; sebbene il Pil russo sia divenuto dipendente dalle esportazioni di gas e materie prime nei Paesi dell’Europa integrata (tra cui il nostro); sebbene la nuova classe media russa sia stata attratta dai consumi occidentali; sebbene i ricchi russi abbiano trovato estese e convenienti occasioni di investimento finanziario, immobiliare e industriale in Paesi come il Regno Unito; sebbene le sanzioni successive al 2014 (in risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia) abbiano accresciuto la dipendenza energetica di Paesi come l’Italia e la Germania al gas russo; sebbene tutto ciò, Putin non ha avuto scrupoli a mandare all’aria l’interdipendenza economica, invadendo militarmente l’Ucraina. Dunque, i commerci contano, ma non abbastanza per fermare la guerra.

Quest’ultima, infatti, deriva quasi sempre da logiche interne, logiche che nei regimi autoritari (come la Russia di Putin) non incontrano ostacoli. Quei regimi, per dirla con Michail Sergeevič Gorbačëv, sono “automobili senza il freno a mano”. dell’Ucraina è il risultato delle scelte di attori Nel nostro caso, l’aggressione russa domestici (Vladimir Putin e la sua cerchia di potere) per promuovere una precisa visione del ruolo internazionale della Russia, sostenuta da una precisa ideologia politica (la Russia è una nazione-impero con una missione storica da perseguire).

Nel discorso del 21 febbraio 2022, Putin affermò di volere rimediare agli errori di Lenin, il principale dei quali era stato quello di legittimare il principio di autodeterminazione nazionale. Tale principio, per Putin, aveva infatti condotto alla formazione di una pluralità di repubbliche (quindi aggregate nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) che, con la fine della Guerra Fredda, poterono rivendicare la loro sovranità nazionale.

L’aggressione all’Ucraina del 2022 è dunque una tappa del percorso di ri costruzione di una Grande Russia di impronta zarista. Un percorso iniziato nel 2008 con l’invasione della Georgia, andato avanti nel 2014 con l’annessione della Crimea, rafforzato con l’annessione di fatto della Bielorussia di Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnk a e giunto quindi all’aggressione dell’Ucraina nel 2022. La Russia di Putin rappresenta una minaccia permanente per l’Europa integrata. Putin ha ricordato all’Ue che la storia non è finita, che la guerra non è scomparsa.

 27 maggio 1952

La Comunità europea della difesa (CED) Che la guerra costituisse una minaccia permanente in Europa, ciò era invece molto chiaro ad Alcide De Gasperi e ai leader europei (come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Paul Henri Spaak) che si trovarono al governo delle nuove democrazie europee postbelliche.

Per De Gasperi, la minaccia della guerra proveniva sia dall’esterno (dall’Unione Sovietica) che dall’interno (dalla rivalità tra gli stati nazionali dell’Europa occidentale). La minaccia esterna divenne subito chiara con l’invasione militare della Corea del Sud, il 25 giugno 1950, da parte della Corea del Nord (sostenuta dalla Russia sovietica oltre che dalla Cina comunista).

Quell’invasione ruppe definitivamente la fragile alleanza tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondia le, diffondendo la consapevolezza che un dramma simile si sarebbe potuto verificare anche nell’Europa continentale. Dopo tutto, il ferreo controllo sovietico dei Paesi dell’Europa dell’est, seguito alla Conferenza di Postdam dell’estate 1945, confermava la minaccia rappresentata dal regime staliniano, minaccia che aveva spinto il governo De Gasperi ad essere tra i cofirmatari del Patto atlantico che dette vita alla NATO nel 1949. Tale minaccia esterna imponeva con urgenza il problema del riarmo della Germania dell’Ovest, senza la quale sarebbe stato difficile garantire la sicurezza europea. A sua volta, il riarmo della Germania dell’Ovest sollevava il problema della minaccia interna alla pace europea, una minaccia alimentata dai nazionalismi sopravvissuti a i drammi delle due guerre mondiali e dell’Olocausto.

Dirà De Gasperi (Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951), “Il bisogno di sicurezza ha creato il Patto Atlantico, cioè un’organizzazione che tende a ristabilire l’equilibrio delle forze. È questa la prima linea di difesa contro il pericolo esterno (…) Ma la condizione essenziale per una resistenza esterna efficace è in Europa la difesa interna contro una funesta eredità di guerre civili - tali bisogna considerare le guerre europee - dal punto di vista della storia universale”.

Contrariamente agli statisti che, dopo la Prima guerra mondiale, cercarono di costruire un nuovo ordine europeo basato sulla cooperazione tra stati (seppure nell’ambito della nuova Società delle nazioni, istituita il 10 gennaio 1920), i leader dell’Europa democratica emersa dopo la Seconda guerra mondiale sapevano che la buona volontà dei governi nazionali non basta se non viene istituzionalizzata all’interno di un sistema sovranazionale.

Questa consapevolezza è all’origine della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, considerata l’atto di nascita dell’Europa integrata.

Da quella Dichiarazione emergono due progetti sovranazionali distinti (ma collegati). Il progetto della Comunità del Carbone e dell’Acciaio o CEC A (con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951) e il progetto della Comunità europea della difesa o CED (con il Trattato di Parigi del 27 maggio 1952).

A sua volta, quest’ultima derivò dal Piano per una difesa europea presentato dal presidente del Consiglio francese René Pleven all’Assemblea nazionale francese il 24 ottobre 1950, divenuto quindi la base della Conferenza diplomatica per la CED, convocata dal governo francese il 26 febbraio 1951, che elaborò un Rapporto inviato il 27 luglio 1951 ai sei governi che avevano aderito alla CECA (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo).

Per De Gasperi, le nuove istituzioni (della CED in specifico) non dovevano essere percepite come accorgimenti meramente tecnocratici. “Se noi costruiamo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centra le, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, noi rischieremo che questa attività europea appaia al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale” (De Gasperi, Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951).

Ecco perché, per De Gasperi, la costruzione della CED doveva essere accompagnata dall’idea di una patria europea, inclusiva delle patrie nazionali ma nello stesso tempo più grande della loro somma. “Se noi chiamiamo le forze armate dei diversi Paesi a fondersi insieme in un organismo permanente e costituzionale e, se occorre, a difendere una Patria più vasta, bisogna che questa Patria sia visibile, solida e viva, anche se non tutta la costruzione è perfetta occorre che sin da ora se ne vedano le mura maestre e che una volontà politica comune sia sempre vigilante perché riassuma gli ideali più puri delle nazioni associate e li faccia brillare alla luce di un focolare comune” (De Gasperi, Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951).

La CED, più che la CECA, è al centro della strategia europeista di De Gasperi. “Questo è il problema principale: impedire, attraverso la costituzione di una federazione o confederazione europea, che si de nuovamente, ad esempio, motivi di attrito e di revanche terminino tra la Francia e la Germania, sarebbe già un grande risultato.

Ma il nostro trattato si propone una méta più alta; esso sarà un trattato di pace perché poggia su uno strumento di pace, perché è garantito dal fatto che i Paesi membri hanno un esercito in comune” Per De Gasperi, la costruzione della CED costituisce la missione principale della sua generazione politica.

Così continua, “Non si tratta soltanto di impedire la guerra fra noi, ma anche di formare una comunità di difesa, che abbia a suo programma non di attaccare, non di conquistare, ma solo di scoraggiare qualsiasi attacco dall’esterno in odio a questa formazione dell’Europa unita” (De Gasperi, Conferenza dei 6 ministri degli esteri, Parigi, 31 dicembre 1951).

Un’Europa unita che, come abbiamo visto, continua ad essere odiata anche oggi dai tiranni e dai loro amici di casa nostra.

 De Gasperi e Spinelli

Nel promuovere il progetto della CED, De Gasperi dovette affrontare diversi e numerosi nemici. Fuori dal governo, nell’opposizione comunista-socialista per la quale la difesa europea era uno strumento al servizio degli americani e la federazione europea una manifestazione del nostro servilismo verso questi ultimi.

Si chiederà De Gasperi nel dibattito con gli esponenti di quella opposizione, allora “anche Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo erano filoamericani perché volevano la federazione europea?” L’opposizione comunista- socialista alla difesa europea era in realtà finalizzata a mantener e l’Europa occidentale in una condizione di debolezza, così come l’accusa del suo carattere militarista in nome di ideali pacifisti era strumentale a garantire rapporti di forza favorevoli alla Russia sovietica.

Come si vede, niente di nuovo sotto il sole, se si considerano le critiche ricevute dal governo Draghi per aver aiutato militarmente l’Ucraina. Ma De Gasperi dovette fronteggiare anche un’opposizione interna al suo partito, la Democrazia Cristiana, in particolare da parte della sinistra dossettiana ispirata da una visione pessimistica della democrazia. Intellettualmente, De Gasperi e Dossetti erano assai diversi.

Se De Gasperi era stato un lettore di Le democrazie moderne di James Bryce (1921), Giuseppe Dossetti preferiva l’ Autunno del Medioevo di Johan Huizinga (1919), l’uno era interessato a capire come le democrazie concretamente funzionano, l’altro a come le epoche storiche (con i loro assetti economici e politici) si concludono.

In un’epoca di scarsa conoscenza delle democrazie liberali, mentre Dossetti proponeva una lettura terzomondista dell’America, De Gasperi fa invece costante riferimento alla democrazia americana come ad un modello. Nel suo discorso a Bruxelles del 20 novembre 1948, noto come “Le basi morali della democrazia”, la indica come un esempio per “limitare il potere” attraverso “le sue molteplici istituzioni di controllo e la complicata macchina politica”. Anche se poi aggiunge che “nessuna precauzione di ordine costituzionale potrebbe impedire l’avvento della tirannia se una attiva coscienza democratica non è operante nel popolo”. Sulla CED, invece, De Gasperi ebbe l’aiuto fattivo di Altiero Spinelli, autore insieme a Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene del federalismo Italia del 1941 (di forte impronta socialista) ed esponente no di sinistra, oltre che il sostegno dell’azionismo italiano rappresentata da Ferruccio Parri.

Quest’ultimo scriverà nel 1952: “O accettiamo, con il coraggio e la decisione necessari, l'idea di una comunità europea sopranazionale, organica e funzionale, e d accettiamo quindi di realizzarne le conseguenze logiche, la prima delle quali è l'unità della politica estera e l'unitarietà dello sforzo difensivo, oppure questa politica è solo una lustra, provvisoria e reticente mascheratura di contrasti di fondo e di diversi fini (…)”.

Sarà soprattutto nel Promemoria sul Rapporto del 27 luglio 1951 che Spinelli scriverà per De Gasperi nel settembre successivo che l’idea dell’Europa federale troverà una sua più articolata definizione. In quel Promemoria, Spinelli osserva criticamente: “Gli autori del Rapporto pensano che sia possibile creare un esercito unico europeo senza creare uno Stato europeo (…) Si pone di conseguenza immediatamente il problema: a chi appartiene l’esercito europeo?”.

Seguendo il modello della CEC, il Rapporto affidava infatti ad un Commissario/Commissariato della difesa un compito esecutivo, corrispondente a quello di un Ministero della difesa, senza rendersi conto che quest’ultimo “non è che un pezzo dello Stato, e che per poter funzionare deve essere connesso strettamente con tutti gli altri pezzi”.

Annota Spinelli, “la Conferenza propone di creare un organo esecutivo privo di sovranità ed obbligato a ricevere ordine dal di fuori. Ma una Comunità non può fare a meno di un organo sovrano”. Per Spinelli, una Comunità della difesa “trasforma completamente tutto il sistema della sovranità”, un problema che non può essere risolto dal Consiglio dei ministri della Comunità (cioè dalla Conferenza di stati sovrani).

Invece, in una Comunità federale “è naturale che accanto all’Assemblea popolare vi sia un’Assemblea o un Consiglio di Stati (…) Ma il Consiglio di Stati è una camera del Parlamento, e non già una Conferenza diplomatica, come è previsto nel Rapporto”. Per poi concludere, “ogni volta che si è voluto raggiungere l’unità di azione di Stati, senza menomare le loro sovranità, il regolare risultato è stato sempre la paralisi della Comunità che si voleva fondare”.

Spinelli quindi conclude, “se si tocca la sovranità nazionale nel campo militare, occorre toccare la sovranità nazionale anche nel campo fiscale”. Dunque, la Comunità della difesa richiede la contestuale creazione di istituzioni democratiche (legislative, esecutive e giudiziarie) per gestire la sovranità ad essa trasferita. La Conferenza “dovrebbe redigere né più né meno che un testo di costituzione federale europea”.

Questo fu proprio l’obiettivo che De Gasperi si propose di perseguire nelle complesse negoziazioni con gli altri governi (in particolare con quello francese), consapevole anche delle resistenze interne agli apparati del suo stesso governo (in particolare tra i diplomatici e i militari). Dopo tutto, come disse all’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, il 10 dicembre 1951, “questa è l’occasione che passa e non tornerà più. Bisogna afferrarla ed inserirla nella logica della storia”.

L’esito di quell’azione fu il Trattato per la Comunità europea della difesa, costituito di 132 articoli e 12 protocolli, firmato a Parigi il 27 maggio 1952. Un Trattato che iniziava (Art. 1) collocando la CED all’interno del Patto Atlantico e precisando subito che essa ha “un carattere sovranazionale, consistendo di istituzioni comuni, di Forze armate comuni e di un budget comune”.

Soprattutto il Trattato prevedeva (Art. 38) la creazione di “un’Assemblea della Comunità di difesa europea eletta su basi democratiche (che avrebbe dovuto) tenere in mente che l’organizzazione definitiva che prenderà il posto dell’attuale transitoria organizzazione dovrà essere concepita come uno degli elementi di una futura struttura federale o confederale, basata sul principio della separazione dei poteri, così da includere, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale”.

Questo Articolo, di importanza storica, celebra il successo della collaborazione tra De Gasperi Le resistenze al Trattato si fecero però sentire. e Spinelli. Al punto che, di fronte ai ritardi nell’avviare i lavori della Assemblea della CED, De Gasperi propose che fosse l’Assemblea della CECA, di già funzionante, a definire il progetto federale cui ricondurre entrambe le organizzazioni. Ma la finestra dell’opportunità si stava chiudendo.

Soprattutto in Francia, dove le conseguenze della decolonizzazione avevano polarizzato il sistema dei partiti, ma anche in Italia, dove l’approvazione parlamentare del Trattato fu tenuta in sospeso per negoziare concessioni territoriali sulla frontiera orientale.

Nonostante le formidabili pressioni americane affinché si arrivasse quanto prima ad una autonoma capacità di difesa europea, la logica della politica interna ai singoli Paesi conducevano in direzione opposta.

Il 30 agosto 1954, l’Assemblea nazionale francese, con un escamotage tecnico, decise di non votare il Trattato costitutivo della CED, sotto la spinta dell’opposizione sia della sinistra comunista che de lla destra gaullista. Un esito che De Gasperi aveva fortemente temuto nei suoi ultimi giorni di vita. Scrisse Spinelli nell’ottobre 1954: “De Gasperi può essere morto di crepacuore alla prospettiva dell’imminente fine del tentativo di unificazione europea” , quindi aggiungendo “L’epoca dei governi europeisti è finita il 30 agosto”.

 Dopo il 30 agosto 1954

Prima l’economia

Nonostante la delusione comprensibile di Spinelli, in quel 30 agosto 1954 si concluse il ciclo federalista dell’integrazione, non già quest’ultima in quanto tale. La sicurezza europea fu appaltata all’America rafforzando la guida militare e politica di quest’ultima all’interno della NATO (la NATO doveva servire a, “to keep the Russians out, the Germans down and the Americans in”, gli “americani dentro” perché essi non volevano rimanere in Europa, come sostenuto più volte dai presidenti Truman e Eisenhower).

Il modello che aveva in mente De Gasperi (cioè una NATO basata su tre pilastri: americano, britannico ed europeo) fu sostituito da un a NATO basata quasi esclusivamente sulle tecnologie, i finanziamenti e le capacità militari americane. Non tutti a Washington D.C. furono felici di questa soluzione, ma non ve ne era un’altra disponibile.

Il 9 maggio 1955, quattro giorni dopo la fine dell’occupazione militare da parte delle Forze Alleate, la Germania occidentale venne accolta all’interno della NATO, avviando una graduale politica di riarmo sotto la supervisione americana. De responsabilizzati sul piano della propria sicurezza militare, gli europei finirono per abbandonare la prospettiva federale.

Non oberati dalle spese militari (trasferite ai contribuenti americani), gli stati dell’Europa occidentale poterono utilizzare le risorse nazionali per rafforzare le basi economiche del loro svilupp-aiuti (sempre americani) ricevuti tra il 1948, già ricostruite attraverso gli 1952 nel contesto dello Program European Recovery (più noto come Piano Marshal).

Da allora, l’Europa occidentale è stata la beneficiaria di un gigantesco ‘azzardo morale’, in virtù del quale si è garantita protezione senza pagarla. In cambio, gli americani poterono condizionare la nostra politica interna. I Trattati di Roma del 1957 celebrarono la nuova divisione del lavoro. Gli americani pensavano alla sicurezza comune, noi ad un mercato comune, divenuto quindi unico nel 1987.

Seppure nati da accordi intergovernativi, i Trattati in questione celebrarono la visione funzionalista dell’integrazione europea, sostenuta da Jean Monnet in alternativa alla visione federalista di Altiero Spinelli. Si decise di partire dal basso (dalla soluzione di specifici problemi comuni nel contesto del funzionamento del mercato), non più dall’alto (dalla creazione di comuni istituzioni nel contesto di un accordo costituzionale).

Per fare ciò, venne de finito un sistema istituzionale triangolare in cui la Commissione europea detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa, il Consiglio dei ministri nazionali e quindi il Parlamento europeo (eletto direttamente a partire dal 1979) approvano o rifiutano le sue proposte (direttive o regolamenti), sotto la vigilanza della Corte di giustizia europea (CGE).

Si trattava di un sistema sovranazionale, in quanto un ruolo cruciale veniva esercitato da istituzione (la Commissione europea, la CGE e quindi il Parlamento europeo) non dipendenti dai governi nazionali. Il mercato unico è stato un grande successo, consentendo ai Paesi dell’Europa occidentale di crescere impetuosamente (nel caso dell’Italia di diventare una potenza industriale in meno di una generazione). An cora oggi, costituisce la condizione del nostro benessere economico (e della nostra stabilità politica).

 L’economia non basta più

Le cose però cambiarono con la fine della Guerra Fredda (19891991). Se nei tre decenni precedenti, la politica di sicurezza (militare ed estera) era rientrata nei ministeri nazionali, dopo il 1991 la divisione del lavoro stabilita a Roma nel 1957 dovette essere rivista.

Il Trattato di Maastricht del 1991 istituì un Pilastro intergovernativo per la Politica estera e di sicurezza (PESC), al cui interno fu inserito (a partire dal 1999) la Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), mentre rimase sovranazionale il Pilastro del mercato unico (chiamato Comunità economica). Pilastri quindi ricomposti all’interno dell’Unione europea (Ue), così chiamata ufficialmente per la prima volta. Obbligata a fare i conti con il nuovo scenario europeo e internazionale, l’Ue accettò il compito ricorrendo però alla logica intergovernativa. Certamente non sono mancati i tentativi di mitigare la logica intergovernativa inaugurata a Maastricht.

Con il Trattato di Amsterdam del 1997, ad esempio, venne formalizzata l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, cui il Trattato di Lisbona del n2009 assegnerà il doppio compito di presiedere per cinque anni il Consiglio dei ministri nazionali per gli affari esteri e contemporaneamente di esercitare il ruolo di vicepresidente della Commissione europea. L’obiettivo era quello di collega re la logica intergovernativa del Consiglio dei ministri con quella sovranazionale della Commissione europea, ma non si può dire che abbia funzionato in quanto la prima si è regolarmente imposta sulla seconda.

Il Trattato di Lisbona del 2009 abolì la divisione in Pilastri, ma non la logica intergovernativa della politica estera e di sicurezza. Anzi, la rafforzò ulteriormente riconoscendo, per la prima volta formalmente, il Consiglio europeo dei capi di stato e di governo, cui affidare il compito di stabilir e le grandi scelte dell’Ue.

Così, a partire dal Trattato di Lisbona, nel contesto delle crisi multiple del decennio successivo e sotto la pressione proveniente dai Paesi del nord e dell’est entrati tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, l’Ue ha registrato lo sviluppo spettacolare della logica intergovernativa, al punto da offuscare quella sovranazionale operante nelle materie regolative del mercato unico.

La logica intergovernativa ha caratteristiche molto precise. Si basa sul coordinamento volontario tra i membri dei governi nazionali (nei Consigli dei ministri degli affari esteri e della difesa) i quali monopolizzano il processo decisionale, relegando la Commissione europea a svolgere funzioni tecniche, con il Parlamento europeo e la CGE collocati ai margini di quel processo.

La PESC e la PSDC consistono di atti politici piuttosto che legislativi (come sono invece le direttive e i regolamenti), atti poi implementati dalle rispettive amministrazioni nazionali. All’interno dei Consigli (in particolare del Consiglio europeo), il processo decisionale si basa sul consenso o unanimità, così riconoscendo un potere di veto ad ogni ministro o capo di governo rispetto alla decisione da prendere. Un potere di veto regolarmente esercitato o minacciato da governi nazionali, come quello ungherese di Viktor Orban o polacco di Mateusz Morawiecki.

È stato inevitabile che l’Ue diventasse una potenza normativa, o che esercitasse esclusivamente la sua influenza economica, vista natura intergovernativa del suo pro cesso decisionale nella politica di sicurezza (e l’impossibilità di usare le risorse dell’ hard power rimaste sotto il controllo dei governi nazionali).

Certamente, di fronte a situazioni drammatiche, come l’aggressione russa dell’Ucraina, il Consiglio europeo è riuscito a prendere decisioni cruciali, immediate e consensuali. Tuttavia, un processo decisionale non può aver bisogno della eccezionalità e drammaticità di una crisi per divenire efficace. Anche le proposte recenti di un’Unione della difesa, come quella del presidente francese Emmanuel Macron, non fuoriescono dall’orizzonte intergovernativo.

Per il presidente francese, si tratta di rafforzare il coordinamento militare tra alcuni Paesi, con la Francia però destinata ad esercitare un ruolo di leadership al suo interno. L’impegno assunto dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, all’indomani dell’aggressione russa, di investire cento miliardi di euro nella difesa nazionale, così come la maggiore spesa nazionale per la difesa, promessa da diversi governi nazionali, non aumentano le capacità militari europee, mentre aumentano le duplicazioni, le diseconomie, le disfunzionalità tra i vari apparti militari nazionali. Così, gli impegni a maggiori investimenti nelle tecnologie militari non sono ricondotti ad un progetto europeo ma si basano su consorzi bi competitivi con l’industrotrinazionali, difficilmente ia militare americana.

Il vincolo intergovernativo comprime le capacità militari e industriali dell’Ue, un esito preoccupante se si considerano i cambiamenti in corso nella politica americana.  La presidenza di Trump (2017 europe2020) aveva ricordato agli i che l’America non è più disposta a pagare per la loro sicurezza, la presidenza Biden (pur ricostruendo un rapporto più collaborativo con noi) ha subito chiarito che le sue priorità sono in Asia e non in Europa. Come risolvere il problema della sicurezza europea?

 De Gasperi settant’anni dopo

La guerra russa all’Ucraina ha sollevato il tappeto sotto il quale era stata nascosta la questione della sicurezza dal 1954, il cui esito è stato una Europa integrata sul piano economico ma non su quello politico e mi litare. Un esito che De Gasperi e Spinelli cercarono tenacemente di scongiurare. Ritornare a loro, seppure criticamente, aiuta ad affrontare il problema della sicurezza europea settant’anni dopo.

Infatti, De Gasperi ci ricorda che la guerra è una minaccia permanente per l’Europa (confinando con un aggressivo regime autoritario dotato di armi nucleari), Spinelli che tale minaccia non può essere affrontata con il coordinamento intergovernativo. Naturalmente, non si tratta di finire nel vicolo cieco di una nuova guerra fredda.

Il rapporto con la Russia (o con la Cina) non dovrà sostanziarsi in un confronto esclusivamente militare, ma dovrà preservare o promuovere tutte le occasioni per scambi economici e culturali con loro. Tuttavia, l’Europa integrata non deve essere più ricattabile, sul piano delle risorse energetiche o degli scambi industriali, dai regimi autoritari.

L’interdipendenza dovrà approfondirsi al suo interno, ma alleggerirsi al suo esterno (con i regimi autoritari). La globalizzazione dovrà divenir e selettiva. Se la guerra è una minaccia permanente, e se l’America sta rivolgendo sempre di più la sua attenzione in Asia, allora è necessario che l’Europa integrata si assuma il problema di garantire la propria sicurezza. Senza una efficace capacità di autodifesa, l’Europa integrata non potrà difendere le sue libertà, la sua democrazia, il suo welfare.

Capacità di autodifesa che potrà essere garantita solamente da un’organizzazione sovranazionale. Tuttavia, contrariamente al progetto del 1952, la difesa europea non dovrà basarsi sulla fusione delle difese nazionali, bensì dovrà caratterizzarsi come un nucleo di capacità e risorse che si aggiunge a queste ultime, con lo scopo garantire la difesa collettiva.

Gli stati possono conservare le loro difese nazionali per fronteggiare sfide locali, anche se esse dovranno essere razionalizzate così da non ostacolare la difesa comune. La difesa europea dovrà agire in coordinamento con la NATO, come sostenuto con insistenza da De Gasperi.

Essa dovrà riflettere la visione strategica dell’Europa integrata, cui dovrà corrispondere una politica industriale europea per tecnologie di rilevanza militare. L’autonomia strategica dell’Europa integrata richiederà la costruzione di un’autorità di politica estera, così come la di fesa comune richiederà l’esistenza di un’autorità di politica militare.

Nello stesso tempo, non si potrà parlare di una politica estera e di difesa europee senza la creazione di un budget europeo con cui sostenerle, alimentato da risorse fiscali autonome e non da trasferimenti finanziari nazionali.

L’autonomia strategica implicherà anche la necessità di parlare con una voce singola all’interno delle organizzazioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come sottolineato da Spinelli e condiviso da De Gasperi, le nuove autorità di politica estera e di difesa dovranno essere parte di un’unione politica più ampia che garantisca la loro legittimità democratica, oltre che il loro rendiconto politico.

Oggi sappiamo ciò che non era evidente nel 1952, ovvero che un’unione politica non abbisogna di divenire uno stato per poter esercitare i suoi compiti autoritativi. Essa dovrebbe acquisire le caratteristiche di un’unione federale, non già di uno stato federale (come auspicava Spinelli nel 1952).

Infatti, uno stato federale che organizza la vita di centinaia di milioni di abitanti condurrebbe ad una accumulazione di potere tale da minacciare le libertà individuali. Per questo motivo, un’unione federale assegna al centro federale competenze esclusive solamente sulle materie che riguardano la sicurezza collettiva, riconoscendo agli stati federati competenze su “tutto il resto”.

Naturalmente, tale distribuzione sarà oggetto di continua negoziazione tra i livelli di governo, richiedendo la disponibilità di questi ultimi al costante compromesso. Sia i governi federati che le autorità federali dovranno essere legittimati elettoralmente, oltre che supervisionati dalle rispettive corti costituzionali.

Come De Gasperi aveva chiaro, l’unione tra stati non implica la soppressione del sentimento nazionale. “Badate bene che quando diciamo che non siamo nazionalisti (…) non diciamo qualche cosa che limiti le nostre forze reali, che diminuisca, comprima e deprima il nostro sentimento nazionale” (Senato della Repubblica, 15 novembre 1950).

Nel nostro caso, l’unione federale richiede identità multiple, non già la sostituzione di un’identità nazionale con un’identità europea. Seppure siano l’esito di un’invenzione, gli stati europei hanno profonde radici nei simboli e nelle relazioni dei loro cittadini.

Non si tratta di cancellare una storia, ma di aggiungerne un’altra, creando una cittadinanza europea di nazionalità distinte. Il nazionalismo è incompatibile con l’unione federale, ma non lo sono le identità nazionali intese come sistemi aperti di esperienze e memorie.

L’identità europea, invece, dovrà basarsi necessariamente sulla condivisione di valori politici, gli unici che possono unire vicende culturali o religiose diverse. Ciò che dovrà tenere insieme l’unione federale è la condivisione dei principi liberali dello stato di diritto e delle libertà individuali e i principi della divisione dei poteri che garantiscono la democrazia politica.

Sappiamo che diversi governi nazionali dell’Europa integrata (nell’Europa dell’est) non condividono quei principi. Sappiamo anche che altri governi nazionali (dell’Europa del nord) hanno aderito all’Europa integrata per ragioni esclusivamente economiche, ed altri governi nazionali (nei Balcani occidentali) vi aderirebbero per ragioni opportunistiche. L’unione federale non emergerà da uno sviluppo biologico, né potrà dipendere dalle idiosincrasie dell’uno o dell’altro governo nazionale.

Come sostenne De Gasperi nel 1952 (Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, 15 settembre), un’unione tra stati richiede un preliminare atto “di volontà politica (…) per realizzarsi”, un atto attraverso il quale gli stati coinvolti riconoscono che vi sono sfide che non possono affrontare da soli. È poco plausibile raccogliere tali differenti visioni dell’Europa all’interno di un unico progetto istituzionale. Occorrerebbe, piuttosto, organizzare contenitori diversi per visioni diverse. Non mancano le proposte.

E’ possibile ipotizzare l’esistenza di: una comunità degli stati europei confederazione allargata a buona parte agli stati del continente che, basata su un Consiglio dei capi di , una governo, affronta temi come l’energia, i trasporti, la ricerca; una coincidente con gli stati che oggi condividono il mercato comune comunità economica, e ne rispettano il sistema sovranazionale triangolare; una unione federale, una federazione europea costituita dai “Paesi del 1952” più quelli che ne condividono l’ispirazione federale (come la Spagna), cui devolvere il governo delle politiche di sicurezza (da quella militare a quella monetaria).

Il futuro dell’Europa dovrà essere plurale.

In conclusione, l’europeismo di De Gasperi e Spinelli parla al futuro dell’integrazione, non solo al suo passato. Esso dovrebbe caratterizzare l’orizzonte della politica italiana, indipendentemente dai governi in carica, in quanto ci ricorda che fuori dall’Europa non c’è un futuro per l’Italia.

* La Lectio degasperiana è il grande evento pubblico che la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, d’intesa con l’Istituto Sturzo di Roma, organizza per onorare la memoria dello statista trentino nel suo paese natale nei giorni dell'anniversario della sua morte. Il 18 agosto pomeriggio, qualificati relatori si danno appuntamento a Pieve Tesino, il paese natale di De Gasperi. Ogni anno un tema inedito e una figura d’eccellenza per approfondire aspetti della storia italiana e trentina, della figura dello statista, della democrazia.

** Sergio Fabbrini (Pesaro, 1948) è Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, Professore di Scienze politiche e relazioni internazionali e Intesa Sanpaolo Chair on European Governance presso l’Università LUISS Guido Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government dal 2010 al 2018. Fondatore e Direttore della School of International Studies dell’Università degli Studi Trento dal 2006 al 2009, è stato Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School of Government nel 2019-2020. È Recurrent Visiting professor presso la University of California di Berkeley (USA).

Ha insegnato in diverse università degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone, dell’America Latina e dell’Europa. È stato Jemolo Fellow presso il Nuffield College di Oxford e Jean Monnet Chair Professor presso il Robert Schuman Center for Advanced Studies, European University Institute, di Fiesole, Firenze, e Direttore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” dal 2004 al 2009 (il primo direttore dopo Giovanni Sartori che l’ha fondata nel 1971). È autore e curatore di decine di volumi e di centinaia di saggi scientifici, tradotti in sette lingue, che gli sono valsi diversi premi scientifici internazionali e nazionali. È inoltre editorialista del quotidiano Il Sole 24 Ore; impegno per il quale è stato insignito nel 2017 del Premio Altiero Spinelli che gli è stato consegnato a Ventotene. Nel 2021-2022 è stato membro del Comitato Scientifico della Conferenza sul futuro dell’Europa, nominato dal Governo Draghi, di cui ha presieduto il Gruppo su “Democrazia e Stato di Diritto in Europa”. Dal 2020 è Special Advisor del Commissario europeo Paolo Gentiloni per i temi legati alla riforma della governance europea. È considerato a livello internazionale uno dei maggiori studiosi di Scienza politica.

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 Lectio degasperiana 2022

Ricordo di Maria Romana De Gasperi 

Una De Gasperi

Intervento del Presidente della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi Giuseppe Tognon in ricordo di Maria Roma De Gasperi (1923 -2022) in occasione della Lectio degasperiana 2022, pronunciato a Pieve Tesino del 18 agosto 2022

 La figura paterna ha attraversato ogni fase della lunga e travagliata vita di Maria Romana De Gasperi, scomparsa quest’anno a 99 anni.

La grandezza di Alcide De Gasperi è nella storia, eppure ciò che la sua figlia primogenita ha fatto per curarne la memoria è qualche cosa che va al di là dell’affetto per un padre.

È stata una missione e una prova di coraggio. Nata a Trento nel 1923, pochi mesi dopo la Marcia su Roma e l’avvento di Mussolini, l’infanzia di Maria Romana si sviluppò tra le ansie per la persecuzione a cui il regime condannò il padre.

Dal carcere lui le scriveva lettere colme di affetto. Ricordando quegli anni ebbe però a dire che le rinunce e le preoccupazioni dei suoi genitori non impedirono a lei e alle sorelle Lucia, Lia e Paola di crescere in un contesto amorevole e fiero, capace di trovare conforto nell’affetto familiare oltre che nella fede.

E per cogliere i sentimenti di gioia e di riconoscenza verso la vita che abitavano la famiglia dello statista basta rileggere il delizioso racconto della storia di famiglia che Lia De Gasperi ci ha consegnato in una conferenza a Torino di alcuni anni fa (che è in rete con il titolo di racconta) o il delicato libro di Paola De Gasperi Alcide e Francesca Cecilia De Gasperi del 2020, sul rapporto tra due personalità speciali quali furono i loro genitori.

La moglie Francesca e Maria Romana arrivarono a Roma nel 1929, nel modestissimo monolocale che Alcide si poteva permettere con il povero stipendio da minutante nella biblioteca vaticana dove, dopo l’esperienza del carcere, mani e menti amiche lo avevano rifugiato. Crescendo, Maria Romana decise di mettersi al fianco del padre, quasi per proteggerlo: dopo la caduta del fascismo, nel bel mezzo dell’occupazione nazista di Roma iniziò a collaborare alla sua attività politica, agendo come staffetta tra il padre e il gruppo di ex popolari che in clandestinità stava dando vita alla Democrazia Cristiana.

Si laureò nel frattempo in Lettere alla Sapienza. Il padre ne aveva stima e fiducia, tanto da volerla con sé come segretaria particolare una volta divenuto Presidente del Consiglio nel 1945. Seguì il padre in molti viaggi in Italia e all’estero, incluso quello famoso negli Stati Uniti del 1947 che segnerà nell’orbita atlantica l’ingresso dell’Italia. De Gasperi a Roma viveva in casa con sette donne. La moglie, la sorella Marcella che era venuta a stare con le nipoti quando erano morti i genitori, le quattro figlie e la tata. Nel 1947 Maria Romana si è sp osata e Lucia è entrata in convento per farsi suora. Maria Romana sposò l’ingegner torinese Piero Catti, fratello di Giorgio, partigiano che cadde nella Resistenza e a cui è dedicato un Centro Studi a Torino.

Era, quello del marito, un gruppo di amici antifascisti appassionati di montagna. Ha avuto tre figli, Giorgio, morto giovane in Francia per un incidente, Paolo e Maurizio, scomparso nel 2017. Ha avuto quattro nipoti diretti. Appena sposata ritornò a vivere a Trento, stare vicino al padre la spinsero a ri ma il richiamo di Roma e il desiderio di prendere la via della capitale. A Trento conserva un ristretto ma fedele gruppo di amici.

La storia di questa donna speciale e il suo rapporto con il padre ci apre uno squarcio prezioso su ciò che un bravo giornalista, Aldo Cazzullo, ha definito “una delle poche rivoluzioni riuscite che l’Italia contemporanea abbia vissuto”: la rivoluzione affettiva tra padri e figlie.

Non si è ancora conclusa ma ha radici solide. Alcide De Gasperi fu un esempio di padre ‘nuovo’, non più solo padrone, ma uomo che non si vergognava dei propri sentimenti e, pur nel poco tempo che gli rimaneva, seguiva con passione e partecipazione anche infantile la crescita delle figlie.

Quando il padre morì, il 19 agosto 1954, nella piccola casa d i Sella in Valsugana, Maria Romana si sentì investita di una nuova missione: custodirne la memoria di fronte a un Paese che con facilità innalza agli altari e ancor più facilmente dimentica.

Tanto più avendo visto 2con quanta sofferenza suo padre alla fine della sua vita dovette piegarsi sotto le scalpitanti ambizioni di un ceto politico che forse non aveva capito quanto dura fosse la lezione della storia. Mentre la stessa Democrazia Cristiana sembrava abbandonare al passato il profilo ingombrante del suo fondatore, giudice implacabile da vivo e da morto della politica italiana, Maria Romana, con il sostegno della madre Francesca, che sopravvivrà molti decenni al marito, si immerse tra migliaia di carte e documenti che raccolse silenziosa da archivi e fondi pubblici e privati, traendone la prima vera biografia paterna, uscita nel 1964 con il titolo De Gasperi uomo solo. Poi per anni pubblica raccolte di documenti, saggi e interviste.

E se anche talora la passione e l’immedesimazione con la figura del padre prevale sui criteri filologici e storiografici, è difficile dire cosa sarebbe oggi la memoria di Alcide De Gasperi senza l’opera di Maria Romana. Molti studiosi hanno contratto con lei debiti di gratitudine.

Ma molti altri hanno preferito rimanere ai margini, senza capire che la sua fatica e il suo impegno avevano bisogno che intorno alla figura di De Gasperi crescesse davvero una coscienza collettiva per l’impegno civile e per un ideale federalista europeo. È ciò che la nostra piccola fondazione trentina, operativa dal 2008, ha ricevuto come compito.

Sarebbe sbagliato però ricordare Maria Romana De Gasperi solo come biografa e vestale di suo padre. All’attività editoriale accompagnò un’intensa attività di animazione civile. Percorse il Paese incessantemente da Nord a Sud, per parlare del padre e della sua lezione democratica ed europeista.

Non le mancava certo la capacità di narrare e di arrivare al cuore delle persone, grazie anche a quell'eleganza e compostezza che faceva specchio all'immagine del padre. Fino agli ultimissimi tempi, nonostante l'età, non viene meno a questo dialogo con il suo tempo, curando anche la rubrica settimanale su “Avvenire” a cui tanto teneva.

La sua figura di testimone degasperiana visse sempre al di fuori dalla vita dei partiti, rifiutando di essere eletta. Diceva che per servire il bene comune talvolta è preferibile fare un passo indietro. Rimase fedele agli ideali politici paterni, o almeno a quelli che lei valutava essere fondamentali.

De Gasperi non ha eredi politici, e questo è chiaro, ma l’unicità del personaggio, che è consegnato alla storia, non ci impedisce di cogliere nel suo stile e in quello di Maria Romana sfumature che hanno anticipato la rinascita di una Italia nuova, più libera e autonoma anche nella condizione femminile e nell’esercizio dei diritti e dei doveri civili.

Il Trentino, culla di molte storie nazionali ed europee, ha il dovere di essere in prima fila nel testimoniare che grandi ideali e grandi capacità possono sorgere e rivelarsi anche in piccole patrie, così come piccole patrie posso ambire ad esercitare un ruolo propulsivo solo se inserite in un contesto sovrastatale più ampio. Nella concezione degasperiana della storia essere minoranza non era una condizione di inferiorità ma piuttosto di forza, se si era animati da coraggio e visione.

Maria Romana, donna tenace, devota figlia amatissima, biografa di uno straordinario uomo pubblico ma anche di un padre e di una famiglia ricca di sentimenti gentili, riposerà in pace quando vedrà che sotto le ceneri della storia ardono comunque le braci di una umanità che fa dell’ospitalità, del rispetto reciproco e del confronto pacifico un dovere quotidiano oltre che cristiano.

RICCARDO MISASI, POLITICO DEMOCRISTIANO DI ELEVATE QUALITÀ, NEL RICORDO DI CHI LO HA CONOSCIUTO. 

Articolo di Errore Bonalberti, comparso sul giornale online "ildomaniditalia.it" del 11 agosto 2022
http://www.ildomaniditalia.eu/riccardo-misasi-politico-democristiano-di-elevate-qualita-nel-ricordo-di-chi-lo-ha-conosciuto/

Nel volume appena pubblicato da Rubbettino (Riccardo Misasi. Un tributo) sono raccolte le testimonianze sul politico calabrese scomparso nel 2000. Tra le varie abbiamo scelto di pubblicare, per gentile concessione, quella di Bonalberti.

Voglio ringraziare l’amico prof. Pino Nisticò, già presidente della Giunta regionale calabrese, per aver voluto e curato questa raccolta di testimonianze sulla figura di Riccardo Misasi, uno dei più autorevoli esponenti della terza generazione democratico cristiana.

 Ricevute alcune copie del libro ho iniziato a leggere il saggio con passione, al punto che, ogni volta che interrompevo per una pausa, non riuscivo a stare in riposo se non per qualche minuto, stimolato a riprendere immediatamente le riflessioni e i ricordi che tanti amici DC calabresi e non solo hanno voluto scrivere sul loro leader politico e amico.

Amici della sua corrente o appartenenti ad altre della costellazione interna democristiana, hanno espresso tutti il ricordo delle loro esperienze vissute insieme a Misasi, considerato unanimemente una personalità di grande spessore umano, culturale e politico, che, giustamente suo figlio Maurizio ha sintetizzato in una splendida immagine, quella di una persona che “ha concepito la politica come un servizio all’Uomo e alla sua libertà”. Una personalità che come è scritto nel motto della  Fondazione a lui intestata è: “guardare al futuro con cuore antico”.

Sì l’On Misasi questo seppe indicare a tutta la comunità democratico cristiana calabrese, ossia la capacità e la volontà di “guardare al futuro con cuore antico”. Lui che, alla Cattolica di Milano con gli amici che, dopo pochi anni, a Belgirate con Albertino Marcora, Ciriaco De Mita, Gerardo Bianco, Luigi Granelli e Giovanni Galloni, concorse alla fondazione della corrente DC della Base, dotato di una cultura straordinaria storica, sociologica, filosofica, giuridica e  politico istituzionale, mise a capo degli obiettivi della sua azione politica, il riscatto della sua terra dalle condizioni di isolamento e di arretratezza. A lui, infatti, si devono molte delle istituzioni che con la sua attività politica da ministro e parlamentare seppe realizzare in Calabria: dall’università  della Calabria (Unical) ad Arcacavata di Rende (Cosenza), del CUD (Università a distanza) del progetto Telcal (Telematica Calabria) e di numerose altre scuole prima assenti nel territorio, sempre coerenti con la linea della promozione umana e sociale con particolare riguardo ai giovani. La cultura come strumento di elevazione della condizione di emarginazione dei giovani della sua terra.

Commovente la testimonianza del suo amico e concorrente politico nel partito, il compianto Carmelo Pujia, l’uomo forte dell’area dorotea, che finì col formare un sodalizio fortissimo, una sorta di due dioscuri calabresi: l’uno, Pujia, impegnato soprattutto sul fronte locale e regionale e  l’altro, Misasi, su quello nazionale dove, oltre agli incarichi ministeriali, durante la segreteria nazionale dell’On De Mita, assunse il ruolo di capo della segreteria politica prima nel partito e di sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo presieduto dal leader avellinese. Un ruolo di dominus che, in un mio intervento al consiglio nazionale della DC amichevolmente paragonai a quello di un “Minosse”, colui che, nelle nomine consigliava De Mita con l’autorevolezza di chi “giudica e manda secondo ch’avvinghia”. 

Chi, come me, ha potuto conoscerlo e frequentarlo nelle occasioni dei lavori del consiglio nazionale del partito, non può dimenticare i tratti del carattere di Misasi, ben descritti nel libro. Quelli di un uomo sapiente, dai tratti gentili e sinceri sempre ispirati dalla volontà di concorrere all’equilibrio e alla ricomposizione dei contrasti; un politico che nei suoi interventi rivelava una capacità di eloquenza che lo rendeva unico tra i molti esponenti politici della DC. Fu proprio grazie a un suo appassionato intervento al congresso nazionale della DC del 1964, insieme a quelli dell’On Carlo Donat Cattin, che, diciannovenne, scelsi di militare nella sinistra allora unita della DC e per tutto il resto della mia vita. 

Di Misasi, al fine di comprendere la statura morale, culturale, giuridica e politica dell’uomo basterà ricordare, con le opere da lui promosse come l’apertura dell’università anche ai figli delle classi meno abbienti provenienti dagli istituti medi superiori e l’avvio dell’università della Calabria e delle due facoltà di farmacia calabresi, l’essere stato l’interlocutore privilegiato di Aldo Moro. Fu, infatti, Riccardo Misasi, il politico democristiano cui Moro dal carcere delle BR inviò la lettera nella quale chiedeva di intervenire nella DC, con tutte le argomentazioni giuridiche e politico istituzionali  insieme a quelle  etico morali più opportune per favorire la sua liberazione. Sarà il più grande cruccio di Misasi quello di non essere riuscito a far prevalere quelle indicazioni e a convocare, su delega ricevuta dallo stesso Moro, il consiglio nazionale del partito. Prevalse, ahinoi, la linea della fermezza e con la morte di Moro si aprì la lunga stagione del declino e della fine politica del nostro partito.

Edito da Rubbettino, questo tributo a Misasi curato da Pino Nisticò, mi auguro avvii una serie di studi e approfondimenti su coloro che nei diversi territori regionali e in sede nazionale sono stati i rappresentanti più autorevoli dei loro elettori e del nostro partito. Da parte mia, con l’amico Mario Tassone e alcuni autorevoli professori di storia dell’università di Padova abbiamo promosso il comitato 10 Dicembre 2021 che, tra i suoi obiettivi, ha proprio quello di approfondire lo studio delle figure più autorevoli della DC veneta. Un obiettivo che la DC dovrebbe far proprio in tutte le nostre realtà locali, anche per superare la damnatio memoriae con cui una pubblicistica radicale, laicista e anti DC, ha sin qui relegato la nostra storia politica e amministrativa. 

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L’on. Riccardo Misasi è stato ricordato nella Sala Nassarya del Senato per iniziative della Associazione Pericles presieduta dal prof. Pino Nisticó.
Moltissime le presenze.
In tutti gli interventi la figura del parlamentare e dell’uomo di governo cosentino è stata posta nella giusta luce.
Molte considerazioni sono uscite dalla ritualità delle frasi fatte.
Nel mio intervento ho inteso raffrontare la stagione in cui ha vussuto e operato Riccardo con l’oggi.
Allora c’era la politica, l’orgoglio dell’appartenenza, la voglia di partecipare,il forte desiderio di contribuire ;oggi c’è l’attendismo che è il contrario dell’assunzione della responsabilità.
Oggi i pensieri seguono gli schematismi di linee preordinate da chi gestisce e non sono il prodotto di una pluralità di apporti.
Nei partiti,nel l’associazionismo nasceva la classe dirigente, nel libero pensiero e nelle visioni nuove si allargava l’area della democrazia.
Misasi fu un uomo generoso che nella politica espresse le sue grandi capacità che mise a disposizione della collettività.
Fu un Uomo di fede,di passione.
Il lascito morale di Riccardo è la coerenza che stride con i tanti opportunistici traslochi di oggi e l’approccio ai problemi fatto con calore. Riccardo Misasi ha dato molto a tanti amici.
Ma alla fine fu lasciato solo quando aveva bisogno dì solidarietà in un momento in cui la macchina del fango era stata attivata per uccidere un Uomo giusto.
La giustizia ha vinto sulle tante miserie di una lotta politica fatta per demolire l’avversario inteso come nemico.
Oggi possiamo raccogliere tanto dalla vita terrena di Riccardo Misasi: l’orgoglio di essere stati Democratici Cristiani.
Prendiamo il coraggio di riportare nell’attualità l’impegno unitario del popolarismo e dei cristiani democratici.
Il ricordo di Misasi è vero se ci convinceremo che quel Suo mondo politico che fu di tanti, va recuperato perché ideali e valori siano guida di una società sofferente.
Mario Tassone

GIORGIO LA PIRA: La Frontiera dell'Apocalisse.

L'ultimo discorso di La Pira ai giovani de «La Vela»

 

articolo del 04/11/2017 di Redazione Toscana Oggi 

Come ogni anno, anche alla vigilia di Ferragosto del 1975 l’ex sindaco di Firenze parlò di pace ai giovani in vacanza al villaggio di Castiglione della Pescaia. Non l’avrebbe più fatto: e oggi quelle parole sono di nuovo quanto mai attuali. Quello che presentiamo è tratto dalla sbobinatura del discorso, ancora inedito, che La Pira fece quel 13 agosto 1975 a La Vela.

 

Il 13 agosto 1975 fu l’ultima volta che Giorgio La Pira parlò ai «giovani di Pino», al campo-scuola al Villaggio «La Vela» di Castiglione della Pescaia (Gr). Nell’estate seguente le sue condizioni di salute erano già precarie e saltò quello che era ormai diventato un appuntamento consueto alla vigilia di Ferragosto con il turno dei «più grandi». Non volle mancare invece al tradizionale pellegrinaggio a Roma del 3 novembre, che dal 1972 aveva come meta San Pietro, con la Messa e l’udienza dal Papa, e poi nel pomeriggio la visita ad un luogo storico, relativo al percorso di studio che i giovani – sotto la guida di don Ferdinando Manfulli – avevano fatto nei giorni precedenti a Firenze: dall’«Ara pacis» all’Arco di Costantino, dalle catacombe a Castel Sant’Angelo... Ad illustrarne il senso, all’interno della sua visione teleologica e bipolare della storia, era sempre La Pira. Fino a quel 3 novembre 1976, quando le forze rimaste gli permisero solo di partecipare alla Messa e all’udienza di Paolo VI al mattino per poi rientrare a Firenze e lasciare le spiegazioni storiche in piazza del Campidoglio all’amico Fabrizio Fabbrini.

I suoi incontri con i giovani dell’Opera venivano sempre registrati (anche se non tutti ci sono poi rimasti). Il testo inedito che pubblichiamo in queste pagine è parte della sbobinatura del suo ultimo incontro a «La Vela», quel 13 agosto 1975. Davanti a lui, con Pino Arpioni, oltre cento giovani dai 17 anni in su. Il professore parte, come era solito fare, dai «segni dei tempi», dai grandi avvenimenti mondiali di quegli anni (come i colloqui tra Ford e Breznev, la Conferenza di Helsinki, l’Anno Santo voluto da Paolo VI) per poi tracciare un bilancio del cammino compiuto proprio con i giovani dell’Opera Villaggi per la Gioventù, che dopo la morte del Professore si chiamerà appunto Opera «La Pira». Una riflessione che a distanza di oltre 40 anni mantiene tutta la sua attualità proprio nel momento in cui torna lo spettro di un possibile conflitto nucleare.

Claudio Turrini

 

La frontiera dell'Apocalisse

Questa è la situazione, il contesto storico di questo momento, oggi 13 agosto 1975. (…) 6 agosto 1945: trent’anni dopo la prima atomica, che era di 0,0015 megatoni. (...) Il primo problema è l’atomica. Perché essa è veramente il problema della vita o della morte del genere umano e dello spazio. 

Che si è fatto in questi trent’anni? 

Abbiamo cercato di eliminarlo, di non pensarci, per non aver dubbi di coscienza. È come un debitore che ha molti debiti: cerca di non pensarci. (…)

Tutti i problemi, politici, culturali, spirituali, sono tutti legati a questa frontiera dell’Apocalisse. O finisce tutto, o comincia tutto. O eliminare l’atomica o saremo tutti quanti eliminati globalmente, in un contesto atomico. Contesto spaziale… Chi di voi non sa quello che è avvenuto? L’incontro tra Apollo e Soyuz. Che senso ha? Le stalle del cielo sono aperte. Voi potete tirare una bomba atomica di lassù… Quanti mutamenti dall’anno passato a quest’anno: già un milione di megatoni – 0,0015 quella di Hiroshima.

Poi il contesto politico. Parliamoci francamente… Qualunque sia l’intenzione, non conta… Il fatto è che Urss e Stati Uniti, Ford e Breznev, hanno stabilito un ponte. L’unità del mondo almeno su questo piano atomico e spaziale è già realizzata. Poi, la Conferenza di Helsinki, una cosa incredibile, come mai sia avvenuta. Perché non è soltanto europea: l’Europa unita e con essa l’America, il Canada… tutto il mondo. E a capitano di questa conferenza europea chi c’è? C’è Paolo VI. Non c’era mai stato che la Santa Sede avesse una funzione motrice e definitoria nelle conferenze internazionali. Che senso ha?

Poi finalmente la componente spirituale. Supponiamo – confratelli – che lo Spirito Santo esista – ed esiste –, la ragion d’essere della Trinità è tutta qui, in qualche maniera. Poniamo che la Chiesa – Pietro – abbia la sensibilità di afferrarne il movimento. E bandisce l’Anno Santo con questa specifica definizione: l’anno in cui il genere umano viaggerà – è rivolto ai giovani – verso il porto escatologico. Quindi inevitabilmente sei chiamato… La terza età. Qual è questa terza età? L’età dello Spirito Santo. Che significa età dello Spirito Santo? L’età in cui fiorisce… L’età in cui o avviene la distruzione della terra, l’età atomica, del cosmo o non avvenendo questo avviene un’altra cosa, che è la fioritura della terra. Quaggiù l’anno del millennio. Che significa la pace universale? Il testo di Isaia: la pace universale, le armi cambiate in aratri, la giustizia in qualche maniera attuata tra tutti i popoli della terra e una cultura (...). Il nostro tempo, se voi lo analizzate culturalmente e spiritualmente, lo troverete fermentato da queste varie componenti, teso verso la pace universale – Isaia –, verso l’unità di tutti i popoli della terra – lo stesso Isaia –, il disarmo inevitabile – lo stesso Isaia – , e la contemplazione dei grandi misteri della Chiesa e della storia. Inevitabilmente, non c’è niente da fare.

Supponiamo quando ci vedremo il prossimo anno – inshallah –, fra due anni, fra tre anni… e voi ci riflettete, vedrete come c’è questo cammino sempre crescente, sempre verso un porto, il porto escatologico, che è il porto finale sulla terra, della fioritura del mondo.

Il punto in cui siamo, da dove veniamo, è un punto interessante è il punto dell’Apocalisse. L’Apocalisse ha due volti: il volto della distruzione totale e il volto della ricostruzione totale.

Da dove veniamo? Con questa barca che ha come capitano te (Pino), come bandiera la Vela… In questi anni si è fatto un discorso organico, non a caso. Quali sono le tappe che abbiamo attraversato? La prima tappa è quando abbiamo difeso la persona: una lettera fatta a te «Caro Pino» (pubblicata sulla rivista dell’Opera, «Prospettive», ndr). Qui tutti parlano… ma la persona chi è? Cos’è questo individuo? E abbiamo affermato che questa persona ha senso, questo individuo ha senso, se è su una barca ancorata a uno scoglio. E questo scoglio è soprannaturale, senza di che si spezza, si sbanda, una nave sbandata. E noi abbiamo contestato questa nave sbandata.

La seconda tappa di questo cammino che abbiamo fatto: i punti fermiCioè questa nave che cammina ha una bussola, dei punti fermi, punti fissi, stelle fisse che non mutano con il mutare degli eventi? Sì. E quali sono? Quattro. Noi abbiamo affermato, contestando i punti mobili, che vi erano dei punti immobili, delle stelle fisse attorno a un punto Omega. Noi crediamo la scelta del Messia di Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente; la scelta della Samaritana: Dammi da bere, l’acqua, la Grazia che integra ed eleva la persona umana; la scelta di Cesarea: Tu sei Pietro, e su questa pietra…; e la scelta di Isaia, che è quella di Nazareth: Sono venuto a liberare gli oppressi. Queste quattro scelte sono i quattro punti immobili verso i quali viaggia sempre inevitabilmente come la bussola la nave che noi abbiamo, questa nave con questa Vela.

Poi non solo. Poi siamo andati a Roma e abbiamo fatto tre viaggi: nell’uno abbiamo fatto l’asse tra Pietro e Augusto, l’Ara Pacis... La seconda Pietro e Costantino. La terza Pietro e Giustiniano (Cesare fui e son Giustiniano). E poi continua… E arriva fino ad oggi: Pietro e Helsinki. Il telegramma che abbiamo fatto per la cosa di Helsinki dice così: «Questa nave della pace, che è stata disegnata nelle capitali europee, che è stata costruita nel cantiere di Helsinki, e che levata l’ancora è scesa nell’oceano della storia». E poi, finalmente, indicando che cosa? Che la storia ha una sua finalità, suprema, imbattibile, invincibile – la teleologia della storia – che ha un suo fondo, è bipolare: per un verso la Chiesa e per l’altro l’impero. La tesi di Dante. Che c’è una storiografia del profondo. E finalmente questa fioritura del mondo e il porto escatologico. Questa è stata la seconda tappa. Prima tappa la persona, seconda tappa la storia. E questa è l’ultima tappaDove si va? Si va verso la fine, il porto escatologico, che è caratteristico dell’Anno Santo, che orienta tutto l’Anno Santo, in cui noi ci includiamo.

Ora ragazzi, questo è il problema vero. Siamo in navigazione, tenuti tutti a dare un colpo di remo a questa nave. Per condurla dove? Verso il porto escatologico. Come si dà questo colpo di remo? La forza fondamentale è la preghiera, l’unione con Dio, interiore, l’uomo interiore, che muove qualunque cosa. Qualunque cosa voi chiederete vi sarà dato… Quindi aiutare tutti gli sforzi perché la nave arrivi in porto. Non è facile perché le tentazioni nemiche sono tali, perché le difficoltà terrestri sono tali, economiche, finanziarie, politiche. Perché bisogna ridurre questo mondo a una unità. Come un’unica famiglia che ha Dio per Padre. La Chiesa è orientatrice. E tutti noi per fratelli, senza distinzione di classe… L’unica forza motrice… Tenendo conto che c’è ancora da imbarcare Israele, tutto; tutti i non credenti, tutti, di qualunque denominazione siano; tutto il terzo mondo, la Cina. Tutti i popoli imbarcati verso la pienezza degli ebrei e degli arabi, la famiglia di Abramo, e verso la pienezza dei gentili, tutti i popoli della terra.

Dice: ma è possibile? Non c’è altro. San Paolo nella Lettera ai Romani lo dice in maniera esplicita, chiara: Pienezza degli ebrei e pienezza dei gentili. Questa barca deve fare questo viaggio, inevitabilmente. E ciascuno di noi è corresponsabile di questo viaggio. La può aiutare con la sua vita interiore e con la sua azione a tutti i livelli, politica, economica, culturale e spirituale. Non possiamo dire: «Sa, io non c’ero». Lei c’era. Perché o affonda anche per te o fiorisce anche per te. (...) Il discorso che fece Kennedy, nel ’61: diecimila anni di pace o la terra ridotta a un braciere, è vero oggi più di ieri, inevitabilmente. Isaia, ogni giorno più diventa lo storico contemporaneo, la lettura attraverso questa lente degli avvenimenti che si svolgono davanti a noi. E noi tutti coimbarcati, con maggiore o minore responsabilità. (...) Per dare alla terra questa fioritura che poi alla fine è il regno millenario di Cristo, quaggiù.

CIRIACO DE MITA – Il ricordo di Gerardo Bianco
 

26.05.2022 - E' morto stamani ad Avellino Ciriaco De Mita all'età di 94 anni. In ricordo dell'ex Presidente del Consiglio ed ex Segretario della Democrazia Cristiana, pubblichiamo un articolo di Gerardo Bianco, scritto per il "Quotidiano del Sud". In questo testo di Bianco,   i ricordi personali  si mescolano alla ricostruzione del profilo politico e culturale di De Mita, uno dei più significativi ed influenti esponenti della vita democratica e repubblicana del dopoguerra.

Ecco l'articolo:


De Mita e l’“intelligenza della politica”

«La politica è conoscere le vicende e dominarle con l’intelligenza», così De Mita apriva il suo discorso al XV Congresso della Democrazia Cristiana che lo elesse Segretario del Partito.

È stata questa la sua costante convinzione: la politica intesa, appunto, come ragionamento, “freddo e lucido” continuava a dire, per capire gli eventi e trovare le appropriate soluzioni.

Ciò significa creare “nuova statualità”, in grado di canalizzare armonicamente la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole da tutti condivise.

La politica per De Mita, la grande passione della sua vita, è, quindi, soprattutto, cultura delle istituzioni.

Se dovessi indicare una data per l’origine, o comunque la “messa a punto” di questa visione della politica come progressiva costruzione e cura dello Stato democratico, risalirei agli anni della sua formazione universitaria nella Cattolica di Milano. Siamo nell’aureo quinquennio degasperiano, tra il 1949 e il 1953. De Mita approdava a Milano avendo già esperienza associativa e politica; conosceva Fiorentino Sullo, l’indiscusso e innovatore leader democristiano dell’Irpinia, era convinto per le sue letture, che bisognava superare lo Stato liberale, ma è nella vivace e raffinata facoltà giuridica della Cattolica, nell’insegnamento del suo maestro Domenico Barbero e dei dialoghi inesausti, anche notturni, con noi puntigliosi colleghi dell’Augustinianum, che egli andò precisando il suo pensiero politico come costruzione costante di regole ampiamente condivise, ma con grande attenzione alle trasformazioni in atto di una società “ribollente” come quella post-bellica, che andavano ben interpretate.

Siamo agli albori dei primi anni ’50 del secolo scorso e dei primi slanci vitali di una rinascita, appunto, dopo la distruzione fascista, che si manifestava a Milano in modo particolarmente vigorosa. Continue erano le scoperte e le innovazioni, dalle mostre pittoriche, ai grandi incontri culturali, ai concerti di leggendari pianisti, alla rinascita del teatro e del cinema che aveva in Mario Apollonio, l’italianista della Cattolica, uno dei più ascoltati ispiratori, mentre si avviava la grande ricostruzione edilizia, e robusta riprendeva la produzione industriale. La città si animava di nuovi negozi, cinema e mostre, a partire da Viale Manzoni, dove eleganti si aprivano al pubblico le vetrine di Motta e di Alemagna.

Dinanzi a tanto dinamismo era inevitabile che la politica cercasse di mantenere il passo, e numerosi erano i circoli e i dibattiti, anche pubblici, in Galleria e in Piazza Duomo. La tradizione del popolarismo e il rilancio della Democrazia Cristiana erano a Milano molto robusti. Ciò non poteva non avere un forte impatto nella “Cattolica” dove consistente era, con Giuseppe Lazzati, la presenza del dossettismo, ma anche di tendenze legate ai Comitati Civici di Gabrio Lombardi. E fu in occasione di una sua conferenza all’Università che De Mita organizzò una manifestazione di netto dissenso che metteva ben in luce la sua concezione anti-integralista della politica, l’ascendenza ideale alla lezione degasperiana, rivisitata da una coscienza più attenta verso le trasformazioni sociali necessarie, a partire dal Mezzogiorno d’Italia che fu un punto fermo della sua vita politica.

Nella logica di questo orientamento “naturale” fu l’incontro di De Mita con la corrente di Base, che proprio a Milano aveva origine, con Marcora e Granelli, e che si apriva a nuovi orizzonti di allargamento dell’area democratica, con un colloquio avviato con il socialismo meneghino nella città fortemente radicato. Nella Base De Mita divenne, per molti aspetti, il teorico della piattaforma politica e istituzionale.

Sulla sua lunga vicenda politica, che ha le radici nell’Irpinia dell’immediato dopoguerra, e nel fervido laboratorio intellettuale dell’Università Cattolica di Milano degli anni ’50, e sul concreto operato politico nelle diverse esperienze di governo e di partito, può addentrarsi solo un’avveduta ricerca storica, scevra da pregiudizi che valuti successi, sconfitte e anche contraddizioni. Ma ciò che si può già affermare è che egli ha sentito la politica come alta vocazione, che indubbia è la coerenza del suo pensiero che si condensò in una dottrina democratica nella quale le “istituzioni pensano e agiscono”, lanciando fortunate formule politiche come il “patto costituzionale” e “l’arco costituzionale”.

A testimoniare l’autentica passione politica v’è la sua biografia. Egli, infatti, non ha mai considerato gerarchie nei ruoli da svolgere, passando, appunto, dai vertici della Repubblica alla guida come Sindaco di un piccolo comune, Nusco, sia pure paese natio.

In un momento storico nel quale sempre più si manifesta la crisi della democrazia rappresentativa e, quindi, del Parlamento, e riemergono tentazioni decisioniste con le proposte presidenzialiste, la lezione politico-istituzionale di Ciriaco De Mita, risulta di grande attualità e ci ammonisce di quanto sia illusoria e pericolosa la soluzione del Governo affidata al leader di turno, favorendo, così, le spinte populiste, invece di costruire lo spirito pubblico e il consolidamento sociale di un popolo.

Questo ragionamento ascoltavo nei lontani anni della Cattolica, l’ho ritrovato, limpidamente esposto, nei suoi libri e l’ho sentito ribadito ancora di recente, nell’estate scorsa.

È un insegnamento che resiste nel tempo, perché solido e meditato e che rende De Mita un indiscusso protagonista della tormentata democrazia italiana.

Non sempre le decisioni, le scelte, la gestione del potere sono state da me condivise.

Agli anni della profonda intesa, nata negli ambulacri della Cattolica, proseguita nelle battaglie politiche avellinesi e nel cammino del primo, comune decennio parlamentare, sono seguiti periodi di dissenso, ma poi anche di robusto accordo per difendere la storia dei cattolici democratici, al momento della grande frattura buttiglioniana. Diversa ancora è stata la valutazione dello sbocco politico del popolarismo nell’afono movimento pidiessino, ma comune resta la difesa intransigente di una storia politica come quella democristiana che ha costruito la Repubblica democratica dell’Italia, in un quadro rigorosamente europeo.

In questo lungo tempo di alterni rapporti, non si è, comunque, mai spezzato il filo sottile dell’amicizia che ha continuato ad accomunarci, anche nella condivisa profonda amarezza per il tramonto della forza politica, la Democrazia cristiana, alla quale abbiamo dedicato la vita, ma che resta un prezioso serbatoio di dottrine e di metodo politico che può ancora indicare la strada di una nuova, seconda rinascita dell’Italia.

Gerardo Bianco

BARTOLO CICCARDINI - Commemorazione all'Istituto Sturzo - 1 ottobre 2014

 

 

 

interventi di: Gerardo Bianco, Massimo Cortese, Maurizio Eufemi, Alessandro Forlani, Francesco Malgeri

tratti dal sito: bartolociccardini.wordpress.com

 

 

 

 

 

 

 

INTERVENTO DI GERARDO BIANCO

 

Se dovessi immaginare una raffigurazione di Bartolo Ciccardini, sintetica della sua personalità, non riuscirei a trovare nessun’altra immagine che non sia quella di un vulcano in continua eruzione, perché era tale la sua capacità creativa e inventiva, che peraltro si traduceva in linee culturali e politiche molto precise ed erano così innovative ed anche, in qualche maniera, spiazzanti le sue scelte, da apparire a molti, un po’ schizzinosi del rigore della politica, perfino “poco politico”, mentre invece Bartolo Ciccardini riusciva a guardare nel presente, avendo ben chiaro quello che era il flusso culturale, politico e sociale che si innervava nella nostra società.

La mia è un’amicizia antica, che risale ai tempi della Cattolica e si è sempre intrecciata con la sua storia personale.

Io so che molti vogliono dare testimonianza di questo rapporto con Ciccardini e presentarne lati della sua ricchissima personalità, quindi non posso che essere succinto e breve. Tanto più succinto quanto più ampia è la storia personale di Ciccardini, perché attraversa tutta la vicenda della Democrazia Cristiana, direi fino ai nostri giorni. È una storia che comincia da lontano, comincia quasi agli albori della storia della Democrazia Cristiana. Egli partecipa ed è testimone di quell’incontro, diventato mitico, all’interno della nostra vicenda politica, che è l’incontro del “porcellino”, quell’incontro straordinario fra Dossetti, Fanfani, Lazzati, la Bianchini ed altri. Ciccardini ne è testimone, ed ha lasciato in questo libro, dedicato a Franco Maria Malfatti, che abbiamo presentato qualche giorno fa a Rieti, una testimonianza bellissima di questa sua esperienza.

Ciccardini, come ha detto benissimo poco fa Francesco Malgeri, appartiene ad una generazione che ha segnato la storia del nostro Paese in momenti fondamentali ed importanti. E’ la generazione degli anni ’20, la generazione che prende in mano l’Italia, dopo la guida di De Gasperi.

È una generazione interessantissima, ha nomi prestigiosi, importanti, oggi non catalogati fra i grandi personaggi della storia, perché altra è la storia che viene scritta nel nostro Paese. E qui, se permettete, come un mantra, continuo a ripetere che la storia della Democrazia Cristiana, caro Malgeri, non è stata scritta, o quella che è stata scritta è una storia distorta, artefatta.

Peraltro, la cosa singolare è che quando si parla di questi personaggi della Democrazia Cristiana, grandi personaggi, e sono tanti, sono decine di migliaia di persone, paradossalmente non si riesce a criticare la grandezza di questi personaggi e si usa sempre dire, lo hanno fatto perfino con Martinazzoli, nostro grande punto di riferimento, “democristiano anomalo”, quasi che questi personaggi, che hanno scritto la storia, sono differenti da che cosa sia stata la Democrazia Cristiana, che non è stata affatto capita, perché complessa è la sua natura.

Io voglio sottolineare che qui c’è una testimonianza importante di che cosa abbia rappresentato Bartolo Ciccardini nel contesto democratico: è la presenza di Pannella, che dimostra quanta capacità lui aveva di colloquio con uno che rappresentava, dal punto di vista della visione fondamentale dei valori della società, qualcosa di molto distante rispetto alla cultura cristiana, però c’era questa grandezza in Ciccardini, la capacità di colloquiare portando tesi, affrontando i temi con una presenza culturale molto raffinata.

Bisogna leggere i suoi scritti, bisogna anche scoprire quella sua venatura spirituale ed anche religiosa che soprattutto ha alimentato gli ultimi bellissimi scritti di Camaldoli, l’ultimo tentativo che insieme abbiamo sviluppato per mantenere viva la fiammella di una cultura politica che rischia di essere completamente dimenticata, ignorata e che sicuramente, sparendo dal panorama politico italiano, rischia di impoverire complessivamente tutta la cultura e la società del nostro Paese.

Bartolo Ciccardini ha inventato mille cose. Nei momenti di depressione del partito c’era Bartolo Ciccardini che accendeva una fiammella.

Io voglio ricordare, qui c’è Ferrarini, quello che lui fece, per esempio, in un momento di depressione della Democrazia Cristiana, inventò le feste dell’amicizia e ci fu il grande incontro di Palmanova che, come ricordate, fu la riscoperta che, in fondo, non tutto era cenere nella Democrazia Cristiana, che c’era ancora fuoco all’interno della Democrazia Cristiana e quel fuoco si riaccese intorno a Zaccagnini, intorno alla Democrazia Cristiana, e si accesero nuove speranze, che poi sono andate, ahimè, perdute, anche per nostra insipienza.

Era un personaggio che aveva nell’animo quella che si chiama la curiositas, un termine latino che dice molto più della nostra curiosità. Voleva dappertutto sapere, capire.

Io non voglio farla lunga, ma una delle cose che mi ha più colpito era che, quando discuteva con me, amava parlare del Mezzogiorno ed ero sorpreso perché conosceva episodi, fatti, vicende che a me, che pure vivevo nel Mezzogiorno e che qualche libro l’avevo pure letto, riuscivano praticamente ignote.

Mi dette una volta un manoscritto ed io questo manoscritto ho voluto che fosse pubblicato. È nato questo libro “Viaggio nel Mezzogiorno d’Italia”. E’ un libro di una scrittura, come lui sapeva fare, vivace, ricca. Aveva indagato dappertutto, aveva letto libri di autori dimenticati, scritti in un italiano desueto, ma erano ricchi di notizie che diventavano una storia sorprendente, intensa era questa sua capacità di indagare, per esempio, sulle Repubbliche marinare, e poi anche nella vita vera, materiale delle comunità nella loro cultura popolare, perché per lui cultura popolare era anche l’incontro con i cibi, descritti in vivaci squarci narrativi. Voglio ricordare questo aspetto importante della sua attività. Egli infatti è l’inventore della catena Ciao. Sapeva che la cultura popolare si manifestava in tutte le espressioni della vita, non era solo pensiero, non era solo astrazione. Non parlerò qui di quella che è stata poi la sua intuizione del modo di affrontare la crisi italiana, c’è qui Zamberletti, c’è qui Mario Segni, ci sono altri amici che tentarono allora di capire che forse bisognava dare una svolta, che non passasse solo per la dialettica politica. Io appartenevo ad una corrente che pensava che la soluzione della crisi italiana passasse per la dialettica fra i partiti, e non invece per una capacità incisiva riformatrice dello stesso partito democristiano che, cambiando alcune regole dell’organizzazione istituzionale del Paese, fosse in grado di affrontare la crisi. Naturalmente allora ci fu una grande offensiva mediatica contro, e quindi la demonizzazione del movimento accusato di gollismo, come antidemocratico. Ciccardini fu invece un anticipatore, un inventore di soluzioni democratiche che oggi sono diventate pane quotidiano. Si pensi, per esempio, alle famose primarie, ma soprattutto alla battaglia per l’elezione diretta del Sindaco, una battaglia che cominciò da lontano e che riuscimmo con Segni a realizzare solo nel 1992.

La sua è una storia straordinaria e, per scriverla, spero che prima o poi ci si metta insieme a elaborarla, perché scrivendo la storia di personaggi come Bartolo Ciccardini si aiuta, a mio avviso, a scrivere la storia non ancora scritta della Democrazia Cristiana, quella ignorata eppure luminosa. Credo che Bianchi ricorderà, per esempio, le sue ostinate battaglie per ricordare quello che è stato dimenticato, l’apporto che i partigiani cristiani e 400 sacerdoti sacrificati durante la Resistenza, hanno dato alla storia del Paese. Anche questa è una battaglia sulla quale si è caratterizzato moltissimo l’impegno storiografico di Gabriele De Rosa, quasi che la Resistenza non avesse visto la partecipazione attiva degli uomini che appartenevano al filone culturale e politico cattolico-democratico.

Testimonianza del suo amore per la storia e la libertà è questo libro, che è stato prefato, come è stato ricordato, da Scoppola. Ma io voglio soprattutto richiamare il ricordo della sua scorribanda storica lungo le strade del Mezzogiorno. Rosaria ricorderai quando noi a Positano lo presentammo. Era felice e contento, così come credo che felice sia finita la sua ultima giornata, ancora fortemente impegnato nella sua battaglia ideale. Non si rassegnava alla fine della nostra storia e fino all’ultimo ha tentato di mantenere vivo almeno il discorso culturale.

Per me il ricordo è insieme politico e personale.

Se permettete, perché è una sintesi, faccio un riferimento molto personale.

Forse non è elegante che io citi qui la pagina che lui, quando io gli ho fatto pubblicare questo libro e inserita una mia prefazione, mi ha dedicato, però lo faccio lo stesso.

Caro Gerardo, da quando ci siamo conosciuti, nel 1952, per un mio pellegrinaggio alla Cattolica, a causa di Terza Generazione (è il momento di ripresa di un discorso nuovo) la mia strada politica è segnata da pietre miliari, che si chiamano “lettere a Gerardo Bianco”. Non c’è fase del nostro comune andare che non sia segnata da una lettera a Gerardo Bianco. Questo libro, di cui sei stato osservatore ed osservato, è in realtà una lettera a Gerardo Bianco, che vi appare come maestro in verità, come Virgilio, nel mio viaggio.”

Questa è una delle pagine più care che ho ricevuto fra i tanti amici. Volle regalarmi questa cravatta. Questa cravatta, come vedete, porta la balena bianca, non la vediamo più all’orizzonte. I balenotteri pare che siano scomparsi, ma prima o poi la politica, come la natura, ricrea sorprese.

Mi dispiace soltanto che il postino non busserà più per portarmi le lettere di Bartolo Ciccardini.

Gerardo Bianco

 

L’Azione ricorda Bartolo Ciccardini  - Commemorato a Roma l’onorevole cerretese Bartolo Ciccardini

di MASSIMO CORTESE (su l’Azione del 16 Ottobre 2014)

Se mi avessero detto che, alla Commemorazione dell’onorevole democristiano Bartolo Ciccardini, sarebbe stata letta una commossa lettera dell’onorevole comunista Luciana Castellina, che manifestava grande stima per Bartolo, conosciuto nei lontani Anni Cinquanta, e che al coro degli elogi si sarebbe unito l’onorevole radicale Marco Pannella che, non pago del suo bellissimo e interminabile intervento, come solo lui sa fare, avrebbe sollecitato l’onorevole democristiano Arnaldo Forlani a prendere la parola, avrei risposto, senza mezzi termini, che non poteva essere vero. Invece è tutto vero, come è stato documentato da Radio Radicale, che ha filmato l’evento, e dai miei due compagni di viaggio, il cerretese Alberto Biondi, cugino di Bartolo e locale presidente dell’ANPI ed il professore Aldo Crialesi, che per un trentennio è stato vicedirettore de L’Azione. Per questa ragione, quando Michela Bellomaria mi ha chiesto di scrivere qualcosa per L’Azione sulla Commemorazione del vostro Illustre Concittadino, ho pensato che la mia riflessione fosse da considerarsi un obbligo, specialmente nell’attuale momento storico in cui la vostra amatissima Cerreto d’Esi è Commissariata, segno inconfutabile che la Politica cittadina vive un momento di difficoltà. Perché Bartolo Ciccardini, oltre ad essere un giornalista, uno scrittore, uno che pensava in grande, era essenzialmente un politico, ma non ha mai dimenticato i suoi legami con i luoghi dove è venuto al mondo. Vi chiedo scusa se questa mia riflessione richiederà qualche minuto del vostro tempo, cercherò di fare del mio meglio: sarà un’impresa ardua, ma non impossibile: io andrei ad iniziare.

“è mercoledì 1° ottobre 2014, sono le quindici e quaranta, sto per entrare a Palazzo Sturzo a Roma per partecipare alla Commemorazione dell’onorevole Bartolo Ciccardini, che aveva scritto la prefazione per il mio ultimo libro. Nessuno è arrivato, sono in grande anticipo, vado a cercare la sala dell’incontro, sul tavolo posto all’ingresso della sala trovo due lettere su carta intestata dell’Istituto Sturzo, una scritta da Pino Ferrarini, un suo amico, mentre l’altra riporta il ricordo di Luciana Castellina. Incuriosito, vado a leggere questa lettera appassionata, perché racconta con nostalgia dei lontani Anni Cinquanta, al tempo degli incontri e degli scontri tra i due opposti schieramenti dei giovani comunisti e dei giovani democristiani, nel corso dei quali prese a stimare Bartolo. I primi ad arrivare sono due operatori di Radio Radicale, con i quali scambio alcune opinioni a proposito della trasmissione Radio Carcere, che va in onda presso la storica emittente il martedì sera alle 21.00 e viene replicata il giovedì sera. Nel frattempo la sala comincia a riempirsi, vedo arrivare molti volti noti, tra i quali il ministro Zamberletti, Gerardo Bianco, Mario Segni, Arturo Parisi, Calogero Mannino, Maria Pia Garavaglia e i marchigiani Francesco Merloni e Adriano Ciaffi, oltre a un bel plotone di giornalisti, tra i quali riconosco il sempre verde Gianni Bisiach, che per un amante della Storia come me è una specie di mito. In una sala affollatissima la Commemorazione ha inizio alle ore 17.15 con l’intervento di Giuseppe Sangiorgi, il Segretario Generale dell’Istituto Sturzo che, nel fare gli onori di casa, prova ad immaginare una vicenda curiosa che potrebbe avere accompagnato la scomparsa: “Quando Bartolo è andato in Paradiso, e a San Pietro è stata presentata la lista dei nuovi venuti, il santo, quando ha saputo che c’era Bartolo, è andato ad accoglierlo, data la sua grande popolarità anche da Quelle Parti “. I posti a sedere sono tutti occupati, a parte uno che, per ironia della sorte, è quello accanto al mio. In quel momento vedo Pino Ferrarini che, visto il posto libero, fa: è arrivato Marco Pannella, questo è libero? Certo, faccio io, onorato dall’insolita situazione, ma dopo qualche secondo un signore occupa il posto. Sento dal fondo della sala il vocione inconfondibile dell’onorevole Pannella, che ho spesso sentito a Radio Radicale e alla TV: a quel punto, c’è una sola cosa da fare: quando Ferrarini accompagnerà Pannella al posto che lui ritiene libero, il sottoscritto si alzerà e gli cederà il posto. Ed è esattamente quanto è accaduto: incredibile davvero! All’intervento introduttivo di Sangiorgi, segue quello dello storico Francesco Malgeri, che cerca di riassumere brevemente l’esperienza politica di Bartolo, nelle vesti di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito, giornalista, scrittore, autore di slogan e manifesti elettorali come il Famoso “La DC ha vent’anni” del 1963, direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia… È poi la volta di Gerardo Bianco, che regala all’uditorio l’immagine più genuina dell’onorevole Ciccardini: un vulcano in continua eruzione. L’ intervento di Gerardo Bianco è stato particolarmente toccante: aveva idee innovative, nei momenti di difficoltà del Partito reagiva con nuove iniziative. Poi, quando legge alcuni brani del libro di Bartolo “Viaggio nel Mezzogiorno d’Italia”, specialmente quando parla delle lettere di Ciccardini a Gerardo Bianco, si commuove, e noi con lui. Alla commozione di Gerardo Bianco, segue quella di Giovanni Bianchi, che legge una poesia, che ha anche il sapore di una preghiera, ritrovata nella Bibbia di Bartolo, in cui lui chiede al Signore misericordia per quel “capretto storto”, come appunto lui si definisce. Interviene poi l’onorevole Marco Pannella, chiamato a gran voce da Sangiorgi a parlare, ad intervenire, a dare il proprio contributo, e lui non si fa certo pregare. L’onorevole non mi fraintenda, ma la sua presenza, quella di questo Gian Burrasca della Politica Italiana, che non ha mai avuto peli per la lingua per nessuno, è fondamentale per comprendere come realmente Bartolo Ciccardini fosse contro gli schemi, essendo un uomo che dialogava davvero con tutti, a prescindere dalla militanza politica. Non a caso, molti sono rimasti sbalorditi nel constatare che Marco Pannella ha fatto di tutto per lasciare Londra ed essere presente alla Santa Messa organizzata al mattino in suo suffragio dall’Associazione Ex Parlamentari. È poi seguito l’intervento di Alessandro Forlani, che ha avuto il privilegio con pochi altri di essere presente al ritrovo in pizzeria la sera della scomparsa, che ha messo in rilievo la fede di Bartolo nelle esigenze concrete della sua attività politica. Suo padre Arnaldo ha evidenziato come Ciccardini fosse rimasto giovane, al punto che a parlare della sua persona era stato chiamato suo figlio. Flavia Nardelli ha comunicato che alcune iniziative intraprese da Bartolo verranno portate avanti. Il noto giornalista Gianni Bisiach ha ricordato Ciccardini quando, era ancora vivo Pio XII, entrambi s’interessarono addirittura del parto indolore, che all’epoca costituiva una novità. Perché Bartolo è noto soprattutto per le innovazioni, per le invenzioni, per le intuizioni, molte delle quali si sarebbero rivelate delle realtà: in una parola, era un Creativo. Per ultimo, in ordine di interventi, parla il fabrianese professor Crialesi che, dopo aver detto che avrebbe messo a disposizione di tutti molti libri d Ciccardini, si sofferma sul fatto che Bartolo soffrisse per la latitanza del mondo cattolico”.

Cari Amici dell’Azione, io avrei concluso questa mia riflessione sulla Commemorazione, ma prima di congedarmi vorrei riportare una osservazione dell’onorevole scomparso, tratta dall’articolo “Bartolo   fuori dagli schemi” scritto da uno che lo conosceva bene, l’amico Giovanni Bianchi. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista online Camaldoli del 6 ottobre 2014, di cui l’onorevole era Direttore: ecco quanto diceva Bartolo: “ Io leggo moltissimi giornali, ma quello che mi sembra fatto meglio è L’Azione, il settimanale di Fabriano-Matelica, che poi è la terra dove sono nato. Quando mi arriva a Roma ci trovo dentro tutto: la vicinanza al territorio, ai fatti concreti, anche piccoli, che vi accadono. Una linea, cioè una angolatura precisa con cui interpretare gli avvenimenti, proposti però senza chiusure, senza toni tetragoni. E anche una certa freschezza e vivacità, cosa non troppo frequente per un organo di stampa cattolica”.

Non ci sono parole migliori per dimostrare, qualora ve ne fosse ancora bisogno, quanto Bartolo amasse la sua Terra.Non vi dovete commuovere, per favore: l’onorevole non lo avrebbe mai permesso.

Massimo Cortese

La commemorazione di Bartolo Ciccardini all’Istituto Sturzo di MAURIZIO EUFEMI

Quello che avrei voluto dire nell’incontro presso l’Istituto Sturzo su Bartolo Ciccardini, mi è rimasto dentro. Non ho potuto farlo perché il programma si era dispiegato oltre i tempi previsti con interventi fuori programma, ma particolarmente graditi, come quelli di Arnaldo Forlani e del suo amico avversario politico Marco Pannella. Tanti hanno voluto essere presenti per partecipare al ricordo. Tra questi Francesco Merloni, Mario Segni, Arturo, Parisi, Dario Antoniozzi, Favia Piccoli Nardelli, Giuseppe Gargani, Angelo Sanza, Adriano Ciaffi, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe Zamberletti, Pietro Giubilo e tanti altri ancora. Lo storico Francesco Malgeri ha lumeggiato la figura politica di Bartolo ricordando le tappe della sua lunga esperienza politica, di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito, autore di slogan e manifesti elettorali come quello del 1963 “La DC ha vent’anni “ direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia, la sua vitalità straordinaria e la curiosità ai mutamenti. Autore di significative riflessioni religiose sulla presenza dell’uomo nel mondo. Poi le esperienze recenti di direttore della rivista culturale on line Camaldoli.org, di animatore dei partigiani cristiani, ribelle per amore. Per Gerardo Bianco che fa risalire il primo incontro con Bartolo alla Cattolica di Milano nel 1952 Ciccardini era un “vulcano in continua eruzione”. Era esponente di quella generazione degli anni venti protagonista della storia della DC. La loro amicizia profonda ha trovato espressione nel libro viaggio nel Mezzogiorno configurato come lettere a Gerardo Bianco, ma ora quel postino che ha recapitato tante lettere di Bartolo ora non suonerà più. Poi il vecchio leone politico Marco Pannella ha voluto essere presente e parlare perché è certo che avrebbe fatto piacere a Bartolo. Ha ricordato le sue battaglie con la sinistra liberale, la sua amicizia antica e il suo impegno costante a ricercare la storia delle madri, dei padri e dei figli senza distinzioni. Si è abbandonato a citazioni storiche rivendicando con orgoglio e ricordando la vicenda Parri e quella verso De Gasperi. Alessandro Forlani ha ricordato gli ultimi tragici momenti vissuti insieme a parlare di politica con una grande preoccupazione per il Paese, ma con uno sguardo ancora al futuro e ad iniziative rivolte alla città di Roma, che dovevano coinvolgere il Vicariato e le parrocchie E’ stato maestro di più generazioni per un approccio alla vita pubblica. Ha dato i rudimenti del mestiere a tanti giovani con gli incontri a Sant’Ignazio e al Terminillo. Sapeva introdurre sempre elementi innovativi. Giovani Bianchi ha voluto ricordare la battaglia condotta con i partigiani cristiani e la grande amarezza che aveva avuto nel mancato riconoscimento. Ciccardini apparteneva alla categoria degli anomali, degli irregolari di genio, quelli che legavano i partiti con i territori, con i corpi intermedi. Voleva sottrarre la Resistenza alla epopea e farla capire alle nuove generazioni. Di qui le iniziative per i 400 sacerdoti uccisi, per Suor Teresina, per la battaglia della Montagnola per Dossetti e la Resistenza, per il 70° del Codice di Camaldoli. Per Arnaldo Forlani, Bartolo Ciccardini è morto con i giovani. Per onorarlo sarebbe bene dare vita ad una casa editrice con una collana editoriale che riprenda la esperienza delle 5 Lune. Non tutti erano giovani come Bartolo che sapeva stare con i giovani. Luciana Castellina ha voluto mandare un ricordo scritto per testimoniare il dialogo tra giovani DC e giovani comunisti attraverso gli organismi universitari. Nei giorni della famosa legge truffa litigarono lungo Corso Vittorio ma in realtà erano più d’accordo di quanto apparisse. “Con lui – ricorda Luciana Castellina – se n’è andato un pezzo della storia della mia generazione, oltreché un grande amico: il solo amico democristiano!”Avrei voluto tratteggiare l’aspetto umano, quello della persona, le telefonate, le mail, i commenti, i giudizi, i programmi, le idee, le iniziative. Sapeva guardare ad orizzonti lontani. Il Ciccardini parlamentare, uomo di vasta e profonda cultura. Quello che avrei voluto dire è che Ciccardini non voleva essere protagonista. Sapeva essere discreto. Preferiva fare il soggettista sceneggiatore, stare dietro le quinte, scrivere il copione. Non voleva la ribalta. Altri dovevano essere i protagonisti. Per il 70° di Camaldoli volle filmare l’evento nonostante un braccio ingessato. Rimase piacevolmente sorpreso della straordinaria partecipazione ad un evento che si tenne nel pieno di un torrido mese di luglio. Non si accontentava del sito, voleva una diffusione larga anche per coloro che non poteva essere presenti nelle sale della Camera. E la diretta streaming lo riempiva di gioia. E’ mancato pochi giorni prima della commemorazione del 15° anniversario della scomparsa di Livio Labor. Era l’occasione per fare il punto su un particolare momento storico quello della scissione delle Acli agli inizi degli anni settanta che per lui vecchio aclista fu una ferita non rimarginata. Voleva illuminare la storia con i protagonisti degli eventi. Bartolo Ciccardini inizia il suo percorso parlamentare con le elezioni del maggio 1968. Interviene alla Camera il 28 aprile 1970 sulla legge istitutiva del Referendum che marciava parallela alla legge sul divorzio. Lì, in quell’intervento c’è tutto Bartolo. Quel discorso racchiude e anticipa le indicazioni e le scelte degli anni successivi fino ad oggi. Riteneva necessario rendere viva la Costituzione allo sviluppo storico del Paese. Poneva la esigenza si una legge adeguandola allo spirito della Costituzione. Riteneva il referendum come mezzo necessario per integrare il Parlamento e come mezzo di allargamento della vita democratica. Si sofferma sul ruolo dei partiti. Anticipa di venti anni la elezione diretta del sindaco e la difesa delle autonomie locali non in una visione percentualistica delle forze politiche. Con il proporzionale che era nato nel 1919 votiamo i numeri invece che i nomi. Interviene sul bilancio interno della Camera, sollecitando il Presidente Pertini, affinchè i pannelli che ornano l’Aula riportino i risultati del referendum Istitutivo della Repubblica frutto della Resistenza. Era un simbolo, ma che simbolo! Vedeva scarsa attenzione per Roma Capitale e il rischio che Roma divenisse il gorgo in cui si perdono i deficit. Propone un asse attrezzato lontano dal centro storico anziché la concentrazione della città della politica. Non voleva il privilegio del permanente ferroviario, ma i mezzi per il contatto con l’elettorato. Richiamò ben 25 anni fa perfino il ruolo costituzionale del Cnl, che solo oggi viene cancellato. Vede i rischi del procedimento legislativo con continue incomprensibili norme di rinvio che definì un “Olimpo giuridico che il popolo non capisce”.Potrei dire e scrivere molto altro. Mi fermo qui. Resta il ricordo di una persona che sapeva coinvolgerti anche in progetti difficili. Niente riteneva insuperabile. Apparteneva appunto a quella generazione degli anni venti formata nella Resistenza, nelle difficoltà della guerra e del dopoguerra, nella faticosa ricostruzione, negli anni del contestazione giovanile e poi nel terrorismo e vedeva la necessità di adeguare il sistema istituzionale nel solco della Costituzione. Un ribelle per amore. L’Istituto Sturzo gli ha dedicato il giusto tributo in quella che Bartolo Ciccardini considerava la sua casa, il luogo del confronto delle idee senza pregiudizi.

Maurizio Eufemi

 

INTERVENTO COMMEMORAZIONE CICCARDINI di Alessandro Forlani

 

Penso di poter dire che Bartolo abbia concluso la sua esistenza terrena in piena coerenza con quella che è stata la sua storia personale, quella di un uomo che valorosamente, con energia intellettuale e passione, si è battuto per il progresso sociale e per il bene comune. Credo possa qualificarsi come un vero patriota, perché veramente ha manifestato fino all’ultimo quel grande amore per il suo paese di cui la sua lunga milizia politica era stato lo strumento, affiancata da un intenso impegno pubblicistico e associativo. Anche nelle sue ultime parole emergeva prorompente la preoccupazione per le sorti del Paese, delle giovani generazioni, della nostra democrazia repubblicana, faticosamente conquistata e sempre a rischio di derive demagogiche o fuorvianti, rispetto agli ideali e agli intenti delle origini. A quelle origini, a quei valori e, in particolare, alle radici dell’impegno sociale e politico dei cattolico-democratici nel nostro paese, tendeva sempre a richiamarci, quando, da giovani, ci coinvolgeva nelle sue iniziative formative e culturali. Ed è a questo aspetto della sua storia e della sua personalità che vorrei oggi rendere testimonianza, mentre gli amici che mi hanno preceduto hanno evidenziato altri passaggi e caratteri della sua instancabile attività. Avremo modo poi in altre occasione di focalizzarne altri ancora, perché l’impegno profuso da Bartolo ha investito diversi campi d’azione ed è stato particolarmente intenso e sarebbe impossibile ricomprenderlo nella trattazione di una sola giornata. Ma io, in questa occasione, vorrei soprattutto testimoniare l’importanza del ruolo che ha svolto nella formazione politica e culturale di più generazioni di giovani, di cui tanti rappresentanti vedo anche ora tra i presenti. Con i suoi corsi di formazione, le sue conferenze, i suoi stimoli ed insegnamenti concorreva sensibilmente alla maturazione delle nostre consapevolezze sui doveri sociali, sul senso della nostra appartenenza alla collettività, sulle potenzialità che gli strumenti della cultura e della democrazia ci offrivano per migliorarla. Spontaneamente e, direi, per vocazione, Bartolo si interessava ai giovani, voleva sapere quali tematiche e problemi dovevamo affrontare nei parlamentini scolastici, nei tormentati Anni Settanta, caratterizzati dagli “opposti estremismi”, da fenomeni di violenza e di intolleranza, direi, nel mondo giovanile, da un “eccesso di politica”, mentre ai nostri giorni sembra dominare l’antipolitica! In quegli anni della mia adolescenza, inoltre, la nostra appartenenza democratico-cristiana era continuamente sotto attacco, sembrava ci volessero ridurre alla marginalità, relegandoci in un ghetto di oscurantismo clericale e di conservazione! Cercavano sempre di metterci in mora, con semplificazioni mistificanti delle nostre motivazioni e della nostra ispirazione, stimolando un continuo contraddittorio in cui eravamo indotti a spiegare le nostre ragioni. E il contraddittorio continuo richiede gli strumenti culturali, quelli di cui, grazie proprio a persone attente alle istanze giovanili, come appunto l’on. Ciccardini e a iniziative come quelle da lui organizzate, riuscivamo ad appropriarci per contrastare quei continui attacchi alla nostra identità e alla nostra scelta di campo.

Ci dicevano che loro erano laici e noi confessionali, no, invece eravamo laici di ispirazione cristiana, né liberisti, né libertari, ma interclassisti, con una visione sociale fondata sul solidarismo e sulla centralità della persona.   I suoi corsi e le sue riunioni ci offrivano insomma le categorie, i concetti di fondo, le argomentazioni per le fatiche dialettiche che ci attendevano nelle assemblee, nei “collettivi” e successivamente per l’impegno sul territorio, nei quartieri !   Ricordo i corsi presso l’Antica Farmacia, nella Rettoria di S. Ignazio, quelli in un rifugio di montagna del Terminillo che si tenevano in settembre, i grandi convegni di Fiuggi! E accanto ai protagonisti della politica nazionale che sovente si incontravano in queste occasioni, partecipavano altre persone che con generosità contribuivano alla nostra “educazione” alla vita pubblica, cui dobbiamo riconoscenza, ricordo in particolare il prof. Ignazio Vitale, sui temi economici e sindacali, l’ing. Vanni Cocco, sulla famiglia, Celso Destefanis sui problemi dello Stato e altri temi legislativi e sociali, Anna Maria Cervone, sull’integrazione europea.   Persone sobrie e allo stesso tempo appassionate che dedicarono – con Bartolo che coordinava – il loro tempo ai giovani della Dc.   Bartolo amava soprattutto ricordare gli albori della storia del Movimento Cattolico in Italia, le realtà di base che operando nel tessuto sociale avevano preparato la strada all’impegno politico vero e proprio, attraverso il partito.   L’Opera dei Congressi, le leghe bianche, le cooperative, la stampa cattolica, le casse rurali, gli studi sociali, le esperienze municipali.   E devo ammettere che il passaggio dalla fase di formazione alla diretta esperienza nella realtà di partito, così come si profilava a cavallo tra gli Anni Settanta e gli Ottanta, si rivelò assai deludente, il contrasto con quelle aurore gloriose evocate nei corsi di formazione appariva piuttosto stridente !   Ancora la Dc era guidata, in ambito nazionale, da personaggi straordinari e carismatici, ma sul piano locale la degenerazione e il declino erano purtroppo evidenti. Cinismo, lotta spregiudicata per il potere, faziosità, arroganza e tesseramenti gestiti come pacchetti azionari non creavano certo entusiasmo e motivazione per coloro che iniziavano a cimentarsi nell’agone politico. Ci illudemmo però di poter salvare quel partito, di rinnovarlo riscoprendo lo spirito delle origini e consentirgli di recuperare credibilità e fiducia, attraverso idee innovative, sul piano istituzionale e anche della riorganizzazione, secondo schemi nuovi, della sua presenza nella società.   Idee che Bartolo elaborava con grande vivacità intellettuale e promuoveva con il suo attivismo vulcanico. Ma la sincerità di intenti non fu sufficiente e quel partito chiuse i battenti, per varie ragioni, sulle quali non si è mai riflettuto abbastanza… e forse lo faremo, scegliendo tempi e modi.   La Dc concluse traumaticamente la sua esperienza e noi ci siamo divisi in tanti rivoli, ritrovandoci poi, in tante occasioni, anche in questa sede dell’Istituto Sturzo, a rimpiangere quella scelta e a stigmatizzare la sostanziale marginalità in cui poi è stata indotta la nostra corrente di pensiero.   La Dc finì, ma restò per molti di noi il rapporto personale con Bartolo, la consuetudine del confronto di idee, la sua disponibilità al consiglio affettuoso e all’analisi acuta e illuminante di quanto maturava nella società italiana, lo stimolo prezioso all’approfondimento delle evoluzioni in essere.

Si preoccupava soprattutto della crisi sociale, delle prospettive e della demotivazione dei giovani, dell’irrilevanza della presenza cattolica nella vita politica.   Avvertiva, in questi anni, la crisi di rappresentanza della democrazia italiana, la scarsa capacità dei partiti di radicarsi nella società civile. A questa carenza si collega la sua tenace insistenza per la promozione di liste civiche, di movimenti che sorgessero dalla base della società per perseguire il bene comune! Così come auspicava l’intensificazione dell’impegno dei gruppi parrocchiali sul territorio, iniziative di solidarietà verso le persone bisognose sempre più numerose e servizi alle famiglie. Dall’iniziativa civica di base occorreva – secondo il suo pensiero – ripartire per restituire motivazione e tensione morale all’azione sociale e politica e, in questo quadro, perseguiva con noi la riorganizzazione di momenti formativi per i giovani, nei quartieri e nelle parrocchie.

Proprio per affrontare questo tema, in termini anche organizzativi, insieme ad altri amici, ci eravamo incontrati quella sera in cui ci ha lasciati. E sempre emergeva, nelle sue proposte e sollecitazioni, il fervido sentimento religioso, calato nella storia e nel destino degli uomini, una religiosità direi “affettuosa”, verso il Supremo Pastore, in un tutt’uno con le Sue pecore, proprio quel sentimento che si coglie nella breve commovente poesia sul Giudizio Universale, quella del capretto, che è stata prima ricordata.

E speriamo che da quelle altezze Bartolo possa ancora ispirare la nostra azione e fare in modo che sia degna di quella che è stata la lezione di vita di cui intendiamo oggi ringraziarlo.

Alessandro Forlani

Ricordo di Bartolo Ciccardini di Francesco Malgeri

Ho accolto con grande piacere l’invito di Giuseppe Sangiorgi a essere qui presente, stasera, per ricordare Bartolo Ciccardini.

Chi vi parla, a differenza della gran parte dei presenti, ha avuto modo di conoscere, collaborare con Bartolo Ciccardini solo in anni più recenti, da quando prese a frequentare l’Istituto Sturzo, riconoscendo in questa sede un luogo dove era possibile riflettere, studiare e recuperare il senso più autentico e genuino della storia del cattolicesimo politico.

Un luogo dove era ancora possibile rievocare la storia italiana della seconda metà del Novecento alla luce di ricerche serie e documentate, senza le demonizzazioni ricorrenti nei mass media e nei talk show televisivi, ove sembra predominare una sorta di cupio dissolvi di una storia che, pur con le sue inevitabili ombre, costituisce uno dei periodi più felici e costruttivi che l’Italia ha conosciuto negli oltre centocinquant’anni di unità nazionale.

Bartolo con la sua presenza, discreta ma incisiva, ha arricchito l’attività dell’Istituto, che con lui ha trovato, accanto agli archivi cartacei, una sorta di archivio vivente, capace di illustrare, spiegare, animare momenti,convegni e tavole rotonde che affrontavano vicende storiche di cui era stato protagonista o testimone per oltre mezzo secolo.

E’ qui che, di volta in volta, ci ha ricordato la sua esperienza politica, al fianco di uomini come Mattei, Malfatti, Fanfani, Rumore molti altri, la sua presenza ininterrotta alla Camera dei deputati dal 1968 al 1992, la sua attività di governo come sottosegretario ai trasporti e poi, dal 1980 al 1986 alla Difesa, i ruoli fondamentali da lui svolti in seno al partito, come direttore dell’organo del movimento giovanile Per l’Azione, della rivista Terza Generazione e poi della Discussione. Ci ha ricordato più volte il ruolo svolto in seno alla Spes, e quell’idea del 1963, del manifesto su La Dc ha vent’anni, rivendicando, al di là delle facili ironie che suscitò, la validità e il successo di quel manifesto sul piano elettorale.

Insomma è qui che egli ha discusso di molti problemi e aspetti politici e culturali legati alla presenza dei cattolici nel dibattito politico del secondo dopoguerra. Lo ha fatto sempre con garbo e discrezione, offrendoci contributi che riflettevano la sua lunga esperienza, la sua conoscenza di molti risvolti sconosciuti, ignorati dagli storici, la sua capacità di leggere i fatti della storia e della politica, assieme alla sua profonda cultura che spaziava in campi diversi.

Ricordo una sua bellissima lezione, nell’ottobre dello scorso anno, sulla figura, il pensiero e l’itinerario politico culturale di Lucio Magri, assieme a Luciana Castellina e Gerardo Bianco, ove affrontò il delicato tema del rapporto tra cattolici e comunisti nella storia del nostro paese.

Ciò che sorprende, della sua lunga esperienza politica e umana, è la straordinaria vitalità che mai lo ha abbandonato, e soprattutto la curiosità di fronte ai mutamenti politici, sociali, culturali, tecnologici. Non è un caso che già in età avanzata, si cimentasse senza alcuna riserva o timore con le più moderne tecnologie, dando vita e sostenendo il peso di una rivista on-line, Camaldoli, che nel nome rievocava una pagina fondamentale nella storia dei cattolici democratici. Fino al giorno della sua scomparsa egli ha alimentato e arricchito questa rivista con articoli, riflessioni, proposte, tutte animate da una profonda carica e da una lettura attenta dei fatti della politica, della Chiesa, della società e del costume, senza pregiudizi e senza demonizzare la modernità. Non mancano riflessioni di carattere religioso, che non erano mai fini a se stesse, ma si confrontavano sempre con la presenza e con i problemi dell’uomo nel mondo.

A rileggerli, gli articoli apparsi su Camaldoli, nei suoi cinque anni di vita, possiamo ripercorrere la più recente storia del nostro paese, del quadro internazionale e della Chiesa cattolica, da Berlusconi a Renzi, da Obama a Putin, da papa Ratzinger a papa Francesco, alla luce del vaglio critico, a volte pungente, con cui Ciccardini sapeva arricchire la sua prosa.

Non sarebbe forse una cattiva idea rimetterli insieme e pubblicarli questi scritti su Camaldoli, come una testimonianza viva e a volte sofferta di un laico cristiano di fronte ai mutamenti politici e sociali conosciuti dal mondo negli ultimi anni.

Ma vorrei aggiungere un altro elemento per ricordare la figura di Ciccardini. Si tratta del suo impegno, proprio negli ultimi mesi di vita, per ricordare e celebrare degnamente il 70 anniversario della Resistenza.

Così volle spiegare il significato delle sue iniziative per rievocare la Resistenza e la lotta di liberazione del nostro paese: “Oggi nel momento in cui affrontiamo il vero problema dell’identità nazionale, credo che vada riscritta la storia della Resistenza, tenendo presente quel valore civile diffuso, che indicava una direzione morale non attendista, non indifferente, ma basata su una scelta di civiltà: l’appartenere ad una nazione che aveva dignità, che voleva riparare ai suoi errori, che voleva darsi un avvenire pacifico. E a questo eroismo civile, per cui i Partigiani cristiani si chiamarono “ribelli per amore”, bisogna ispirarsi per dare una motivazione ideale alla nostra ultima generazione. Ricostruire storiograficamente questi valori, significa anche ricordare che la Resistenza non finì il 25 aprile del 1945, ma continuò nelle conquiste democratiche della Costituente e del 18 aprile. In momenti difficili della nostra storia, negli anni di piombo si tentò di mostrare che la Resistenza non era finita, ma che anzi essa andava ripresa contro la Democrazia Cristiana e contro le istituzioni democratiche. Il terrorismo insanguinò il nostro paese ed il sacrificio di Aldo Moro non fu un atto conseguente alla Resistenza ma piuttosto in una nuovo e terribile ritorno del fascismo. Ritornare al sentimento civile e popolare della Resistenza è il modo giusto per intravedere uno sviluppo ed una crescita della società italiana e delle istituzioni della nuova Europa”.

Scrivendomi in vista di una riunione seminariale tenuta il 30 gennaio 1914 affermava: “Ci prefiggiamo un lavoro di ricerca ed una mobilitazione di giovani per riscoprire il significato ed il valore della Resistenza civile e della “Resistenza di coscienza” (l’obbligazione morale dei “ribelli per amore”) rivedendo con attenzione l’autogoverno delle zone non controllate dai tedeschi, la partecipazione delle donne nel loro sacrificio quotidiano, il significato dei sacerdoti come capi naturali della Resistenza civile”.

Come segretario dell’Associazione nazionale partigiani cristiani si mise all’opera con grande fervore. Chiese aiuto ad istituzioni appositamente preposte a fornire contributi per iniziative celebrative della resistenza, ma, con suo grande disappunto,molte porte si chiusero.

Non si scoraggiò, chiese a me e ad altri amici, di aiutarlo per realizzare una serie di iniziative che lui stesso aveva programmato. Prese contatto con il Vescovo emerito di Perugia, Mons. Chiaretti, che è il nipote di Concezio Chiaretti, parroco di Leonessa, cappellano degli Alpini, fucilato dai tedeschi, il 7 aprile 1943.

Ottenne anche il patrocinio dell’amministrazione comunale di Leonessa. Una sua telefonata a pochi giorni dalla sua scomparsa, mi comunicava la sua intenzione di realizzare a settembre, a Leonessa, un convegno sulla resistenza nell’Italia centrale, con l’obiettivo di mettere in luce una pagina di storia della resistenza civile del nostro paese, rifiutando le tesi della zona grigia e della morte della patria, per restituire ad un evento come la lotta di liberazione il suo grande significato storico.

Lui stesso, del resto, con il volume dedicato alla Resistenza di una comunità. La repubblica autonoma di Cerreto d’Esi, aveva già affrontato l’argomento, ricostruendo la singolare vicenda vissuta dal suo paese natale tra la primavera e l’estate 1944. Nella bella introduzione a questo volume, Pietro Scoppola ebbe a scrivere: “L’immagine della zona grigia è inaccettabile e Ciccardini non manca di dichiararlo esplicitamente: la popolazione del suo piccolo paese (come la popolazione italiana nel suo insieme) non fu inerte e indifferente di fronte ai mille drammi umani provocati dall’8 settembre. […] Dobbiamo dire ormai con chiarezza che prendere le armi non si può considerare l’unica forma di partecipazione e di coinvolgimento. […] Il fenomeno della lotta armata che conserva tutto il suo valore non può essere isolato dalle innumerevoli forme di “Resistenza civile”.

Anche per questo dobbiamo ricordare e ringraziare Bartolo Ciccardini.

Francesco Malgeri

UMBERTO AGNELLI: Politico e parlamentare

articolo di Maurizio Eufemi tratto dalla rivista "La Discussione" - 1 giugno 2004

ERMANNO GORRIERI: La grande levatura politica e intellettuale di Ermanno Gorrieri. Un esempio, il suo, per i cattolici democratici d’oggi

 

Urge una sorta di valutazione critica su tutto ciò che ha rappresentato la più recente esperienza del cattolicesimo democratico, specie in rapporto con le idee e l’azione pratica che proprio Gorrieri ha saputo esprimere in maniera critica e costruttiva. (Paolo Frascatore)

 

È una situazione politica strana quella che stiamo vivendo, ma che non è certamente nuova in questa seconda Repubblica che ha archiviato l’esperienza politica dei Partiti del Novecento per abbracciare più che la deideologizzazione, il rifiuto della politica fondata sui valori. Si torna a parlare in continuazione di centro politico rispetto ad una realtà che paralizza, o meglio radicalizza, le posizioni politiche sull’uno o sull’altro versante.

 

I risultati al centro, stando alle ultime iniziative, mettono in evidenza soltanto una personalizzazione dell’intervento politico (privo di qualsiasi respiro futuro) che non trova riferimento, né tanto meno esempi alti di cultura legata all’esperienza dei cattolici democratici. Eppure gli esempi non mancano! Non manca l’esperienza del cattolicesimo democratico di frontiera rispetto alla decadenza della politica, alle alleanze equivoche ed interessate, al suo modo di saper interpretare gli avvenimenti politico-sociali di questo tempo difficile da vivere, ma, proprio per questo, più significativo e foriero di nuove idee originali ed incisive nella storia politica italiana, ormai ridotta ad una semplice contesa di potere.

 

Figure come quella di Ermanno Gorrieri andrebbero studiate e riattualizzate in questo scenario politico inconcludente e arido, soprattutto se riferito agli attuali “partiti” politici. Urge infatti una sorta di valutazione critica su tutto ciò che ha rappresentato, almeno da quattro lustri, l’esperienza politica del cattolicesimo democratico, specie se confrontata con le idee e l’azione pratica che proprio Gorrieri ha saputo esprimere in maniera critica e costruttiva non solo negli ultimi anni della sua vita terrena. Non è certamente un caso se il suo interesse si concentrava sempre sulla realtà sociale, sull’uguaglianza delle condizioni di vita, materiali ed immateriali, di tutti i cittadini al fine di costruire uno Stato veramente sociale, ossia capace di realizzare le condizioni di vita dignitose per tutti.

 

La forza delle sue proposte rimandava in maniera decisa ed indissolubile alle idee dossettiane (anche quando Dossetti decise l’abbandono della politica attiva per sposare la causa del servizio religioso) nella consapevolezza che non solo si poteva far politica anche al di fuori delle istituzioni (Parlamento), ma soprattutto che occorreva mettere mano ad uno Stato sociale che non garantiva (e non garantisce) quella uguaglianza tra cittadini, che per Gorrieri non era mai stata quella meccanica e semplicistica rivendicazione ideologica della sinistra marxista, ma azione concreta e sostanziale nel portare tutti i cittadini su uno stesso piano di vita civile e materiale.

 

Oggi sembra di rileggere le idee di Gorrieri nelle affermazioni di Papa Francesco: le guerre viste come fallimento della civiltà laicista e radicale, materialista. Le prese di posizione contrarie all’accoglienza come stato essenziale di quanti sono sempre più legati all’egoismo, all’individualismo, all’utilitarismo. Certo, la guerra mondiale è vista dal partigiano Gorrieri non solo come motivo di decadenza culturale, morale e civile, ma anche come catarsi della storia, come bagno purificatore per costruire una società fondata sui valori della fratellanza, della solidarietà e della uguaglianza. Su Gorrieri si può e si deve tornare nella consapevolezza che il suo magistero politico (insieme agli uomini migliori del cattolicesimo democratico) costituisce oggi il faro per qualsiasi iniziativa seria in funzione di una nuova presenza dei cattolici in politica.

FRANCO SALVI: Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità dei fini (3 articoli)

 

 

FRANCO SALVI NEL CENTENARIO DELLA SUA NASCITA: VISSE COME UN SAMURAI, UNA VITA DEDICATA ALLA MORALITA’ DEI FINI.

(articolo di Tino Bino)

 

Franco Salvi moriva la sera del 28 ottobre 1994. La malattia fisica lo aveva aggredito da tempo. La malattia dello spirito, il declino della energie morali, il morire, erano cominciati con l’assassinio di Aldo Moro ed erano precipitati con l’uccisione di Bachelet nell’atrio della Sapienza. Lo avevano trovato Franco, immediatamente accorso, accasciato ad un angolo dell’università, perso nella disperazione. Bachelet era l’amico intimo rimasto dopo la morte di Moro. Moro, era stato la ragione di vita e di impegno di Franco. Quel leader e le idee che incarnava non erano solo teorie, principi etici, ragioni politiche, progetti illuminati, ma prassi di una gestione dello Stato che si andava inverando pur fra mille difficoltà e feroci avversioni interne e internazionali. Era la comprova fattuale che l’anima delle idee, e tale era il moroteismo, minoranza marginale delle politiche democristiane, possono divenire egemoni, governare i processi di allargamento della democrazia, quando contengono la forza non dei numeri, ma dei principi, quando incarnano i bisogni di giustizia e libertà, quando interpretano l’irrinunciabile aspirazione all’eguaglianza, destino irraggiungibile forse, ma proprio per questo irrinunciabile di ogni azione politica e di ogni progetto di democrazia.

 

Capiva Franco che, con la morte di Moro l’Italia sarebbe entrata in una regressione di idee, in una confusione progettuale, in un disorientamento politico da cui non sarebbe stato facile uscire. Dopo molti decenni ancora oggi all’Italia non è riuscito di ritrovare il percorso, una traiettoria di progresso morale, un sentiero di futuro. Perché il Paese non ha avuto il coraggio di rivisitare i suoi anni settanta e di sistemarne, ordinatamente, gli avvenimenti che li hanno attraversati. Nel male ed anche nel bene. Si è chiusa la stagione dei partiti, perno della vita democratica sancita dalla Carta Costituzionale. Si è archiviata, per colpe proprie e dell’episcopato italiano, la storia dei cattolici impegnati in politica. La sinistra, con la morte di Moro, e lo spaesamento di Berlinguer, si è sciolta nel mare della proprie contraddizioni storiche. Vent’anni di egemonia berlusconiana hanno sfarinato la democrazia partecipativa, dando vita al populismo politico, all’individualismo di una società malata di solitudine, curata adesso con il narcisismo social. Non estraneo alla deriva dei no vax che impedisce la sconfitta definitiva del virus che ha stravolto la nostra vita collettiva nell’ultimo biennio.


Franco Salvi fu fra gli ultimi cavalieri, uno degli ultimi sacerdoti della vita democratica dei cattolici impegnati. Uso termini sacrali perché così lui pensava la democrazia, un rito che esigeva costi personali, sacrifici individuali, fedeltà non discutibili. Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità dei fini. Morì come i soccombenti per eccesso di virtù. In letteratura sono modelli, i don Chisciotte, i Cyrano di Bergerac. In politica sono i molti leader sconfitti dal potere ma testimoni di una idea, di una utopia, di una aspirazione più alta delle nostre mediocrità. È la storia del Risorgimento, della lotta di liberazione, dei Costituenti per la democrazia in Italia e in ogni parte del mondo.

Così fu la vita di Franco Salvi, dalla militanza nella Resistenza, dal carcere nazista di Verona, dalla leadership nelle fiamma verdi, da una saga familiare ancora tutta da scrivere. Il suo carisma bresciano lo esercitava con incontri settimanali nella grande sala della dismessa farmacia paterna nel quartiere popolare del Carmine. Una sala rimasta sempre arredata dai grandi vasi medicinali della farmacia di Emilio Salvi che per decenni ha servito i poveri della città e che, per tutto il periodo della Resistenza, è stata la sede della clandestinità, dei comitati di liberazione, degli incontri segreti, degli approdi rischiosi. Dentro, crebbe una famiglia di leader sociali e politici e culturali.

Una palestra riconosciuta di educazione all’esercizio esemplare della cittadinanza. Il fratello Roberto fu il partigiano più coraggioso della Resistenza bresciana, il fratello Mario un dirigente industriale di riconosciuta professionalità, la sorella Elvira una intellettuale di prestigio, critica d’arte temuta e preparata. I Salvi, come i Trebeschi, i Montini, i Bazoli, i Minelli sono la storia di Brescia e del suo cattolicesimo sociale e liberale.

Sono non solo l’ossatura, la trama della tenuta civile della città, ma l’identità culturale, la leadership politica per lunghi anni, fino a quando la politica rimase portatrice del ruolo essenziale della tenuta e della crescita sociali. Ma lo furono perché l’egemonia del cattolicesimo che quelle famiglie interpretavano era universalmente riconosciuta. Il loro era un impegno che si generava nei capisaldi della responsabilità individuale, nell’universalismo cristiano, nel progetto capace di coinvolgere l’intera società, non una parte di essa. Sono famiglie che hanno pagato prezzi alti, fedeli ad un comportamento divenuto concezione di vita emblematico di una storia del cattolicesimo democratico.

 

Dopo la guerra Franco Salvi si impegnò immediatamente nella ricosruzione. Fu vice-presidente nazionale della FUCI per volere di Montini, poi Paolo VI. E in breve, iscritto alla Dc, divenne responsabile della Camilluccia, la scuola quadri del partito. Passò da lì l’intera classe dirigente democristiana, metà del giornalismo italiano, tutta la dirigenza dell’industria pubblica. Fu a lungo parlamentare, primo collaboratore di Aldo Moro, responsabile dei morotei, fondatore del moroteismo, e dei rapporti, per conto di Moro, con i leader della sinistra, e le figure d’oltre Tevere, le teste pensanti del Vaticano. Incarnò in prima persona la linea politica del cattolicesimo democratico. Gettò a lungo lo sguardo sui problemi internazionali con collaborazioni dirette e indirette, promosse movimenti, fu presidente di associazioni per l’Africa e per l’Est Europa. E alla fine accettò ruoli secondari, incarichi di modeste identità.

Non chiese mai nulla per sé, la sua carriera, il suo prestigio.

Ho incontrato due anni fa, poco prima che morisse, Nicola Rana, l’intellettuale di Moro. Abbiamo parlato a lungo di Franco. Mi ha confermato che Franco Salvi è stata una delle personalità più rigorose e cristalline della Dc italiana e che non ebbe ciò che meritava. Molte volte il suo nome figurava nella lista dei ministri da nominare, ma lo stesso Moro ne chiedeva la rinuncia. Franco, diceva, doveva stare al partito, doveva dirigere il gruppo, essere il riferimento delle mille controversie che nascevano in ogni parte d’Italia. La fedeltà, il coraggio, la testimonianza, lo sguardo al futuro, la passione per il rigore e la verità, l’assunzione del rischio personale, sono tutte qualità che si trovano intatte nel discorso storico che Franco pronuncia dalla tribuna del XIV congresso del febbraio 1980. Lo ricorda in una bella pagina Corrado Belci nella biografia dedicata a Franco. Fu deriso, insultato, fischiato dai dorotei e da quanti stavano aderendo ad una linea che era un insulto alla memoria di Moro. Denunciò l’ipocrisia, il potere fine a sé stesso, il trasformismo imperante, le congiure, il capovolgimento e il tradimento della linea di Moro e Zaccagnini. Faticò a terminare l’intervento. Le sue parole erano sommerse da urla e minacce. In tribuna stampa, dove io sedevo, arrivavano solo echi e stralci del discorso. Ma Salvi, un piccolo punto grigio, isolato e solitario sulla tribuna al centro di una assemblea babelica, non si intimidì. “Amicus Plato, concluse, sed magis amica veritas. Per questo, amici, ho parlato, ho creduto doveroso dire quello che vi ho detto”. Ed era come un addio, un congedo limpido in una stagione che avrebbe cominciato il declino finale di una lunga storia.

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FRANCO SALVI UN VERO MAESTRO DI COERENZA E POLITICA

(Alfredo Bonomi)

 

Ci sono persone che diventano determinanti per il percorso umano di una vita. Per me Franco Salvi è stata una di queste. È datato negli ultimi mesi del 1969 il primo incontro che ho avuto con lui e da quel colloquio sono uscito con la convinzione che era necessario, per dar voce al mio desiderio di impegnarmi per la società della Valle Sabbia, un coinvolgimento diretto nel vivo dell’amministrazione pubblica.

 

Da questa certezza venne l’idea di dedicarmi al mio piccolo comune montano, denso di storia e di problemi, visto come concreto campo d’azione per dar senso a idealità e progettualità maturate dopo attente riflessioni.

 

Senza l’incontro con Franco Salvi, con molta probabilità, non avrei intrapreso quel percorso amministrativo che mi ha poi visto Sindaco per venticinque anni, attivo a livello della Comunità Montana di Valle Sabbia e nella U.S.L. n.39. Tutti gli altri impegni nei vari organismi scolastici e culturali della Valle, ed anche in un raggio più esteso, sono state ‘piste operative’ saldamente ancorate ad una visione più vasta, non limitata ad un singolo territorio. In questo ‘sguardo d’insieme’ Franco Salvi mi ha insegnato che la cultura era fondamentale per dar più valore all’impegno.

 

Sulla rigorosità morale di Franco Salvi è già stato detto tutto.

L’impegno politico per lui è scaturito, come normale conseguenza, da un dovere etico profondo, attento alle necessità delle persone, nel tentativo di costruire una società giusta e generosa dove i problemi fossero considerati e affrontati indipendentemente dalla loro apparente importanza.

 

Per un giovane la vicinanza di una personalità così granitica nei valori e così misurata nel porsi, non poteva che essere percepita come una ‘folgorazione’ per impegnarsi.

 

Così è stato per me. I moltissimi incontri avuti con lui, non tanto i convegni ‘di grido’, ma nell’antica farmacia di via Battaglie, trasformata in studio o, meglio, in un luogo di paziente e generoso ascolto, erano un sicuro arricchimento umano, ma anche una sorta di percorso spirituale, dove la politica non si immiseriva nel contendere del potere, ma era vista come un convinto impegno quotidiano, lontano dalla fuga dalle responsabilità, che non disdegnava la legittima forza dialettica per la difesa di valori ritenuti portanti per una società più giusta.

 

Da questa visione veniva a noi giovani, e naturalmente a me giovane amministratore, la molla per un impegno fatto di atti concreti ed anche di decoro sul piano umano.

 

Non si trattava quindi di impoverire il cammino intrapreso con una disinvolta pratica nel ‘superare gli ostacoli’, ma di arricchirlo con la pazienza di rimuovere gli ostacoli di danno per una visione della società ancorata ai grandi valori cristiani e a quelli portati dalla Resistenza, tesa a creare uno Stato attento ai bisogni di tutti e rispettoso delle peculiarità personali, in un quadro complessivo di vera libertà.

 

Dal 1970 al 1990 i nostri incontri sono stati fitti, poi si sono un po’ diradati anche per le sue condizioni di salute.

 

Nella farmacia-studio di via Battaglie portavo problematiche, richieste che riguardavano anche situazioni di singole persone, che sembravano poca cosa ma che, in realtà, erano ‘grande cosa’ per chi aveva la necessità di essere considerato ed aiutato. Chiedevo pure molti consigli. Naturalmente questa era la facciata più evidente di un rapporto ‘declinato’ nell’ottica di poter giovarsi di un parere autorevole per rispondere alle molte esigenze che si presentano quotidianamente ad un amministratore.

 

A questo versante si affiancava però una dimensione più profonda.

 

La coerenza morale di Franco Salvi, la sua rigorosa adesione ai valori in cui credeva, il suo modo di vedere la politica, strettamente legata ad una scala valoriale da rispettare, mai da rinnegare, sono stati una ‘lezione politica’ profonda e motivante per molti anche nei momenti difficili e drammatici che ha dovuto affrontare.

 

La mia convinta adesione al ‘Gruppo Moroteo’ bresciano (un orientamento mai mutato durante tutto il mio ‘cammino amministrativo’) è maturata e si è consolidata, sino a diventare una ‘dominante’ nel modo di concepire l’impegno pubblico, grazie ai ripetuti colloqui avuti con Franco Salvi e al suo esempio moralmente luminoso e politicamente tutto dedito allo spirito di servizio. La sua figura è stata un punto obbligato di riferimento per un gruppo di valligiani, attivi a livello comunitario, che, pur nelle difficoltà, hanno cercato di avere una visione d’insieme nell’agire amministrativo, supportati anche da serie riflessioni culturali.

 

Ricordando Franco Salvi è però d’obbligo soffermarsi sulle sue caratteristiche umane. Uomo di poche ma sostanziali parole, di sguardi significativi più che di gesti teatrali, con una grande delicatezza nel porsi e nell’esprimere i sentimenti, sapeva rapportarsi all’interlocutore in maniera penetrante e coinvolgente. Quella che, ad una prima impressione, poteva sembrare timidezza, era Franco Salvi, Presidente della Fuci di Brescia e poi Vice Presidente nazionale invece una forma di rispetto per chi aveva di fronte.

 

La non eccelsa retorica nel parlare denotava lo sforzo continuo di trovare i vocaboli giusti e di ‘far parlare l’animo’. Teneva in alta considerazione l’amicizia. La sua semplicità nel porsi era dettata da una collaudata propensione a non voler ‘apparire’, ma a voler ‘essere’. Così era anche nei rapporti umani e nell’amicizia.

 

Il 21 ottobre del 1978 Franco Salvi mi accompagnò all’altare della piccola e artistica chiesa parrocchiale di Avenone per il mio matrimonio con Daniela. Io ero a quel tempo Sindaco di Pertica Bassa e lei segretaria della Sezione D.C. di Vestone-Nozza. La giornata era di quelle che mozzano il fiato tanto era bella. I picchi della Corna Blacca sembravano di cristallo, protesi verso il cielo di un azzurro totale. La tavolozza dei colori autunnali componeva una cartolina di bellezza indimenticabile. Le sfumature del colore erano in armonia con la felicità dei cuori.

 

Gli occhi di Franco Salvi brillavano mentre mi accompagnava in chiesa. Si era portato in quel di Pertica Bassa per essere vicino a due giovani in un momento fondamentale della loro vita. Non ho mai dimenticato il suo volto e l’intensità del suo fugace sorriso che ha detto molto in quella giornata.

 

Certo, pensando a Franco Salvi, alla sua rigorosità morale, alla ‘palestra dei valori’ nella quale allenava il suo animo, ai drammi che ha affrontato per essere fedele ad una vita coerente ed ad azioni altrettanto coerenti, non si può scacciare un sottile filo di malinconia che pervade la mente. Questo filo è alimentato dalla constatazione dei ‘disastri politici’ che sono venuti dopo, dell’arroganza di ‘politicanti’ presenzialisti, della nevrosi del dover apparire ad ogni costo, della ‘solitudine della politica’, così come è stata costretta dall’attuale società, certo per ragioni che andrebbero attentamente indagate, senza però far venir meno il senso della speranza.

 

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LETTERA AGLI ELETTORI

(Brescia, 1992 Franco Salvi)

 

Ho chiuso la mia esperienza parlamentare ed anche quella della politica attiva.

Devo ringraziare quanti mi hanno permesso di stare in Parlamento per così lunghi anni e mi scuso per le inadempienze, le deficienze e gli errori che hanno accompagnato questa mia vita.

La società o la politica sono radicalmente cambiate da quando ho incominciato ad interessarmene; pensate che già dal 25 luglio all'8 settembre del '43 in bicicletta con mio cugino Cesare Trebeschi andavo in giro per le parrocchie a presentare ai parroci l'opportunità della creazione della Dc ed è inutile dire quante diverse reazioni incontrassimo.

Poi vi è stata la Resistenza, il 25 aprile e il risorgere della democrazia. un primo impegno coi giovani della Dc e poi il Vescovo di allora mi chiese di scegliere tra l'attività politica e la presidenza della Fuci di Brescia e io lasciai la politica (anche se nelle elezioni davo il mio possibile contributo all'attività di via Tosio) fino a quando dopo essere arrivato a Roma quale vice-presidente nazionale della Fuci conobbi vari dirigenti della Dc e alla scadenza del mio mandato alla Fuci entrai nell'attività di partito col gruppo di Id (Iniziativa democratica, ndr).

Scusate questa digressione, non voglio fare ìa mia storia ma mi serviva per dirvi una delle questioni che più mi hanno colpito ultimamente in questo cambiamento della società e della politica.

 

Senza essere stato affatto un eroe ho però partecipato con un contributo modesto a quella che era chiamata lotta di liberazione contro i tedeschi e i fascisti e io ricordo qui i nostri caduti della Resistenza, i giovani che hanno disertato la chiamata alle armi della Repubblica Sociale per passare nclle file della Resistenza e le migliaia di prigionieri nei lager tcdeschi che hanno prelerito restare e soffrire e morire in quei campi di concentramento piuttosto che aderire alla Repubblica Sociale.

 

Ero convinto che il risorgore della democrazia in Italia fosse sì dovuto alla sconfitta dei tedeschi da parte di americani, inglesi, francesi, russi, etc., ma che non fosse affatto insignificante il contributo degli italiani nella liberazione del nostro Paese con l'atteggiamento che in diverse forme e ìn diverse situazioni avevano dato alla lolta contro il fascismo e il nazismo.

 

E avevo sempre saputo e creduto che la Costituzione italiana nascesse proprio da questo impegno e dai sacriiici che questo impegno aveva comportato.

 

Ora sento dire da storici di varia matrice, e fra questi da Scoppola che pure è un amico e che ha falto battaglie con noi in questi anni di vita democratica e da ultimo dal prof. Francesco Cossiga, che quella è stata una guema civile.

 

Ma certo loro non hanno visto le nostre città occupate dai tedeschi e dai fascisti! Permettetemi di dirvi, e mi scuso coi giovani che non hanno vissuto quegli anni, che non riesco ad accettare questa versione e che, se volete, oltre a tutti gli altri cambiamenti nella vita politica e sociale che sono sotto gli occhi di tutti quelli che si sono impegnati nella vita del partito e nelle altre organizzazioni che hanno contribuito allo svilupparsi della vita politica e sociale di questi 47 anni e oltre alle condizioni nelle quali stiamo vivendo oggi, questa è un po' la goccia che fa traboccare il vaso e che mi induce a ritenermi ormai un superato e a ritirarmi dalla vita politica attiva.

 

Nuove energie si presentano alla ribalta e possono ridare slancio e vigore agli ideali che erano alla base della nostra vita e che credo abbiano ancora una loro validità anche se l'impegno sarà gravoso per chi continuerà o inizierà questa azione correggendo anche gli errori, e sono tanti, che noi più anziani abbiamo commesso.

 

Di fronte al frantumarsi dei partiti e della società credo ancora che la politica abbia la funzione di sintesi e di guida degli interessi, delle spinte, delle richieste provenienti dalla società e il compito di ricercare il bene comune e credo che anche di fronte al crollo del comunismo resti valida l'opportunità di un impegno unitario dei cattolici; vi sono valori che sono propri dei cattolici e che, I'esperienza ci insegna per la presenza anche parlamentare di cattolici in altri partiti, non possono essere affermati e difesi che nella unità, in questo contrastando Ie affermazioni del prof. Cossiga.

 

Certo si tratta di trasformare e rinnovare i partiti (io non vedo, a parte iI dettame della Costituzione, altri strumenti diversi atti a garantire la vita democratica). Di fronte al frantumarsi dei partiti e della società credo ancora che la politica abbia la funzione di sintesi e di guida degli interessi, delle spinte, delle richieste provenienti dalla società. Rendere veramente democratica la vita interna del partito, renderla pulita, sottrarla agli intrecci con gli affari, rivitalizzare gli ideali, ricollegarla con la società, dare giustizia ai più deboli, ridare valori ai quali credere a tutti i cittadini ritengo siano compiti che soprattutto la sinistra della Dc può e deve ancora svolgere.

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Gli articoli citati sono tratti dal numero di dicembre 2021 del giornale Democratici Cristiani per l'Azione

UGO LA MALFA: Draghi ricorda La Malfa, riformatore di scuola laico-democratica, sempre attento a bilanciare crescita ed uguaglianza

Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Presidente del Consiglio intervenuto ieri alla Camera dei Deputati alla presentazione del “Portale Ugo La Malfa – scritti, discorsi, epistolario, multimedia”. La “rivoluzione” di La Malfa – quella della liberalizzazione del commercio con l’estero e dell’abbattimento del 10 per cento dei dazi, di cui per altro andava particolarmente orgoglioso – ebbe la consacrazione di un Consiglio dei ministri che in pochi minuti deliberò le misure da prendere: a riprova del fatto che “…certe riforme fondamentali – come disse lo stesso La Malfa – non hanno bisogno di anni di discussione”. De Gasperi e Vanoni (a differenza dì Pella) appoggiarono il giovane ministro repubblicano, il quale mise a segno, in questo modo, un’operazione di straordinario effetto sull’economia italiana del secondo dopoguerra, fino al boom di fine anni ‘50. 

Sono molto felice di essere qui oggi per rendere omaggio a Ugo La Malfa. Voglio prima di tutto ringraziare coloro che hanno contribuito a questa importante iniziativa, a partire dal figlio Giorgio e dalla nipote Claudia. L’archivio digitale degli scritti politici di La Malfa, dei suoi discorsi, del suo epistolario non è solo un viaggio nella nostra memoria collettiva.

È un tesoro nazionale, da preservare sì, certo per voi, per le generazioni future, ma anche per noi, ora.

La Malfa è stato uno dei principali costruttori della Repubblica. Antifascista, la sua opposizione al Regime, come ricordava Claudia, gli costò un arresto e la degradazione militare, prima dell’espatrio in Svizzera.

La Malfa portò i valori liberali e democratici del Partito d’Azione nel Comitato di liberazione nazionale e in una nuova casa, quella che fu la sua casa, il Partito Repubblicano Italiano.

In politica estera agì da convinto atlantista ed europeista. Nel dopoguerra, La Malfa è stato uno dei padri del miracolo economico. Ministro del Commercio Estero nel Governo De Gasperi, ha guidato la liberalizzazione degli scambi. 

Nel 1951, abbassò i dazi del 10% e aprì le frontiere al libero commercio, a fronte di accuse di voler distruggere l’economia italiana e di esporre l’industria alla concorrenza sregolata. A motivarlo era la convinzione che fosse necessario stimolare l’economia del Paese con la concorrenza, soprattutto al Sud. Puntare – come ebbe modo di dire – sulla “capacità nazionale di andare sui mercati”, sull’iniziativa e sullo spirito imprenditoriale degli italiani.

Con audacia, senza complessi di inferiorità. La storia gli ha dato ragione. Le esportazioni dall’Italia aumentarono rapidamente per tutti gli anni ‘50 e il deficit commerciale in rapporto ai volumi totali di scambio diminuì. Grazie a La Malfa, l’Italia divenne un modello per l’Europa.

Altri Paesi, come Francia e Inghilterra, rinunciarono poco dopo alle barriere doganali. L’Europa tutta si avviò verso un regime di liberalizzazione del commercio, che sarebbe culminato nel Trattato di Roma e nella Comunità economica europea. 

Queste scelte valsero a La Malfa l’ammirazione dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea e della Germania. Ludwig Erhard, durante una visita in Italia, elogiò con un certo stupore il suo coraggio e la sua tenacia. Quell’Italia, aperta e coraggiosa, seppe sorprendere il ministro tedesco dell’economia sociale di mercato – e, con lui, l’Europa intera. 

Da questo passaggio storico si evince un tratto distintivo di Ugo La Malfa. La grande apertura mentale, accompagnata alla profondità di riflessione sull’economia. Conoscenze e convinzioni sviluppate direi soprattutto con la lettura di Keynes e degli economisti americani. Una scoperta avvenuta in un grande luogo della cultura italiana: l’Ufficio Studi della Banca Commerciale.

Fu Raffaele Mattioli nel ‘33 a volere lì La Malfa, nonostante fosse stato da poco liberato dopo un arresto politico e sorvegliato dalla polizia. Mattioli aprì la sua casa ai giovani dell’Ufficio Studi, dove poterono incontrare intellettuali, scrittori e poeti, da Bacchelli a Montale. E in quegli uffici della Banca Commerciale, come ricorda lo stesso La Malfa, si svolse la battaglia clandestina contro il fascismo.

Da uomo di governo, La Malfa continuò a circondarsi di giovani studiosi. Nel 1962, da Ministro del Bilancio, lavorò insieme a Paolo Sylos Labini, a Francesco Forte, a Giorgio Fuà e a Pasquale Saraceno alla Nota Aggiuntiva – il suo maggiore lascito intellettuale. Nella Nota, La Malfa cercò di dare risposta a una questione centrale per la ricostruzione.

Come trasformare il periodo eccezionale che il Paese stava vivendo in una stagione di crescita di lungo termine.

La Malfa ci ricorda l’importanza di una politica di programmazione, necessaria per uno “sviluppo equilibrato”.

E ci invita ad affrontare le situazioni settoriali, regionali e sociali che non riescono a trarre “sufficiente beneficio dalla generale espansione del sistema”. “Soltanto in una fase di grande dinamismo – scriveva La Malfa – è possibile attuare le necessarie modificazioni del meccanismo economico senza incontrare costi elevati”.

L’alternativa è quella che La Malfa chiamò successivamente il “non-governo”. Una definizione fulminante, per sottolineare l’incapacità di affrontare i problemi, di dare continuità alla modernizzazione del Paese. Al “non-governo” va contrapposto il coraggio delle riforme economiche e sociali. Quel coraggio che lui sempre dimostrò, insieme ad una visione direi profondamente pessimista della politica, ma mai sfiduciata. Una visione, quella che Caffè chiamò “la solitudine del riformista”, che non diminuì mai il suo entusiasmo riformatore. Un’azione paziente ma decisa, che eviti gli sterili drammi degli scontri ideologici, per dare all’Italia una prospettiva di sviluppo, coesione, convergenza.

Oggi, ricordiamo La Malfa come grande statista e appassionato riformatore. Uno degli artefici del boom economico, sempre attento a bilanciare crescita e uguaglianza. Un uomo onesto e rigoroso, che non dimenticava quando, da giovane studente alla Ca’ Foscari, per risparmiare si nutriva di fichi secchi. Un protagonista della vita civile dell’Italia, che non ha mai perso di vista i valori morali dell’attività clandestina e della Resistenza e l’importanza di trasmetterne la memoria.

Nella lettera a Donato Menichella all’annuncio delle sue dimissioni da Governatore della Banca d’Italia, La Malfa si preoccupa che i più giovani non conoscano mai “quello che noi abbiamo sofferto e quello per cui tutta la vita abbiamo combattuto”. Sono certo che l’archivio che inauguriamo oggi contribuirà a diffondere la lezione riformatrice di La Malfa, il suo coraggio, la sua passione civile.

Mercoledì, 10 Novembre 2021 - dal giornale online "Il domani d'Italia"

http://www.ildomaniditalia.eu/draghi-ricorda-la-malfa-riformatore-di-scuola-laico-democratica-sempre-attento-a-bilanciare-crescita-e-uguaglianza

webtv.camera.it/evento/19338

CARLO DONAT-CATTIN: pluralismo e unità politica cattolica

ETTORE BERNABEI: Un cattolico in lotta contro il partito dei padroni

 

GIORGIO MELETTI

19 settembre 2021

 

  • Nei diari di Ettore Bernabei, uno dei democristiani più potenti, alla guida della Rai prima e del sistema degli appalti poi, l’invettiva contro «la reazione capitalista e i suoi luridi portafogli».  

  • La testimonianza non oggettiva e distaccata di un fervente cattolico, soprannumerario dell’Opus Dei, insegna molto sulla storia d'Italia e sulle radici della profonda crisi della politica di oggi. 

  • Nella composita Dc in cui convivevano l'ispirato Giorgio La Pira e il cinico Giulio Andreotti c'era più sensibilità al rapporto con gli umili e alla critica del capitalismo di quanta non se ne veda oggi nel centrosinistra.​​​​​​​

Leggete questa frase: «La reazione capitalista tenta di riconquistare il vessillo della Santa Crociata nascondendo i suoi luridi portafogli dietro le barriere spirituali di un cattolicesimo irretito nella difesa astratta dei principi e sostanzialmente avulso dagli uomini e in particolare dai poveri». E leggete quest’altra frase: «Ora si discute intorno alla congiuntura, ma è difficile che chi ha trovato un briciolo di benessere dopo secoli di inedia si persuada a tornare indietro in base a qualche teorema liberista diffuso dal governatore della Banca d’Italia». Potrà sembrare sorprendente che le abbia scritte nel suo diario privato, a cavallo tra 1963 e 1964, Ettore Bernabei (1921-2016), all’epoca direttore generale della Rai. Ma proprio per questo vale la pena di parlarne.

 

L’UOMO DI FANFANI

Giornalista fiorentino precoce e assai dotato, Bernabei è stato per decenni uno degli uomini più potenti d’Italia. Ombra discreta di Amintore Fanfani (il leader democristiano che insieme ad Aldo Moro ha segnato la storia della Prima repubblica tra Alcide De Gasperi e il declino) è stato a 35 anni direttore del Popolo, l’organo ufficiale della Dc, e a 40 numero uno della Rai che allora contava mille volte più di adesso, essendo l’unico mezzo di comunicazione di massa.

 

Tocca a lui, nell’agosto del 1964, decidere quanti minuti dei funerali di Palmiro Togliatti sia giusto far vedere agli italiani. «Si trattava di dare un doveroso rilievo alla morte di un personaggio che tanta parte aveva avuto nella vita italiana degli ultimi vent’anni senza disturbare gli otto-dieci milioni di suoi ammiratori e senza disturbare i diciotto-venti milioni di suoi avversari».

Decide per una sintesi registrata di 25 minuti dopo il telegiornale delle 23, e lo considera un gesto di attenzione per i comunisti, che di lì a poco potrebbero essere decisivi per l’elezione di Fanfani alla presidenza della Repubblica. Bernabei non è un funzionario, è un militante politico appassionato, anche se non comprare mai in pubblico ed è sconosciuto alle masse. 

Per conto di Fanfani tratta direttamente con Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, due leader popolarissimi del partito orfano di Togliatti, i voti comunisti per il Quirinale. Rimane al vertice della Rai per 13 anni, fino al 1974, e i suoi diari rivelano un ruolo decisivo di snodo del potere. Svolge le funzioni di ambasciatore di Fanfani presso il governo degli Stati Uniti, ma è anche spesso a colloquio con l’ambasciatore sovietico a Roma Nikita Ryzhov.

 

Propizia lo storico incontro tra il papa Paolo VI e il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromyko. Durante il rapimento di Aldo Moro si svolgono a casa sua gli incontri segreti tra Fanfani e il leader socialista Bettino Craxi per soppesare le possibilità di trattativa con le Brigate rosse. 

Dopo il 1974 Bernabei cambierà vita professionale, diventando ancora più potente alla guida dell’Italstat, società statale che finisce per diventare un ministero dei Lavori pubblici ombra, architrave del mercato degli appalti, un sistema perverso ma a suo modo efficiente che sarà distrutto dall’inchiesta Mani pulite. Da allora è una giungla: nessuno è riuscito a inventare qualcosa in grado di sostituire il sistema Bernabei.

 

LE DUE OSSESSIONI

I suoi diari (Piero Meucci, Il primato della politica, Marsilio) raccontano però la politica. Chi li scrive è un cattolico fervente, soprannumerario dell’Opus Dei, ossessionato dai due nemici che per lui minacciano l’Italia, gli ebrei e i massoni. La sua cronaca quotidiana copre in modo dettagliato il quarto di secolo dalla caduta di De Gasperi (1954) alla morte di Moro e di Paolo VI (1978) e, pur non essendo una testimonianza oggettiva e distaccata, punteggiata com’è da interpretazioni stravaganti, insegna molto sulla storia politica dell’Italia e, quello che più ci interessa, sulle radici della attuale crisi profonda.

Una classe politica sempre più ignorante e improvvisata non è in grado oggi di fare i conti con la storia che ne determina in larga parte difficoltà e incertezze. Torniamo dunque alle due frasi da cui siamo partiti. Bernabei non ha esitazioni, secondo lui il cattolico deve fare politica dalla parte dei poveri e degli sfruttati, contro i padroni. Usa proprio queste parole.

 

Ma la Dc è un’altra cosa, la Dc è, come si diceva un tempo, “interclassista”. Sta con gli operai e con i padroni perché solo in questa sintesi il partito cattolico raccoglie l’ampio consenso elettorale (stabilmente attorno al 40 per cento) che gli consente di governare per 45 anni. L’interclassismo, sottintende Bernabei, è contro natura, imposto dalla contingenza storica. Ma oggi vediamo che è durato così a lungo da sedimentare nel sistema politico italiano l’idea che sia una pratica virtuosa, una sintesi “alta”, l’unica declinazione possibile della cosiddetta cultura di governo. Una deriva perversa di cui l’attuale partito democratico è il malinconico risultato.

Per molti anni la vita della Dc è accompagnata dall’idea strisciante della scissione. Sintetizza Meucci, curatore dei diari: «La questione che [Bernabei] mette a fuoco è che il partito dei cattolici, per la sua forza elettorale e il suo carattere popolare, deve fare i conti con il destino di rappresentare dentro di sé due anime che si fronteggiano e si combattono quotidianamente. Una sinistra cristiano-sociale e una liberale, che in quegli anni prende la forma di un conservatorismo retrivo e reazionario. La soluzione potrebbe essere una salutare scissione».

È una guerra politica senza esclusione di colpi. Nel 1959, quando contro un Fanfani troppo di sinistra si forma il correntone “doroteo”, che diventerà la definizione proverbiale di una politica per il potere e senza principi, Bernabei scolpisce un’analisi profetica: il doroteismo «è una vera e propria categoria della politica italiana ed europea, è una tenace conservazione mascherata di progressivismo da chi in buona fede non ha capito cos’è la dittatura della borghesia e crede di costruire una società cristiana credendo in Dio a titolo personale e facendo riaffermazioni verbali di antifascismo e di socialità, o in mala fede si è asservito al padronato e gli offre la copertura del cristianesimo sociale».

 

CONTROLLO AMERICANO

Ma le due anime del cattolicesimo non possono separarsi. In primo luogo perché la chiesa non lo vuole. Una scissione la costringerebbe a scegliere se appoggiare l’ala cristiano-sociale di Fanfani o quella filo-padronale dei dorotei. In secondo luogo perché la Dc è l’architrave del controllo americano su un paese di confine con il blocco sovietico, in cui la forza del Pci, non abilitato a governare a causa dei suoi legami con Mosca, impedisce un’alternanza al governo tra progressisti e conservatori come avviene in tutti gli altri paesi europei. Così la Balena bianca (come la chiamò Giampaolo Pansa) è condannata a governare unita, alleata con i liberali di Giovanni Malagodi, i repubblicani di Ugo La Malfa e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, poi dal 1963 in avanti anche con i socialisti di Pietro Nenni. 

Gli alleati minori sono considerati da Bernabei i veri «servi dei padroni»: «Accusano i cattolici di cedimenti al comunismo temendo proprio l’alleanza fra chiesa e comunismo come il colpo mortale al capitalismo e ai privilegi della borghesia». L’alternanza tra destra e sinistra avviene all’interno della Dc ed è sempre risultato di dure battaglie. 

C’è la spinta a sinistra di Fanfani dopo il congresso di Napoli del 1954 che segna la fine del degasperismo, c’è il tentativo di svolta autoritaria (definita senza tanti complimenti «avventura totalitaria clerico-fascista») di Fernando Tambroni, ex pupillo di Fanfani, c’è la nuova apertura a sinistra di Fanfani e Moro, la svolta di destra dei primi anni ’70 capitanata da Giulio Andreotti che però subito dopo sarà l’uomo chiave dell’ingresso dei comunisti nella maggioranza.

Tutto avviene dentro la Dc che in realtà federa due partiti molto distanti tra loro. Si manovra, si naviga, si combatte. Bernabei annota le parole del leader doroteo Mariano Rumor (nel tempo segretario della Dc e presidente del Consiglio): «Vedete, ve lo dicevamo noi quando avete cominciato ad attaccare i liberali (cioè i padroni) e a rompere la solidarietà quadripartita, i preti non ci permetteranno di andare a sinistra perciò se proprio non volete andare alla destra smaccata, accontentatevi di questa destra mimetizzata che è il centro». Rumor è sprezzante con il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, grande amico di Bernabei e anche lui legatissimo a Fanfani, definendolo «un ridicolo visionario perché difende sempre solo gli operai». 

 

 

COMMENTI

I problemi del capitalismo di Stato spiegati dal caso Inso

 

Alla vigilia delle elezioni politiche del 1958 il diarista annota che «sono elezioni decisive perché segnano l’antinomia evidente tra il padronato e la Dc». Fanfani va avanti sulla sua strada riformista, il suo fidato consigliere gongola: «I padroni e la massoneria hanno capito che con questo governo è finita l’era liberale e perciò il loro dominio della situazione è gravemente minacciato». Lo scontro è duro, «il padronato punta tutte le carte sull’opposizione interna alla Dc, stipendiando deputati e senatori».

Il pendolo interno alla Dc si muove secondo la sua insondabile armonia. Fanfani sale e scende, come sempre nella sua vita. Nel 1959 perde presidenza del Consiglio e segreteria del partito, e Bernabei ne registra la consueta ma rapida crisi depressiva: «Fanfani in stato di prostrazione pessimistica molto grave», appare convinto «che in Italia non sia possibile far politica per chi onestamente non vuol piegarsi ai ricchi e servirli». I partiti cristiani sono un equivoco, dice, e le politiche cristiane sono espedienti che la chiesa usa per guadagnare tempo. In tono più apocalittico, sostiene che «per un cristiano non c’è possibilità di svolgere una politica a favore degli umili».

 

ANTICAPITALISMO

La Dc occupa il centro tenendo alla sua destra i partitini centristi che Bernabei considera al servizio del padronato e alla sua sinistra i comunisti che, nella sua visione, lavorano per Mosca e quindi hanno, anche rispetto alle grandi questioni sociali, posizioni opportunistiche. Meucci sintetizza così il pensiero di Bernabei: «I socialisti al servizio della borghesia capitalistica e i comunisti paralizzati dal loro tatticismo, nello sforzo di apparire moderati e democratici, hanno addormentato le masse operaie».

Sullo sfondo, l’elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica (29 dicembre 1964). Bernabei soffre: «Come è potuto avvenire che un laico avversario dei cattolici e rappresentante di grandi interessi finanziari internazionali è assurto alla prima carica dello stato? Perché questo comportamento autolesionista della Dc?».

Intanto Fanfani, sconfitto nella corsa al Quirinale che non vincerà mai, prepara l’ennesima riscossa. Ancora una volta in nome dell’anticapitalismo. Annota il suo attento esegeta: «Sente che alla fine una gran parte degli italiani potrebbe trovare in lui un restauratore e un propulsore di nuove forme di vita associativa che non siano quelle ormai logore della dittatura borghese capitalista mascherata da democrazia parlamentaristica. Lo anima la vecchia passione integrale cattolica, anche se accompagnata da una durissima polemica con la gerarchia che in questi momenti si è dimostrata inetta e rinunciataria».

Nel gioco di specchi della politica democristiana e italiana nulla è come appare e in certi momenti anche Bernabei sembra che si perda. Nel 1971 va a pranzo a casa sua l’ambasciatore americano Graham Martin e il padrone di casa trae dal colloquio uno scenario un po’ onirico ma con tracce di autenticità: «L’ambasciatore tiene a far sapere che il suo governo (lui è molto amico di Nixon) ha deciso di puntare in Italia solo sulla Dc correggendo la precedente politica dell’amministrazione democratica, che puntava anche e soprattutto sul cavallo socialista.

Per attuare questa politica lui dice che ha carta bianca, ma che prima di muoversi nell’aiutare la Dc vuol vedere se saprà essere unita nella campagna presidenziale. Mi chiede cosa può fare per raggiungere meglio questi scopi, lasciando sottintendere che lui e il suo governo vedrebbero non ostilmente una candidatura Fanfani. Rispondo che un discorso del genere dovrebbe esser fatto a una decina di notabili democristiani, ad alcuni segretari di partito ed esponenti industriali tipo Agnelli, Pirelli, Cefis. Tace sugli ultimi due. Per il primo tiene a dire che ha rotto i rapporti perché troppo implicato nei finanziamenti di movimenti di sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Potere operaio).

 

 

CULTURA

Tutto quello che Pasolini aveva capito e che non abbiamo mai potuto leggere

 

Ma che malgrado ciò farà sapere anche ad Agnelli le direttive sulle quali si muove la politica della sua ambasciata». Agnelli finanzia Lotta continua e Potere operaio? Difficile da credersi, ma quello che conta è la visione sottostante, quella di un cattolico che si sente accerchiato da forze padronali (e quindi, in automatico, anche massoniche ed ebraiche) che puntano a ridimensionare l’anima popolare del partito cattolico.

Il tema è ricorrente da 150 anni. I cattolici e i socialisti fondano insieme nell’Ottocento le società di mutuo soccorso che sono l’embrione del Partito socialista e del sindacato. La chiesa tende, almeno in teoria, a schierarsi con i poveri contro i ricchi, se non altro perché è l’unica strada per tenere viva un’identità culturale originale nella moderna società industriale. C’è un filo sotterraneo che unisce, dall’inizio del Novecento all’inizio del terzo millennio, l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII alla Fratelli tutti di Jorge Mario Bergoglio. Poi ci sono le curve della storia. Con il fascismo la chiesa si mette al servizio del regime e della «dittatura borghese», ma nella nuova Dc che nasce nella lotta contro il nazi-fascismo l’anima sociale emerge fortissima, anche nell’era di De Gasperi che sosteneva, ricorda Bernabei, che «per la Dc è meglio perdere due voti a destra per guadagnarne uno a sinistra».

 

IL DUO MONTINI-MORO

Impressionanti le righe dedicate nel 1978 al bilancio storico di due figure decisive come Aldo Moro (ucciso dalle Brigate rosse il 9 maggio) e Giovanni Battista Montini (Paolo VI), morto il 6 agosto. Secondo Bernabei avevano costituito «il più saldo anche se beato sodalizio spirituale e politico mai esistito tra chiesa e politica italiana».

 

CULTURA

Aldo Moro, Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. I rapporti della Dc con l’intelligence

 

Papa Montini ha infatti determinato, secondo Bernabei, il «più complesso e organico esperimento di (Jacques) Maritain, secondo il quale i cattolici devono mantenersi diversi e distinti sul piano dottrinale dai movimenti di ispirazione marxista, ma devono essere disposti a collaborazioni sul piano pragmatico anche con i partiti comunisti allo scopo di impedire che le forze borghesi e capitalistiche, dividendo le masse comuniste e cattoliche, possano attuare regimi a sfondo più o meno dichiaratamente fascista». Montini, prima assistente ecclesiastico della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana, grande scuola di formazione religiosa della classe dirigente alla guida del paese dal dopoguerra in poi), in seguito segretario di stato, infine pontefice, determina la prevalenza nella Dc della «ala pluralistica (dorotei e morotei) rinunciataria verso qualsiasi proposta contraria di politica sociale cristiana, disposta a lasciar prevalere tutte le ideologie e i possibilismi per fare perdonare i passati errori “esclusivistici” e “trionfalistici” della chiesa». Di conseguenza, spiega Meucci, lo scudo crociato volta le spalle alla linea autonomista propugnata da padre Agostino Gemelli, fondatore dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, «che con Fanfani, La Pira e (Giuseppe) Dossetti propugnava una proposta sociale cristiana in alternativa a quella illuministica borghese ma anche a quella marxista». Tanto che Bernabei ripone grandi speranze nel pontificato di Albino Luciani (Giovanni Paolo I), che però durerà solo 33 giorni. Definisce la sua elezione «un soffio dello Spirito Santo». Commenta Meucci: «L’enfasi dell’espressione usata dal diarista non è casuale, esprime l’attesa per una dottrina sociale capace di rilanciare l’idealità del mondo cattolico e dei suoi valori. Una visione del mondo capace di competere con il neoliberismo e l’utopia marxista».

Mentre inizia, con l’uccisione di Moro, il disfacimento della Dc, Bernabei rimpiange l’incapacità di proporre un vero modello cattolico di società e la scelta (che attribuisce al duo Montini-Moro) di presidiare il centro politico con una specie di modello intermedio tra liberismo capitalista e sinistra di ispirazione marxista. 

Nei decenni successivi si crea il paradosso imprevedibile che domina l’Italia di oggi: la Dc esplode e le sue schegge “pluralistiche” finiscono prevedibilmente in tutte le aree politiche, ma nel frattempo liberismo e comunismo si fondono in quella specie di pensiero unico da cui nasce, per esplicita rivendicazione, il Pd. Così oggi, di fronte alla domanda di politica determinata dalla profonda crisi del capitalismo, ci troviamo a constatare nei diari di Bernabei che in quella composita Dc in cui convivevano l’ispirato La Pira e il cinico Giulio Andreotti c’era più sensibilità al tema del rapporto con gli umili e della critica del capitalismo di quanto non si veda nelle formazioni di centrosinistra di questi tempi.

 

GIORGIO MELETTI

Giornalista. Ha lavorato, tra l'altro, per il Corriere della Sera, La7 e il Fatto Quotidiano

ANTONIO SEGNI Nell'intervista a Mario Segni sul libro "Il Colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news"

Moro vinse il duello sul centro-sinistra ma il golpe fu una fake news. Parla Mario Segni

Di Federico Bini - 

Un tuffo nel passato con Mario Segni, padre della stagione referendaria degli anni ’90, figlio di Antonio (presidente della Repubblica e ministro Dc) in libreria con “Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news”

Mario Segni, il padre della stagione referendaria degli anni ’90, figlio di Antonio (presidente della Repubblica e ministro Dc), si racconta a Formiche.net sul presunto golpe del ’64. Per la sinistra fu un “colpo di Stato”, per Segni “la madre di tutte le fake news”. Si tratta di un tuffo nel passato necessario per capire quanto delicata fosse la situazione politica italiana avendo all’interno del Paese il più organizzato partito comunista dell’intera area occidentale. Servizi segreti, carabinieri, istituzioni e presidenza della Repubblica, erano tutti preoccupati da una possibile avanzata, anche armata, del Pci. Al centro della scena Antonio Segni, un politico di alta statura morale e civile, volto a garantire la tenuta del sistema repubblicano.

Tenendo presente il suo ultimo libro, Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, per citare Pietro Scoppola, la nostra ad oggi è ancora una “Repubblica dei partiti”?

Certamente no. La Repubblica dei partiti è finita nel 1992-1993. È finita da un lato con Mani pulite, ma è finita soprattutto con il passaggio al sistema maggioritario. Nel ’93 il cambiamento del sistema elettorale ha posto le basi di una Repubblica non più dei partiti ma delle istituzioni.

Suo padre, Antonio Segni, non fu solo presidente della Repubblica ma anche uno stimato ministro con De Gasperi e presidente del Consiglio. Una carriera nelle istituzioni.

Fu all’interno delle istituzioni e all’interno della Democrazia Cristiana. Storicamente non dobbiamo dimenticare che la Dc è il partito che ebbe il merito della nascita dello Stato democratico e della ricostruzione economica, sociale e morale del Paese dopo la guerra. Io in particolar modo dividerei la Prima Repubblica in due periodi: uno che può essere definito degasperiano che dura anche un po’ oltre la morte di De Gasperi (governi Scelba, Segni ecc…) e arriva intorno al 1960, l’altro la seconda parte è la fase del lungo declino che l’Italia ha iniziato e che ancora non è finito.

Il rapporto tra suo padre e De Gasperi?

Intanto non dobbiamo dimenticare che appartenevano allo stesso ristretto gruppo di fondatori della Democrazia Cristiana. Persone che avevano molte caratteristiche comuni: un’ispirazione cristiana profonda e una totale discontinuità con il periodo fascista. Nessuno di loro era stato fascista o simpatizzante del ventennio. Mio padre di De Gasperi fu ministro dell’Agricoltura di cui l’opera principale fu la riforma agraria sulla quale ebbe anche divergenze spesso profonde anche con lo statista trentino. È una storia complessa e travagliata, di due statisti che hanno avuto sempre un rapporto solidissimo di stima reciproca.

Entrambi provenivano dal gruppo del PPI di don Luigi Sturzo.

Mio padre era un grande estimatore di Sturzo e fu anche tra i militanti del PPI negli anni ’20. Fu anche candidato alle elezioni politiche del ’24 ma non passò, fu il primo dei non eletti in Sardegna. Tra l’altro finita la guerra ebbe modo di frequentare intensamente Sturzo quando tornò dall’esilio.

Come si arrivò alla designazione di suo padre come presidente della Repubblica?

Fu molto semplice. La Dc si mostrò quasi sempre compatta sul suo nome. Moro era segretario del partito, fu uno degli artefici della sua elezione. Fu eletto al nono scrutinio ma fu dall’inizio alla fine il candidato del partito contrapposto a Saragat candidato delle sinistre.

Cosa successe realmente nel 1964 con la crisi del I° governo Moro?

Nell’ultima parte del mio libro, ci sono alcune lettere di mio padre scritte soprattutto a Moro e Rumor (segretario della Dc) e ad altri, in cui appare chiarissimo qual è il motivo delle preoccupazioni, delle ansietà che lo turbano come presidente della Repubblica. Prima di tutto la crisi economica che precedeva di molto la crisi di governo. Tanto è vero che era stata preceduta da due eventi clamorosi: l’arrivo a Roma del vicepresidente della Commissione Europea e la lettera di Colombo, ministro del Tesoro, in cui denuncia disastrose le misure economiche del governo.
L’altra preoccupazione era di carattere costituzionale. Lo ripete varie volte nelle lettere a Moro, “io da presidente della Repubblica non posso permettere che l’Italia cancelli il sistema economico basato sulla libera impresa di mercato e sulla proprietà privata, determinato e scelto dalla Costituzione e metta in pericolo la partecipazione dell’Italia tra i paesi europei”.

E Guido Carli, governatore della Banca d’Italia come reagì?

Carli era schierato con ancora più forza a fianco di mio padre.

E la figura del generale De Lorenzo come la possiamo interpretare?

Nella crisi precedente, un anno prima, in cui si era formato il I° governo Moro, mio padre aveva instaurato l’abitudine di convocare ufficialmente al Quirinale durante la crisi anche personalità esterne. Convocò in occasione della prima crisi, Gaetano Martino sulla politica estera, Guido Carli governatore della Banca d’Italia e Giovanni De Lorenzo come esperto di ordine pubblico. Nessuno disse niente. In realtà la presenza di convocare personaggi esterni era già avvenuta la volta precedente, non era nemmeno una novità. Dopodiché dobbiamo dire che mio padre aveva una grande fiducia personale nei confronti di De Lorenzo e nei Carabinieri.

Come erano a livello politico e istituzionale i rapporti tra Antonio Segni, capo dello Stato, Moro presidente del Consiglio e Rumor segretario del partito?

Rapporti di grande cordialità. Con Aldo Moro c’erano però differenza politiche molto profonde. E la crisi del ’64 dimostra come le posizioni sono diversissime. Aldo Moro vuole il mantenimento della formula del centro-sinistra, mio padre invece vuole che la formula almeno in quella fase vada cambiata. Nella crisi vincono Moro e Nenni con la conferma del centro-sinistra. Poi la crisi obbliga il governo a cancellare – per fortuna – quelle misure che Segni e Carli non volevano. Vengono più cancellate per la forza delle cose che per la spinta politica.

L’ultimo colloquio tra suo padre e Moro prima della malattia?

È un colloquio dopo la crisi, molto emozionante. Alla fine mio padre gli dice: “Credo che tu non abbia a lamentarti nulla di te”. E Moro gli risponde: “Sì, è vero, ma io volevo essere certo del tuo appoggio”. E Antonio Segni: “Io te lo confermo e garantisco ma nei limiti della Costituzione”.

L’aneddoto riportato giornalisticamente da Jannuzzi della famosa litigata al Quirinale con Saragat e Moro? Cosa può dirci a riguardo?

Ritengo che sia una delle tante invenzioni, bugie, balle inventate da Jannuzzi. E ne sono sicuro per un piccolo motivo pratico. Io conosco il Quirinale, mio padre ci ha vissuto due anni, nello studio in cui si svolse l’incontro e il Salone dei Corazzieri ci sono quattro, cinque stanze con porte massicce. Dopodiché la smentita di Saragat è più precisa che mai: “Vergognose speculazioni”.

Taviani era ministro dell’Interno con Moro.

Tra Taviani e mio padre c’era una lunga amicizia, ma c’era da tempo una forte divergenza di opinioni politiche. Taviani era già fortemente attento all’apertura verso i comunisti e riteneva che fosse scomparso il pericolo comunista dopo la sconfitta di Secchia al congresso precedente.

L’incontro tra suo padre e De Gaulle?

De Gaulle era un personaggio che non poteva non incutere un senso di straordinaria autorevolezza. Ricordo una frase di Kissinger che disse che quando arrivarono all’Eliseo sembrava che tutto il palazzo ruotasse intorno a lui. Mio padre invece ricordo che mi disse: “Sembra più un vescovo che un generale”. Sembrava trasparire quasi un senso di superiorità religiosa.

La Sardegna ha dato i natali a figure politiche importantissime. Quali erano i rapporti tra queste famiglie?

Erano tutte famiglie sassaresi che si conoscevano da secoli. Con Cossiga mio padre ebbe quasi un rapporto di affetto paterno, era quasi un membro della nostra famiglia. Parliamo ovviamente di due generazioni diverse. Erano tutte famiglie nate e residenti in poche centinaia di metri di distanza, tutte appartenenti alla stessa parrocchia. La parrocchia di San Giuseppe ebbe due presidenti della Repubblica e il segretario del Partito Comunista.

Mario Berlinguer, padre di Enrico, fece anche una piccola apertura per votare suo padre presidente della Repubblica.

Mario fu quasi coetaneo e deputato socialista, e sì, durante le elezioni presidenziali, nonostante la candidatura di Saragat per le sinistre fece apertamente campagna per Antonio Segni.

Qual era il rapporto tra suo padre e la vostra terra di origine?

Io non dimenticherò mai una cosa che scrisse Montanelli. Il rapporto tra Antonio Segni con la Sardegna è un rapporto di amore carnale. Fu un rapporto di affetto profondissimo.

GIUSEPPE SINESIO: una vita per la politica e la sua terra

(articolo di Paolo Cilona tratto dal giornale "La Sicilia/Agrigento e Provincia" del 18 Maggio 2021)

Oggi ricorre il centenario della nascita a Porto Empedocle dell’onorevole GiuseppeSinesio, uno dei quattro figli (Pasquale, Maria e Aldo) di una famiglia piccolo borghese. Il padre, era un laborioso commerciante, proveniente dalla vicina Cattolica Eraclea. Una famiglia assai conosciuta e ben voluta dalla comunità empedoclina.
Il piccolo Giuseppe dopo avere frequentato la scuola d’obbligo fu mandato a studiare ad Acireale
presso il Collegio Pennisi, retto dai padri gesuiti. Si diplomò all’età di 17 anni, anticipando di un anno il corso scolastico. Venne poi mandato a Milano, dove si iscrisse alla Facoltà di Chimica. Tra i suoi docenti il prof. Giulio Natta (inventore della plastica e Premio Nobel per la Chimica nel 1963).

Durante l’esperienza universitaria partecipò in modo clandestino alla contestazione del regime fascista. Venne scoperto ed espulso da tutte le università italiane, ma grazie all’intervento di un amico studente che interessò la casa reale, fu riammesso a frequentare il corso di laurea.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, il giovane Giuseppe venne chiamato alle armi ed assegnato al Corpo di Spedizione Italiano in Russia. La campagna si concluse amaramente per l’esercito italiano che riportò novantamila morti e cinquantamila congelati su un contingente di quasi duecentocinquantamila soldati. Di questa grave avventura bellica ne parlava spesso con i giovani, ricordando quei momenti di dolore e di disperazione, con le suole bucate sulla neve e con le numerose sofferenze subite durante la ritirata e che secondo lui Cristo gli stava accanto
alimentando la speranza di poter riabbracciare la famiglia lontano.
Si laureò presso l’Ateneo palermitano ed iniziò ad insegnare presso il Liceo “Empedocle” di Agrigento. Tra i suoi più cari amici il giovane Andrea Camilleri che voleva apprendere da lui le tecniche dell’oratoria che costituiva la parte indispensabile del bagaglio del personaggio politico.
Nel 1948 fu eletto vice sindaco. In tale veste cominciò a confrontarsi con i reali problemi della città marinara.
Nel 1950 sposò la più giovane delle sorelle Sciangula, Carmela, appartenente ad una famiglia
della imprenditoria empedoclina operante nel settore della pesca. Dal felice matrimonio vennero al mondo Pippo e Ketty.
Fu chiamato a svolgere attività sindacale da Enzo Lauretta. Nel 1951 prese il comando della Cisl, il più grande sindacato dei lavoratori cattolici. Come sindacalista promosse tutte le battaglie per il riconoscimentodei diritti a favore dei lavoratori incominciando dalle miniere di salgemma e di zolfo
presenti nel territorio agrigentino, per poi partecipare alle grandi lotte per l’occupazione delle terre per l’attuazione della riforma agraria.
Molta attenzione riservò ai problemi dei pescatori e dei marittimi, con il sindacato “Liberpesca”, con il compito di tutelare i lavoratori del mare.
Nel 1951, grazie ad una borsa di studio si recò a New York per partecipare ad uno stage organizzato dalla Fondazione creata dal Senatore americano Fulbright. Le borse di studio avevano il solo compito di agevolare gli scambi di idee e di cultura tra gli Stati Uniti e gli altri
paesi del mondo tra cui l’Italia.
Un anno dopo dal suo ritorno dagli Stati Uniti sarà eletto sindaco di Porto Empedocle. La sua sarà una lunga sindacatura quasi ventennale fino al 1969 per poi proseguire dal mese di febbraio 1970 al mese di luglio dello stesso anno ed infine dal 1985 al 1989.
Alle elezioni politiche del 1953 venne escluso dalle liste della Democrazia Cristiana a seguito dell’intervento diretto di De Gasperi e di Scelba perché «aveva idee troppo radicali e di sinistra». Idee che preoccupavano i dirigenti nazionali di allora della Dc. Ma questa delusione non mino’ il suo entusiasmo e la sua azione.
Dal 1958 e per otto legislature fino al 1992 fu deputato nazionale, ricoprendo la carica di sottosegretario. Per il sottile gioco politico, pur avendo la capacità e la statura, non fu mai ministro, ma fece parte della direzione nazionale del suo partito. In verità Giuseppe Sinesio
venne nominato ministro della Funzione pubblica nel IV Governo Andreotti, ma non andò a giurare, rinunciando all’incarico ministeriale perché era venuto meno l’accordo tra Donat Cattin (suo capo corrente) e il duo Andreotti-Moro che prevedeva per Sinesio il ministero dell’Industria. Rivestì la carica di sottosegretario al Tesoro, ai Trasporti, all’industria nei governi presieduti da Rumor, Colombo, Andreotti e Moro. Ricoprì inoltre, con autorevolezza ed impegno la carica di presidente dell’Ueo (Unione Europa Occidentale).

Assieme a Giulio Pastore, Donat Cattin, Vittorino Colombo, Guido Bodrato costituì la corrente di “Forze Nuove”.
Nel 1992 lasciò la politica attiva per dare spazio al figlio Pippo, il quale pur avendo ottenuto un ottimo risultato elettorale non venne eletto deputato. Un risultato amaro per Giuseppe Sinesio, dovuto principalmente alla perniciosa conflittualità all’interno della sua famiglia dove il cognato Salvatore Sciangula, potente assessore regionale ai lavori pubblici non aiutò sul piano elettorale il nipote Pippo Sinesio. Sempre attivo sul piano parlamentare e negli organi nazionali del partito. Persona di grande umanità e punto di riferimento di tanti giovani impegnati nell’ambito della politica locale e regionale.
Fu Sinesio a scoprire e a sostenere sul piano politico tanti giovani come Salvatore Sciangula e Calogero Mannino. Furono tante le battaglie da lui condotte per dare al Comune di Porto Empedocle una prospettiva industriale. Infatti, grazie al suo costante interessamento e ai rapporti
personali con la famiglia Pesenti sorsero gli stabilimenti della Montecatini, dell’Italcementi, della
Vertem, creando un’area di sviluppo industriale. Nel 1963 dotava l’area del porto di un piano regolatore con lo scopo di accrescere il movimento del trasporto marittimo.
Nel 1994 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la più alta onorificenza di
“Cavaliere di Gran Croce”.
Si deve al suo impegno culturalela realizzazione a Porto Empedocle del monumento a Luigi Pirandello, in occasione del cinquantenario della morte del grande scrittore agrigentino, premio Nobel per la letteratura. Si spense all’età di 81 anni il 15 febbraio del 2002.

 

Video youtube su Giuseppe Sinesio. https://youtu.be/BtHmgwlLXIQ

FRANCESCO COSSIGA: un ricordo firmato Scotti

di Vincenzo Scotti  - Politica

Cossiga è stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica europea e mondiale. A differenza del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione, che va ricostruita soprattutto attraverso le sue azioni. Il ricordo di Vincenzo Scotti, già ministro degli Esteri e dell’Interno, che sarà pubblicato in un’opera a cura dell’Università di Sassari


L’Università di Sassari, che ha conosciuto  Francesco Cossiga  prima come studente e poi come docente della Facoltà di Studi Giuridici, ha organizzato in suo onore, con la presenza del Presidente della Repubblica, una giornata di studi secondo la tradizione accademica.

Dall’insieme dei contributi raccolti in queste pagine emerge, anche per chi non lo ha conosciuto e frequentato, quanto sia complessa la personalità di Cossiga. Essa è stata letta, pur nel rispetto della complessità delle diverse espressioni, alla ricerca della sua unità: uno statista del tempo presente, della sua terra sassarese, della sua nazionalità italiana ed europea e della sua cittadinanza del mondo. Essendomi stato richiesto di partecipare a questa lettura, in nome della nostra amicizia di una vita, non ho potuto che scrivere qualche pagina di testimonianza sul modo con cui Cossiga visse i grandi cambiamenti del contesto storico che cercò di capire andando sempre oltre l’emergenza e guardando oltre la siepe che recingeva il cortile del quotidiano. Nello scrivere questa piccola testimonianza mi sono ricordato un ammonimento di Goethe: “non si va molto lontano quando non si sa dove si va. Il guaio peggiore è quando non si sa dove si sta”.

Nel 1999, dovendo inaugurare il primo anno accademico della Link Campus University (allora of Malta), con il nostro grande amico comune,  Guido De Marco  – Presidente della Repubblica di Malta – chiedemmo al Presidente emerito di dedicare la sua lectio magistralis alle origini e agli sviluppi dei totalitarismi del secolo breve: il nazismo, il fascismo e il comunismo. Nella sua analisi, Cossiga parlò ai giovani studenti della fragilità delle democrazie e del loro rapporto vitale con la libertà.   Alla luce di questa analisi, era chiara la sua definizione di cattolico liberale e l’indicazione dei suoi maestri  Tommaso d’Aquino, insieme ad alcuni pensatori cattolici moderni: il beato  Antonio Rosmini, il Cardinale oggi Santo, John Henry Newman,  Papa Benedetto XVIe alcuni tra i grandi teologi protestanti di quegli anni.

A completare la sua vasta cultura interdisciplinare, vorrei ricordare gli studi di filosofia del diritto e di diritto costituzionale che sviluppò sotto la guida del maestro  Giuseppe Capograssi. 

Da queste prime righe il lettore potrà constatare che questa mia non è altro che la testimonianza di un amico conosciuto fin dagli anni Cinquanta, i tempi dell’Azione Cattolica, con cui ha condiviso tanti momenti felici, pur sempre accompagnati da un percorso politico quanto mai accidentato e, a volte, anche drammatico. Ma il fulcro della mia testimonianza è negli anni finali del suo mandato di Presidente della Repubblica.

Ritornando per un istante agli interessi e alle curiosità culturali di Cossiga c’è un’area che avemmo in comune come ministri dell’Interno: mi riferisco agli studi strategici internazionali e a quelli sulla sicurezza e sull’intelligence nel tempo presente. Su questi temi si sviluppò non solo una sintonia accademica ma anche un’uniformità operativa quando mi trovai a rapportarmi da ministro dell’Interno con Cossiga Presidente della Repubblica.

I momenti più difficili e tormentati su cui continuo a riflettere e sui quali ancora mi interrogo, restano certamente quelli del rapimento e della uccisione di  Aldo Moro  e quelli finali del suo settennato. Ad oggi, nonostante siano trascorsi ben dieci anni dalla sua morte, questi due periodi sono i meno sedimentati e poco oggetto di analisi storica condivisa.

Mentre per quello che riguarda il tempo delle icconate�e dellimpeachment  mi sento oggi di testimoniare, sulla questione Aldo Moro mi rimane difficile perch�troppo complesso per limitarlo a poche righe. Seppure con lui non abbia avuto mai alcun contrasto e mi sia sempre rivolto a lui con molta franchezza, sulla questione Moro, il suo maestro, ho sperimentato quanto fosse per lui doloroso parlarne. Nel 1992, in presenza di richieste da parte della Commissione parlamentare sui documenti in possesso del ministero sul caso Moro, nominai una ristretta commissione per verificarne lsistenza negli archivi delle forze dellrdine e del ministero. Dovetti consegnare i risultati ad un gruppo guidato dal vice presidente  Luigi Granelli, redigendo un apposito verbale. Pur riscontrando la sua sofferenza, devo dire che questa non lasci�traccia nel nostro rapporto di amicizia.

Passo ora alla testimonianza su come Cossiga visse il cambiamento della fine del comunismo e come si impegn�con grande coraggio a leggere gli avvenimenti che hanno smentito il semplicismo di un giudizio di semplice vittoria del capitalismo liberista e, di conseguenza, di una fine della storia. Cossiga fu uno dei pochi convinti che in Italia, in Europa e nel mondo si richiedeva alle classi dirigenti di ambedue i blocchi di affrontare i cambiamenti culturali, sociali e politici che avrebbero investito lmisfero del capitalismo, proprio in conseguenza della caduta del muro di Berlino.

Dal mantenimento della pace, alla competizione coi Paesi emergenti, al formarsi di nuovi equilibri geo-economici e geopolitici, al disfarsi e riorganizzarsi degli Stati dell’ex Patto di Varsavia e quindi alla revisione degli assetti delle istituzioni mondiali e di quelle interne ai singoli Paesi comunisti. Una volta caduto il sistema del socialismo reale, non solo come ideologia ma di potere, non c’era soltanto da espandere e rendere globale e più radicale il capitalismo e da esportare la democrazia dei Paesi industriali. Cossiga, nel silenzio della prima parte del suo settennato, aveva riflettuto proprio sulla fine del comunismo e sulle difese economiche, sociali e politiche costruite per garantire in Europa, e in particolare in Italia – il Paese con il più grande partito comunista, equilibri di potere alle forze di governo e di opposizione.

Vorrei fare qui una breve parentesi che certamente è fuori dalle vulgate della storia della Dc: il partito politico che ha avuto al proprio interno la maggiore insofferenza verso l’equilibrio allora esistente è stata proprio la Dc che, a prima vista, avrebbe potuto trarre la maggiore rendita di posizione. Il dibattito sull’andare oltre è stato sempre presente nella vita del partito, da De Gasperi a Moro.

Cossiga intuì che a rendere più urgenti e necessari i cambiamenti istituzionali e politici fosse l’avanzare della rivoluzione digitale che avrebbe messo in crisi le forme di democrazia rappresentativa, imponendo di sostenere la globalizzazione, il capitalismo finanziario, il determinismo dell’algoritmo e dei modelli.

Cossiga era certo che la maggioranza delle forze politiche pensava che bastasse cambiare subito nome e segni dei partiti storici per poter mantenere, senza nulla mutare, gli assetti politici esistenti. Contro questa area di continuità, Cossiga riteneva bisognasse alzare la voce e usare il piccone per essere ascoltato e demolire l’esistente.

Gli avvenimenti precipitarono con il crollo del muro di Berlino, dei regimi comunisti nei Paesi satelliti e del mondo bipolare: al centro della comunicazione vi erano la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, e l’immagine del presidente Gorbaciov e di sua moglie che scendono dall’aereo che li riporta a Mosca, il 19 agosto 1991, dopo il fallito colpo di stato.

Non posso non sottolineare che la mia amicizia con Cossiga copre la gran parte della sua straordinaria vita. Nasce agli inizi degli anni Cinquanta quando ero impegnato nella sede centrale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), all’Ufficio Studenti. Sono gli ultimi mesi di presidenza di Carlo Carretto e l’intero periodo di  Mario Rossi,  il giovane medico del Polesine. Cossiga è un dirigente dell’Azione Cattolica della diocesi di Sassari, impegnato poi nella Fuci e nei Laureati Cattolici e nella vita politica, a partire delle elezioni del 1958. Nel contrasto tra Luigi Gedda, Carretto e Rossi si era consolidato il rapporto tra la Giac, la Fuci e i Laureati Cattolici. Gli storici dei movimenti cattolici si sono molto interessati alla vicende della Fuci e del Laureati; di queste ultime erano parte  Giulio Andreotti, Aldo Moro  e  Giovanbattista Montini. La Gioventù Cattolica era molto meno impegnata nella vita della DC, lo scontro con Gedda era culturale e sociale. Quando, nel 1954, viene destituita tutta la dirigenza della Giac, per intervento del Santo Uffizio, la notizia viene commentata solo da alcuni grandi giornalisti. Eppure la Giac era una comunità che comprendeva uomini di notevole spessore culturale, a partire da  Pietro Phanner, Umberto Eco, Emanuele Milano, Dino De Poli, Wladimiro Dorigo, Michele Lacalamita, Luciano Tavazza,  Antonio Graziani  e  don Arturo Paoli. L’unico rappresentante politico era il vice presidente, Emilio Colombo. Erano straordinarie personalità che hanno lasciato un segno nella storia culturale e civile del Paese. Sotto la presidenza di Rossi, la GIAC cambiò la sua struttura con la nascita dei movimenti degli studenti, dei lavoratori e dei coltivatori che divennero una delle ragioni dell’allontanamento di tutta la dirigenza.

A me fu chiesto di collaborare ad organizzare il movimento nelle scuole cattoliche e di impegnarmi a dar vita a una Scuola nazionale del Movimento studenti, a cui contribuirono tutti i dirigenti del movimento, compreso  Vincenzo Saba, grande amico di Cossiga (tanto da chiedergli di fare da padrino di battesimo a sua figlia Gavina) e un grande vescovo, monsignor  Emilio Guano, assistente dei Laureati Cattolici. La scuola del movimento studenti, nel dicembre del 1953, fu l’occasione per conoscere e stabilire un rapporto d’amicizia con Cossiga tramite proprio Vincenzo Saba.

Dopo qualche anno, quando ero capo della segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, presieduto da  Giulio Pastore, incontrai pi�volte Cossiga per discutere delllaborazione del primo Piano di Rinascita della Sardegna. In quel momento,  Paolo Dettori  era presidente della Regione e  Pietrino Soddu  era lssessore al Piano. Tutti e due erano di Sassari e in Sardegna era gi�scoppiato lo scontro politico tra i cosiddetti  giovani turchi, organizzati da Cossiga, e i  grandi popolari, non solo di Sassari (per tutti  Antonio   Segni) ma di Cagliari (Antonio Maxia, Efisio Corrias, Lucio Abis) e di Olbia (Salvatore Mannironi).

I giovani turchi avevano una grande vivacità culturale e coraggio politico tanto da porre ultimati ad Antonio Segni. Celestino Segni, il primogenito di Antonio Segni, faceva parte dei giovani turchi! Per Cossiga iniziavano gli anni della crescita di responsabilità politiche e di governo: consigliere di Moro in questioni di estrema riservatezza, sottosegretario, ministro e poi Presidente del Senato e, infine, Presidente della Repubblica. Nessun politico italiano ha percorso una così rapida crescita di responsabilità e di successi e, al tempo stesso, di grandissime amarezze e dure lotte. Nella formazione del Governo di Mariano Rumor del 1972, fu proposto, dai suoi amici della Base, come Ministro della Funzione Pubblica, ma la sua nomina incontrò il veto di  Eugenio Cefis  per il sostegno dato, insieme a  Stefano Siglienti  e a  Beniamino Andreatta, rispettivamente Presidente e Consigliere dell’Imi, al progetto del polo chimico di Porto Torres.

Il giorno dopo la formazione del Governo, Cossiga   mi chiamò a brindare coi giornalisti, alla bouvette della Camera, per la mancata nomina a ministro. Si era chiusa una porta ma era convinto che si sarebbe aperto un portone. Infatti si susseguirono: ruoli politici crescenti nel governo Rumor, il sottosegretariato alla Difesa, ministro della Funzione Pubblica e, infine, ministro dell’Interno, dove si trovò a gestire la tragedia dell’uccisione di Moro e da cui si dimise appena scoperto il cadavere. Queste dimissioni fecero pensare a un ritiro dalla politica. Ma non passò molto tempo e Sandro Pertini gli diede l’incarico di formare, in sequenza, due Governi.

Mi chiamò a far parte del suo Governo come ministro e mi fece partecipare, a Palazzo Chigi, alle riunioni della sua “squadra di sardi”, tra i quali il cugino  Sergio Berlinguer  e  Luigi Zanda. Fu un periodo molto intenso, sia sul versante interno che su quello internazionale, in cui riuscì a stabilire una difficile intesa con i socialisti, in specie con Bettino Craxi e Giuliano Amato, nonostante i crescenti contrasti tra i due partiti. La decisione sulla installazione dei missili a corto raggio nel nostro Paese fu presa con una liturgia attenta a tutti minimi particolari, non ultima quella dell’isolamento dell’area di Palazzo Chigi durante la seduta del Consiglio dei Ministri impegnata nella decisione, cosa usuale nei governi dei Paesi anglosassoni.

La campagna elettorale del 1983 segnò il massimo della tensione tra  De Mita  e  Craxie portò ad una perdita di voti alla Dcdel 6%; cosa che spinse De Mita a proporre la disponibilità immediata della Dc a indicare al Presidente della Repubblica il nome di Craxi per la formazione del governo. Cossiga fu indicato dalla Dc come Presidente del Senato, garantendo in questo modo al Governo Craxi una navigazione protetta. Allo scadere del mandato di Pertini, De Mita, con la proposta di Cossiga, mostrò non solo un’immagine di forza e di prestigio ma anche di affidabilità non solo per i socialisti ma anche per i comunisti. Un’operazione che manifestò tutte le capacità di “manovra politico-parlamentare” del segretario della Dc.

Nei primi quattro anni di presidenza, Cossiga si attenne a una condotta strettamente istituzionale senza molti interventi e comunque sempre rispettosi della prassi costituzionale. Era succeduto a Pertini e il contrasto fu evidente, specie quando la situazione dei Paesi del Patto di Varsavia cominciava a manifestare i segni della disgregazione. La presenza a Roma del Papa polacco,  Giovanni Paolo II, e le sue visite in Polonia, alimentavano la convinzione dei cittadini dei Paesi comunisti che i loro regimi non sarebbero stati in grado di reggere al vento della libertà.

Nelle poche volte che lo incontrai in quei giorni, Cossiga mi manifestò la sua opinione che l’Urss non avrebbe potuto sostenere la spesa della competizione militare con gli Stati Uniti e con la Nato. La decisione della installazione dei missili a corta gittata in Italia e in Europa sarebbe stato un elemento di accelerazione del dissolvimento dell’Urss. Non pochi in occidente e negli stessi circoli diplomatici della Santa Sede avevano una convinzione opposta, ritenendo che il cammino fosse ancora lungo e che si sarebbe dovuto continuare a convivere con il mondo comunista.

Molto interessante è rileggere le cronache della visita di Gorbaciov a Roma dal 29 novembre al 1 dicembre 1989, quando era già caduto il muro di Berlino. L’accoglienza a Gorbaciov veniva espressa con esagerata enfasi per un personaggio in grande declino a Mosca. Anche nei circoli di Governo venivano rilevate opinioni divergenti tra il Presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e l’ambasciatore a Mosca, Sergio Romano.

Queste diverse posizioni rendevano evidente, a giudizio di Cossiga, non solo il ritardo con cui si percepiva la crisi galoppante dell’Unione Sovietica ma anche la mancanza di idee su come cambiare l’assetto istituzionale, dove la presenza del più grande partito comunista fuori dall’Unione Sovietica aveva portato alla stesura del Titolo V della Costituzione, che avrebbe reso sempre più difficile governare nell’incombente era digitale e globale. Per Cossiga la Dc non aveva ancora preso coscienza su cosa e su come cambiare per affrontare il tempo nuovo e, in questa situazione, aveva pensato alla necessità di un gesto forte per indicare al Paese che si era di fronte a un mutamento radicale, chiamando gli italiani a un voto politico nell’immediato. La prima volta che me ne parlò fu subito dopo la visita di Gorbaciov.

Nell’autunno del 1992, raccontai a Cossiga, Presidente emerito, che in quei giorni, quando era già scoppiata la vicenda “Mani pulite”, avevo invitato a casa mia, per un caffè, Mino Martinazzoli, divenuto da pochi giorni Segretario della DC, insieme al Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, al Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri, Domenico Pisani e al mio ex Capo di Gabinetto,  Raffaele Lauro. Poiché Martinazzoli mostrava indifferenza allo scenario che gli veniva disegnato, il generale Pisani gli chiese se per caso avesse capito che di lì a un anno la Dc non sarebbe più esistita. Non fu una mia interpretazione della realtà. Nel 2004, Cossiga, nella prefazione ad un mio libro “Un irregolare nel Palazzo” scrisse “Egli (Scotti) fu, grazie anche alla azione informativa e alla analisi compiuta da Vincenzo Parisi e dai suoi uomini (è ormai venuto il momento di dirlo!) il primo che comprese che stava per scatenarsi la bufera di ‘Mani Pulite’ e che vi era il pericolo che si tentasse, come poi infatti accadde!, un vero e proprio ‘golpe istituzionale per via giudiziaria’ contro la prima Repubblica”.

Torniamo indietro: dopo il Congresso della Dc del 1989, lasciai la vice segreteria del partito per candidarmi a Presidente del gruppo parlamentare alla Camera, succedendo a  Martinazzoli. La situazione politica parlamentare era difficilissima: alla fine di ogni seduta pomeridiana si ascoltavano le “catilinarie” dei radicali e di Oscar Luigi Scalfaro contro le esternazioni di Cossiga. Era molto difficile la posizione del Presidente del Gruppo democristiano, anche perché cresceva l’opposizione al Presidente della Repubblica.

Dopo quella fase iniziale delle esternazioni, la mia repentina nomina a ministro dell’Interno, dopo le dimissioni di  Antonio Gava  colpito da un ictus, mi consentì di seguire molto da vicino quella fase convulsa della politica e della vita di Cossiga.     Ricordo che la mattina del 15 ottobre del 1990 fui svegliato da una telefonata del Presidente della Repubblica che mi informava che, nel pomeriggio, avrebbe firmato il decreto per la mia nomina a ministro dell’Interno e che, l’indomani, ci saremmo incontrati al Quirinale per il giuramento. Da quel momento ero tenuto a riferire sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica, in alcuni casi anche con la presenza dei capi delle tre forze di polizia. Per me erano giornate di particolari tensioni, soprattutto per l’intrecciarsi delle stragi mafiose con il pressante lavoro legislativo, necessario a offrire ai responsabili delle Istituzioni, politici, magistrati, uomini della polizia, dei carabinieri e della Guardia di Finanza, strumenti e organizzazioni (DIA e DNA) adeguate alla guerra alla mafia. Lavoro che venne affrontato con i capi delle forze dell’ordine e dell’allora servizio interno e con i giuristi del Viminale e del Ministero di Grazia e Giustizia, sempre in sintonia con il ministro  Claudio Martelli  e  Giovanni Falcone.

Vorrei però aggiungere una testimonianza sul mio rapporto con Cossiga in tema di legislazione antimafia e della sua legittimità rispetto alla Costituzione. Non è un mistero che sia io che Martelli eravamo attaccati su quasi tutti i numerosi provvedimenti e in modo particolare su tre di questi: l’istituzione della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) e della Dna (Direzione Nazionale Antimafia), il decreto legge 8 giugno 1992, che fu giudicato incostituzionale in Commissione al Senato (prima della uccisione di  Paolo Borsellino) e i provvedimenti contro il condizionamento mafioso delle amministrazioni locali. Come è prassi costituzionale, il Governo può sentire il parere degli uffici del Quirinale su questioni che poi saranno vagliate dal Presidente prima della presentazione al Parlamento del disegno di legge, dopo l’approvazione e prima della promulgazione. Cossiga fu sempre un lettore rigoroso e attento dei provvedimenti e, in alcuni casi, ritenne di esprimere un suo parere con qualche esternazione. Parlando del lavoro legislativo fatto, nella citata prefazione al mio libro, Cossiga scrisse ” Avendo come consiglieri Giovanni Falcone e Vincenzo Parisi, Scotti diede una svolta quasi ai limiti della “legalità formale”, sia sul piano legislativo sia su quello organizzativo, alla lotta alla mafia. Sua l’idea di istituire un centro interforze di “intelligence” e di coordinamento investigativo antimafia”.

Con lui e con l’assenso del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti decidemmo di dar vita a una Conferenza Nazionale Annuale sulla Legalità alla quale invitare tutte le Istituzioni dello Stato a ciò deputate e i Rappresentanti più significativi del pluralismo sociale e religioso, per valutare – tutti insieme – l’andamento e i risultati della lotta alla mafia. Giovanni Paolo II ci concesse un’udienza in Vaticano per esprimere il suo pensiero sulla lotta alla mafia e alla criminalità. La prima e unica sessione fu aperta proprio dal Presidente della Repubblica attento, anche per questo fenomeno, su quali sarebbero potuti essere gli impatti del nuovo contesto internazionale economico e politico, conseguente alla fine dell’Unione Sovietica, sulla corruzione e sulle reti criminali internazionali.

È ancora troppo presto per poter affrontare la lettura della complessa esistenza di Cossiga. Manca da analizzare ancora un folto materiale archivistico tra cui anche alcuni testi segretati e relativi alle vicende ancora controverse. C’è tuttavia una valutazione che comincia ad essere condivisa: che una caratteristica di Cossiga fosse quella di saper cogliere a fondo le evoluzioni delle vicende politiche.

Come ho sottolineato, Cossiga è stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica del contesto europeo e mondiale nel quale le vicende italiane si sono svolte. A differenza del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione e delle sue idee, quasi una bussola per la classe dirigente. Era un uomo politico il cui pensiero va ricostruito attraverso lo scritto ma soprattutto attraverso le sue azioni e i suoi gesti concreti. Per questo vorrei riprendere il filo del suo ragionamento sul declino e sulla sparizione del comunismo e sulle conseguenze sulla vita sociale e politica del Europa e dell’Italia. Abbiamo già ricordato la spiegazione del suo ricorso alle picconate. Non è una novità che fosse un’impaziente e quindi reagisse immediatamente a una mancata risposta. Cossiga intravide, nel caotico precipitare della fine del comunismo, ciò che la classe dirigente avrebbe dovuto fare al cadere dei nodi di una democrazia incompiuta e di un’economia frenata da una quantità di vincoli amministrativi.

La globalizzazione e la società digitale richiedevano una decisione politica rapida ed efficiente, necessaria a sostenere un sistema produttivo e sociale in fase di trasformazione. Nella competitività crescente della globalizzazione, l’efficacia veniva sempre più misurata non solo dalla produttività di una singola unità ma dall’efficienza del sistema complessivo. La stabilità e la rapidità delle decisioni di Governo richiedevano il superamento di un sistema elettorale proporzionale puro e l’attribuzione di un proprio spazio normativo dell’esecutivo, senza dover “violentare” la Costituzione con un continuo ricorso a decreti di urgenza in mancanza dei requisiti.

Di fronte a un sostanziale rifiuto di cambiare la Costituzione, Cossiga mandò un suo Messaggio alle Camere. La maggioranza dei Parlamentari erano stati presi di sorpresa dalla sparizione dei vertici dell’Urss e erano contrari a cambiamenti costituzionali.

Cossiga divenne furibondo, non capiva il perché i deputati non avessero almeno letto e risposto al suo Messaggio. Tra essi, tra l’altro, si trovavano la maggioranza dei suoi vecchi amici di partito che l’avevano eletto. Per Cossiga era troppo tardi: presto gli sarebbero caduti sulla testa i sassi della casa in dissoluzione. I fatti si sono preoccupati di dimostrare che, persa quell’occasione, non si sarebbe più riuscito ad approvare una modifica costituzionale anche quando fosse stata votata in Parlamento. Infatti, succederà che gli stessi Parlamentari che approveranno la modifica, poi, nel voto referendario di conferma, concorreranno a bocciarla.

Quando nella vita politica si perde l’occasione temporale giusta, i percorsi diventano sempre più difficili da portare a compimento, specie quando i disegni politici sono deboli o inesistenti. Qualche anno dopo Cossiga concluderà così la prefazione a un mio libro: <<mi si consenta una notazione personale, io debbo essere grato a Vincenzo Scotti non solo per la sua amicizia e per il suo affetto personale ma per aver compreso e plaudito al mio Messaggio Presidenziale al Parlamento sullo stato delle istituzioni e sulle necessità di una loro riforma. A tutti sono grato. Ma in modo particolare a Vincenzo Scotti che compì non solo un atto di stima e di amicizia nei miei confronti ma un autentico atto di coraggio, dato l’atteggiamento ostile delle gerarchie del suo partito”

Ma Cossiga non si fermò nella sua battaglia, cercando disperatamente una via per mettere in moto un processo effettivo di cambiamento. E rimase attento agli spazi che si potevano presentare. Ci fu un momento importante, dopo la dissoluzione del comunismo, quando – nell’aprile del 1990 – il Governo Andreotti entrò in crisi.   Cossiga, nelle more delle consultazioni al Quirinale, rese evidente la sua convinzione che, sia pure con ritardo, quello fosse il momento di sciogliere le Camere e andare alle elezioni. Un tardo pomeriggio di aprile mi convocò per chiedermi se l’ufficio elettorale della Direzione competente diretto da Menna, figlio del Sindaco di Salerno, fosse in grado di organizzare lo svolgimento delle elezioni politiche prima della fine di luglio, nel caso il Ministro dell’Interno avesse potuto garantire un governo per il brevissimo tempo necessario.

Erano presenti due testimoni: il prefetto Parisi e il prefetto Lauro. Evidentemente avevo bisogno di 24 ore per consultare gli uffici e dargli una precisa e documentata risposta. Mi chiese poi di mantenere la estrema riservatezza e di tornare il più rapidamente possibile. La verifica fu positiva: si potevano fare le elezioni nel mese di luglio. Cossiga non capiva perché il Presidente del Consiglio e i due partiti PSI e Dc, oltre al Pds, fossero nettamente contrari. Anche a me sembrava strano non avviare subito, con un nuovo governo, una stagione di rapide riforme.

Cossiga insisteva sulla sua linea anche quando ormai la situazione politica interna stava degenerando. La rendita di posizione dei cosiddetti partiti democratici diventava non più accettabile. La classe dirigente che pure aveva portato l’Italia a diventare la quinta potenza economica del mondo, mostrava stranamente una visione corta.  Solo se nelle ore conseguenti alla caduta del muro di Berlino ci fosse stata la decisione di una elezione anticipata e la proposta di una assemblea costituente si sarebbe potuto governare il cambiamento.

Cresceva nel Paese l’insofferenza per l’assenza di cambiamento politico che trovava nell’iniziativa referendaria di Mario Segni e nella lotta giudiziaria di “Mani pulite” sempre più consenso verso la distruzione dei partiti storici che avrebbe portato anche alla fine della Prima repubblica.   Di questo pericolo e dello scontro violento con la mafia parlai alla Camera a Commissioni riunite Camera – Senato nell’inizio primavera del 1992.

Nessuno può dire cosa sarebbe potuto succedere se si fosse andato alle elezioni e se si fosse aperta una stagione di riforme di cui parlava Cossiga.

Questo era Francesco Cossiga: era presbite e vedeva lontano!

FRANCESCO MERLONI: UN PROTAGONISTA DELLA RINASCITA


‘RAI Cultura’ è una struttura della RAI che presidia il settore “Cultura”, sia attraverso la realizzazione dei programmi con l’utilizzo di risorse proprie, sia attraverso l’acquisto di prodotti da altri soggetti.

In occasione del 70° Anniversario dalla nascita della nostra Repubblica, nel 2016 RAI Cultura mandò in onda una serie di puntate dal titolo esemplificativo “L’Italia della Repubblica”. La quarta puntata, intitolata “La Rinascita”, aveva come ospite in studio l’ingegnere Francesco Merloni: la scelta dell’industriale marchigiano è la riprova, qualora ce ne fosse stato bisogno, dello spessore della persona.

Francesco Merloni nasce nel 1925 a Fabriano, figlio di Aristide, la cui figura è fondamentale per comprendere la vocazione industriale di una realtà periferica, quale era appunto quella marchigiana. Il binomio Rinascita-Francesco Merloni rappresenta un pezzo di storia di questo nostro Paese, grazie anche all’incontro fortunato con personalità dell’epoca, prima fra tutte quella di Enrico Mattei. Quest’ultimo, con la sua vita avventurosa, con le sue scelte in campo economico anche controcorrente, è notoriamente considerato l’artefice principale dello sviluppo di questo Paese. Nel corso di un intervento sulla figura del fondatore dell’ENI, Francesco Merloni ebbe a fare una confidenza, che a prima vista potrebbe evidenziare una propria debolezza, ma nella realtà nasconde una profonda ammirazione: “In vita mia, Mattei è stata l’unica persona che mi ha dato soggezione”. La stima per il mitico capitano d’industria scomparso tragicamente a Bascapè nell’ottobre 1962 non poteva essere meglio sintetizzata, se si tiene conto del rispetto misto a timore che un personaggio del genere sapeva suscitare, in particolare tra i giovani nati nel Ventennio e desiderosi di farsi strada nel Secondo Dopoguerra. Per comprendere Francesco Merloni è doveroso fare un passo indietro, accennando alla storia del nostro Paese. L’Ingegnere marchigiano è sempre andato fiero di un episodio della sua vita: mi riferisco alla condanna a morte comminatagli dalle Autorità della Repubblica Sociale Italiana, in seguito alla renitenza alla leva militare. Il giovane Francesco ha vagato, fuggiasco, per le colline intorno a Cerreto d’Esi, ultimo Comune della Provincia di Ancona prima del confine con quella di Macerata, avendo eletto a rifugio la casa del parroco di Poggeto di Matelica, don Pacifico Veschi. Come ho avuto modo di ascoltare dalla sua viva voce il 28 maggio 2016, al teatro Casanova di Cerreto d’Esi, ad un Convegno commemorativo sull’amico Bartolo Ciccardini, nei momenti più duri, quando le Autorità andavano a cercarlo, Francesco si nascondeva con Dalmato Seneghini nel campanile della chiesa di Poggeto. I due passavano giornate intere a parlare tra loro, per passare il tempo potevano fare solamente questo. Proprio questi dialoghi, tra un giovane ed un anziano, hanno contribuito in modo significativo a porre le basi per il ritorno alla democrazia.

Tante volte sono venuti a casa nostra a cercarmi e non mi hanno mai trovato, una volta hanno arrestato mia madre, che è stata in carcere per oltre quaranta giorni a Fabriano, dove ha passato lì anche il Natale e il Capodanno del 1943/44. “

Quei momenti tragici appartengono a quella generazione di italiani che, probabilmente proprio a seguito delle privazioni e delle sofferenze della loro esistenza, hanno dato prova, una volta ritrovata la libertà, di una grande voglia di vivere, di fare e di operare, oggi inimmaginabili.

Nonostante l’interessante invito di Enrico Mattei ad andare a lavorare con lui dopo il conseguimento della Laurea in Ingegneria, Francesco Merloni preferì rimanere a Fabriano nell’impresa di famiglia. La sua scelta si è rivelata giusta, anche grazie al consiglio paterno di assumere persone con maggiori conoscenze delle proprie, in modo da poter meglio raggiungere i propri obiettivi aziendali. “Circondati di persone più competenti di te”: in fondo, questo piccolo insegnamento, se accettato e praticato, nasce dall’umiltà propria di persone che hanno raggiunto il successo a prezzo di tanto lavoro e sacrificio: una tale scelta si è rivelata decisiva, sebbene vada collocata agli antipodi di quel tutto e subito, frutto della mentalità corrente, spesso all’origine di tanti fallimenti societari di aziende ritenute solidissime.

Nel 1972 ha inizio per Francesco Merloni, che fino a quel momento era stato consigliere comunale e provinciale nel partito della Democrazia Cristiana, la presenza quasi trentennale al Parlamento della Repubblica. Deputato nella 7°, 8°, 9°, 10° e 13° Legislatura, ha rivestito l’ufficio di Senatore nella 6° e 11° Legislatura. In questo periodo Francesco Merloni viene chiamato a fare il Ministro dei Lavori Pubblici nel Governo guidato da Giuliano Amato, dal 28 giugno 1992 al 27 aprile 1993, e rimarrà tale anche nel Governo Ciampi, dal 28 aprile 1993 al 9 maggio 1994. Importantissima sarà la legge quadro in materia di lavori pubblici, conosciuta appunto come la legge Merloni dell’11 febbraio 1994 n. 109, emanata in un periodo di grandi difficoltà per le nostre Istituzioni repubblicane, rese fragili dal pesante condizionamento del fenomeno noto come Tangentopoli. In quella fase di transizione, probabilmente la più critica dai tempi della riconquistata democrazia, Francesco Merloni viene considerato l’uomo che sa ridare impulso e credibilità ad un settore delicatissimo, quale quello dei lavori pubblici segnato dagli scandali. Si diffonde la convinzione che la sua figura di industriale proveniente da una regione operosa sarebbe stata un esempio di buon governo. Ecco, io penso che la scelta di Merloni, che trova compimento nell’importante legge che porta il suo nome, rappresenti il migliore riconoscimento alla sua autorevole personalità e alla realtà industriale di provenienza. Lo stesso rapporto di amicizia fra l’industriale marchigiano ed Enrico Mattei era cementato dalla passione per il Bene Comune, al centro dei loro interessi e della loro azione.

Altri tempi, lontanissimi dagli attuali, ma se non ci fossero stati, lo sviluppo economico italiano probabilmente non sarebbe mai decollato.

Il mandato parlamentare di Francesco Merloni ha avuto inizio nel 1972, anno nel quale si è verificato il primo scioglimento anticipato delle Camere, con la Democrazia Cristiana uscita vincitrice dalle elezioni politiche. Il mandato, dopo una partecipazione ministeriale di alto prestigio, è terminato nel 2001, quando l’allora partito di maggioranza relativa ha cessato di esistere, come è testimoniato dall’iscrizione nel gruppo parlamentare dei Popolari e Democratici l’Ulivo. Residente a Roma, Merloni non manca di operare a favore del territorio dove è nato, come quando nel 2006 diventa Presidente del Comitato scientifico che organizza, presso il quattrocentesco Spedale di Santa Maria del Buon Gesù, la Mostra “Gentile da Fabriano e l’altro Rinascimento”, dedicata al celebre pittore nato a Fabriano. Merloni si rese conto che l’iniziativa della mostra – che fra l’altro prevedeva un percorso presso la locale chiesa di san Domenico – incontrava difficoltà di carattere economico, nonostante il successo in Italia e all’estero dell’iniziativa. In particolare, evidenziò l’assenza di agevolazioni fiscali per quanti avessero voluto organizzare una mostra sull’Arte del nostro glorioso Passato. L’autorevole presenza politica lascia un segno anche in tempi recenti, grazie soprattutto alle interviste nel corso delle quali non manca di fare acute osservazioni sui tempestosi terremoti politici che caratterizzano la Democrazia Italiana, come quando fece notare che a Fabriano solamente gli esponenti del Movimento Cinque Stelle si erano scomodati ad andare nelle case a far conoscere la propria vicinanza ai cittadini, i quali li avevano ripagati con un importante successo elettorale.

Un parere ascoltato, quello di Francesco Merloni, non solo per essere ancora oggi una delle persone alle quali dobbiamo il Miracolo Italiano, per il quale avvertiamo una profonda nostalgia, ma anche per la partecipazione diretta alla vita delle nostre Istituzioni, alle quali ha sempre garantito quello spirito di servizio tipico della sua generazione e di coloro che lo hanno preceduto.

 

Massimo Cortese

ALDO MORO TERZIARIO DOMENICANO E COSTRUTTORE DELLA POLITICA: un esempio da seguire oggi

articolo di Giulio Alfano pubblicato il 17 novembre 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier - www.istitutomounier.it

Capita,a volte, di riflettere su avvenimenti che appartengono ormai alla storia e che,nonostante tutto,fanno parte anche della nostra vita privata. E’ più o meno quanto succede a chi scrive queste brevi note ripercorrendo l’impegno politico di un protagonista sempre attuale della nostra storia politica: Aldo Moro. Ho avuto,giovanissimo, la possibilità di incontrarlo, conoscerlo condividere con lui riflessioni e giudizi e fu lui a guidarmi nei primi passi all’interno della Democrazia Cristiana. Ringrazio la casualità di questo incontro che avvenne per motivi familiari a Bruxelles, che mi ha fornito a me ragazzo la ricchezza del suo insegnamento politico,culturale e soprattutto umano,fondato essenzialmente sull’esempio e ancor oggi la sua elevata statura morale lo rende non sempre facilmente collocabile in un ambito storico tanto diverso da quell’epoca eppure altrettanto bisognoso di Maestri e di esempi.

Complessivamente la sua leadership all’interno del variegato mondo democristiano è durata vent’anni,dal 1959 al momento della sua tragica fine:si trattava tuttavia di un rilievo “etico” di uno spessore “morale” che nulla aveva in comune con il posizionismo della politica tradizionale e conservatrice perchè esprimeva un costruttivo e responsabile impegno per una concezione della politica legata alla “potestas” che egli offriva,interpretando il vissuto della società civile. Era in sostanza, un intellettuale della politica,nel quale l’epifania della parola diveniva elemento di purificazione della stessa politica,da reinterpretare alla luce delle non facili esigenze di una società in costante e rapida trasformazione.

Artefice di una concezione della politica fondata sul confronto,ricercava sempre una feconda solitudine propria del mastro di pensiero che operava per raggiungere una visione comune tra forze politiche anche alternative tra loro per concezione e retaggio storico. Ne nasceva un progetto che si alimentava della sua profonda cultura meridionale,attraverso un ermetica concezione del linguaggio che esprimeva un ascetismo sociale proprio della sua formazione per una duplicità di ragioni. Da un lato vi era l’uomo di fede che,alla vigilia della seconda guerra mondiale nel1939 e prossimo ad assumere la carica di Presidente della FUCI,avverte il bisogno spiritual di entrare nel Terz’Ordine Domenicano assumendo il nome religioso di Frà Gregorio,in onore di Padre Gregorio Inzitari,Direttore della Fraternita di S. Nicola di Bari. Dall’altro vi era l’acuto intellettuale onusto di studi giudici e filosofici improntati alla cultura di S. Tommaso d’Aquino che,osservando la realtà sociale avverte la necessità di un nuovo modo di vivere la ritrovata e sofferta democrazia rappresentativa nel secondo dopoguerra ed in questo l’insegnamento della filosofia politica dell’Aquinate gli sarà fondamentale ed indelebile:Soprattutto resterà il “metodo” politico che Moro mutua da S. Tommaso:esattamente come il Dottore Angelico avvertiva nel medioevo di svolgere un attenta “mediazione”tra i ceti dell’epoca per pervenire alla promozione dell’uomo “gloria Dei”, così Moro trasforma quel “medium” in una attenta mediazione tra i partiti politici del secondo ‘900 portatori in democrazia di interessi sociali,culturali diversi ma non opposti:conquistare alla democrazia tutti attraverso il dialogo! Questo è l’insegnamento domenicano che resta vivo in Aldo Moro per tutta la sua attività politica ed accademica!

In un saggio pubblicato dalla rivista “Studium” di cui fu direttore,nel maggio 1945 a poche settimane e giorni dalla fine della guerra,egli sosteneva l’esigenza della “purezza” come libertà interiore e come indipendenza morale da condizionamenti esterni ed estranei alla coscienza,sottolineando come l’intelligenza non dovesse consumarsi in se stessa perchè era “doveroso” riconoscersi in quanto cristiani oltre e al di là delle divisioni ideologiche,”tutti puri e liberi,disposti solo all’ossequio della verità che è tutto!”(“Studium,n.2,1945):altro fondamentale inegnamento della Scuola del S.Padre Domenico!

Tuttavia già allora era nitido nella sua coscienza un itinerario fondato sulla costante ricerca dell’accordo come presupposto della visione democratica oltre che cristiana,della politica,che comunque non doveva rinunciare alla difesa ed alla proposta delle proprie legittime posizioni. Lo strumento verbale perciò diventa in Moro accorta mediazione fndata sul potere orfico della parola,come capacità di svelarsi dell’uomo,segnato dalla potenzialità creaturale del “dirsi”,del dialogo chè è l’essenza della socialità. Ciò lo rendeva praticamente unico all’interno anche del suo partito al quale si iscrive con notevole sofferenza sostenuto dal mons.Marcello Mimmi,futuro Cardinale Arcivescovo di Napoli,perchè i vecchi popolari antifascisti pugliesi lo vedevano con sospetto giacchè era stato Presidente della FUCI,organizzazione tollerata dal regime fascista.Ma la sua estraneità ad ogni forma di dottrinarismo,persuaso che la coscienza religiosa dovesse vivere nella politica,lo rese capace di unire in breve tempo anche nel suo territorio le forze del lavoro,nel pieno vigore della missione del cristiano nel mondo. In questo senso egli apparteneva alla cultura della mediazione politica,dell’intesa su tutto ciò che non rappresentasse un cedimento alla stanchezza della gestione ordinaria degli eventi e la lunga e sofferta vicenda dell’allargamento delle basi democratiche del nostro paese,ne è l’esempio forse piu’ nitido,per recuperare la società civile al metodo della democrazia ,non solo procedurale ma partecipata ,condizione indispensabile per tutelare e conservare la libertà. In lui proprio in virtù della formazione domenicana risaltò la lettura che del tomismo aveva dato a partire dagli anni ’30 il filosofo francese Emmanuel Mounier(1905/1950)del quale ricordava la lezione della libertà nella condizione “totale”della persona,perchè,dice Mounier:” La libertà è sorgente viva dell’essere e un atto non è propriamente umano se non trasfigura anche i dati più ribelli nella magia di questa spontaneità e la libertà dell’uomo è la libertà della persona che tuttavia è vincolata e limitata dalla nostra situazione concreta e storica”(“Il Personalismo”,ed.AVE 1964,p.97). Ecco nel personalismo di Mounier Moro trova l’humus per la sua proposta e l’attualizzazione del suo retaggio culturale. Per questo motivo agì sempre con gradualità ed attenzione,come fece sin dall’esordio del centrosinistra nella seconda e terza legislatura e quando assunse la carica di Segretario Politico della D.C.nel 1959 mentre le relazioni del partito con gli altri partners politici centristi erano in una situazione di grave deterioramento tanto che non si era riusciti a dar vita stabilmente ad una compagine governativa.

e dopo le dimissioni del governo Fanfani ci fu una breve esperienza del governo Segni,molto precario e sostenuto dall’esterno dal Partito Liberale. Erano anni intensi;sullo scenario internazionale l’avvento alla presidenza USA di Kennedy e al soglio pontificio di S.Giovanni XXIII sembrava rendere possibile il superamento di obsoleti blocchi ideologici oltre la guerra fredda e l’antico blocco delle sinistre era attraversato da non poche tensioni dopo i fatti di Ungheria del 1956. Si trattava di mettere il partito socialista nelle condizioni di cogliere nei rapporti con la D.C. un elemento di quella autonomia socialista che il leader PSI cercava ormai da tempo e l’approdo poteva essere un organica collaborazione di governo assai temuta dai poteri economici forti anche internazionali. L’operazione di superamento dei governi centristi fu piuttosto lunga e durò diversi anni,con un accorta mediazione che esprimeva uno sforzo intelligente di conoscenza dello sviluppo oggettivo della situazione,senza esporre la giovane democrazia italiana ad alcun pericolo salvaguardando il ruolo guida della D.C. come partito ma soprattutto come cultura politica in grado di esprimere maturità e senso dello stato,eredità faticosamente conquistata dall’opera politica di Alcide De Gasperi.,per un mondo cattolico maturo al senso dello stato.

Uno dei motivi per i quali Moro non risukta di particolare attualità è probabilmente la sua estraneità ad ogni forma di alternativa,soprattutto ideologica e tale estraneità era in relazione al timore che essa avrebbe potuto spezzare e frantumare lo schieramento politico del sistema proporzionale,costringendo la d.C. a scegliere un versante o l’altro,mentre per lui doveva restare sempre al centro non del potere ma della strategia politica e in ciò si invera il profondo umanesimo popolare moroteo.. Egli riteneva che la D.C. dovesse restare elemento di riferimento di quei processi che avrebbero dovuto aiutare il nostro paese a non temere per il mantenimento della democrazia,allargando a tutte le forze politiche il consenso allo stato e alla costituzione repubblicana.

Aldo Moro ha vissuto e prodotto strategie politiche in un momento storico in cui la democrazia doveva ancora compiersi e a come far procedere la politica nel momento in cui si trovava. Gli anni ’70 con tutto ciò che hanno rappresentato nel nostro vivere civile indicavano scenari politici nuovi che egli interpretò con duttile linguaggio ma mai indeterminato,formulando una proposta articolata di rinnovamento delle relazioni democratiche.Si muoveva nella prospettiva di una distinzione tra stato e società,non dimenticando però di differenziare la società politica da quella civile,comprendendo in essa sia le istituzioni statali che i partiti politici,considerati strumenti indispensabili di mediazione proprio tra lo stato e la società.

Alla metà degli anni ’70 il pluralismo sociale assume nella prospettiva morotea una maggiore autonomia rispetto al politico perchè si enuclea uno spazio sempre maggiore rendendo più difficile la relazionalità unitaria con la struttura politica;rivaluta in quegli anni l’identità cattolica dell’azione politica,secondo un ottica etica portandosi su un terreno di sostanziale alterità con buona parte degli esponenti del suo stesso partito. Voleva una D.C. non rappresentante egemone di tutta la società,ma attenta all’ascolto alla riflessione sollecitando una concezione di partito “sociale” e non elemento di puro raccordo elettorale,rispettoso viceversa delle diverse esperienze maturale nella società che dovevano essere coordinate e guidate e questo era il ruolo che egli voleva assumesse la D.C.al di la e oltre ogni scontro ideologico. Il clima di quegli anni con una sempre più forte conflittualità aveva reso la D.C. partito primario nell’insediamento all’interno delle istituzioni e bloccato ogni forma di rinnovamento come invece vi era stata negli anni ’40 e ’50,portando ad una concezione “familiare”della cosa pubblica contro la quale proprio la D.C. delle origini aveva fortemente lottato. Lasocietà stava cambiando e la consolidata gestione del potere si doveva superare di fronte all’emergenza delle nuove sfide mentre il potere politico rischiava di schiacciare lo stato di diritto e le nuove identità che inevitabilmente sarebbero emerse di li a poco tempo.

Questo timore per la tenuta della democrazia,resa debole da fattori concomitanti lo espresse compiutamente nel suo ultimo discorso il 28 febbraio 1978 ai gruppi parlamentari del suo partito dicendo tra l’altro:”..la nostra flessibilità ha salvato più che il nostro potere,la democrazia italiana”(Scritti e Discorsi,vol.VI,ed.5Lune p.370).La situazione d’emergenza doveva comunque essere superata e ciò che Moro pensava di fare si riferiva alla qualità del realismo politico proprio della sua cultura oltre che della sua personalità. Fu certamente anche uomo di partito,esponente della cultura democratico cristiana che lo portò a difendere l’amico Luigi Gui ingiustamente trascinato nel vortice dello scandalo Lockeed nel 1977,ammonendo da vero maestro una gremita ed attenta aula di Montecitorio:”…Non ci lasceremo processare sulle piazze,non accetteremo che la nostra esperienza politica complessiva sia bollata col marchio di infamia!” Tornava nel suo linguaggio politico il primato della D.C. e anche l’incontro col PCI nella sua visione doveva restare transitorio teso a solidificare le istituzioni democratiche e non un cedimento ideologico,per ripristinare i fondamenti essenziali,quindi costituzionali del sistema politico,richiamando anche i comunisti alle loro responsabilità avendo anche essi contribuito e fortemente alla stesura e all’approvazione della Costituzione Repubblicana(si veda l’art. A:MORO,”Gestiamo il presente,guardiamo al futuro”,in “Il Giorno” 10/12/1976).

Aldo Moro non fu un profeta ma un interprete realista di una fase appunto,la terza,come disse in un celebre discorso a Benevento,della politica italiana,della quale non era ovviamente in grado di indicare la durata,ma che sicuramente restava emergenziale.L’eredità politica e culturale di Aldo Moro è ancora oggi enorme soprattutto nei suoi insegnamenti etici;il suo sacrificio ha segnato la disfatta del terrorismo,della violenza,ma ha contribuito a consolidare le istituzioni democratiche con un fortissimo richiamo ai valori cristiani del vivere civile .

Resta l’insegnamento di come la ragione e il dialogo debbano sempre prevalere sull’odio e sull’egoismo e nel cuore di chi lo ha conosciuto ed amato rimane indelebile la testimonianza di una profondissima fede in Dio arricchita dalla cultura dell’Ordine Domenicano al quale restò sempre legato fino alla fine frequentando insieme al suo amico ing.Galati la fraternita romana di S.Maria sopra Minerva,vivificando quei valori che rendo sempre l’uomo gloria di Dio!

 

Prof. Giulio ALFANO – Presidente Istituto E.Mounier

https://www.istitutomounier.it/aldo-moro-terziario-domenicano-e-costruttore-della-politicaun-esempio-da-seguire-oggi/

Ricordo di EMILIO COLOMBO: la politica come impegno sociale.

articolo di Giulio Alfano pubblicato il 11 aprile 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier - www.istitutomounier.it

 

 

“Vorrei dare a ciascuno di voi i miei occhi per farvi vedere cosa eravamo e cosa siamo oggi: solo così potete essere responsabili del vostro presente ed immaginare un futuro sempre migliore…”

Con queste parole il presidente Emilio Colombo del quale ricorre il centenario della nascita,ricordava gli inizi della sua attività politica,in quel crinale storico tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della ricostruzione in Italia,uscendo dal terribile periodo fratricida della guerra e non meno cruento della lotta antifascista. Ricordare il presidente,col quale ho avuto amicizia lunga e feconda è per me motivo di commozione e di onore:egli è stato un vero e grande statista,tra i pochi che l’Italia abbia veramente avuto e parte di quella generazione di uomini politici che hanno costruito la democrazia,realizzato la Costituzione repubblicana,promosso il miglioramento etico e sociale del nostro paese.

Emilio Colombo nacque a Potenza l’11 aprile 1920 e la sua carriera politica inizia ufficialmente nel 1946 con l’elezione all’Assemblea Costituente grazie a oltre 21 mila voti,ma il suo retroterra e la sua formazione sociale sono piu remoti. Sin da giovanissimo partecipa alle vicende del mondo cattolico,addirittura adolescente,negli anni non facili successivi alla Conciliazione. Il mondo cattolico aveva raggiunto con il Concordato del 1929 una “tregua” con lo stato ormai stabilmente dominato dal fascismo,ma non una vera e propria armonia regnava tra questi due mondi:il fascismo voleva il pieno controllo soprattutto della formazione dei giovani,per imporre loro un totalitarismo di fatto pagano al quale la Chiesa non poteva offrire il suo assenso. E’ in questo clima che si forma la coscienza civile del giovane Colombo,una coscienza che sarà sempre irrorata dai principi della Dottrina sociale della Chiesa. Il Partito Popolare era un ricordo lontano e il suo fondatore don Luigi Sturzo ormai da anni in esili all’estero pressochè sconosciuto ai giovani anche delle associazioni cattoliche. Vi era solo uno strumento,un canale attraverso il quale poter far sentire la voce dei cattolici non allineati col fascismo.l’Azione Cattolica che proprio grazie al Concordato del ’29 aveva diciamo una certa autonomia,pur non potendo svolgere alcuna azione di sensibilizzazione politica anche se non mancarono gli attriti al punto che S.S. Pio XI appena due anni dopo nel 1931 si vide costretto a pubblicare una lettera documento,”Non abbiamo bisogno”,con la quale avvertiva il fascismo e in particolare Mussolini che la Chiesa non avrebbe consentito silente l’indottrinamento pagano dei giovani alle liturgie del regime. In quegli anni Colombo giovanissimo conosce la figura di Paolo Pericoli,detto dalle iniziali,Papà Pericoli,una figura mitica in quel periodo il primo vero formatore di giovani in anni così difficili. Ma l’incontro fondamentale nell’adolescenza lo compie proprio in Azione Cattolica,nella quale aveva iniziato a militare;durante un incontro di formazione,intorno agli anni 1935/36 incontra il Presidente della GIAC,il prof.Luigi Gedda(1902/2000)che si accorgerà ben presto del talento di quel giovane longilineo,studioso e riservato,ma con tanta passione e dai valori etico-sociali assai profondi. Negli anni quaranta,precisamente nel 1942 Gedda fonda la Società Operaia per l’evangelizzazione dei laici intorno al culto del Getsemani e Colombo sarà interessato da questo primo sodalizio religioso di soli laici. Ma arrivano gli anni della guerra e l’assolvimento degli obblighi militari,ma anche il conseguimento della brillante laurea in giurisprudenza.Proprio sul finire della guerra,già trasferitosi a Roma,viene nominato insieme ad Agostino Maltarello,segretario della GIAC,carica che Gedda crea appositamente per loro e che non c’era fino ad allora negli statuti dell’organizzazione e il legame tra Colombo e il mondo associativo cattolico sarà fortissimo per tutta la vita.Ma l’incontro diciamo del “risveglio”politico era avvenuto qualche anno prima:nell’estate del 1943 in quell’anno cosi drammatico,a Camaldoli giovani cattolici e dirigenti del mondo delle associazioni si era riunito dal 18 al 24 luglio in quella località del Casentino per discutere che cosa sarebbe stata l’Italia e il mondo una volta fosse finita la guerra.L’incontro a cavallo tra il primo bombrdamento di Roma e il crollo del fascismo,fu sollecitato da mons.Giovanni Battista Montini,oggi S.Paolo VI e dal domenicano padre Mariano Cordovani nominato nel 1942 da Pio XII Teologo della Segreteria di stato. Ne scaturì il cosiddetto “Codice di Camaldoli” detto allora “Per una comunità cristiana”.Un documento formidabilmente moderno il quale insieme alla scelta che l’anno dopo PioXII avrebbe compiuto col Radiomessaggio natalizio intitolato “Il problema della democrazia” e con il messaggio natalizio dell’anno prima contro i totalitarismi,spianò la strada al consenso delle gerarchie per un rinnovato impegno dei cattolici in politica.Nei tanti colloqui avuti negli anni con Colombo,egli mi ripeteva spesso che proprio il codice di Camaldoli,le intuizioni in esso contenute avevano colpito lui e gli altri giovani anche presenti all’incontro stesso.Il documento “Per una comunita cristiana”venne redatto dal giovane prof.Sergio Paronetto,che purtroppo scomparve appena 34enne nel 1945,ma l’impatto fu dirompente.Nel Codice di Camaldoli prendeva forma il concetto di “comunità politica”,già espresso da S. Tommaso e soprattutto approfondito da Emmanuel Mounier.

Comunità politica non è la semplice società tra eguali,ma uno contesto non casuale di soggetti sociali che si riconoscono nella promozione della “persona”.Questo sara il leit motiv che animerà la redazione della Costituzione Repubblicana,alla quale Emilio Colombo darà il suo fondamentale contributo nella discussione soprattutto dei principi basilari:il concetto di “persona” espresso nell’articolo 2(“…lo stato riconosce..”)prima l’uomo coi suoi diritti poi lo stato espressione della tutela di essi. Un capovolgimento a 360 gradi della visione neoidealistica che aveva reso possibile persino il fascismo nell’architettura costituzionale dello Statuto Albertino,nel quale non si parlava MAI di cittadini ma di sudditi! Inevitabile quindi l’incontro con la Democrazia Cristiana che De Gasperi aveva fondato nel ’42 riuscendo a realizzare un capolavoro di mediazione politica tra le varie componenti sociali politiche e culturali del mondo cattolico.

In un bel volume pubblicato poco tempo prima della scomparsa,C”Per l’Italia e per l’Europa”,Colombo ripercorrendola a mo’di conversazione con l’amico Arrigo Levi,ricordava la sua vita politica,soffermandosi su alcuni aspetti importanti collegati fra oro dal concetto di “sintesi” che deve animare sempre la vita politica e soprattutto il progetto politico e proprio questo progetto lo troverà nella proposta politica di Alcide De Gasperi,al quale come spesso ricordava..”…Ho dato sempre del Lei,come anche a Togliatti”.La figura e il prestigio di De Gasperi son l’altro versante che contribuisce a delineare la statura politica del giovane Colombo:l’dea delle coalizioni,la politica come mediazione,l’incontro e lo scambio con le altre esperienze politiche e soprattutto l’idea dell’Europa!

Il legame con la sua terra resterà sempre fortissimo,la sua Basilicata che egli ha restituito all’Italia e ne ha condotto lo spessore delle tradizioni e della cultura anche in Europa e nel mondo.La carriera lunga e illustre di questo Padre della Patria non può certo essere raccolta in poche righe di questo modesto anche se sincero ed affettuoso ricordo. Mi limiterò a ricordarne alcune parti,per me molto significative.L’inizio degli anni ’50,il coraggio che la Democrazia Cristiana e le coalizioni centriste dei governi De Gasperi mostrarono nel varare la Riforma Agraria,si sente anche in Basilicata.Togliatti aveva scritto un articolo molto duro su “L’Unità” intitolato “Matera,vergogna d’Italia”evidenziandone l’arretratezza e le condizioni precarie di vita.Proprio a seguito di una visita che De Gasperi compì in quella terra,Colombo giovane sottosegretario al ministero dell’agricoltura,promosse la cosiddetta “legge dei sassi”,che erano antichi monasteri pressochè caverne dove la povera popolazione materana viveva da decenni.Grazie a quella legge,ben 14.000 persone ebbero per la prima volta una casa e questo fu merito di Emilio Colombo.La sua illustre carriera di ministro dalla metà degli anni ’50 si caratterizza per la permanenza al ministero dell’industria,delle finanze,ma soprattutto lungamente del tesoro, dove egli,giurista,seppe individuare attraverso figure di alto prestigio quali Ferdinando Ventriglia e Guido Carli una politica accorta di stabilizzazione economica,dimostrata anche dalla famosa lettera all’allora presidente del consiglio Moro nell’estate 1964 sul pericolo di sforamento della spesa pubblica.Presidente del consiglio dal 1970 al ’72,biennio difficile tra tentativo di golpe borghese e rivolte in Calabria,volle promuovere la nascita dell’università della Calabria e Lucania,non trascurando mai la sua vocazione europeista riportando dietro la Francia dalla cosiddetta politica della sedia vuota,e diventando sul finire degli anni ’70 Presidente del Parlamento Europeo.Non va neanche trascurata la sua significativa presenza al ministero degli esteri in due periodi delicati inizio anni ’80 e inizio dei ’90,varando gli accordi Colombo/Genscher,con i quali si pacificò e riorganizzò la situazione mediorientale.Lo spessore politico di Emilio Colombo fu anche uno spessore culturale,non nel nome di una unità di classe o di lotta ma di solidarietà,giustizia e libertà per tutti perchè al centro vi è sempre il valore irrinunciabilmente ontologico della persona.

Quale insegnamento ricavare dall’esperienza e dal ricordo di Colombo che ci ha lasciato ritornando alla casa del Padre il 24 giugno 2013:credo l’impegno oggi a superare relativismo e individualismo,oltre ogni contrattualismo perchè l’ordine della politica non va costruito sull’affermazione dell’individuo e sul prevalere dell’economia nei rapporti umani o sul potere del più forte nella sfera del diritto;ma credo che ricordare uno statista di questo calibro che venne insignito,tra i pochissimi ad esserlo,del premio Carlo Magno e del premio Monnet,oltre a ricevere il laticlavio a vita negli ultimi anni,e reggere la presidenza dell Istituto Giuseppe Toniolo per molti anni,significhi adoperarci affinchè una migliore articolazione delle società intermedie consenta una piena convivenza democratica e al superamento di ogni divisione di sesso,razza,religione per una società non fondata su sovranismi,populismi e ideologie,ma sul dialogo e la sintesi che sono alla base di un vero ed efficace pensiero politico.

prof.Giulio Alfano – Cattedra Filosofia Politica Pontificia Università Lateranense e Presidente Istituto Emmanuel Mounier

Ricordando GIULIO ANDREOTTI: la politica a servizio della persona

articolo di Giulio Alfano pubblicato il 2 aprile 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier - www.istitutomounier.it

 

La politica ha valore se ancorata a qualcosa di superiore;essa è anche prassi anche vita quotidiana,risposta alle esigenze dell’immediato senza dubbio,ma qualcosa di diverso per trasmetterlo soprattutto ai giovani,per far si che ci siano dei punti di riferimento!”.
Con queste parole Il presidente Giulio Andreotti il 25 ottobre 2004 ricordava cosa fosse la politica e cosa soprattutto fosse stata per lui,per i giovani degli anni della seconda guerra mondiale,aprendo un convegno dal titolo “De Gasperi,ritratto di uno statista” in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dello statista trentino,suo grande maestro che tanto fortemente aveva influito sulla sua formazione e sulle sue scelte giovanili.
In quel periodo il mondo giovanile “tout court” viveva la grande stagione della formazione sociale nella FUCI,la federazione universitaria cattolici italiani fondata proprio a Roma nel 1894 da don Romolo Murri(1870/1944),discusso animatore anche della prima Democrazia Cristiana, fermata dalla enciclica “Graves de communi” ndi Leone XIII b nel 1901,ma erano anche gli anni del fervore della GIAC il ramo giovanile dell’Azione Cattolica rivitalizzato proprio per formare i giovani da Pio XI e affidata alla guida del prof.Luigi Gedda(1902/2000). Andreotti giovane della Roma storica delle antiche strade del centro storico in quel decennio vive una formazione culturale,religiosa e morale all’interno di quel vivace mondo cattolico,che però faceva i conti con un regime politico sempre più distante ed a volte avverso alla vita cattolica e quindi dobbiamo collocare le sue scelte e le sue caratteristiche in quello specifico periodo. In questo senso la formazione politica morale,ma direi anche religiosa che Andreotti ha ricevuto non può essere disgiunta dal clima storico vissuto dai giovani di quella ormai a noi lontana generazione, che era caratterizzato da una pesante limitazione dell’espressione personale,ma anche da un fervore irrorato da rinnovati studi e direi da innovativi approcci alla dottrina cattolica iniziando dagli anni trenta,segnati da radicalismo ontologico sempre maggiore.
Certo dobbiamo ricordare che su quel mondo giovanile esercitava un forte fascino e un profondo ascendente l’intensita editoriale e filosofica francese,importata in Italia da mons.Giovanni Battista Montini (!1896/1978),il personalismo di Jacques Maritain ma soprattutto di Emmanuel Mounier,che offri a quella generazione un apertura di vedute culturali senza precedenti. Per questo ho concentrato il mio intervento non gia sull’apostolato politico della lunga carriera dello statista Andreotti,ma sugli anni quarata,quando matura proprio nella FUCI la sua coscienza civile di cattolico impegnato nella da poco rinata Democrazia Cristiana della quale fu uno dei maggiori esponenti per mezzo secolo.

Giulio Andreotti nasce a Roma sotto il pontificato di Benedetto XV,il pontefice dell’”Appello contro l’inutile strage” durante gli anni critici del primo conflitto mondiale e da questo appello il presidente americano Wilson avrebbe l’anno successivo pres spunto per la proposta dei famosi “14 punti” per radicare meglio le democrazie una volta fosse finita la guerra. Ecco, proprio nell’anno in cui nasce Andreotti il mondo attolico si sveglia fortemente e viene fondato il Partito Popolare di don Luigi Sturzo(1871/1959),,dopo appena 4 giorni dalla sua venuta al mondo,nell’hotel S. Chiara non distante dalla suaabitazione. La felice congiunzione degli eventi lo fa nascere da famiglia di origine ciociara,di Segni,,ma in una via del centro storico di Roma,via dei Prefetti,culmine del vecchio rione Parione adiacente a Montecitorio,luogo che il futuro statista democristiano avrebbe a lungo frequentato!
Quel rione pieno di tradizioni del cattolicesimo romano minuto e devoto,sarebbe rimasto sempre nel suo cuore,tanto che per anni il suo ufficio fu in piazza Montecitorio,di fianco quasi aalla via della sua nascita. Papa Francesco che ha voluto dedicare un sinodo proprio ai giovani,ai quali rivolge sovente la sua pastorale attenzione,,che:” La gioia della verita esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra,non abita e non condivide con tutti la luce di DIO”(Veritatis Gaudium”,1)
Ecco allora che anche quei giovani di tanti anni fa,la gioia la trovarono nella formazione cattolica di base,nelle parrocchie,nei circoli giovanili,anche nelle stesse omelie che i parroci svolgevano in quegli anni tanto difficili,dai loro pulpiti,per ricordare che l’uomo è essenzialmente “creatura di Dio”,persona,quindi immagine del Creatore. Vi era un forte bisogno di ermeneutica evangelica S che fece loro capire gli inganni immani dei totalitarismi e li aprisse alla vita,alla bellezza della fede vera autenticamente vissuta e testimoniata,in un atmosfera spirituale di ricerca e di certezza,per tornare alla ragione fondamentale del vero credere e la filosofia personalista fece irruzione in quel tornante drammatico degli anni trenta,nella formazione di una generazione destinata a reggere per decenni i destini dell’Italia,protagonista della rinascita europea!
U ltimo di tre figli,una sorella muore a soli 18 anni,la madre Rosa Falasca,donna di solidi principi e di amorevole fermezza,scomparsa nel 1976,vedova di Filippo,maestro elementare,morto quando il piccolo Giulio aveva appena due anni,tornato gravemente malato dalla grande guerra e come il presidente poi avrebbe spesso confidato,lui e suo fratello Francesco,futuro comandante della polizia urbana della capitale,avevano il terrore di morire a 33 anni perché a quella età erano morti il padre e il nonno!
Negli anni del liceo,prima frequentato al Visconti poi al Tasso, direi che egli sperimenta la liberta,una forma un po anomala di liberta anzi una liberta di privilegio vedendo che i figli del Duce alunni di quel liceo facevano un po come pareva loro data la posizione dell’importante genitore!. Quindi ancora la parola magica proibita in quel periodo “liberta”un tema quello della liberta che lui frequenterà spesso nei suoi tantissimi discorsi,ma soprattutto negli anni della militanza giovanile,tema che sara anche la chiave divolta della sua definitiva scelta politica in favore di un partito che nel simbolo aveva proprio la parola “libertas”. Confidera molti anni dopo lo stesso Andreotti in un intervista:”.. Non ero affatto bravo,ero pteparato aquato bastva per non essere bocciato,ma niente di più e devo confessare che non mi piaceva affatto studiare!”. Sembra un paradosso in un uomo non solo politico,ma fine intellettuale,che avrebbe fatto della scrittura nei suoi tanti e sempre arricchenti libri,lo strumento specifico del suo lavoro. Voglio, a margine,ricordare che egli è stato l’uomo politico italiano che ha lasciato in eredita la maggiore quantita di libri articoli,saggi,con uno stile arguto e facondo,oltre ad un immenso archivio assai minuzioso di oltre 3000 titoli affidati alle cure dell’Istituto Sturzo. Ma quello studente cosi particolare che viveva nella Roma dei vicoli,che quasi non aveva conosciuto il padre,si impegnava comunque in una sempre piu profonda interiorita spirituale che ne avrebbe fortificato il carattere e gli avrebbe fonferito uno spirito religioso e uno spessore etico che lo avrebbero accompagnato tutta la vita,soprattutto nei momenti piu delicati e difficili,pubblici e privati.
Ecco questa era la vera liberta che il giovane Giulio andava costruendo in se,la liberta interiore che rende veramente uomini,attraverso un etica fondata su fortissimi principi morali e sempre piu comprendendo che la fede religiosa è sì un dono,ma anche qualcosa di più che ci arricchisce e ci completa,come ammonisce Jean Racine nel suo capolavoro “Athale2, “Di un cuore che ti ama Dio mio nessuno turba la pace!” e la pae interiore di Andreotti non sara turbata neanche negli anni del lungo processo di cui fu vittima!.
Nel 1937 si iscrive all’universita,facolta di Giurisprudenza e si impiega,esempio moderno di studente lavoratore ed anche quando cambiera quartiere e casa le modeste entrate di mamma Rosa che da pensionata reversibile doveva mantenere due giovanotti,non gli permetteranno di essere esclusivamente uno studente;Si impiega all’ufficio imposte,sezione tasse sui celibi,e nel 1941 consegue il diploma di laurea. Sono gli anni cruciali della sua formazione e del suo slancio in un apostolato che da associativo diverra ben presto politico,sotto la guida di mons.Montini che educa i giovani della FUCI,della quale Giulio diverra presidente succedendo ad Aldo Moro. Con lo statista pugliese il rapporto è molto stretto pur nella diversita del carattere :diversi ma complementari. In quel periodo dovendo adempiere agli obblighi militari Andreotti era rimasto tre giorni presso l’ospedale militare del Celio,dove lo avevano riconosciuto inabile al servizio militare,prevedendogli addirittura solo sei mesi di vita. Anni dopo confidera che una volta divenuto ministro provo a rintracciare l’ufficiale medico che gli aveva fatto una cosi drastica previsione,ma purtroppo seppe che era morto nel dopoguerra.
Collabora e poi dirige il periodico “Azione Fucia”,organo della FUCI e si forma anche giornalisticamente pur preferendo dedicarsi a scrivere articoli di critica inematografica,quel cinema verso il quale provera sempre grande interesse e per salvare il quale scrisse nel dopoguerra la legge in favore delle produzioni italiane.
Proprio nel 1941 Pio XII istitui l’ufficio della segreteria militare,col compito di mantenere i contatti coi giovani dispersi sui vari fronti e Andreotti si occupo dei contatti coi giovani militari della FUCI;
La laurea arriva appunto il 10 novembre 1941,mentre era reggente della presidenza nazionale FUCI,essendo Moro richiamato militare La tesi riguardava “Il fine delle pene ecclesiastiche e la personalita del delinquente nel diritto della Chiesa”,con la votazione di 110 su110 e relatore il prof.Pio Ciprotti. Va ricordato che in quel periodo tra ragazzi e ragazze nella FUCI ci si dava del leinon per distanza ma per rispetto;in quelle occasioni di incontro si formeranno grandi solidarieta e profonde amicizie,anche tra esponenti che poi sarebbero stati su sponde politiche opposte,basti pensare ai rapporti che Andreotti inizio a stringere con figure come Franco Rodano e Adriano Ossicini,del mondo comunista.
Quei giovani ovunque politicamente collocati sembra anticipassero quanto ci esorta oggi a fare papa Francesco:”Nella formazione di una cultura cristianamente ispirata,si deve scoprire in tutta la creazione l’impronta trinitaria che fa del cosmo in cui viviamo una trama di relazioni in cui è proprio di ogni essere vivente tendere ad una vera spiritualita della solidarieta globale che sgorga dal mistero della trinita”(Veritatis Gaudium”,49)
Parole odierne che applichiamo all’origine di una formazione che con determinazione giunse all’emergenza della creaturalita irripertibile della persona umana,come poi quei giovani seppero dimostrare di riconoscere nel partecipare alla redazione del testo della Costituzione Repubblicana. Il valore della persona passa e della politica al servizio della persona,passa attraverso l’apprendistato che Andreotti vive dopo l’incontro con De Gasperi e nei primi omenti dell’adesione al partito della Democrazia Cristiana.
Sotto la guida di Igino Righetti e del giovane assistente Montini in quegli anni la FUCI svolge un intenso lavoro formativo e culturale;lo scopo principale è proprio quello di sviluppare all’interno del mondo cattolico una seria corrente intellettuale capace di dare allo stesso una nuova incisività ed un nuovo slancio. Per questo l’invito costante ai fucini da parte di Montini era di approfiondire la “dottrina cattolica. Scrivera infatti in quegli anni il futuro Paolo VI:”Noi dobbiamo cercare libri,maestri,idee,metodi per rendere a noui accessibile e possibile lo studio e l’affermazione di questa superiore dottrina!”(G.B.Montini,”Logica di un attività”in “Azione Fucina”4/XII/1932)
Negli anni del fascismo nelle associazioni cattoliche irrompe infatti il pensiero personalista maritainiano che lascia traccia quasi esclusivamente nei movimenti intellettuali giovanili in particolar modo nella FUCI,mancando negli altri rami dell’Azione Cattolica una riflessione in termini culturali sull’impegno di testimoniare il cristianesimo a livello sociale con un progetto politico.
Qui risiede secondo me,la palingenesi che il giovane Andreotti subisce a cavallo tra l’inizio e la metà degli anni quaranta,soprattutto perché nell’estate del 1943 la redazione di quello che impropriamente o piu genericamente viene definito “Codice di Camaldoli”,mentre la definizione del documento redatto dal giovane e purtroppo assai prematuramente scomparso Sergio Paronetto,si chiamava “Per una comunità cristiana”.sconvolge gli orizzonti dei giovani cattolici impegnati nel mondo associativo.
Ecco il concetto di “comunità”è il centro della riflessione di quei giovani chiamati a raccolta dal mondo cattolico a Camaldoli dal 18 al 24 luglio 1943.
Il Regime fascista già da tempo vacillante è sul punto di crollare,ci si interroga,dopo vent’anni di dittatura cesariana,quale stato sarebbero stati chiamati a realizzare i cattolici una volta fosse finita la guerra. Quei giovani come Andreotti,La Pira,Taviani,Colombo, neanche sapevano chi fosse Sturzo e tantomeno De Gasperi ridotto all’anonimato nella Biblioteca vaticana.e l’incontro col futuro statista trentino ebbe contorni quasi comici perche recandosi in biblioteca vaticana e sentendosi chiedere perché volesse fare una tesi sulla marina pontificia, Andreotti rispose stizzito a quell’allampanato signore di mezza età ignorando che quell’incontro casuale sarebbe stata come egli amava ripetere “una scintilla” che gli avrebbe aperto un mondo nuovo,incontrandolo poco tempo dopo in una riunione semiclandestina in casa di Giuseppe Spataro in via Cola di Rienzo.
Ma cosa è una Comunità e in cosa differisce da una società? Lo ribadirà molti anni dopo lo stesso Andreotti ricordando che “Ogni momento della politica si deve aggiornare alle novità,ai contesti di carattere interno ed esterno” (G.Andreotti,”De Gasperi,ritratto di uno statista”,Rizzoli,Milano.1976,p.28) questo possiamo vederlo nella rivoluzione che il messaggio personalista produce nel cuore e nella cultura di quei giovani nella calda estate del ’43.
Essere “comunità”significa riconoscersi come uguali nell’alterità mentre essere solo “societa” vuol dire essere semplicemente “individui casuali”,che stanno assieme per un fine ma non riconoscendosi reciprocamente,per questo il liberalismo politico è una dottrina e la democrazia un ideale.
Cosa significa riconoscersi? Vedere nell’altro il volto di Cristo,la creatura persona il soggetto vivente da rispettare ma anche fonte di arricchimento perché vi è il supremo tribunale ontologico. Il giovane Andreotti soprattutto nella maturazione acquisita durante la permanenza in FUCi fino alla presidenza,comincia a disporre di una griglia analitica che gli consente di rilevare le carenze del processo di sviluppo che aveva condotto alla tragedia della guerra ma comprende meglio anche come avessero potuto configurarsi le grandi soluzioni politiche fino ad allora emerse,dall’individualismo al socialismo liberale,alle soluzioni totalitarie,ma capisce ancher che se l’operare esterno allora imperante si svolgeva secondo tali costanti,esse originavano la struttura della convivenza civile,le sue componenti strutturali che implicavano ambiti popolari ad esse in qualche modo corrispondenti,quelle che uil Codice di Camaldoli definisce “Democrazia della partecipazione”. La lezione montiniana prima e l’incontro di Camaldoli poi gli fanno comprendere che in quanto “persona”-ciascuno è dotato di capacità potenziali ad essere autore del proprio agire e del proprio operare e il realizzare tali capacità è per ciascuno una necessità un dovere,del proprio “essere uomo”;in questo nasce il nucleo di quella “democrazia della partecipazione”che sarà il centro del contributo che i cattolici daranno alla stesura della carta costituzionale,perché essa è la realizzazione di tali capacità da parte di ciascuno nell’insieme delle persone,ovvero nella realtà popolare. La differenza era in quei giovani cresciuti nell’epoca fascista si configurava anche in alternativa al regime liberale precedente al fascismo stesso,che era fondata sulla “democrazia del consenso”,finalizzata alla gestione del potere politico nella libertà comune,mentre quella della partecipazione è finalizzata alla gestione dell’autorità personale e la prima è funzione della seconda ed entrambe sono funzionali al processo di sviluppo e perfezionamento comune o storico di ciascuno e di tutti insieme. Di fronte a quel crinale di fine dittatura vi era l’eredità della rivoluzione francese i risultati carenti della quale era da riferirsi al prevalere della democrazia diretta su quella del consenso ,mentre vi erano anche quelli tragici della rivoluzione russa,al prevalere improprio del partito come struttura portante della democrazia del consenso su quella partecipativa. Non è certo trasferendo dall’individuo ad una struttura pubblica il compito di interpretrare la realtà e di guidare il divenire storico che si possono superare le car3enze dell’individualismo ed il fallimento dell’idealismo,non nascondendo le carenze dell’interpretazione empirista.
Nel passaggio dalla militanza in FUCI all’esperienza politica si matura in Andreotti l’idea che tutti gli uomini devono essere chiamati a diventare protagonisti dello sviluppo storico alla pienezza,da crearsi quotidianamente con impegno totale e costante,realizzando una pienezza storica sistematica della democrazia della partecipazione,come canale popolare che consente a ciascuno di autogestire,in quanto persona umana,l’aspetto pubblico della vita non solo quello familiare e personale,perché contribuendo ciascuno a costruire lo sviluppo nella libertà comune,si contribuisce a costruire la pace nel mondo in modo fattivo e questo Andreotti lo terrà ben presente anche in momenti non facili nella lunga responsabilità che ebbe come ministro degli esteri tanti anni dopo. La verità è il modo corretto che ogni persona ha di rapportarsi si con la realtà attraverso l’amore,mentre l’amore è il modo corretto di ogni persona di rapportarsi con la realtà mediante la volontà. In questo il passaggio dalla vita in FUCI a quella politica nella D.C avviene non solo grazie all’incontro con De Gasperi,certamente fondamentale,ma proprio attraverso la partecipazione agli ideali innovativi del Codice camaldolese,perchè elabora che la vita umana implica una pluralità di azioni ed operazioni nell’universo cosmico,nell’unità familiare,nella convivenza civile e nella comunione ecclesioale,necessitando di un minimo di interventi e di un massimo di orizzonti. Quell’incontro di Camaldoli e l’elaborazione del relativo Codice al quale Andreotti partecipa evince che la dignità della persona umana nasce dal rispetto dei valori valutati dalla ragione e dal sentimento con l’espressione delle “virtu”,che hanno,come ricordava S.Tommaso d’Aquinio al magistero del quale il codice spesso attinge, degli attributi positivi e negativi:tra i primi vanno ricordati l’INTELLIGENZA,che favorisce la libera conoscenza;la PERIZIA che abilita l’uomo a distingueretra bene er male e la ARETE’ che rende l’uomo immune da sentimenti deteriori che conducono alla corruzione morale.
Ma sono i secondi attributi negativi che in politica concorrono alla decadenza deller istituzioni e minano la libertà,ovveero la FRETTA,che fa agire secondo emotività;la PASSIONE,che fa comportare secondo desideri improvvisi e la VANITA’ che rende assoluti i desideri egoistici e ipostatizza i comportamenti.
In quel passaggio alla vita politica Andreotti comprende che in politica è la ragione che rende effiicace una progettualità e solida una vera democrazia,altrimenti si scadrebbe nel moralismo e in questo egli darà prova di vero statista! La volontarietà,che implica sempre l’assenza dell’ignoranza,manifesta come non abbia fondamento la cosiddetta “opzione fondamentale”,perché attribuisce valore soltanto a cio che è deciso,mentre c’è già un implicito indirizzo al bene morale attraverso la ragione pratica che conduce alle azioni attraverso la volontà.
Il personalismo mounieriano che mons.Montini ora Santo,infonde nella formazione di quella generazione di giovani dei quali Andreotti sarà con Moro uno dei maggiori esponenti,scopre e valorizza l’uomo come soggetto e attraverso questa intuizione egli figlio e fedele dell’eredità della Roma antica e papalina,scopre la laicità del suo impegno in politica,riscoprendo l’esperienza riattualizzata di Giuseppe Toniolo,poi la lezione del giusnaturalismo e infine giungendo alla scuiola di De Gasperi che gli insegna il “metodo democratico”,per evitare di identificare il mezzo da usare,ovvero il partito politico,con il fine da raggiungere,ossia la promozione dell’uomo. Per questo quando l’influsso personalista arrivo alle giovani generazioni che si accingevano a redigere le costituzioni politiche degli stati europei nel secondo dopoguerra,fui chiaro l’impegno di radicare il ruolo dei parlamenti in una tradizione sociale che configurasse una “comunità politica”,perché lo stato democratico non crea diritti ma li riconosce,giacche essi sono espressione proprio di una comunità politica formata da persone;in questo senso la democrazia nuova che emerge nel secondo dopoguerra a cui Andreotti offre un contributo fondamentale e fondante,delinea l’architettura di uno stato “limitato”,ovvero quello che in politica si è soliti definire “abilitante”,che incoraggia ma soprattutto promuove tutte quelle forme di azione sociale che producono effetti pubblici attraverso la promozione e il radicamento di assetti istituzionali che facilitano lo sviluppo dei corpi intermedi della società,come poi infatti vennero definiti dall’articolo 2 della Costituzione della Repubblica Italiana.
In questa fase del suo impegno Andreotti contribuisce con una presenza che sara costante e continua,ad un attività legislativa per recuperare saldare e superare la tradizione individualistica dei diritti dell’uomo,senza cedere alle suggestioni di quella collettivistica,evitando che ogni libertà fosse isolata dalle altre. Quel progetto lo animerà sempre collegando intimamente ogni liberta ma non limitandosi a riconoscerle bensi ad unirle all’insegna dell’eminente dignità dell’uomo creatura di Dio. Soprattutto verso la famiglia l’impegno dello statista romano sarà continuativo;nel passsaggio di formazione daklla FUCI alla DC il volano era stato proprio questo leitmotiv: Lo stato non crea la famiglia ma la riconosce come società naturale ;non ha alcuna ideologia da insegnare nella scuola,ma assicura con le sue strutture scolastiche il diritto alla scuola e nel contempo la libertà di insegnamento;non protegge alcuna religione di stato,ma riconosce libertà religiosa ed organizzazione è pubblica di culto a tutte le religioni;riconosce infine la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica senza però che il proprietario o l’imprenditore siano sottratti all’adempimento inderogabile dei doveri di solidarietà politica ed economica. In definitiva l’influsso della formazione giovanile fara comprendere ad Andreotti il superamento completo di quell’individualismo posto al centro della societa politica dai principi della rivoluzione francese. L’uomo non considerato individuo,che per uscire dall’anarchia conferisce tutti i poteri allo stato,salvo un generale controllo democratico parlamentare perché l’uomo è persona ma anche individuo che costruisce la sua personalita in rapporto alla solidarieta nella societa in cui vive (la famiglia,la comunita di lavoro, la comunita economica,a comunita religiosa). Tutte le società che preesistono allo stato e rispetto alle quali esso è soltanto uno strumento di servizio. In questa intuizione si configura l’apprendimento in quegli anni da parte di Andreotti della dottrina dello stato democratico e si forma sempre di piu il grande statista che abbiamo conosciuto nel lungo servizio allo stato. Il passaggIO alla politica dalla FUCI alla DC significa per Andreotti te cose essenzialmente:
1)Confermare i principi di liberta politica e civile contemperandoli coi diritti dell’uomo persona;
2)superare l’identificazione del diritto con lo stato che aveva condotto allo stato etico e che era stato identificato con l’assoluto ma anche reagire ad un concetto di stato agnostico che poteva portare alla formazione di maggioranze estranee ad ogni regola morale;
3) costruire uno stato ne etico ne agnostico ma tuttavia portatore di valori non astrattamente imposti da una ideologia,ma dalla coscienza popolare espressa nella comunita in cui si articola la vita della societa civile e che assume come propri fini il diritto al lavoro,all’istruzione,alla salute.
Quella espressione “lo stato riconosce…” contenuta nell’articolo 2 della nostra Costituzione che in filosofia politica si definisce “suiddita”,ovvero la centralita del soggetto persona,non piu lo stato che accetta o che addirittura concede,ma uno stato che si ferma di fronte al riconoscimento della consistenza ontologica dell’uomo e lo spirito di mediazione che lo statista Andreotti avrebbe dimostrato nei decenni successivi era erede di quel breve ma intenso periodo degli anni quaranta,mettendo sempre al primo posto non gli interessi personali o il trionfo elettorale,ma la promozione dell’uomo:la politica come servizio!

Prof. Giulio ALFANO (Pontificia Università Lateranense)

https://www.istitutomounier.it/ricordando-giulio-andreotti-la-politica-a-servizio-della-persona/

 

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