è stato eletto al Senato nella XIV^ e XV^ legislatura
già Segretario della Presidenza del Senato
nella XVa Legislatura
ritratti politici
Una delle ultime foto all'Istituto
Luigi Sturzo.
Amici, avversari, visioni politiche
diverse e a volta contrastanti, ma la storia comune dalla
gioventù universitaria alla Università Cattolica di Milano
fino alla senilità a conclusione di un rilevante impegno
parlamentare per la affermazione di ideali comuni, non si
possono cancellare.
Era poco più che maggiorenne quando Enea Piccinelli, presidente del centro
giovanile di azione cattolica della Diocesi di Pitigliano (Grosseto), inforcò la
sua fiammante Lambretta per avventurarsi nelle strade che dal Monte Amiata
portavano alla Maremma. Strade bianche, polverose d'estate, fangose d'inverno, i
cui tornanti erano stati disegnati nei secoli dai pastori transumanti
provenienti dal Casentino e dalla Val Tiberina.
Fu per lui una esperienza che non avrebbe mai scordato. La povertà, che pure
abbondava nella montagna amiatina e non mancava nei paesi collinari della Valle
dell'Albegna, mano a mano che si scendeva verso la pianura, diventava nerissima
miseria.
Il giovane Enea, rientrato a Piancastagnaio (Siena) dove era nato il 9 ottobre
1927 e risiedeva narrò la grande desolazione e solitudine umana che lo aveva
colpito piuttosto che le immagini pittoresche di butteri, cavalli selvaggi e
mandrie dalle lunghe corna che la parola Maremma evocava. Né poteva nemmeno
lontanamente immaginare che, negli anni successivi, il suo impegno politico
nella Democrazia cristiana gli avrebbe fatto giocare un ruolo tale da collocarlo
tra i protagonisti del "riscatto" di quel territorio e della sua gente.
Amintore Fanfani girava in lungo e in largo la propria circoscrizione
(Siena-Arezzo-Grosseto) non solo per mantenere vivo il rapporto con gli
elettori, ma anche per verificare con l'ascolto e "de visu" gli effetti sul
territorio dei provvedimenti governativi. Nè mancava, allo stesso tempo, di
svolgere una qualche attività di "scouting "per individuare giovani promesse da
formare politicamente.
Il giacimento più fecondo era, allora, quello dell'azione cattolica, specie in
quei luoghi dove la fede, l'insegnamento della dottrina sociale della Chiesa
cattolica e la cura del rispetto e dignità della persona umana erano affidati a
sacerdoti di grande carisma come era il caso di don Girolamo Vagaggini per la
Diocesi di Pitigliano (Grosseto).E proprio a Pitigliano avvenne l'incontro di
Enea con il Ministro Fanfani che rimase favorevolmente impressionato da quello
"spilungone" che gli rendeva non meno di trenta centimetri in altezza.
Così, quando venne a sapere che quello "spilungone" era in procinto di
trasferirsi a Roma per esercitare la professione di avvocato, lo invitò a
frequentare "Nuove Cronache", il periodico da lui fondato dopo che Giuseppe
Dossetti aveva chiuso "Cronache sociali "ritirandosi dalla politica per
approfondire il dono della fede nella meditazione monastica.
Nacque così e trovò nuovi stimoli formativi una impegnativa collaborazione nella
quale il giovane avvocato palesò le sue non comuni qualità, tanto che Fanfani,
diventato dopo il congresso di Napoli (1954) segretario politico nazionale, lo
designò come commissario del comitato provinciale di Grosseto precipitato in
crisi. Fu un atto di grande fiducia così ben riposta che, quando Fanfani venne
rieletto segretario politico nazionale (1973-1975) lo volle come capo della
segreteria politica.
Il neocommissario proveniente da Roma quando scese dal treno alla stazione di
Grosseto non trovò ad accoglierlo cori festanti. Sapeva che il compito
affidatogli non era facile. Con decisione e autorevolezza, rimboccandosi le
maniche, prese in mano la situazione. Registrò presso il Tribunale di Grosseto
un periodico "Cronache Maremmane "che avrebbe dovuto essere il diario della
rinnovata presenza della Democrazia cristiana nella Maremma e nell’Amiata.
Eravamo nel pieno dell'attuazione della riforma agraria. Gli interventi
governativi avevano trasformato la provincia in un cantiere a cielo aperto. Era
il colpo di maglio assestato ad una economia depressa, condannata dai grandi
latifondi a un immobilismo secolare e senza speranze.
Ripercorrendo quegli anni attraverso la lettura di "Cronache Maremmane" è
palpabile la forza propulsiva impressa al partito inteso come rete d'ascolto
solidale e strumento partecipativo per promuovere insieme idee e progetti che
rendessero la vita migliore. L'arretrato sociale era enorme. Non si chiedeva il
superfluo, ma si lottava per ottenere l'essenziale: la luce elettrica, l'acqua
potabile, la strada, la scuola, l'ambulatorio medico, la cabina telefonica.
Piccoli passi concreti, considerati vittorie da chi, da sempre dimenticato,
cominciava a sentirsi soggetto attivo e partecipe alle scelte per la comunità.
Questo grande impegno collettivo fu premiato alle elezioni politiche del 1958 e
Piccinelli alle elezioni del 1963 (quarta legislatura) fu eletto deputato al
Parlamento. Una elezione che si ripeté con crescente fiducia nelle legislature
successive fino all'ottava (1983), quando con atto di coerenza e generosità
rinunciò a candidarsi per favorire ("rara avis") il ricambio generazionale.
Avrebbe potuto dare ancora molto. Venti anni di presenza in Parlamento, per i
suoi elettori un punto di riferimento di grande spessore morale e garanzia di
ascolto. Una storia esemplare di iniziative, di presenza, di servizio anche nei
luoghi più sperduti e lontani della vastissima circoscrizione. Era stato
definito il parlamentare della Maremma e dell'Amiata, ma la sua disponibilità
non gli aveva mai fatto dimenticare gli elettori e amministratori locali senesi
e aretini. Chiamato a responsabilità di Governo (Sottosegretario al lavoro nel
quarto e quinto Governo Andreotti) aveva esercitato le alte e delicate funzioni
con riconosciuta capacità e rispetto istituzionale senza che mai, neppure
un'ombra sfiorasse il suo operato.
Proprio in questi giorni, cinquanta anni fa, si concludeva l'iter parlamentare
della legge Piccinelli n.780/1985 che recava nuove norme per rendere
l'accertamento e l'indennizzo della silicosi il più rapido possibile. Le
precedenti norme si erano dimostrate più un ostacolo che un aiuto
all'accertamento di una malattia professionale devastante, tipica dei minatori,
ma non solo. Migliaia di famiglie in Italia (3000 nella sola provincia di
Grosseto) attendevano da anni questo atto riparatore di giustizia sociale.
Allora si commentò che era un giorno felice per il Parlamento perché quelle
semplici norme rappresentavano l'espressione più pura e più vera di umanità e
civiltà.
Da molti anni ormai le miniere sono chiuse in tutto il Paese, ma si continua a
morire di silicosi e malattie professionali vecchie e nuove continuano a mietere
vittime
Sarebbe di grande significato se nel cinquantesimo dell'entrata in vigore della
legge Piccinelli n.780/1975 un Convegno ne ripercorresse la storia rinnovando la
sensibilità per un problema, quello delle malattie professionali, purtroppo
ancora di grande attualità.
Hubert Corsi
SILVIO LEGA:
ricordarlo nel migliore dei modi, con un sorriso
Provo una certa ritrosia a portare
una testimonianza che mi coinvolge sul piano personale, perchè mi riporta
addirittura agli anni dell'adolescenza e mi costringe, quasi su un lettino da
psicanalista, a ricordare i percorsi di una vita fatta di alti e bassi nei
confronti di chi ricordo: Silvio Lega.
In secondo luogo penso di
allontanarmi dalle altre commemorazioni che non ho letto, per semplice mancanza
di tempo, e che immagino più distanti sul piano emotivo e personale.
In terzo luogo sono convinto che
poco serva ricordare che cosa sia stata la Dc: credo si possa far ripartire la
Dc, ma su altri piani: una Dc nuova, in continuità ideale con quella vecchia, ma
che declini i tempi attuali, tanto lontani da quelli in cui la balena bianca
vinceva le elezioni, facendo tesoro degli stessi principi di base ma
trasformandoli in una progettualità capace di tenere uniti gli interessi in nome
di un bene più prezioso: il senso progressivo della vita che si sviluppa
all'interno di un disegno provvidenziale, come ben ci seppe narrare un
cattolico-liberale come Alessandro Manzoni. Ma con modalità diverse rispetto
alle quattro generazioni di democristiani che si sono succeduti tra il 1943 ed
il 1994.
Appartengo alla quinta di queste
generazioni, triturata dallo scioglimento di Martinazzoli e dalle successive
innumerevoli diaspore, alcune delle quali indegne del nome stesso della
Democrazia Cristiana.
Silvio Lega ci fu sempre, fino al
tentativo del 2014, al Palaeur di Roma, di rimettere in piedi la Dc.
Egli apparteneva alla quarta
generazione.
Ma veniamo all'inizio e non alla
fine di questa condivisione.
Ero un ragazzino appena entrato al
Liceo Classico Massimo D'Azeglio, il più prestigioso di Torino, quando incontrai
la politica ancor prima delle traduzioni dal greco e dal latino.
Aperti i portoni della scuola era
subito occupazione, assemblea, collettivo, elezioni studentesche previste dai
decreti decreti delegati ed elezioni alternative ai decreti stessi promosse
dagli estremisti di sinistra.
O facevi politica, o subivi la
politica.
In quell'istituto erano
rappresentati tutti i partiti (Psdi e Pdup compresi, altrove assolutamente
minoritari se non assenti): scelsi la Dc per una ragione molto semplice, i
democristiani presenti al D'Azeglio mi sembravano i più seri ed equilibrati tra
quanti salivano sul palco dell'aula magna e procedevano alla enucleazione, quasi
quotidiana, dei loro intendimenti. Tra questi voglio ricordare Marco Camoletto,
bodratiano, poi confluito nel Pd, di cui non condivido gli ultimi passaggi
riconducibili ad una visione remissiva dei propri principi, ma che mi sembra
giusto citare come esempio di lucida intelligenza.
Ma ero un simpatizzante
democristiano che innanzitutto lavorava per la lista della scuola, non per
l'egemonia del partito nei vari ambienti (come faceva il Pci con la Fgci).
Come me tanti cattolici che, tra le
varie offerte, preferivano quella della nostra lista (Uds - Unione Democratica
Studentesca) e, alla fine, dopo tre anni di lavoro, ottennero la maggioranza
relativa al Consiglio d'Istituto del liceo rosso.
In questo raggruppamento era
presente, con un ruolo significativo, Luca Reteuna, cugino del Segretario
Provinciale della Dc di Torino, Silvio Lega, divenuto tale dopo la
debacle elettorale del 1975, nel corso della quale la Dc perse
contemporaneamente la guida del Comune di Torino, della provincia e della
Regione Piemonte.
Uno dei principali artefici della
nostra lista e nostro primo consigliere d'Istituto al D'Azeglio (l'anno
successivo sarebbe toccato a me questo ruolo piuttosto ambito e lusinghiero)
era, appunto, Luca con cui ho scritto a quattro mani il libro Appello Bianco -
Studenti cattolico democratici nell'anno della tragedia Moro, Effatà Editrice,
in cui ripercorriamo il nostro comune percorso studentesco e quello, collegato,
della militanza politica.
Luca mi propone ad un certo punto,
in quel periodo, di andare presso la sede della Dc torinese per incontrare suo
cugino Silvio, Segretario Provinciale, per incominciare a stare in politica non
solo al liceo, ma anche nella Dc.
Ero piuttosto scettico per questo
incontro con un doroteo, anzi un neo-doroteo, perchè Lega aveva sì rotto con la
classe dirigente locale che aveva portato il partito al collasso nel 1975, ma il
doroteismo restava sinonimo di compromessi di potere al ribasso e perchè
frequentavo con vivo piacere il Teatro Piccola Luce dove periodicamente Carlo
Donat Cattin aggiornava i cittadini sullo stato dell'arte della politica
nazionale.
Insomma, mi piaceva Donat - in
questo anche spinto da un mio zio sindacalista Cisl, naturalmente di Forze
Nuove, che mi avrebbe anche fatto anche conoscere l'Mcl di Sabatini, quando
l'Mcl si occupava di lavoro e non di traffici.
Silvio mi piacque, perché non aveva
nulla del notabile doroteo e gli anni e lo spirito che ci distanziavano non
erano molti.
Cominciai ad affiancare l'attività
nelle scuole con quella di partito.
Nelle scuole, perché, partiti dal
D'Azeglio, arrivammo in tutti gli istituti della città, grazie alla
collaborazione di un mondo cattolico e democristiano unito e compatto, pronto
per l'elezione dei distretti scolastici in cui erano presenti scuole statali e
scuole paritarie.
In una di queste la Rosa Luxembourg,
ragionieri, orientata a sinistra come indica con immediatezza il nome,
incontrammo Gabriella Pavesi Negri. Era un continuo passa parola ed una ricerca
di giovani cattolici e figli di democristiani per contrapporsi alla marea rossa
che avrebbe strumentalizzato la vittoria nelle scuole come ennesima prova che
esisteva una società civile contrapposta ad una società legale: il sole
dell'avvenire contro quello che in Italia si era fatto e si stava facendo per
rendere migliore la vita di tutti, ceti subalterni innanzitutto.
Gabriella sarebbe di lì a poco
diventata il punto di riferimento della macchina organizzativa per le
europee del 1979 in cui Silvio sarebbe diventato eurodeputato; quindi ne sarebbe
diventata la segretaria (e punto di riferimento nella sede della corrente in via
Montecuccoli a Torino), in seguito avrebbe sposato il fratello Carlo.
Tutto partì da quel biennio
esaltante e tragico al tempo stesso.
Tornando al colloquio col Segretario
provinciale neo-doroteo, che mi diede approfondite spiegazioni sul perché del
neo, decisi di aderire alla sua corrente, che era poi quella dell'amico Luca e
che sarebbe stata quella di Gabriella.
Incominciai, col prezioso sostegno
di Giuseppe Camoletto, a girare la provincia per coordinare i gruppi giovanili
vicini a Lega in vista di un congresso del Movimento Giovanile che si sarebbe
rivelato molto combattuto: tutti contro Lega, astro nascente della politica
torinese, ed i suoi amici, vecchi o giovani che fossero.
Vedevo spesso Silvio ed il 15 giugno
1978 ero con lui, ad un comizio che tenne con la consueta facondia ad Aosta,
quando giunse la notizia delle dimissioni del Presidente della Repubblica
Giovanni Leone, un uomo preparatissimo ed onesto travolto dalle calunnie messe
su da un sistema di potere finalizzato a colpire la Democrazia Cristiana e la
sua idea di benessere collettivo.
Era lo stesso disegno che portò al
rapimento e all'uccisione di Aldo Moro.
Silvio Lega era Segretario
provinciale nei giorni del rapimento ed in quello del ritrovamento del
cadavere di Moro in via Caetani.
Mirabile il suo comizio e la cornice
di pubblico che si raccolse attorno alla Dc il 9 maggio in piazza San Carlo. Non
c'ero perchè mio padre mi proibì di scendere in piazza convinto che sarebbe
successo qualcosa di molto grave: dovetti scegliere tra l'ansia di un padre, che
aveva conosciuto la Resistenza, e la voglia di essere tra quanti riempirono
quella piazza.
Ma Lega non era soltanto il
Segretario provinciale dei grandi eventi luttuosi.
Lanciò in quei mesi il Progetto
Torino, attorno a cui chiamò a raccolta con successo tutte le forze economiche
significative della città, dall'Ascom di Giovanni Salerno, alla Camera di
Commercio di Enrico Salza, alla Fiat di Umberto Agnelli e Luca Cordero di
Montezemolo.
Il concetto era semplice ma
efficace.
La Torino fordista stava finendo (lo
diceva a fine anni Settanta), anche se Fiat costruiva in quel momento il suo
centro direzionale in Corso Ferrucci con tanto di pista per elicotteri (che
infatti non sarebbe mai stata utilizzata).
Occorreva affiancare al settore
manifatturiero un terziario avanzato, di supporto alla produzione, la quale
sarebbe, però finita altrove.
Anche il commercio si sarebbe
evoluto verso quelli che sarebbero poi divenuti i centri commerciali, giusti
nell'idea ma pessimi nella realizzazione effettuata.
Si Iniziava a capire la necessità di
supportare gli anziani e l'importanza della tenuta del servizio sanitario
nazionale.
Inoltre, la crisi di Milano apriva
in quegli anni importanti spiragli per Torino anche nel comparto finanziario ed
assicurativo.
Le sue intuizioni non vennero
seguite, ma restano un esempio di un'intelligenza anticipatrice dei tempi.
Alle prime elezioni europee con
designazione dei deputati attraverso il suffragio diretto, Silvio Lega venne
eletto a Strasburgo giungendo sesto sugli otto eletti della Dc nel Nord-ovest.
Un successo difficilissimo,
conseguito grazie ai suoi meriti ed al suo radicamento nella società piemontese,
ma anche a quel gruppo di giovani volontari che diedero molto in termini di
passione e di entusiasmo al raggiungimento di un obiettivo non scontato.
Donat Cattin gli aveva preconizzato
che non sarebbe diventato eurodeputato neanche se avesse concesso sè stesso a
tutta Torino (i termini erano molto più triviali, ma permessi al leader della
sinistra sociale democristiana).
Fu anche il mio primo voto quello
per le europee del 1979. Anzi il secondo, perché la settimana prima si era
votato per le politiche.
Alla Camera avevo votato Donat
Cattin, per Strasburgo fu la volta, finalmente, di Lega.
Dopo la sua elezione si andò, l'anno
successivo, al Congresso provinciale di Torino del Movimento Giovanile Dc,
quello che stavamo preparando da un anno (era difficile celebrarlo perché le
contrapposizioni interne portavano sempre a nuovi rinvii, in una situazione di
Commissariamento).
Tutti contro Lega era la sintesi
della volontà congressuale dei giovani, alcuni dotati di propria personalità,
come Giorgio Merlo, Rodolfo Buat ed Antonello Angeleri, altri eterodiretti.
Pazienza.
Feci la minoranza in solitario ma,
dopo alcuni mesi, venni ricompreso in una gestione più aperta, grazie ai
rapporti umani e personali che non vennero mai meno con gli altri coscritti.
Nel frattempo, alle comunali ed alle
regionali del 1980, il gruppo Lega portò al comune di Torino Giampaolo Zanetta
ed alla Regione Piemonte Mario Carletto.
Era necessario completare la
rappresentanza nelle istituzioni in una situazione in cui il potere aveva il suo
peso.
Di quegli anni vale ancora ricordare
che Silvio Lega rimase coerentemente doroteo a livello nazionale, con Rumor,
Gullotti e Piccoli e, durante la stagione del rinnovamento voluta da Zaccagnini,
appoggiò Zac.
Quindi restò sempre lineare con la
sua impostazione moderata e rinnovatrice al tempo stesso.
Vennero gli anni dell'ulteriore
crescita della corrente.
Anche perché, nell'altro versante
della Dc torinese, non vi erano più soltanto Bodrato e Donat Cattin, ma stava
crescendo Vito Bonsignore, andreottiano, sia nei consensi che nel peso politico.
Per rimpinguare le fila
neodorotee Lega arruolò Agostino Angeleri, che probabilmente chiese il mio
scalpo all'interno della corrente perché il giovane di riferimento doveva essere
il figlio Antonello, allora consigliere comunale, con cui intrattengo ottimi
rapporti, ma che avevo commissariato, sostituendolo, al vertice del Movimento
Giovanile di Torino, anche grazie al sostegno che mai mi mancò di Pierferdinando
Casini, leader dei giovani dorotei dell'epoca.
Così lasciai la corrente di Silvio e
tutti scommettevano che sarei approdato a quella di Rossi di Montelera o di
Bodrato per il vezzo culturale che mi caratterizza nell'impegno politico.
A sorpresa, scelsi Bonsignore.
Un po' per ripicca (se ce l'hai col
Milan scegli l'Inter non l'Atalanta) e, soprattutto, perché ebbi modo di
conoscere e stimare Bonsignore che, per alcuni aspetti, riprendeva
l'impostazione originaria di Lega: quella del Progetto Torino.
Bonsignore la chiamava
modernizzazione della città.
Pur nel dualismo tra Lega e
Bonsignore che caratterizzò la Dc degli anni Ottanta, va detto che entrambi
promossero (assieme al socialista La Ganga ed al liberale Altissimo) un percorso
di rinnovamento urbanistico di Torino culminato col nuovo piano regolatore,
l'interramento della ferrovia Torino-Milano all'interno della città e la
promozione dell'Alta Velocità ferroviaria. Senza dimenticare l'ultima autostrada
realizzata in Piemonte, la Torino-Bardonecchia, che è una tratta della
Roma-Parigi e non un giocattolo per i borghesi di Torino per arrivare prima in
montagna (ci può stare comunque pure questo).
Erano gli anni in cui Bonsignore
contava su una forte maggioranza all'interno del gruppo consiliare al Comune di
Torino ed a lui va dato il merito di aver promosso questa fase, ma Lega non si
distaccò mai da una visione propositiva per lo sviluppo di Torino.
Lo avrebbero fatto i post-comunisti,
i fautori della decrescita felice e gli interessati alla fuga dai loro
stabilimenti previo lauto rimborso per la famiglia e grane ridotte al minimo,
sempre per la nota cerchia.
Una delle ultime riunioni che feci
in via Montecuccoli fu durante la visita agli amici da parte di Antonio Gava:
era il nuovo capo doroteo e non mi fece una bella impressione.
Ma ormai contava la corrente del
Golfo nel centro del centro della Dc.
Incrociai fugacemente Silvio Lega
nei vari successivi congressi della Dc che erano comunque talmente affollati da
permettere di non soffermarsi troppo a tu per tu se ne aveva una specifica
ragione.
Vidi Silvio all'assemblea
provinciale di Torino di trasformazione della Dc in Ppi a fine 1993 quando, alla
Galleria d'Arte Moderna, abbandonò con ostentazione ed un certo clamore la
riunione. Non avrebbe seguito Martinazzoli, ma sarebbe stato tra i promotori del
Ccd.
Io rimasi nel Ppi, convintamente
lontano dalla Sinistra, ma perplesso su quanto avrebbe potuto fare Berlusconi
per il bene della politica.
Ricevetti, in modo assolutamente
inaspettato, nel 2014, una convocazione da parte del fedelissimo di Lega, Sergio
Deorsola, già consigliere provinciale e regionale, che mi fece innanzitutto
piacere perchè significava che l'amicizia di tanti anni aveva ancora un
significato, nel corso della quale si prospettava l'idea di far ripartire la Dc.
Era la preparazione del congresso
dell'Eur, che avrebbe portato Gianni Fontana alla Segreteria della Dc e Silvio
Lega alla Presidenza.
Come è noto il congresso fu
annullato, ma per me fu una delle ultime occasioni per rivedere Silvio e
scambiare alcune considerazioni sul futuro della politica.
La sua idea non era tanto quella di
riattivare il vecchio partito della prima repubblica, ma di creare una sorta di
fondazione o di think-tank che potesse illuminare il percorso della crisi
dell'Occidente e della democrazia che stiamo ormai vivendo in maniera palpabile.
Ancora una volta, si dimostrava
intuitivo e lungimirante.
In questo, forse, le presunte o vere
risorse nascoste della Dc sarebbero state di una certa utilità, ma anche di
questo solo lui poteva averne contezza.
Gli altri, mi sembra, avessero al
proposito soltanto idee confuse.
Tuttavia, prima della spaccatura tra
Ccd e Ppi Silvio Lega, ormai tra i leader o addirittura il leader della corrente
Alleanza Popolare, meglio nota come Grande Centro, avrebbe dovuto sostituire il
dimissionario Forlani.
Siamo al 17 luglio 1992, ma il 18
luglio venne raggiunto da un avviso di garanzia in grado di vanificare questo
estremo tentativo di rinnovamento delle Dc.
Era la giustizia ad orologeria, cui
non seguì alcuna condanna.
So di un armadio in casa sua
sigillato per anni in segno di palese intimidazione, ma inutile per qualsiasi
indagine.
Se Lega fosse diventato Segretario
sono certo che, con la sua dialettica eccezionale ed la prontezza a cogliere in
maniera critica ed autocritica i fenomeni reali, avrebbe salvato il partito.
Avrebbe bucato il video, sarebbe
stato un leone nei talk-show che ormai stavano diventando il termometro della
politica.
Non avrebbe preteso sconti e
benevolenza, come non aveva mai fatto, persino quando si scagliò contro il
direttore de La Stampa Arrigo Levi, sempre ostile alla Dc, con apprezzamenti non
riportabili.
Però avrebbe dimostrato che la
Democrazia Cristiana aveva ancora una ragione di esistere e di rappresentare, se
non la maggioranza degli italiani, perlomeno una parte consistente di essi.
Avrebbe offerto una speranza ai suoi
ed una preziosa indicazione politica agli altri.
Oggi, la Dc nuova di Cuffaro, a
Torino, ha ricostituito una sede nel quartiere in cui Silvio è nato ed ha
vissuto per molti anni.
A lui è dedicata questa sezione ed
il suo ritratto sorridente campeggia sulla parete in suo ricordo.
E' il poco che i democristiani di
quinta generazione possono fare per non dimenticarlo.
E per ricordarlo nel migliore dei
modi, con un sorriso
Mauro Carmagnola
GUIDO CARLI:
il lancio dell'economia italiana sul piano internazionale
Guido Carli nacque a Brescia il 28
marzo 1914 e morì a Spoleto il 23 aprile 1993. Economista e politico, fu una
figura centrale della vita istituzionale ed economica dell'Italia del secondo
Novecento. La sua carriera si è estesa per decenni, durante i quali ha avuto
un'influenza significativa sull'economia e la finanza italiana, contribuendo
alla modernizzazione del sistema economico del Paese.
Nel 1953 fu nominato Ministro del Commercio con l'Estero e nel 1959 Direttore
Generale della Banca d’Italia. Nel 1960 fu Governatore della medesima Banca
d'Italia, ruolo che mantenne fino al 1975. Con Paolo Baffi, il consigliere
economico della Banca nominato direttore generale, che nelle sue memorie Carli
definisce l’«intelligenza critica al [mio] fianco», e con la vigile e
intelligente collaborazione di Antonino Occhiuto, nominato vicedirettore
generale addetto al funzionamento della complessa macchina della Banca centrale,
Carli completò il lancio dell’economia italiana sul piano internazionale.
Il periodo era caratterizzato da
profonde trasformazioni economiche e la gestione della Banca d'Italia fu
caratterizzata da un approccio rigoroso e da una forte difesa della stabilità
della lira, in un contesto internazionale sempre più complicato.
Nel giugno del 1975 presentò le dimissioni dall’incarico di governatore e lasciò
la Banca il 18 agosto 1975.
Nel 1976 divenne presidente dell’Impresit International e, in questa veste,
accogliendo la proposta di Gianni Agnelli, accettò di diventare presidente della
Confindustria, in presenza di una grave crisi economica e della conseguente
crisi sociale.
Attività Politica
Dopo aver lasciato la Banca
d'Italia, Carli intraprese una carriera politica attiva. Fu Senatore della
Repubblica Italiana dal 1983 al 1992 nella IX e X Legislatura.
Dal 1989 al 1992 ricoprì la carica di Ministro del Tesoro durante il VI e VII
Governo Andreotti. In questo ruolo, Carli si trovò ad affrontare una delle crisi
economiche più gravi nella storia recente dell'Italia, caratterizzata da un
forte debito pubblico e da una crescente pressione internazionale per una
riforma economica. Carli fu uno dei principali artefici delle politiche di
austerità che cercarono di stabilizzare l'economia italiana e preparare il Paese
all'ingresso nell'Unione Europea e, successivamente, nell'euro.
È stato il ministro del Tesoro che negoziò e, poi, firmò il Trattato di
Maastricht che, nel 1992, portò l’Italia sulla strada della moneta unica
europea.
Eredità
Guido Carli è ricordato come uno
degli economisti e banchieri più influenti nella storia dell'Italia
contemporanea. La sua visione economica e il suo rigore amministrativo hanno
lasciato un'impronta duratura sulle istituzioni italiane. Guido Carli è stato
una figura centrale nel panorama economico e politico italiano, con un'influenza
che si estende ben oltre la sua epoca, lasciando un'eredità che ancora oggi
viene studiata e ammirata.
Per 13 anni restò alla guida del
Movimento femminile della DC, per circa cinque anni restò in carica come
Ministro della Pubblica istruzione. In entrambi i casi una longevità non
comune. Franca Falcucci è stata una personalità di spicco del panorama politico
della prima Repubblica, protagonista di una vasta e complessa attività, sul
piano politico ideale e realizzativo. Fu delegata nazionale del Movimento
Femminile, senatrice, sottosegretario e poi Ministro della Pubblica istruzione,
Presidente della Sezione italiana e membro del Consiglio europeo dell’Unione
europea femminile.
Gli esordi
Nell’immediato dopoguerra
rappresentò nella CGIL la corrente sindacale cristiana nella Commissione
femminile nazionale dal 1946. Aveva maturato l’interesse per la politica durante
gli anni del liceo, quando il fratello di una compagna di scuola l’aveva messa
in contatto con i gruppi democristiani clandestini che frequentò fra il 1940 e
il 1944. Quando cominciò ad avere contatti con i gruppi clandestini della Dc,
lei stessa affermò, «riconobbi in questo movimento le ragioni profonde ed i
valori che avevo maturato nel mio animo, come presupposto del mio impegno
politico».
Nel Movimento Femminile della DC
Iscritta nel 1944 alla sezione
DC di Trastevere, cominciò non ancora diciottenne la sua attività nel partito
della DC. Nel 1945, con Clelia D’Inzillo, fu fra coloro che vennero chiamate “le
ragazze della Maraglio”, instancabile organizzatrice di leve femminili. Nel
marzo del 1947, al secondo congresso nazionale del MF della DC venne eletta nel
Comitato centrale. L’allora delegata nazionale Maria De Unterrichter Jervolino,
la nominò nel 1951 incaricata delle giovani. Nel primo convegno delle giovani
democristiane che si svolse a Roma dal 22 al 24 ottobre del 1950, preparato
sulla base di un vasto lavoro di indagine sulla condizione giovanile, svolto in
ottanta province, Falcucci tenne la relazione principale dal titolo Istanze
della nostra età «la civiltà moderna
[affermò], come conseguenza di una evoluzione sociale e tecnica, offre al
giovane un’ampia possibilità di realizzare sé stesso. Questa evoluzione
porterebbe a delle gravissime disarmonie se ogni uomo, specie se giovane, non
sentisse di dovervi partecipare con una presenza cosciente. Questa presenza si
concreta in una sincera realizzazione della propria personalità (…)».
L’accento posto sulla realizzazione
della “persona umana”, ispirata al pensiero di Mounier segnava, in quegli anni,
l’apertura di un nuovo spazio di riflessione, soprattutto fra le avanguardie
giovanili, sul concetto cristiano della dignità femminile concepito nei termini
più ampi della realizzazione della donna come persona e come soggetto di
responsabilità. Insegnamento, questo, appreso nella pratica sotto la guida di
Maria Iervolino. Questo concetto diede senso, spessore, coerenza alla sua azione
politica. D’altronde ella stessa affermò, in una intervista a Tiziana Noce,
«Dossetti, Fanfani hanno contribuito tantissimo alla mia formazione, non
parliamo di De Gasperi. (…) e ricordo che soprattutto nei primi anni era forte
l’influenza degli autori francesi, di Maritain di Mounier».
Delegata nazionale del MF
Venne eletta delegata
nazionale al X congresso di Roma, nel 1964. Come ha affermato Paola Gaiotti, fu
un periodo in cui il MF conobbe un notevole salto di qualità anche nei dibattiti
politici che animarono gli anni Sessanta. L’evoluzione della società metteva in
evidenza i limiti di una pura parità giuridica, c’era il tema irrisolto del
diritto di famiglia, sul piano del costume venivano alla ribalta le questioni
della moralità sessuale, dell’inserimento professionale paritario. Il 1964 era
anche l’anno in cui Paola Gaiotti De Biase pubblicava su Donne d’Italia il suo
articolo dal titolo La questione
femminile è una questione nazionale.
L’approdo a questa consapevolezza era stata parte integrante dell’azione del MF
nel suo ruolo essenziale di formazione, di studio, di sollecitazione verso il
partito e verso l’opinione pubblica sui temi femminili, nella convinzione che
solo un impegno responsabile del Paese avrebbe potuto avviarne la soluzione.
Una guida equilibrata, ferma e
autorevole. Così emerge la sua leadership nel MF. Seppe tenere unito il
Movimento in momenti difficili, contenendone spinte centrifughe che avrebbero
compromesso anche l’unità del partito, ma senza rinunciare per questo a far
sentire la propria voce, anche di dissenso rispetto ai vertici. Con un cambio
generazionale, Franca Falcucci succedeva alla dorotea Elsa Conci. L’allora
segretario politico della DC Mariano Rumor accolse con favore la sua elezione ma
non fu la vicinanza alla maggioranza del partito a determinare di per sé un
salto di qualità del MF anzi, la presenza femminile fra le elette, anche negli
organi del partito, restò esigua.
Ma ben lontano dall’appiattirsi
sulle posizioni maggioritarie, la guida Falcucci vide istanze sempre più
critiche rispetto ai pericoli delle derive correntizie del partito e sui grandi
temi che agitavano le coscienze soprattutto femminili in quegli anni, in
particolare sulle politiche riguardanti la famiglia. Durante gli anni Sessanta
erano nati vivaci fermenti provenienti dalla base, dalle sezioni provinciali
femminili. Si lamentava una sorta di delega fiduciaria della direzione DC sui
temi femminili, di cui si occupava solo il MF. Era, però, difficile stabilire
quanto questo significasse un autentico segnale di fiducia da parte del partito
o un modo per defilarsi da un impegno organico verso la questione femminile,
soprattutto con riguardo alla famiglia.
A farsi portavoce dei malumori fu
Franca Falcucci in una lettera a Mariano Rumor. A scatenare le rimostranze di
Falcucci era stato il contegno del partito di fronte al problema della riforma
dei codici relativamente al Diritto di famiglia. Alla fine del 1968 il governo
presieduto dallo stesso Rumor, dovendo fronteggiare l’avanzata del fronte
divorzista, predispose una commissione di esperti in materia. Il MF puntò sulla
partecipazione ai lavori di Tina Anselmi che, consigliera nazionale della Dc dal
1959, era già una personalità di rilievo nel partito, impegnata costantemente
sui temi della famiglia e del lavoro femminile.
Le aspettative vennero presto deluse
perché nella commissione del governo non venne inclusa nessuna donna
democristiana, pur essendo il partito a conoscenza del fatto, come scrisse
Falcucci, che il MF era stato «l'unico settore che in questi anni ha
approfondito, con la collaborazione di giuristi, i problemi connessi alla
riforma del diritto di famiglia», formulando anche proposte concrete. Il
crescente malcontento non tarderà a manifestarsi al congresso nazionale di
Maiori nel settembre del 1969.
Il XII congresso delle donne DC
venne incentrato sul tema “Democrazia e partecipazione”, erano presenti 420
delegate. Già osservando i documenti preparatori, il congresso si preannunciava
ricco di fermenti ed elementi di dibattito, qualche delegata aveva proposto di
inserire nell’odg dei lavori anche la questione del cattolicesimo del dissenso,
iniziativa prontamente dissuasa dalla delegata nazionale.
L'ultima giornata assunse toni
accesi e vide interventi polemici. Quelli più palesemente contestatari verso i
vertici del partito furono quelli di Paola Gaiotti De Biase e di Maria Paola
Colombo Svevo. In particolare, riferendosi al partito, le argomentazioni di
quest’ultima facevano perno sul fatto che una ristretta minoranza detentrice del
potere e persuasa, «con scarso senso della realtà, di esercitarlo bene», metteva
fuori gioco tutte le spinte provenienti dalla base: «Non intendiamo operare una
rottura delle istituzioni esistenti. Vogliamo però che il sistema subisca un
cambiamento. Vogliamo partecipare ai livelli decisionali». Colombo Svevo
contestò anche la dirigenza del MF, troppo timida nel proporre al partito il
vero punto di vista femminile tant’è che, ironizzò Svevo, i documenti del Mf
erano «approvati sempre all’unanimità».
L’altro elemento di frizione tale da
rasentare la spaccatura, si manifestò in occasione del dibattito sulla
introduzione della legge sul divorzio. Molte delegate, soprattutto le giovani,
si dichiararono favorevoli al nuovo istituto giuridico ma dichiararono al
contempo di volersi uniformare alla disciplina del partito «per rispetto della
maggioranza», una motivazione da cui risultava assente il fattore
religioso-sacramentale che pure era al centro del dibattito all’interno del
mondo cattolico. Fu opera delicata e complessa quella di Falcucci, ma riuscì a
riportare ad un clima sereno la discussione che si concluse, non senza
difficoltà, con la sua rielezione a delegata nazionale.
Senatrice
Da senatrice si spese energicamente
contro l’approvazione della legge sul divorzio nonché sul tema della riforma del
diritto di famiglia. La presentazione della legge Fortuna provocò un terremoto
all'interno dei partiti di Governo. Al principio di giugno del 1969 si riunì a
Roma la Direzione nazionale del partito per discutere la questione. L'intervento
di Franca Falcucci fu cauto e si limitò ad esporre le ragioni per le quali
andassero respinte le tesi divorziste. Falcucci affermava che non era la
coercizione del diritto a preservare l'unità della famiglia. Il diritto doveva
costituire semmai il punto di riferimento positivo della coscienza civile del
paese, che non poteva non avvertire la gravità dell'indebolimento della
famiglia, soprattutto in un periodo in cui la crisi dei valori umani appariva
così profonda.
L'introduzione del divorzio avrebbe
segnato non solo l'affermarsi di una legislazione, ma anche di una “concezione
divorzista” e quindi «una spinta positiva alla disgregazione della famiglia». In
quella battaglia, che pure rivelò la distanza della DC dal riconoscere il
sentire del Paese, le istanze della società, le democristiane non rinunciarono
alla propria identità culturale di riferimento, quella cattolica, che ne
definiva in parte anche l’identità e l’azione politica.
L’atteggiamento con cui le
democristiane arrivarono all’appuntamento e vissero i grandi rivolgimenti degli
anni Settanta andrebbe analizzato più che misurando il grado di dissociazione
fra fede/religiosità e prassi sociopolitica, tenendo conto del grado di
problematicità conferito a tale rapporto. In cui gli stessi orientamenti
pastorali dei vescovi, più che contraddetti, venivano filtrati dalla coscienza
personale delle singole donne.
Al Ministero della Pubblica
Istruzione
Franca Falcucci diresse il ministero
di viale Trastevere dal dicembre 1982 al luglio 1987 e per tutta la durata dei
governi a guida socialista. Nel dicembre del 1982, quando ottenne l’incarico di
Ministro nel breve governo Fanfani sostituendo Guido Bodrato, poteva vantare già
molti anni di esperienza all’interno del ministero, compresi cinque anni come
sottosegretario alla Pubblica istruzione a partire dal terzo governo Andreotti.
Nel campo scolastico e della educazione il suo nome è legato a interventi
decisivi. Nel 1974 il ministro della Pubblica istruzione Malfatti, nominò una
Commissione con l’incarico di svolgere un’indagine nazionale sui problemi degli
alunni con handicap, Franca Falcucci ne fu la Presidente.
Un anno dopo la commissione produsse
il cosiddetto “Documento Falcucci” che tuttora viene segnalato nella letteratura
di settore e negli studi storici come il più avanzato a livello europeo e
internazionale sulla disabilità. Il documento include di per sé, anticipandoli,
alcuni temi chiave di quella politica per l’infanzia che vede il passaggio della
persona di minore età da oggetto di protezione a soggetto di diritti che verrà
consacrata a livello internazionale nel 1989, con la Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti dell’Infanzia.
Dal Documento Falcucci discese la
legge 517/1977 sulla abolizione delle classi differenziali. L’integrazione
scolastica, per Falcucci, doveva essere considerata «un processo irreversibile»
perché «coerente con il fine proprio della scuola che è quello di promuovere le
potenzialità di ogni bambino, adeguando alle sue esigenze e alle sue possibilità
le metodologie più idonee per suscitare la vita le spinta dinamica che deve
alimentarne lo sviluppo».
L’integrazione scolastica dei
bambini con handicap fu il tema sociale, politico e culturale di Franca Falcucci
in quegli anni, fu un lungo cammino che avrà poi uno sbocco decisivo nella legge
quadro del febbraio 1992 n. 104. Questa legge fu promossa e sostenuta dalla
ministra per gli Affari sociali pro tempore Jervolino e seguita con assiduità da
Leda Colombini.
Franca Falcucci riconobbe in quella
legge del 1977 una conquista di tipo civile e culturale “Certo era cominciata
che gli handicappati in classe nessuno li voleva, c’erano molte resistenze. Il
problema non era dentro il mondo della scuola, ma fuori: culturale, nelle
famiglie. Però ci abbiamo lavorato molto, prima di fare la legge abbiamo
preparato a lungo il terreno; quindi, alla fine siamo riusciti a farla passare.
Ci fu un clima positivo, anche nella fase attuativa, che poi ho vissuto
direttamente, da Ministro>>. Era molto fiera di quella legge: «Ho sempre
creduto nella scuola come luogo dove si sviluppano le potenzialità delle persone
e nel diritto di tutti ad essere protagonisti della propria crescita».
Sono ormai diversi gli studi di
settore che segnalano la riforma della scuola elementare come uno dei risultati
più alti di Falcucci. La scuola elementare del 1985, quando furono approvati i
nuovi programmi scolastici, venne concepita come luogo di accoglienza
dell’alunno inteso come persona globale. La programmazione didattica prevista
dai decreti delegati, la libertà didattica e la professionalità del nuovo
maestro, grazie ai piani di aggiornamento, avevano lo scopo di rispondere a
questa sfida. La scuola come luogo di valorizzazione delle potenzialità del
fanciullo e della integrazione delle diversità.
Per questo la riforma prestò
particolare attenzione al tema delle disabilità, mettendo a frutto la
sensibilità politica e l’esperienza maturata da Falcucci, già testimoniate dalla
legge che nel 1977 aveva abolito le classi differenziali. La sua fu una politica
scolastica tesa al rinnovamento della scuola, pur rifuggendo il mito della
riforma organica. La sua immagine venne rappresentata, in quel tempo, come poco
adatta all’ansia di modernità che investiva il paese negli anni ’80.
Eppure, fu lei a introdurre
l’informatica nelle scuole. Fu sua la decisione di investire risorse pubbliche
materiali e intellettuali per introdurre gradualmente ma in modo diffuso le
applicazioni informatiche nel sistema scolastico. Per fare questo, furono
elaborati due piani sperimentali nazionali: il Piano nazionale informatico
(Pni), lanciato nel 1985 e il Progetto ‘92 per l’istruzione professionale che, a
partire dal 1988, avrebbe modificato radicalmente (anche sul piano culturale)
l’impostazione del settore.
La sua sensibilità normativa,
tuttora persistente nel nostro ordinamento, ha inaugurato la stagione di una
scuola aperta e inclusiva, della cultura della inclusione. È un tema su cui, lo
sappiamo, si misura la maturità di un paese democratico, la sua democrazia
sostanziale.
Stefania Boscato
MINO
MARTINAZZOLI E LA REINVENZIONE DEL CATTOLICESIMO POLITICO
Il
giovane Martinazzoli, conosciuto a Orzinuovi per la sua serietà e preparazione,
nel 1953 va in giro ad attaccare manifesti. O almeno così piace immaginarlo,
come un militante di altri tempi. La campagna elettorale mette a dura prova la
tenuta della maggioranza quadripartita, uscita vincitrice il 18 aprile di cinque
anni prima. Stavolta è diverso, De Gasperi ne esce sconfitto perché la sua
riforma elettorale, bollata come “legge truffa” secondo la definizione che
Stalin avrebbe suggerito in un colloquio a quattr’occhi con Pietro Nenni, non
passa. Il paradosso è che la coalizione delle forze di governo avrà comunque la
maggioranza assoluta dei seggi, senza tuttavia superare in percentuale la
fatidica soglia del 50 per cento. È la fine del centrismo, ed anche la fine di
De Gasperi: un ultimo tentativo di formare il governo gli riserverà l’amarezza
della bocciatura in Parlamento. I partiti alleati, per motivi diversi e
convergenti, ritenevano a quel punto necessario un diverso rapporto tra laici e
cattolici nel governo del Paese.
I manifesti di Martinazzoli non sono
quelli della Dc. A 22 anni, il futuro (e ultimo) segretario sceglie infatti di
schierarsi con Alternativa Democratica Nazionale, il partito fondato dal
liberale Corbino pochi mesi prima delle elezioni. Magro per Alternativa il
responso delle urne, appena lo 0,3% sul piano nazionale, ma quanto basta,
unitamente ai voti raccolti da altri minuscole formazioni politiche, per far
deragliare il progetto di stabilizzazione del “polipartito” (Dc, Psdi, Pri,
Pli). Era quanto prefigurato dall’iniziativa di De Gasperi, con la protezione di
un “centro” favorito dall’attribuzione del premio di maggioranza,
sostanzialmente libero dall’ipoteca delle “estreme” (non solo a sinistra, ma
anche e soprattutto a destra).
Errori di gioventù? Martinazzoli non ne ha
fatto mai menzione. Dopo quell’avventura entra nella Dc, si fa presto valere,
assume ruoli importanti: prima assessore ad Orzinuovi e dirigente di partito a
Brescia, poi Presidente della Provincia. Siamo nel 1970, due anni dopo approderà
a Montecitorio. La professione di avvocato gli aveva permesso d’inseririsi in
città nell’ambiente della buona borghesia cattolica, dove a tessere i fili delle
alleanze e delle iniziative nel tessuto civile ed economico arriverà presto il
notaio Giuseppe Camadini, pur nel contesto di una storia locale di matrice
laico-risorgimentale che aveva al centro la figura di Giuseppe Zanardelli.
Brescia vivrà per tutto il Novecento, anche nel periodo del Ventennio fascista,
sull’equilibrio tra cattolici e liberali. Neppure la Dc, forte in città e in
provincia di un largo consenso popolare, ne potrà ignorare la valenza.
Entrare nella Dc significava, in via
preliminare, mettere piede in una corrente. La vicenda di Martinazzoli non fa
eccezione, visto che il punto d’attrazione sarà quello della “sinistra
degasperiana”, vale a dire la Base. Questa nuova sinistra, sorta sulle ceneri
del dossettismo, è un luogo di confronto permanente: l’ideale per un avvocato
penalista, amante del teatro, abituato dunque alle arringhe nei tribunali e alla
malia del palcoscenico. De Mita un giorno chiederà ad Albertino Marcora, uno
degli esponenti nazionali della corrente e capo dei basisti lombardi, un
giudizio su di lui: “Mino? È un calligrafo della politica”. Insomma, un fine
cesellatore di perifrasi e aggettivi in un linguaggio perlopiù sofisticato.
Parlava sempre a braccio, ma non sbagliava una consecutio
temporis. Non era mai, il suo,
un discorso improvvisato (anche se così appariva i virtù di battute e silenzi
che trasmettevano ad arte un senso di immediatezza e casualità). Eppure, in
questo o quel passaggio poteva accadere che il pensiero risultasse ostico,
avvolto in un linguaggio oracolare, per molti aspetti allusivo. Tuttavia, quando
finì di parlare nell’ultimo congresso del 1989, celebrato in anticipo di qualche
mese rispetto alla caduta del Muro di Berlino, il Palasport dell’Eur venne giù:
venticinque minuti di applausi, sicuramente non orchestrati; commozione tra i
più giovani per l’esortazione a “non pensare il futuro come ritorno, ma di
pensare al nostro ritorno al futuro”; rispetto di una platea smaliziata che pure
avvertiva in quel momento tutto il suo carisma.
Perché Martinazzoli amava la parola?
Abbiamo detto della sua predilezione per il teatro, ma forse c’è qualcosa di
più. Anzi, c’è senz’altro qualcosa di più; un qualcosa di più profondo e ben
coltivato nell’intimo, evocativo di un appello etico. Ecco, gli si poteva
attagliare il monito di Huitzinga: “Con la svalutazione della parola, cresce, in
proporzione diretta, l’indifferenza verso la verità”. Non lo fece mai suo, forse
la frase non la conosceva, ma l’avrebbe condivisa certamente. Ma cos’è la
verità? Martinazzoli resta un politico, sempre, anche quando antepone alla
politica una motivazione più remota. La verità è una ricerca faticosa, per
questo esige misura e senso della realtà. Più che la scolastica adesione alla
dottrina sociale della Chiesa, vale per Martinazzoli l‘autonoma capacità di
mediazione tra messaggio evangelico e impegno politico. Siamo nel circuito della
scuola liberale cattolica, laddove primeggia la figura del Manzoni grande
letterato e del Manzoni sincero patriota (come non ricordare il suo voto da
Senatore a favore del passaggio della capitale da Torino a Roma, anche se in
contrasto con il Vaticano?).
Manzoni e Rosmini, dunque, sono i fari di
questo suo cattolicesimo liberale che pur sensibile alle istanze di moderazione
non è allineato, sul piano strettamente politico, alla tradizione moderata
lombarda, quella ad esempio di un Filippo Meda. Soccorre piuttosto, nelle
citazioni ricorrenti in varie circostanze, la feconda lezione del Tocqueville a
riguardo della “misura del potere”; una misura necessaria ad evitare che la
libertà, facendosi assoluta, trascenda nell’arbitrio e la democrazia, ergendosi
a pura sovranità di numeri, devii nel dispotismo della maggioranza. Qui sta il
punto più sensibile della visione che abbraccia il pensiero di Martinazzoli: se
la politica non è tutto, perché prima viene la vita, allora anche il potere, che
della politica è solo strumento, sebbene decisivo, non è tutto. C’è un orizzonte
etico, in sostanza, che rende l’agire umano confacente a un bisogno di
promozione, sia per la persona in quanto tale che per la comunità che ne
accoglie la presenza e l’operato.
S’è detto di lui che era uno “strano
democristiano”, diverso dagli altri, a buon conto per la distanza dai giochi di
partito e dalle trame di potere. Eppure fu parlamentare di lungo corso e
ministro per tre volte, a dimostrazione della capacità di porsi, nei momenti
più significativi della vita politica italiana, come punto di riferimento
essenziale di un mondo che andava misurando le difficoltà della Dc e per questo
incominciava a guardare avanti, fuori dall’orbita della rappresentanza di
partito. Questa spinta, infine, lo portò nella stanza più importante di Piazza
del Gesù. Doveva essere lui, il volto pulito di una Dc ormai sotto scacco dei
magistrati di Mani Pulite, a traghettare lo Scudo Crociato oltre le colonne
d’Ercole della Prima Repubblica. La sua storia di leader politico è fatalmente
concentrata nel poco tempo che ebbe a disposizione per questa impresa di auto
rigenerazione della Dc.
Volle tornare alle origini. A dargli
conforto con la sua autorevolezza di storico del popolarismo e di massimo
custode della memoria di Sturzo fu Gabriele De Rosa. Il 18 e 19 gennaio, le date
di fondazione del “vecchio” Ppi, nacque solennemente il “nuovo” Partito
popolare. Pochi mesi dopo si svolsero le elezioni politiche anticipate e
l’alleanza elettorale con Segni si attestò su un decorosissimo 15-16 per cento,
considerato tuttavia deludente da Formigoni e Buttiglione. E si dimise, con un
fax, destando stupore e irritazione. Spiegò così quel gesto clamoroso: “Volendo
analizzare criticamente l'esito elettorale, sull'Avvenire Buttiglione
chiedeva senza perifrasi: “Cosa fa un generale che ha portato ad una disfatta?
Va a casa”. A caldo, mi son sentito di replicare: “Cosa fa Martinazzoli, che non
è un generale, e ha tanta voglia di andare a casa? Va a casa”. Questo è tutto,
cos'altro dovevo fare?”.
Doveva resistere, anche per i molti che
avevano condiviso la sua battaglia. A maggior ragione possiamo dirlo oggi, con
lo sguardo rivolto al passato e con la mente aperta al domani, stilando
all’occorrenza un rendiconto che serva possibilmente alle dinamiche future.
Martinazzoli era ripartito da Sturzo, ma ha fatto come De Gasperi: se il primo
aveva raccolto i cattolici in un partito moderno, dirigendo il flusso spontaneo
di tante energie sparse sul territorio verso un esperimento unitario, senza
eccessive mediazioni; l’altro aveva plasmato la Dc come una nuova proiezione del
cattolicesimo politico, costruendo un ponte tra generazioni diverse e
amalgamando le diversità, sotto molteplici aspetti. Con lo spirito di chi non è
stato degasperiano - lo abbiamo visto su tutt’altre sonde nel 1953 -
Martinazzoli riprende tuttavia il lavoro che fece proprio De Gasperi: mise
insieme, come il leader trentino, i “pezzi” di un grande mosaico, chiamando al
suo fianco chi doveva rappresentare il legame con la Cisl (Marini) e le Acli
(Bianchi), con Cl (Buttiglione) e l’Azione cattolica (Monticone), con l’ambiente
della Cattolica (Balboni) e le donne più legate alla Chiesa del rinnovamento
post conciliare (Maria Eletta Martini). E altro ancora.
Cosa gli si rimprovera, di non aver
accettato la proposta di accordo lanciata da Berlusconi? O di aver sottovalutato
la polarizzazione della politica a seguito della riforma elettorale di tipo
maggioritario? O di aver decapitato, infine, molta parte della vecchia classe
dirigente, indebolendo la presa del partito sul territorio e generando un vuoto
di rappresentanza? Sono le critiche che più facilmente gli vengono mosse quando,
oggi più di ieri, ci si interroga sulla fine della Dc. È un dibattito aperto.
Resta il fatto che Martinazzoli colse nel successo del Cavaliere un elemento
strutturale di degenerazione - non a caso adattò al fenomeno berlusconiano il
giudizio di Gobetti sul fascismo come “autobiografia morale” della nazione - e
tracciò per questo una linea di demarcazione a salvaguardia dell’identità dei
popolari. Fece dunque una battaglia che costò sacrifici, lasciando tuttavia in
eredità il fatto dell’autonomia come requisito essenziale di una politica di
centro (per la quale fu prodigo di spiegazioni innovative rispetto al lessico
sturziano e degasperiano). Certo, di fronte all’urgenza di una svolta
moralizzatrice fu impietoso nell’azione di sradicamento della mala pianta della
corruzione all’interno del partito, ma non agì con la faziosità di chi sfrutta
le emergenze per l’utile suo e degli amici. Insomma, non ne trasse vantaggio.
A Martinazzoli si deve riconoscere il
merito di una tenace e originale “reinvenzione” - cosa che Moro avrebbe
apprezzato - dell’esperienza democratico cristiana. Nel suo orizzonte c’era la
traversata nel deserto e quindi, concretamente, l’inevitabile scelta
dell’opposizione. Era convinto che i valori di una grande tradizione, dove
confluivano oltre i “classici di partito” gli apporti di Rosmini e Manzoni, di
Tocqueville e Capograssi, di Mounier e Mazzolari, sarebbero tornati alla luce.
Il suo realismo non escludeva la speranza. Negli ultimi anni andò in una scuola
a parlare di Dante e agli studenti, sulla scia del Poeta, lasciò riflettere sul
fatto che “se possiamo parlare di laicità dello Stato, questo si deve al
cristianesimo”. Realismo e speranza, dunque, ma anche rivendicazione orgogliosa
dell’essere dalla parte giusta, da democratici e da cristiani, senza la corazza
dell’integralismo o peggio ancora dell’arroganza. Questo stile, legato
strettamente alla sostanza, rende attuale e stimolante la testimonianza politica
di Martinazzoli.
Lucio D’Ubaldo
RICCARDO
MISASI: GUARDARE AL FUTURO CON CUORE ANTICO
Parlare
di Riccardo Misasi equivale a parlare di Democrazia, tema quantomai
importante oggi in un Paese che, progressivamente, sembra allontanarsene. La
Democrazia, con la maiuscola. Quella costruita con le mani dei coraggiosi
resistenti nel quarantatré del secolo scorso, rafforzata dalla intelligenza
colta dei padri della Repubblica e dai costituenti illuminati e coraggiosi,
difesa dal popolo italiano negli anni in cui è stata gravemente minacciata
dalle trame golpiste, dalle forze delittuose nere e sanguinarie.
E, poi, da quelle del terrorismo rosso,
quasi tutte al servizio anche di qualche paese che vedeva l’Italia, nella sua
cultura antica, nella sua forza politica, nel suo spirito di autonomia, nella
sua ferma vocazione di costruire l’Europa, quale forza di libertà e di
progresso, agente di Pace nel mondo attraverso i principi universali della sua
Costituzione.
Quella che ha, come ci insegna Misasi, nel
valore assoluto e non negoziabile della Persona, tutto ciò che serve per
realizzare la Pace nel mondo. Non soltanto nel nostro Paese. Ché Persona è
Libertà, il suo elemento vitale e costitutivo. Persona è dignità, irrobustita
dal lavoro degno cui si ha diritto. È partecipazione. Anche alle scelte di
governo. E perciò è governo stesso delle risorse comuni. Persona, è diritto al
libero confronto.
Quello nel quale ciascuna posizione ha
pari dignità e pari valore rispetto a tutte le altre espresse. Quella pari
dignità che misura la verità possibile non dalla forza maggioritaria,
democraticamente realizzatasi, ma dai contenuti ed anzi dal fatto stesso che la
singola posizione venga liberamente maturata e culturalmente prodotta.
E dove cultura sia non solo erudizione e
profondità e molteplicità delle conoscenze, ma sensibilità con cui ci si
approccia alla realtà per cambiarla in direzione del Progresso, il quale è
sempre e incessantemente una tappa della Democrazia, che nel suo divenire
diviene se stessa.
Persona è, quindi, la maggioranza che
liberamente si forma. È, di riflesso, la minoranza che ha il coraggio di
esserci, di resistere alla tentazione del conformismo e del trasversalismo, le
malattie più gravi del tessuto democratico e della stessa coscienza individuale
e collettiva. Persona è l’opposizione che vigila sulle tentazioni dei governi di
essere dominatori e impositori della e sulla realtà unitaria e complessa.
Persona è dunque Democrazia.
É Libertà, quella vera. Libertà che si
libera e libera. Si libera dai lacci invisibili che la stessa Democrazia usa
quando non è piena. Sincera. Quando é affatica o ha paura di essere. Libera
uomini e culture, da ogni forma di oppressione. Soprattutto, quelle mascherate e
dietro le quali si nascondono interessi preponderanti, prepotenze ed egoismi che
creano ingiustizie. E il dominio di pochi, che decidono della vita di tutti.
Libertà che l’obera i popoli.
I popoli liberi sono quelli che si
liberano da soli, ché, come la Persona, è nella loro forza intrinseca che
possono trovare la spinta inarrestabile alla piena loro libertà. Che è anche
autonomia. Costruzione della Pace
Quella vera e duratura, perché fondata sul
rispetto di tutti e sul riconoscimento dell’altro come valore. L’altra deriva
dal nutrimento principale della Pace, la giustizia e l’equa redistribuzione
delle risorse del pianeta nella lotta alla fame, nella sconfitta delle povertà,
nella difesa della Vita, da quella umana a quella della Natura, che per la
ricchezza della vita umana e nella parità con essa è stata “creata”. Persona è,
quindi, la Pace nella giustizia, nella Libertà, nell’eguaglianza.
Sta qui, in buona sintesi, una parte del
ricco pensiero politico di Riccardo Misasi. Una parte dico, perché essendo, il
suo, un pensiero essenzialmente filosofico, che nella dinamica dell’agire umano
e del suo personale agire appassionato e vulcanico, diventa pensiero politico
per il farsi della Politica, quel Pensiero così alto e profondo è un Oceano
incommensurabile. Impossibile descriverlo tutto, perché come l’Oceano non ha
limiti e confini davvero definibili.
E come il mare non sai mai esattamente
dove inizi e dove si fermi. Come l’Oceano è imprevedibile nei suoi movimenti,
profondo nella magnificenza dei suoi abissi. Come l’oceano è mai calmo, sempre
inquieto. A volte tempestoso e fortemente mareggiato. In continuo movimento,
restando sempre oceano. Sempre mare.
Mai perdendo di vista il suo compito di
mare, quello di unire le terre non coperte dalle sue acque, di dare frutti per
la vita, vita all’eco sistema, bagnare i porti su cui far giungere persone e
ricchezze, prosperità e civiltà. Far incontrare gli essere umani e territori
diversi e lontani, per renderli consapevoli che le diversità che esse recano con
il loro pensare e le loro culture, le loro lingue e i il loro colore della pelle
il mare non intende cancellarle, ma vinificarle.
Franco Cimino
GIOVANNI
GORIA : UNA VITA AL SERVIZIO DEI CITTADINI E DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE
Giovanni
Goria nasce ad Asti il 30 luglio 1943. Rivela molto presto la sua vocazione
politica iscrivendosi alla Democrazia Cristiana nel 1960, a soli diciassette
anni.
Consegue il diploma di ragioniere
e, a seguire, la laurea presso la Facoltà di Economia e Commercio, con una tesi
dal titolo “Organismi e
istituti operanti nel quadro della programmazione regionale in Italia”.
In questi anni è responsabile dell’Ufficio
Studi e programmazione dell’amministrazione provinciale di Asti e in seguito
svolge un’intensa attività nell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Asti.
Dal 1974 al 1976 è membro del Collegio dei Sindaci della Cassa di Risparmio di
Asti. Nel 1975, dopo essere stato a capo del Movimento Giovanile della DC,
diventa Segretario Provinciale del partito.
Dagli Anni ‘70 Giovanni Goria milita nella
corrente della sinistra di Base. In questi stessi anni diviene uno dei più
stretti collaboratori di Ciriaco De Mita, ma conserva una posizione indipendente
nell’ambito della sinistra democristiana.
La svolta nella carriera politica avviene
nel 1976 quando Giovanni Goria, pur non avendo mai fatto parte delle
amministrazioni locali, viene candidato alle elezioni politiche del 20 giugno
1976 ed eletto alla Camera dei Deputati, nella circoscrizione
Cuneo-Alessandria-Asti. Durante la sua prima legislatura fa parte della
Commissione Finanze e Tesoro della Camera e è membro dell’ufficio economico
della DC, nonché consigliere economico del Presidente del Consiglio dei Ministri
Giulio Andreotti.
Rieletto deputato nel 1979 è
Sottosegretario al Bilancio e alla programmazione economica nel primo governo
Spadolini (1981-1982), incarico dal quale si dimette nel giugno 1982 per
assumere quello di responsabile del Dipartimento Economico della Democrazia
Cristiana.
Nel dicembre 1982 è per la prima volta
Ministro del Tesoro nel V Governo Fanfani. La sua nomina è una delle più
rilevanti novità di quel Governo, egli è infatti il più giovane a ricoprire tale
incarico nell’Italia repubblicana. La sua età e la sua immagine di persona più
vicina alla gente e al comune buon senso, rispetto alla tradizionale figura del
politico italiano, contribuiscono ad accrescerne la popolarità, facendone il
prototipo di “uomo nuovo” per la DC.
Negli anni seguenti Giovanni Goria
mantiene ininterrottamente l’incarico di Ministro del Tesoro: durante i due
Governi Craxi (1983-1986, 1986-1987) e il sesto Governo Fanfani (1987) in cui
detiene, ad interim, anche l’incarico di Ministro del Bilancio e della
programmazione economica.
Il Ministro Goria regge le sorti del
Tesoro in un periodo molto travagliato per l’economia dello Stato, con una
crescita incontrollata della spesa pubblica e un aumento del debito pubblico
tale da far parlare, nel 1983, dell’eventualità di una tassazione dei Buoni
ordinari del tesoro. La contrarietà di Giovanni Goria a tale misura gli vale
l’apprezzamento dei risparmiatori, tuttavia il piano varato l’anno successivo
per il rientro del debito pubblico manca gli obiettivi e il deficit raggiunge il
livello più elevato dal dopoguerra.
La situazione migliora sensibilmente nel
1986, ma dal 1987 una fase di instabilità politica e conflittualità fra i due
maggiori partiti di governo, DC e PSI, incide negativamente sull’andamento dei
conti pubblici. Dalle consultazioni elettorali del 14 giugno 1987 entrambi i
partiti risultano rafforzati, il che contribuisce a mantenere uno stato di
tensione, rendendo improponibile la candidatura del segretario della DC De Mita
alla guida del Governo.
Si ricorre dunque a un governo di
transizione e Giovanni Goria riceve dal Presidente della Repubblica Cossiga
l’incarico di formare il Governo. Dal 19 luglio 1987 Giovanni Goria presiede (è
il più giovane politico italiano ad aver coperto quella carica fino ad allora)
il primo Governo della X legislatura, assumendo ad interim anche il Ministero
per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Travagliato da una serie di
successive crisi il Governo Goria si scioglie nel marzo 1988.
Durante il corso della sua vita politica
Giovanni Goria elabora continuamente nuove idee, che entrano nel dibattito
politico attraverso i suoi interventi in occasioni istituzionali e apposite
pubblicazioni, per mezzo delle quali cerca di richiamare l’attenzione del mondo
politico italiano degli Anni ‘80 e ‘90 sulle emergenze istituzionali ed
economiche che si profilano all’orizzonte.
Subito dopo la fine della sua esperienza
da Presidente del Consiglio dà vita all’iniziativa del “Progetto Europa ‘92”,
finalizzato a richiamare, con convegni, studi e dibattiti, l’attenzione sulle
modernizzazioni occorrenti per entrare a pieno titolo nell’Europa unita. Negli
stessi anni, all’interno della DC, sviluppa una dura e sfortunata battaglia
contro la “nomenklatura” dell’epoca, vanificata dalla sua sostanziale
emarginazione durante il congresso nazionale del 1989.
A giugno dello stesso anno partecipa alle
Elezioni Europee, risultando il più votato della circoscrizione Nord-Ovest con
640.403 preferenze. L’attività di Giovanni Goria si sposta dunque, dal 1989 al
1991, nel Parlamento Europeo, dove ricopre la carica di Presidente della
Commissione politica.
Nell’aprile 1991 si dimette per assumere
l’incarico di Ministro dell’Agricoltura e delle foreste nel nuovo governo
Andreotti. In questa veste decide il commissariamento della Federconsorzi, che
porta alla liquidazione dell’ente, indebitato per 4.000 miliardi, avviando “la
trasformazione in senso europeo dell’agricoltura”.
Rieletto per la quinta volta nel 1992,
entra a far parte del Governo Amato come Ministro delle Finanze, in una
compagine governativa che deve prima di tutto affrontare la difficile situazione
economica, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht dal 7
febbraio 1992. Il 19 febbraio 1993 Giovanni Goria si dimette in seguito al suo
coinvolgimento come imputato in una vicenda giudiziaria legata alla Cassa di
Risparmio di Asti, che si conclude negli anni successivi con il suo
proscioglimento.
Gli ultimi mesi di vita sono segnati
dall’amarezza per tale vicenda e dall’avanzare della malattia. Muore ad Asti il
21 maggio 1994.
Il
presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, partecipando alla cerimonia
commemorativa del trentesimo della morte di Giovanni Goria, disse, tra l'altro: «Nella
brevità della vita che gli è stata concessa, lo statista piemontese ha messo a
frutto i talenti di cui fu dotato, in piena aderenza a quei valori che le genti
dell’astigiano hanno sempre manifestato. L’umiltà e il senso del limite, la
concretezza, la coscienza, avvertita intimamente, del senso del dovere. Il
rispetto della dignità delle funzioni che si trovò a ricoprire, nonostante le
sofferenze e qualche amarezza che immeritatamente ebbe a subire nell’ultima
parte della sua vita».
Fondazione Giovanni Goria
PAOLO BONOMI: "UOMO DI
SALDI PROPOSITI E RISPETTATE PROMESSE"
Paolo
Bonomi nasceva a Romentino, in provincia di Novara in Piemonte, il 16 Giugno
1910, da una famiglia di agricoltori. Laureato in scienze economiche e
commerciali, manifestò sin da giovane interesse e passione per le problematiche
sociali.
Una vita per la
giustizia nel mondo contadino
Paolo Bonomi nasceva a Romentino, in
provincia di Novara in Piemonte, il 16 Giugno 1910, da una famiglia di
agricoltori . Laureato in scienze economiche e commerciali, manifestò sin da
giovane interesse e passione per le problematiche sociali.
Passa alla storia del nostro Paese come il
fondatore della Coldiretti ed è riuscito a dare nel dopoguerra a otto milioni di
coltivatori italiani e alle loro famiglie, fino allora più o meno dimenticati ai
margini della società, un' identità precisa e un sistema giuridico e normativo
al pari degli altri cittadini italiani. E tutto questo difendendo e promuovendo,
sia a livello associativo che parlamentare, gli interessi degli agricoltori, ad
esempio, per il riconoscimento di pari diritti con gli altri cittadini e
lavoratori, l’assistenza sanitaria (1954), le pensioni (1957), la tutela degli
infortuni sul lavoro (1964). Ma il suo più grande successo è nel 1950 la riforma
agraria che, in poco meno di quindici anni, toglie 3,7 milioni di ettari al
latifondo improduttivo e li redistribuisce a oltre un milione di contadini,
realizzando l'unica redistribuzione di ricchezza mai avvenuta dall'Unità
d'Italia.
Per mezzo della sua "visione" realizzata,
Bonomi ha saputo unire la fedeltà alle «virtù contadine» (il sacrificio del
lavoro, la pazienza dei tempi della natura, la preghiera a Dio creatore) con la
creatività delle scelte in un mondo in continuo cambiamento.
Paolo Bonomi ha guidato la Coldiretti per
ben 36 anni (1944 – 1980), diventadone poi Presidente onorario.
In occasione dei 40 anni della Coldiretti,
Amintore Fanfani ricorda sulle pagine de Il
Popolo del 12 febbraio 1985,
il primo incontro con Bonomi nel settembre del 1945 a Piazza del Gesù. In
quell’occasione Bonomi chiese alla DC un prestito di due o tre milioni per
avviare la Coldiretti. Gli venne accordato sia per la mediazione di Campilli sia
per quella di Giuseppe Dossetti. “La mia considerazione – prosegue Fanfani –
crebbe quando dopo pochi mesi constatai che Bonomi era un uomo di saldi
propositi e di rispettate promesse: infatti non solo aveva proceduto a dare alla
Confederazione dei Coltivatori Diretti una diffusa struttura, ma aveva già
restituito la somma chiesta in prestito alla DC, con grandissima meraviglia di
Restagno a quel tempo segretario amministrativo, che di richieste molte ne
riceveva, ma per la prima volta vedeva uno dei richiedenti puntuale nello
sdebitarsi”.
Garante della libertà
del paese
Il primo avvicinamento diretto con il
mondo contadino avviene nel settembre del 1943, quando Bonomi viene nominato
Commissario della Federazione Coltivatori Diretti.
Entra poco dopo in politica e fonda, 30
ottobre 1944, la Coldiretti. Durante il governo provvisorio, designato dalle
Associazioni agricole, fa parte della Consulta nazionale de il 2 giugno 1946
viene eletto deputato della Costituente nelle file della Democrazia Cristiana
con 30.929 preferenze, contribuendo alla stesura degli articoli 41 e 42 sulla
proprietà privata ed opera come membro della III Sottocommissione per l’esame
dei disegni di legge. Nelle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948, è
eletto con 79.412 voti di preferenza, riuscendo a far eleggere nelle file della
DC altri 23 deputati (Bonomi incluso) e 3 senatori appartenenti alla Coldiretti.
Gli studi sulla politica del Dopoguerra
non hanno sufficientemente valorizzato la presenza della Coldiretti nelle
elezioni del 18 aprile 1948, che ha contribuito ad evitare la vittoria del
blocco social - comunista . Ne dà testimonianza preziosa Aldo Moro, come
presidente del Consiglio, nel suo discorso ai quadri dirigenti Coldiretti il 20
maggio 1976: “La vita democratica del nostro Paese sarebbe stata drammaticamente
diversa […] se i coltivatori diretti non avessero garantito l’apporto
insostituibile del loro voto e del loro consenso. Voi siete i garanti della
libertà del Paese” (F. Occhetta e
N. Primavera, Paolo Bonomi e il
riscatto delle campagne.)
Bonomi siede alla Camera fino al 1983, per
otto legislature,
Coldiretti:
ispirazione, appoggi importanti e storia all’ombra dei campanili
Il 31 ottobre 1944, Bonomi fonda la
Federazione Nazionale dei Coltivatori Diretti a Roma nel Palazzo Serlupi -
Crescenzi in via del Seminario, investendo la propria liquidazione, insieme a un
gruppo di fidati collaboratori che nominano Luigi Anchisi segretario generale.
Partecipano molti dirigenti dell’Azione Cattolica Rurale. L’appoggio dei parroci
rurali permette in pochi mesi di svolgere riunioni in tutte le campagne del
Paese e questo permette il costituire, in ogni capoluogo, la “Federazione
Provinciale Coltivatori Diretti, Mezzadri e Coloni”.
Bonomi trova in questo disegno la
concretizzazione dell’ ispirazione sturziana, l’appoggio incondizionato di
Alcide De Gasperi e, in Vaticano, di alcune figure quali monsignor Giovanni
Battista Montini (allora membro della Segreteria di Stato e futuro Papa Paolo
VI) e monsignor Pietro Pavan.
Dallo Statuto della Coldiretti del 1944
appare chiaramente la scelta di campo: la neonata organizzazione s’ispira ai
principi della scuola cristiano-sociale e ha lo scopo di “agire in tutti i campi
per difendere la gente della terra ed elevare economicamente e socialmente le
classi contadine promovendo ogni iniziativa rivolta all’incremento della
produzione agricola e al potenziamento delle aziende familiari”.
A causa di questa scelta, alcuni attivisti
della Coldiretti nel grossetano e vicino a Terni subirono agguati, rimasti però
impuniti per le coperture politiche della sinistra comunista. In Emilia Romagna,
Giuseppe Fanin pagò la sua appartenenza alla Federazione con il prezzo della
vita. Proprio all’ombra dei campanili la Coldiretti faceva nascere una sezione,
e quel modello organizzativo permise al sindacato di ramificarsi fino ai borghi
rurali più dimenticati. Nel 1947 le sezioni raggiunsero le 5.500 unità, con
618.000 famiglie aderenti. Nel 1952 la Coldiretti contava 7.421 sezioni
periferiche, 958.863 famiglie associate e 4.563.201 persone rappresentate (N.
Primavera, La gente dei campi
ed il sogno di Bonomi,
Laurana)
Sul piano politico la Coldiretti, pur
nell’autonomia, diventa l’alleata più stretta della DC e contribuisce a formare
il “quadrilatero cattolico” (DC – ACLI – Coldiretti – CISL) che dura sino alla
fine degli anni Sessanta, quando le ACLI e la CISL decidono di non avere più
solamente la DC come unico interlocutore politico.
Recenti analisi hanno particolarmente
tracciato lo specifico dell’organizzazione della Coldiretti, seguendone il
percorso dalla fondazione all’insediamento a Palazzo Rospigliosi a Roma e fin
nel Dipartimento di Stato a Washington, dove Bonomi si recò per la prima volta
nel 1954. Tra livello locale, nazionale e globale, la Coldiretti si è vista
coinvolta, anche da protagonista, nei momenti più significativi della storia
d’Italia: dagli appuntamenti elettorali alle crisi internazionali (le rivolte
nel mondo sovietico del 1956 e 1968; il Muro di Berlino; la strage di piazza
Fontana), dai problemi della produzione a quelli dell’ambiente e del welfare
state; dalla centralità della quantità del cibo a quella della qualità, con
l’affermarsi del «mangiare italiano» (E.
Bernardi, La coldiretti e la
storia d’Italia, Donzelli
Editore).
Moderna,
rigorosa, appassionata sostenitrice dei diritti delle donne Angela Maria Guidi
affrontò le difficoltà e le ostilità del suo tempo con generoso impegno
lasciandoci un’eredità preziosa.
Sono anni difficili quelli in cui visse la
sua giovinezza perché coincidono con lo scoppio della Grande Guerra la cui
durata, più lunga del previsto, fece sentire da subito i suoi effetti,
soprattutto in ambito socio-economico. Molti posti di lavoro negli uffici, nelle
fabbriche, nelle industrie tessili, persino in quella bellica e nella produzione
agricola rimasero scoperti. Le inderogabili necessità produttive posero tutti i
governi di fronte a un dilemma: rinunciare a un gran numero di richiamati o
utilizzare una forza lavoro, mai finora sperimentata, quella femminile. Si
predilesse quest’ultima strada.
Per
scelta o per necessità, molte donne, dopo un periodo di addestramento fecero il
loro ingresso nel mondo del lavoro. In ambito industriale furono assorbite nel
settore tessile e militare; nei servizi, dal trasporto dei tram alla
distribuzione della posta; nell’agricoltura dove assicurarono così la necessaria
produzione per approvvigionare il Paese.
Al
termine del conflitto la situazione peggiorò. La riduzione del numero degli
uomini abili, i numerosi morti che la guerra aveva provocato unito a quello
causato dall’epidemia “La spagnola” e a quanti emigrarono all’estero, per
evitare l’arruolamento, impoverì ancor di più il nostro Paese. Sul piano sociale
altri due elementi pesarono notevolmente: l’elevato numero di reduci gravemente
feriti e bisognosi di cure e, soprattutto, la presenza massiccia di famiglie
monoparentali che impose al Governo la necessità di conferire alle donne il
riconoscimento giuridico.
Iniziò così per loro un “nuovo cammino”
fatto di parificazione dei diritti e di emancipazione. A partire da quella
salariale. Enorme era la disparità a parità di lavoro! Il carovita e
il peggioramento della situazione economica fece allargare la protesta nelle
fabbriche tessili, manifatturiere e nelle risaie.
Un
elemento importante in questo scenario complesso fu la crescita del numero delle
donne diplomate e laureate, l’analfabetismo dilagava. Ad investire sulla
formazione delle giovani furono soprattutto le élite, dall’aristocrazia alla
borghesia a cui Angela Maria Guidi apparteneva. I suoi genitori, Eugenio e Anna
Casini, provenivano entrambi da famiglie borghesi romane di tradizione
cattolica.
Il
XX secolo si era aperto con un confronto vivace all’interno del crescente
movimento femminista connotato da forti spinte anticlericali alle quali si
contrapponeva quello animato da una tradizionale visione cristiana della donna.
Ad individuare un altro percorso fu proprio Lei con il suo attivismo che prese
forma dopo l’incontro con Armida Barelli, fondatrice della Gioventù Femminile
cattolica italiana, e la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini che la
portò, appena uscita dal collegio nel 1915, ad iscriversi all’Udaci che
promuoveva opere di assistenza per i soldati e in seguito per i reduci.
Dentro questo scenario Angela Maria maturò
la scelta che Le consentì di sfuggire all’insidiosa contesa tra Stato Italiano e
Chiesa Cattolica che animava quel periodo storico creando per sé un’originale
percorso. Da quel momento fu presente su ciascuna delle tre emergenze di quegli
anni: la questione educativa, quella sociale e dei diritti.
Luigi Sturzo, che aveva apprezzato la
qualità del suo impegno, nel 1919, La chiamò a lavorare sia nell’Opera nazionale
per gli orfani di guerra, da Lui fondata, che nel Partito Popolare, prima donna
tesserata, dove guidò la segreteria del gruppo femminile fino allo scioglimento
nel 1926.
Quello
con Sturzo si rivelò subito un incontro importante che La portò a scoprire la
politica intesa come spazio capace di dare risposte ai tanti problemi della
società a partire da quello del lavoro fondando numerose scuole di lavoro
femminili, dando vita a fondazioni e cooperative che potessero essere d’aiuto
all’inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
Gli anni venti e trenta furono per Lei
particolarmente intensi. Nel 1921 fondò il Comitato nazionale per il lavoro e la
cooperazione femminile legato all’Azione Cattolica di cui rimase segretaria fino
al 1926, occupandosi in particolare delle scuole di lavoro per le orfane di
guerra, della Federazione delle lavoratrici dell’ago e di quella
dell’allevamento dei bachi da seta, delle piccole industrie agricole a Caserta e
nel Veneto; fondò cooperative di produzione nel Friuli Venezia Giulia.
Nel 1922 venne nominata dal Ministero
dell’Industria e Commercio membro del Comitato delle piccole industrie e
dell’artigianato. Nel 1924 partecipò e vinse il concorso presso l’Ispettorato
del lavoro. In questa posizione si occupò di assistenza alle mondine e della
condizione dei lavoratori stagionali proseguendo l’attività sindacale di
orientamento cattolico. Quando poi si consolidò la dittatura fascista non esitò
a lasciare tutto come nel 1929 quando, pur contribuendo alla nascita della
Federazione nazionale donne professioniste e artiste, se ne allontanò dopo che
la stessa fu assorbita dalle organizzazioni fasciste.
Anche di fronte alle tante difficoltà, la
sua passione politica non vacillò mai, anzi tutt’altro, partecipò alle riunioni
clandestine di partito e qui conobbe l’ex parlamentare del PPI Mario Cingolani,
che sposò nel 1935. Divenne mamma ad un’età matura, quarantadue anni,
soprattutto per quei tempi, era nata a Roma, il 31 ottobre 1896, e durante la
gravidanza riprese gli studi universitari all’Orientale di Napoli, interrotti a
causa dell’ostilità del padre, e conseguì la laurea in Lingue e letterature
slave.
E’ una donna colta e attenta a sviluppare
sempre una lettura più ampia, sopranazionale, degli avvenimenti politici e
sociali, resa possibile anche grazie ai suoi numerosi soggiorni – studio fatti
in Europa e negli Stati Uniti e per questo fu inserita nella Commissione Esteri
della Democrazia Cristiana.
A liberazione avvenuta fu nominata membro
del Comitato per la divulgazione del Piano Marshall e componente della
Commissione del lavoro femminile dell’Organizzazione internazionale del lavoro
(OIL) a Ginevra. Nel 1945 fu inserita nella Consulta Nazionale Italiana insieme
ad altre dodici donne. E qui fece, a Montecitorio, il suo primo intervento. Il
primo di una donna in un’aula parlamentare. Già combattiva assertrice del
suffragio femminile, la Guidi espresse in quel discorso, intenso e appassionato,
tutta l’insoddisfazione per la limitatezza degli spazi politici riservati alle
donne, delle quali con orgoglio ribadì la raggiunta maturità a rivestire ruoli
determinanti nella politica e nel sociale.
Alle
elezioni del 2 giugno del 1946 fu eletta all’Assemblea Costituente, una delle
ventuno, e partecipò ai lavori della Commissione lavoro e previdenza.
Nella seduta del 3 maggio 1947 intervenne
in aula riproponendo brani di un discorso fatto su La
dichiarazione di Filadelfia e la Costituzione italiana,
e definisce l’Italia paese di emigrazione e richiama i principi che sarebbero
dovuti entrare nella Costituzione del nostro Paese, primo fra tutti: “il lavoro,
che non deve essere una merce”; poi…“la libertà, di espressione e di
associazione, come condizione indispensabile per il progresso”; infine.. “la
miseria, ovunque si annidi, deve essere combattuta poiché costituisce un
pericolo per la prosperità di tutti”.
Alle elezioni del 18 aprile 1948 venne
riconfermata alla Camera dei Deputati. Durante il suo mandato dedicò particolare
attenzione alla discussione della legge, ratificata nel 1950, sulla tutela della
madri lavoratrici; nello stesso anno fondò il Comitato di difesa morale e
sociale della donna, che operò a sostegno della legge Merlin (approvata nel ’58)
per l’abolizione delle “case chiuse” offrendo assistenza a tutte quelle donne
che intendevano uscire dalla condizione di prostitute.
La Guidi Cingolani entra, nel luglio del
1951, nel VII governo De Gasperi, ed è la prima donna a ricoprire la carica
Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato e
Commercio con delega all’Artigianato.
Quando nelle elezioni del 1953 Angela
Maria Guidi Cingolani non venne rieletta in Parlamento si dedicò per un decennio
all’attività amministrativa, in qualità di sindaco di Palestrina. Guidò la
ricostruzione della città essendo stata pesantemente distrutta dai bombardamenti
alleati e lavorò per la valorizzazione del patrimonio artistico e del
prestigioso sito del Tempio della Dea Fortuna Primigenia, realizzato verso la
fine del II sec. a. C., uno dei più maestosi monumenti dell’antichità, rinvenuto
a seguito dei bombardamenti.
Colse e legò la ricostruzione e la
ripartenza della Città alla sua valorizzazione culturale. Nel 1958 fondò
l’Accademia internazionale Giovanni Pierluigi da Palestrina, che presiedette
fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1991. A lei si ispirò il film, l’On.
Angelina, diretto dal regista
Luigi Zampa, il cui ruolo venne magicamente interpretato da Anna Magnani. Oggi,
nel 70esimo della prima donna al governo, possiamo dire che Angela Maria Guidi
Cingolani è certamente una donna che ha ancora molto da insegnarci, vissuta nel
suo tempo senza però rimanerne prigioniera.
Franco
Restivo nasce a Palermo nel 1911. I Restivo erano tra le prime famiglie di
Palermo per il prestigio culturale e per il censo. Il padre di Franco,
Empedocle, professore di università e avvocato di grido, fu eletto alla Camera
prima del fascismo. Franco Restivo, al pari di suo padre, esercitò l'avvocatura,
e fu nominato professore all'università di Palermo. Dal 1943 fu docente di
diritto costituzionale e successivamente docente di diritto pubblico nell’
Ateneo cittadino, insegnamento che mantiene fino alla sua morte. Dunque in casa
sua si masticavano all’unisono diritto e politica.
Dal felice "settennio"
al periodo piu' difficile della storia italiana
La sua intera esistenza è segnata da una
lunga militanza politica. Nel 1946 viene eletto deputato all’Assemblea
Costituente, ma per seguire più da vicino le vicende legate ai problemi della
sua isola, nel 1947 rinuncia al mandato parlamentare. Dal 1947 al 1955 è
deputato all’Assemblea regionale siciliana, dal 1947 al 1949 è assessore
regionale alle finanze e agli enti locali e dal 1949 al 1955 presidente della
Regione siciliana, guidando quello che fu definito “Il felice settennio” della
storia dell’Autonomia regionale.
Membro del Consiglio Nazionale della DC,
il 25 maggio 1958 torna alla politica nazionale essendo eletto deputato nella
circoscrizione della Sicilia occidentale e in questa carica riconfermato in
tutte le successive consultazioni politiche.
Dal 1958 al 1963 ricopre numerosi ed
importanti incarichi parlamentari, su tutti quello di vicepresidente della
Camera dei deputati. Inizia poi la sua longeva presenza al Governo , prima come
ministro dell’agricoltura dal 1966 al 1968, successivamente ministro
dell’interno dal 1968 al 1972 sotto cinque diversi Presidenti del Consiglio.
Restivo, uomo sempre vicino alla destra
democristiana, rimarrà nell’esecutivo fino alla fine del centrosinistra.
Soprattutto, come già detto, al Viminale, dove affronterà e gestirà alcune delle
fasi più difficili per l’ordine pubblico nel nostro Paese.
Al Viminale, infatti, affronterà l'anomalo
caso della Repubblica delle Rose (1948), la complicata stagione della
contestazione studentesca, l’episodio stragista di Piazza Fontana (1969) , i
moti di Reggio Calabria, l’urto della violenza mafiosa (a Palermo nel '71) verrà
ucciso il procuratore della Repubblica Pietro Scaglione). Per non parlare dei
contraccolpi che seguirono il “golpe Borghese” (1970).
A Roma, nel 1969, subirà anche un
attentato dinamitardo contro la sua abitazione privata. L’ordigno verrà
prontamente scagliato a distanza da un appuntato di Ps.
Restivo sarà ministro anche del primo –
brevissimo – governo Andreotti, non più agli Interni ma alla Difesa. L’ultima
esperienza da membro dell’esecutivo.
La morte lo coglie improvvisamente a
Palermo nel 1976, in piena attività parlamentare.
Si spense il 17 aprile 1976. Le esequie si
svolsero in città a San Domenico. L'orazione funebre fu pronunciata dal senatore
Giuseppe Alessi. Il Comune, mentre era in carica il sindaco Giuseppe Insalaco,
già stretto collaboratore di Restivo, gli intestò una piazza del quartiere
Matteotti.
"Un siciliano placido"
Il profilo di Franco Restivo può essere
approfondito anche attraverso la curvatura personale.
In una conversazione-intervista resa al
suo vecchio compagno di scuola ed amico Nicola De Feo, che firmò l’articolo con
lo pseudonimo di Nicola Adelfi (La Stampa, 24 Agosto 1969) , emergono
interessanti "dietro le quinte" del suo carattere e, soprattutto, della sua
visione della vita.
De
Feo esordisce facendo notare che “Restivo resta legato ai quattro anni in cui fu
a capo del ministero dell'Interno, il più difficile fra tutti i ministeri
nell'Italia contemporanea. A dargli quell'incarico la prima volta, nel giugno
1968, e forse si pensava che dovesse essere temporaneo”.
Quando il giornalista, in una torrida
notte romana, gli fa notare che “l’elettricità accumulatasi nell’aria non poteva
non suscitare temporali e tempeste”, rimproverandolo di essersi cacciato in una
barca così sconnessa, su un mare cosi aspro, così minaccioso da correre il
rischio di rovinarsi la carriera politica, Restivo ascolta fumando un mezzo
sigaro toscano ed ammonisce a non fasciarci il capo prima di esserselo rotto.
Emblematica la conclusione di De Feo, che racchiude gran parte della filosofia
di colui che viene definito “un siciliano placido”:
“I
fatti successivi dimostrarono che aveva ragione lui, e torto io. La democrazia
per reggersi ha bisogno di una certa dose di prudente ottimismo. Guai a
lasciarsi prendere dal panico al primo stormire di fronde”.
Restivo incarna così perfettamente la
figura di un moderato che guardava al sociale con grande interesse, che si
rendeva cioè conto della necessità di riequilibrare i rapporti fra capitale e
lavoro per obbedire a principi di giustizia sostanziale. Ma Restivo era,
soprattutto, uomo delle istituzioni, che rifiuta l'enfasi delle visioni
palingenetiche e, all'oposto, presidia la frontiera di un riformismo tanto cauto
quanto incisivo, convinto com’è che la storia non procede per salti.
L'autonomismo
Decisive, nella sua formazione politica,
furono le frequentazioni con Gaspare Ambrosini, con Bernardo Mattarella e
Salvatore Aldisio . Il primo, ancora un giurista, lo avvicinò al regionalismo;
gli altri due, epigoni del popolarismo sturziano, ne indirizzarono il percorso
politico. Fatto è che Franco Restivo, ancor prima che il fascismo crollasse
rovinosamente, era già una figura di rilievo fra quelle che avrebbero guidato la
Democrazia cristiana e avrebbero condotto la battaglia, vincente, per dare vita
a quell’Autonomia regionale, aspirazione insoddisfatta dei siciliani dall’Unità
in poi.
Le sue convinzioni, maturate con grande
travaglio intellettuale, si espressero in modo evidente già nel corso del
convegno della Democrazia cristiana tenutosi ad Acireale nel 1944. In
quell’occasione Restivo, cui era stata affidata la relazione ufficiale
sull’Autonomia regionale, presentò le regioni come “membrature naturali
d’Italia, come la migliore garanzia delle libertà della nazione” e il
regionalismo come “processo di democratizzazione, fattore di difesa” e ancora
“funzione di equilibrio nella vita dello Stato”.
Il suo regionalismo, come quello di
Alessi, Aldisio e altri cattolici ex popolari, rigettava dunque l’ipotesi
separatista avanzata dal Mis (Movimento indipendentista siciliano) e sposava
l’idea sturziana della “Regione nella nazione”.
L'amore per la Sicilia
Restivo è un siciliano che amava la terra
di Sicilia e la sua millenaria storia. Viveva a Palermo, ma volentieri,
specialmente dopo il distacco dalla politica attiva, andava a trascorrere lunghi
periodi in una sua fattoria nel Messinese, dove arricchiva di continuo una
prestigiosa raccolta di libri di autori siciliani o che parlavano della sua
terra. L'accesso alla fattoria era difficile ed implicava guado di un torrente.
E li per l'appunto, in quel suo rifugio campestre, fu colto da malore
improvviso.
Nel Marzo 2004 la biblioteca dell'ex
ministro dell'Interno Franco Restivo (che conta circa ottomila volumi) è stata
donata dalla sua famiglia alla Fondazione Banco di Sicilia e si trova a Villa
Zino . Restivo non era solo un collezionista di libri, ma un fine studioso del
periodo che nella sua regione precede l'Unità d'Italia e dei movimenti e
fermenti autonomistici.
I figli hanno deciso di compiere questo
passo per mantenere viva la memoria del padre, studioso ed intellettuale prima
che uomo politico, e per ricordare il ruolo che ha avuto nella storia della
Sicilia.
Franco Banchi
GIULIO PASTORE: UN LEADER AUTOREVOLE DELLA SINISTRA
SOCIALE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
Giulio
Pastore appartiene a quella generazione di cattolici impegnati in politica che
hanno fatto un percorso all’insegna della coerenza culturale, della profonda
adesione ai valori della dottrina sociale della Chiesa e della totale dedizione
agli altri. Quella che un tempo si definiva “il prossimo”.
Nato nel 1902, Pastore è parlamentare
nella circoscrizione piemontese Torino/Novara/ Vercelli ininterrottamente dal
1948 al 1969 e ricopre il prestigioso ruolo di Ministro in tutti i governi che
si succedono tra il 1958 il 1968. È stato fondatore e primo segretario
nazionale della Cisl che ha guidato dal 1950 al 1958. Giulio Pastore, con Carlo
Donat-Cattin e Franco Marini, è stato tra i principali protagonisti della
esperienza, della storia e della tradizione della sinistra sociale di
ispirazione cristiana all’interno della Democrazia Cristiana svolgendo sempre un
ruolo di difesa e di promozione dei ceti popolari, in particolare delle classi
lavoratrici.
Sin dalla giovanissima età si impegna
nell’associazionismo giovanile cattolico - per la precisione nella Giac, la
Gioventù italiana dell’Azione cattolica -. Ha contrastato sin dall’inizio il
regime fascista e, come conseguenza di questa sua coerenza personale e politica,
dovette trasferirsi in varie città per sfuggire dalle rappresaglie della
dittatura. Aderì immediatamente alla Dc e in qualità di segretario
organizzativo ne gestì la campagna elettorale nelle elezioni del 1946 per
l’Assemblea costituente alla quale venne eletto.
Primo segretario nazionale delle Acli,
alla scomparsa del suo maestro Achille Grandi lo sostituì come responsabile
della corrente sindacale cristiana della Cgil unitaria. Ben presto, però,
Pastore si convinse dell’impossibilità di collaborare tra componenti così
reciprocamente ostili e diede vita alla LCGIL, cioè alla Libera Confederazione
Generale del Lavoro. Nel 1950 fu tra i fondatori della Cisl e diventa segretario
generale sino al 1958, anno in cui entra nella compagine governativa
dell’esecutivo guidato da Amintore Fanfani come Ministro per lo sviluppo del
mezzogiorno e delle aree depresse del Centro Nord, avviando la stagione
dell’intervento straordinario dello Stato nelle aree meridionali.
In quel contesto nei primi anni ‘60
concepì e realizzò col supporto della Cassa del mezzogiorno i Centri
interaziendali di addestramento professionale nell’industria per favorire ed
accelerare il processo di industrializzazione mediante la formazione
professionale. Venne successivamente confermato in tutti i governi sino al 1968.
Si dimise dal governo Tambroni nel momento in cui ebbe l’appoggio esterno del
Movimento Sociale Italiano, appoggio che provocò poi i noti fatti di Genova.
Infine, Pastore fu profondamente legato
sin dall’età giovanile alla sua terra natale, la Val Sesia dove ricoprì, nel
secondo dopoguerra, gli incarichi istituzionali di Sindaco del comune di Varallo
e di Presidente del Consiglio di Valle-Valsesia. Esempio, quest’ultimo, di
coordinamento delle attività degli enti locali nelle zone dell’alta montagna
piemontese.
Piersanti Mattarella nacque a
Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935. Secondogenito di Bernardo Mattarella,
uomo politico della Democrazia Cristiana e fratello di Sergio, 12° Presidente
della Repubblica Italiana. Si trasferì a Roma con la famiglia nel 1948. Studiò
al San Leone Magno, retto dai Fratelli maristi, e militò nell’Azione cattolica
mostrandosi attento conoscitore della dottrina sociale della Chiesa. Si laureò a
pieni voti in Giurisprudenza alla Sapienza con una tesi sui problemi
dell’integrazione economica europea. Tornò in Sicilia nel 1958 per sposarsi.
Divenne assistente ordinario di diritto privato all'Università di Palermo. Ebbe
due figli: Bernardo e Maria.
Entrò nella Dc nel 1963 e nel
novembre del 1964 si candidò alle elezioni comunali di Palermo per lo scudo
crociato, ottenendo un grande successo personale. La sua consiliatura coincise
con l'apogeo del “Sacco di Palermo”. Furono anni di grande tormento e crisi per
Dc in Sicilia, con durissime spaccature correntizie e la presenza a dir poco
ingombrante di figure come Lima e Cianacimino.
Nel 1967 Piersanti entrò
nell’Assemblea Regionale e fu rieletto parlamentare regionale per altre due
legislature. Fu anche assessore regionale alla Presidenza con delega al Bilancio
nelle diverse giunte ( 1971- 76 ). Il 9 febbraio 1978 fu eletto dall'Assemblea
presidente della Regione Siciliana, alla guida di una coalizione di
centro-sinistra con l'appoggio esterno del Partito Comunista Italiano.
Era il giorno dell’Epifania
del 1980 quando, in via della Libertà a Palermo, una grandine di pallottole lo
sorprese, mentre si stava recando a messa con moglie e figli. Di quel giorno,
quando un killer si è avvicinato all’automobile su cui c’era Piersanti con la
moglie e con la figlia, rimane la fotografia di Sergio che estrae dall’auto il
corpo del fratello, in un abbraccio che
è passato alla storia.
Nella sentenza della Corte di Assise
del 12 aprile 1995 n. 9/95, che ha giudicato gli imputati per il suo assassinio,
si legge che «l'istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l'azione di
Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito (tra mafia e
pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti
interessi» e si aggiunge che da anni aveva «caratterizzato in modo non equivoco
la sua azione per una Sicilia con le carte in regola».
Nel 1995, vennero condannati
all'ergastolo quali mandanti dell'omicidio Mattarella i boss della “cupola”
mafiosa. Le condanne vennero confermate in Cassazione. Gli esecutori materiali
non sono mai stati individuati con certezza.
Profondo rinnovamento, non
superamento della DC
La passione politica di Piersanti
Mattarella non nasce dunque da una conversione fulminea, ma è il frutto di una
lunga gestazione tra più componenti, che si distendono nel tempo: l’esempio
paterno, gli ideali di rinnovamento respirati negli ambienti cattolici, la
frequentazione di grandi uomini politici e – non ultimo – la rivolta morale
contro la condizione della politica siciliana, contrassegnata da pratiche
arcaiche, lotte di potere e interessi poco trasparenti…
Il Card. Pappalardo, nel corso
dell'omelia funebre, così descrisse in modo mirabilmente riassuntivo l'azione
politica di Piersanti: “Egli poteva ben attribuirsi, senza dover arrossire, la
duplice qualifica di democratico, nel senso vero ed ampio della parola, e di
cristiano”.
Questa ispirazione viene da lontano,
tanto che in appunti personali giovanili conservati dal figlio, Piersanti
parlava di un'azione politica e di governo “troppo lunga e impacciata
nell’elaborazione di riforme sociali” . Già un appello non per la distruzione o
il superamento della Dc, ma per il suo rinnovamento. Il partito d'ispirazione
cattolica doveva ripartire dal recupero delle radici religiose e morali e
spingersi sul terreno di più decise riforme sociali.
Responsabilità, trasparenza e
concretezza
Ma la sua ispirazione si incarna in
precisi e inequivocabili gesti di concretezza politica, soprattutto quando
eserciterà ruoli fondamentali e delicati nell' ARS. Come assessore al bilancio,
per esempio, ha finalmente l’occasione per sperimentare programmazione e lo
sviluppo. Le sue parole d'ordine, di fatto sconosciute prima nel parlamento
regionale, diventano: coordinamento, collegialità, responsabilità e trasparenza.
I risultati sono sorprendenti. Negli
anni successivi, infatti, presenta e fa votare entro i termini di legge i
bilanci di previsione, evitando l’annoso e umiliante ricorso all’esercizio
provvisorio.
Nel Novembre 1975, poi, la novità
assoluta del patto programmatico di fine legislatura regionale, con l'inedita
sponda anche del PCI. E non può sfuggire il fatto di come la Sicilia si candidi
ad essere il laboratorio della politica italiana. Sono gli anni, infatti, in cui
si discute della questione comunista, dopo la strategia del compromesso storico,
lanciata da Enrico Berlinguer nel 1973. E tutto questo mentre Aldo Moro sta
portando a compimento la sua riflessione sulla terza fase. Non a caso alcuni
giornalistici lo definiscono “il Moro siciliano”.
E tutto questo percorso di novità
non può in nessun caso prescindere da una radicale rigenerazione della vita del
partito, cominciando a ristabilire la legalità del tesseramento.
Aldo Moro, amico e maestro, diventa
in questi anni per Piersanti Mattarella qualcosa di più di un riferimento
politico nazionale. E’ l’erede e il continuatore della linea storica e politica
del cattolicesimo democratico che passa per Sturzo e per De Gasperi.
“È finita anche per me, è finita
anche per noi”
Leoluca Orlando racconta così la
reazione di Piersanti quando, appena avuta la notizia del rapimento di Moro,
corse subito nella sua stanza: “E' finita anche per me. E' finita anche per
noi”.
L’azione riformatrice di
Mattarella conosce le prime difficoltà per l'improvviso stop di Botteghe oscure,
che ha dato l’aut - aut alle federazioni locali del Pci che sostengono giunte
dall’esterno. Siamo nel 1979, Berlinguer sta infatti operando un ripensamento
della strategia del compromesso storico. Ma l'attività politico – amministrativa
di Piersanti prosegue, anche attraverso la rielezione a Presidente del mrzo
dello stesso anno. Il 3 aprile rivela al Giornale
di Sicilia di essere stato contattato da
Zaccagnini che gli ha offerto un posto in lista per Roma. All’intervistatore
Piersanti risponde fermo: “A questo punto, no”. Chiarendo che la sua è’ una
scelta dettata dal senso di responsabilità in un momento di grande crisi alla
Regione.
Le insidie per la Giunta regionale
arrivano sia dall'interno, tanto che il ritorno prepotente nel partito dei
vecchi e discussi personaggi porta Piersanti a chiedere a Zaccagnini di
commissariare il partito siciliano, ed anche dal livello politico esterno, con i
socialisti che, facendosi improvvisamente portavoce dell’esigenza di allargare
nuovamente al Pci, aprono la crisi. Mattarella e la sua Giunta si dimettono il
18 dicembre.
La realtà è vincibile e battibile
Il 13 novembre 1979, 54 giorni prima
dell’omicidio, Mattarella, parlando al congresso dell’Associazione siciliana
della stampa a Cefalù, diceva: “Non possono diventare notizie solo i fatti di
cronaca nera o i fatti di mafia».
Per poi proseguire:” Io credo che
voi possiate fare molto...per vincere il pericolo della rassegnazione”.
Ed incalzava ancora i rappresentanti
dell'informazione siciliana: “I nostri giovani debbono pensare, leggendo i
grandi giornali d’informazione o vedendo la televisione, che la Sicilia è
immodificabile, perché questa realtà è talmente forte da non essere cambiata?
Perché non debbono cominciare a credere che questa realtà non è invincibile?
Quando si convinceranno che questa realtà è vincibile ed è battibile avranno
preso più coraggio anche loro, anche i giovani che sono così attenti, così
aperti alle cose che cambiano, ma che corrono il rischio, crescendo, di apparire
dei rassegnati in una comunità che questi mali non può abbattere e non può
distruggere».
Ermanno Gorrieri, fu comandante partigiano, uno dei padri fondatori della Cisl,
fine intellettuale , uomo politico e delle Istituzioni, divenuto famoso per la
sua instancabile battaglia per l’uguaglianza sociale e la solidale gratuità, che
lo portò anche ad essere cooperatore del mondo contadino.
Quel filo rosso chiamato giustizia
Nasce a Magreta (Modena) il 26
novembre 1920. Il padre coltivatore diretto, la madre maestra, sposato, aveva
cinque figli. Nel 1928 si trasferisce a Modena, dove ha abitato fino alla morte.
Gorrieri è particolarmente attivo
anche nel mondo cattolico. Nel 1935 entra nell’Associazione studenti medi di
Azione Cattolica (“Paradisino”) della quale è Presidente dal 1937 al 1942. Si
iscrive e partecipa all’attività della FUCI. E’ delegato diocesano studenti
della Giac (Gioventù italiana di Azione Cattolica).
Si riveleranno tutte ottime scuole e
palestre di formazione al rigore morale, educando a vivere intensi e duraturi
rapporti amicali e di gruppo e sviluppano le attitudini organizzative. Queste
caratteristiche favoriranno in seguito la partecipazione non individuale ed
episodica alla Resistenza e all’impegno politico.
Protagonista della Resistenza
partigiana cattolica, nel maggio del ‘44, guida in montagna il primo nucleo
partigiano democristiano. Il battaglione che si è sviluppato dal nucleo
iniziale, di cui è comandante col nome di battaglia “Claudio”, partecipa ad
operazioni varie, prima e dopo la conquista di Montefiorino, e, alla fine dei 45
giorni della Repubblica, al più lungo ed impegnativo combattimento dei
partigiani modenesi.
Dal Maggio ’45 è segretario
provinciale della Dc modenese. Dopo il luglio 1948, è tra i promotori dei
Sindacati liberi e dell’Unione provinciale della Libera Cgil e ,
successivamente, della nascita della Cisl, di cui ricopre l’incarico di
segretario dell’Unione provinciale della Cisl di Modena.
Laureatosi in
Giurisprudenza nel 1950, sceglie l’impegno diretto in politico e viene eletto
deputato per la Dc (1958-1963). Preferisce in seguito dedicarsi agli studi di
economia, alle varie attività culturali ed alle ricerche in ambito sociale.
Queste ultime si concentreranno in particolare sulle storture e disuguaglianze
della società italiana. Tra i libri più importanti in merito ricordiamo La
giungla retributiva (1972),
un testo che fece scuola e La
giungla dei bilanci familiari (1979).
Gorrieri ricopre anche importanti
incarichi istituzionali. Nel corso degli anni ’80, nell'ordine, è Presidente
della Commissione nazionale per i problemi della famiglia (Ministero del
Lavoro), membro della Commissione d’indagine sulla povertà (Presidenza del
Consiglio dei ministri), presidente della Commissione per l’analisi dell’impatto
sociale dei provvedimenti normativi (Presidenza del Consiglio dei ministri).
Nel 1987 ricopre la carica di
ministro del Lavoro nel governo Fanfani.
Nel 1993 dà vita, assieme a Pierre
Carniti, al movimento politico dei Cristiano-sociali di cui diviene portavoce e
presidente. Nonostante i problemi di salute, prosegue ad approfondire il tema
principale dei suoi studi: lo stato sociale. Collabora anche con i principali
giornali e riviste nazionali producendo articoli e dando interviste sugli
argomenti di cui sopra. Partecipa anche a diverse trasmissioni televisive e
radiofoniche. L’8 marzo 1999 l’Università di Trento gli attribuisce la laurea
honoris causa in sociologia a riconoscimento della sua lunga carriera.
Nell’occasione tiene un’ apprezzatissima lectio brevis sul tema “Uguaglianza:
una parola in disuso”. Il giorno 14 dicembre 2000 il presidente della Repubblica
Ciampi gli conferisce la nomina a Cavaliere di Gran Croce per i meriti acquisiti
nel campo politico e sociale.
Le ultime sue fatiche
editoriali sono: Parti
uguali fra disuguali
(2002), quasi un compendio delle sue idee sulla povertà, sulla disuguaglianza e
sulle politiche redistributive nell’Italia di oggi, e Ritorno
a Montefiorino (2005),
ove compie un’accurata rivisitazione de La
repubblica di Montefiorino (scritto
nel 1966).
Muore a Modena il 29 dicembre 2004.
I suoi tre grandi presidi
Ripercorrere l’operosa vita di
Gorrieri significa misurarsi con una coscienza libera e tracciare
contemporaneamente alcuni momenti salienti della storia italiana del Novecento.
Tre sono i «luoghi» che Gorrieri presidia nel corso del sua lunga storia
personale e pubblica: la lotta appassionata e militante contro la dittatura
negli anni della Resistenza (come testimonia la breve ma intensa esperienza, da
lui stesso narrata, della Repubblica di Montefiorino); la convinta
partecipazione, all’interno delle più vivaci correnti della sinistra DC e
cristiano -sociale al grande progetto di rinnovamento della politica e della
società italiana; la lunga fatica, come sindacalista e studioso, per concorrere
alla promozione in Italia di una più reale eguaglianza e di una più piena
giustizia sociale a servizio delle componenti più deboli della società
Tipico il suo "marchio di fabbrica",
che lo portava a trattare le problematiche sociali con il rigore dello
studioso, ma anche con la mai sopita anima sindacale. Per questo non si
stancava mai di elaborare proposte e sollecitare interventi sulle questioni del
lavoro, della famiglia, della natalità, del contrasto della povertà e della
indigenza. Con un metodo, oggi quasi dimenticato, che lo collocava sempre su
posizioni non estreme, per scoraggiare lo scontro ideologico sui grandi principi
e favorire il dialogo e la convergenza politica sulle scelte concrete.
Uomo di "frontiera" mai pentito, ha
criticato spesso ed aspramente la stessa della sinistra, a cui non ha
perdonato di aver abbandonato progressivamente la battaglia contro le
disuguaglianze.
Il potere di “scuotimento”
In un significativo ricordo che la
CISL ha dedicato al suo “patriarca” nel centenario della nascita, Franco
Bentivogli nota che Gorrieri ha continuato a esercitare quello che Mounier
chiamava “il potere di scuotimento”, tipico dei grandi maestri, degli educatori,
come richiamo forte di protesta, testimonianza ed impegno nel sociale. E cita al
riguardo il discorso che Gorrieri tenne a conclusione dell’Assemblea
Organizzativa Cisl a Novara (Ottobre 1964):
“Ai
lavoratori, alle classi popolari è affidato questo grande compito di realizzare
quella nuova società, quella società in cui la libertà non sia soltanto un fatto
vuoto, ma sia la sostanza cui tutti partecipano in misura veramente uguale; è
quindi vostro compito di realizzare questa nuova società, più libera, più
giusta, che è stata l’obiettivo e la speranza del movimento di liberazione”.
Per Gorrieri proprio dallo spirito
della Resistenza nasce una profonda "aspirazione", che non deve mai essere
acquietata. Per lui il post-fascismo vive solo se si basa e continuerà a
poggiarsi su tre pilastri: "Libertà, tolleranza, solidarietà".
Da questa "fonte" e solo da questa
può scaturire una società nuova "diversa dal passato, non solo sul piano del
regime politico, ma anche della strutturazione sociale ed economica. Una società
nuova non concessa dalle classi dirigenti come con la guerra 15-18, ma una
società conquistata attraverso la lotta e la partecipazione diretta delle classi
popolari”.
Franco Banchi
Franco Foschi, l’umiltà e
il servizio alla politica
Franco Foschi è stato un importante esponente della sinistra sociale della
Democrazia Cristiana, la celebre corrente guidata a livello nazionale da Carlo
Donat-Cattin. Deputato della Dc dal 1968 al 1994, Foschi ha ricoperto gli
incarichi di Sottosegretario al Lavoro, alla Sanità e agli Esteri e di Ministro
del Lavoro durante i governi Cossiga ll e Forlani. Un uomo integerrimo ed
espressione di quella generazione - Foschi nasce a Recanati nel 1931 e muore ad
Ancona nel 2007 - di cattolici impegnati in politica che hanno percorso l’intero
curriculum politico partendo dall’Amministrazione Comunale. E Foschi, infatti,
fu Sindaco della sua città natale dal 1960 al 1970.
Insomma, Foschi appartiene ad una
generazione che ha fatto dell’impegno politico una sorta di vocazione laica a
servizio degli altri e, di conseguenza, hanno dedicato l’intera vita a questa
missione pubblica. Ed è proprio alla luce di questo percorso politico e
culturale concreto che l’incidente della iscrizione alla loggia massonica P2 fu
semplicemente devastante per Foschi e anche per la sua comunità̀ politica. Anche
se va pur detto che Foschi dichiarò ripetutamente di essere estraneo alla
loggia medesima e il suo nome, del resto, non comparve mai nelle molte vicende
legate alla loggia P2.
Ma, al di là di questa spiacevole
vicenda che comunque segnò la sua esperienza politica ed umana, non si può̀ non
sottolineare che Foschi ha sempre rappresentato nella sua lunga e feconda
attività̀ politica e pubblica una forte e convita adesione ai valori e ai
principi del cattolicesimo sociale italiano.
Un faro che ha sempre illuminato il
suo percorso politico e che ha segnato i suoi vari passaggi nelle istituzioni.
Tanto in quelle locali quanto a livello nazionali. E questo perché̀ la difesa e
la promozione dei ceti popolari, e nello specifico dei lavoratori, da un lato e
la centralità̀ della politica sociale nella legislazione nazionale dall’altro
sono sempre stati gli elementi nevralgici che hanno accompagnato la sua intensa
militanza. E questa militanza non poteva che esercitarsi nella sinistra sociale
di Forze Nuove, la sua casa naturale.
Nel 1987 fu nominato Direttore del
Centro nazionale di Studi Leopardiani e proprio sotto la sua presidenza
ventennale il Centro divenne una prestigiosa istituzione di carattere
internazionale, collaborando con università̀ e studiosi di ogni paese e portando
l’opera di Leopardi in tutte le nazioni. Nel 2001, inoltre, fondò ed inaugurò
sulla sommità̀ del Colle dell’infinito a Recanati il Centro Mondiale della
Poesia con lo scopo di promuovere e favorire la poesia e la cultura in qualsiasi
parte del mondo ed in qualsiasi lingua e forma si possa esplicare. Rimase
presidente del Centro Nazionale di Studi Leopardiani e del Centro mondiale della
Poesia sino alla sua morte. Medaglia d’oro al valore della sanità pubblica e
membro associato d’onore dell’Assemblea del Consiglio d’Europa.
Infine, un dato da non sottovalutare
a conferma della stretta correlazione tra il pensiero e l’azione nella
dimensione politica e legislativa. E cioè̀, nell’arco della sua carriera
parlamentare ha presentato 420 progetti di legge.
Come definire questo importante
personaggio “eclettico”?
La cifra eclettica
Un laico cattolico che ha
testimoniato e vissuto come indivisibile il proprio impegno per
l’evangelizzazione e la promozione umana attraverso livelli creativi,
successivi e diffusivi: ispirazione religiosa, interesse culturale (curvato
sulla sociologia ) ed impegno civile (con forti incursioni politiche).
L'obiettivo del nostro articolo è
quello di incrociare e tentare di unificare le varie dimensioni del suo ricco
pensiero e della sua vita operosa: giornalista, accademico, soggetto
istituzionale, politico, sempre in costante dialogo con la società civile del
nostro Paese.
Infatti, la sua “cifra” emerge fino
dall'età giovanile. In lui l’impegno civile divenne subito culturale e presto
politico, intersecandosi inestricabilmente con la storia democratica e
repubblicana.
Fede, cultura, politica
Nato in Friuli nel 1921, da una
famiglia che, per la precoce morte del padre, era stata portata avanti dalla
mamma, che riuscì a far laureare tutti i cinque figli, trascorse tutta la sua
vita in Emilia-Romagna, particolarmente a Bologna. Qui Ardigò negli anni '30
prese parte all'attività dell'Azione cattolica bolognese e dal 1938 specialmente
alla vita della FUCI.
Dopo l’armistizio, infatti,
già laureato in lettere e filosofia a Bologna, militò, dal 1° settembre 1944,
nella VI Brigata “Matteotti” col compito di staffetta. Nello stesso periodo
iniziò anche la sua attività giornalistica, curando la pubblicazione del
quindicinale clandestino La Punta,
organo dei giovani democristiani. Nel dopoguerra fu redattore del quotidiano
cattolico L’Avvenire d’Italia e
della rivista Cronache sociali.
Partecipò da protagonista, ancorché
non nella prima fila del potere di governo, a quelli che sono stati i momenti
più importanti e più alti della oggi cosiddetta “prima” Repubblica, quella che
potremmo, da storici, chiamare la Repubblica democristiana, capace, come dirà
più tardi il professore, di creare una “nuova sintesi politica “.
Ardigò visse così l’età degasperiana
della Ricostruzione, nel doppio ruolo di studioso ed attore, a fianco di
Giuseppe Dossetti. Partecipò alla stagione del centro-sinistra, come pensatore
di punta accanto ad Aldo Moro. E, a partire dagli anni '70, fu ancora supporto
culturale della leadership di Benigno Zaccagnini e di Aldo Moro, durante la
drammatica stagione della «solidarietà nazionale».
A partire da questo decennio, che lo
vedrà sempre più protagonista del mondo accademico bolognese e nazionale fino a
fondare l' Istituto Nazionale di Sociologia, rallenta la sua presenza diretta
nella DC, per poi lasciare il Consiglio nazionale del partito nel 1973. Scelta
che comunque non lo farà allontanare dalla politica. Nel 1975, dopo la sua
dichiarazione per il NO nel referendum del 1974 per l’abrogazione della legge
sul divorzio, fonda la Lega Democratica con Gorrieri e Scoppola.
Collaborò con Tina Anselmi e
Rosy Bindi nel settore sanitario. Fu vicino ai giovani cattolici democratici
della Rosa bianca, partecipando alla scuola di politica di Brentonico e agli
incontri della sinistra democristiana a Lavarone. Contribuì, insieme con
Lazzati, Clemente Riva, Giuseppe De Rita, padre Bartolomeo Sorge, Domenico
Rosati, Vittorio Bachelet e Giovanni Nervo, a preparare il primo convegno
ecclesiale nazionale, indetto dalla Conferenza episcopale italiana (CEI), sul
tema Evangelizzazione e promozione umana (1976).
Dal 1995 in poi, come intellettuale
cattolico militante, sostenne dapprima l’esperienza politica di centro-sinistra
de L’Ulivo (sfociata nel 2007 nel Partito democratico) e successivamente de I
Democratici di Romano Prodi e del sociologo politico Arturo Parisi.
Gli anni ‘90 e l’inizio del nuovo
secolo per Ardigò costituiscono un'ulteriore fase di studio e ricerca,
focalizzati, in particolare, sulle nuove tecnologie e sulla loro applicazione in
ambito sanitario, coerentemente con i ruoli ricoperti a CUP 2000 S.p.A. e
all’Istituto Ortopedico Rizzoli.
La sua bussola per un intero
secolo
In un suo articolo in Nuova
Democrazia ( primi del 1945 ),
riprendendo l'allocuzione natalizia del 1944 di Pio XII, Ardigò scrive: “Per un
vero cristiano oggi non è più lecito credere alle possibilità della rinuncia
alla vita sociale. La tranquillità e l'ordine saranno il frutto solo della
nostra forte azione politica, severa verso gli opportunismi e la disonestà
d'ogni condizione e gravezza”. E' questo il suo sguardo lungo che accompagnerà
il suo pensiero e l'azione sociale e politica per tutto il secolo.
E ci piace fare un volo cronologico
fino ad un'altra sua intervista, contenuta nel libro Professare la sociologia
(pubblicata nel 2022 a cura di E. Minardi). In essa il professore offre un
affresco ricco e di vasto respiro sul senso del mestiere di sociologo, dove
spiega come la sua visione ponga sempre al centro la categoria di “persona”,
rifiutandosi di abbracciare le derive normative e ideologiche oppure
individualistiche, tipiche di alcune importanti tradizioni del pensiero
sociologico.
Questa visione influenzerà sempre la
sua produzione editoriale, ma costituirà anche la filigrana delle sue
innumerevoli conferenze e corsi di formazione. Nell'intervento che terrà a S.
Pellegrino nel 1961 emerge una simmetrica filosofia applicabile allo Stato: ”Ma
quale tipo di Stato? Ecco il problema. […] Lo Stato moderno, che, sul modello
inglese assume la libertà come proprio fine è uno Stato in crisi perché il vero
fine dello Stato deve essere la felicità umana, il bonum humanum simpliciter e
tale finalismo deve essere deliberato e programmatico; non astratto ed
episodico».
Il coraggio di capire il futuro
Ardigò fu infaticabile promotore,
divulgatore, teorico e ricercatore scientifico sin dai primi anni Settanta. Fin
dagli anni '80 è sempre più forte in lui l’interesse per le tecnologie. Per
questo è uno dei precursori che analizzano il tema dell’intelligenza artificiale
e quello delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con
particolare attenzione per la questione delle applicazioni
informatico-telematiche a supporto delle fasce più deboli di popolazione. La
sua “lettura” vede l'innovazione al servizio della promozione umana, per un
continuo potenziamento e rafforzamento dei diritti di cittadinanza, verso nuovi
modelli di servizi socio-assistenziali, sanitari e di welfare. Achille Ardigò è
stato anche il fondatore della sociologia della salute, che la collega ad
ambiente, famiglia, organizzazione del lavoro, comunicazione e tecnologie. E non
ultima la dimensione spirituale. Di questa materia egli fu non solo
infaticabile teorico, ma ricercatore e divulgatore. In tale ambito ricoprì anche
incarichi operativi nel campo delle istituzioni ( es, Presidente prima sezione
del consiglio superiore della sanità ).
Politica e trascendenza
Da sociologo Ardigò è stato sempre
attentissimo sulla necessità di costruire la politica sul recupero dei valori
all’interno di una comunità. Sia per l'Europa che per l'Italia, come per tutto
il mondo occidentale, percepisce che la vera crisi non riguarda solo o tanto i
parametri economici e le relative implicazioni sociali. Il fattore critico più
preoccupante è la progressiva frattura fra la gente e lo Stato, frattura che
si è acuita esponenzialmente nel tempo. Il professore avvertiva con chiarezza
che la grande fiducia nella funzione architettonica e direttiva della politica
negli anni '50 e '60 era un lontano ricordo.
Forse proprio per questo uno
dei momenti paradigmatici scelti da Ardigò è la stagione del Concilio Vaticano
II. “Lho vissuto al fianco di Dossetti – dice il professore in un'intervista a Repubblica del
2005. “Ero all´Avvenire. Fu la grande stagione della nostra vita, gravida di
enormi energie spirituali. Ci investì come un fiume in piena. Ricordo come fosse
ora quando il cardinal Lercaro, con tono entusiasta e agitato, telefonò da Roma,
alle tre di notte, a Dossetti che era il suo segretario: “Stanno succedendo
grandi cose, venga subito, ho bisogno del suo aiuto
Franco Banchi
Ardigò non scorderà mai nella sua
vita la frase che l´«onorevole di Dio», poi frate di Monte Sole e suo maestro,
gli consegnerà:”Per un credente la politica è pensabile solo se illuminata dalla
trascendenza”.
Vito
Lattanzio e Aldo Moro, nella Regione Puglia, erano i Democristiani più votati.
Giovanni Copertino, un Amico del Gruppo politico che faceva capo a Lattanzio, in
questa intervista, fatta da Antonino Giannone, racconta le fasi più
significative della vita di Vito Lattanzio, del suo rapporto con la gente, dei
tratti della sua personalità, del suo pensiero politico che, poi, Copertino ha
continuato con il suo impegno nella Democrazia Cristiana, nelle Istituzioni
Comunali, Provinciali e Regionali.
Cenni biografici di Vito Lattanzio: Nasce
a Bari il 31 ottobre 1926 - Deceduto il 31 ottobre 2010. Laurea in Medicina e
Chirurgia; Medico Chirurgo. Lattanzio è stato un Politico con grandissimi
consensi elettorali in Puglia, un "pilastro" della Democrazia Cristiana, un
leale antagonista di Aldo Moro: nei Comitati Provinciali non c'era altro se non
un confronto tra i due. Lattanzio è stato eletto ininterrottamente in Parlamento
dal 1958 al 1994. Ha ricoperto moltissimi incarichi di Governo, Ministro cinque
volte, e Sottosegretario; è stato vicepresidente della Camera dei Deputati per
due legislature, tra
il 1983 e 1988. Nella Dc è stato anche componente della Direzione Nazionale e
Responsabile della Politica Estera. È Stato, In Puglia, uno dei Politici di
massimo riferimento della Dc, ancor più dopo la morte di Aldo Moro. Segnaliamo
il libro di Vito Lattanzio: Il silenzio - riflessioni per poter sperare nel
domani. Editore. Giuseppe Laterza 01/01/95
Antonino domanda: Giovanni, per
numerosi anni, hai operato, politicamente nel Gruppo di Amici dell'on. le Vito
Lattanzio. La sua segreteria politica di via Fratelli Rosselli era considerata
una centrale del divenire della cosa pubblica in ogni espressione. Tu ci puoi
raccontare l'approccio umano di Vito Lattanzio con le Persone, con i suoi
Elettori?
Giovanni risponde: Ricordo
che nei weekend, quando Vito Lattanzio tornava a Bari da Roma, davanti al suo
uscio si infoltivano impressionanti code di "postulanti": l'idraulico, il
marinaio pescatore, il commerciante del mercato rionale, il venditore al
minuto, il coltivatore diretto, il muratore, l'Imprenditore, l'Avvocato, il
Medico, il Notaio, anche i Sacerdoti per una richiesta di beneficienza per una
festa parrocchiale o per una famiglia particolarmente bisognosa. Lattanzio
ascoltava, con attenzione non formale, tutti, sempre, uno per uno:
"Vedrò di fare
quello che posso". La Segretaria
di turno, annotava e prendeva appunti per tenere aggiornate le richieste che
erano uno "specchio dei bisogni e delle
esigenze socialidi
quel tempo". Lattanzio si circondava di persone molto competenti con valori
etici: trasparenza e lealtà.
In particolare, voglio citare l'Amico Michele Caldarola che era il Capo
della Segreteria Politica. Purtroppo,
nell'era digitale non c'è più il rapporto diretto tra la gente e
il Politico che, quindi, non ha più il
"polso della situazione del territorio che rappresenta" e spesso
le scelte dei Collaboratori non premiano competenza, merito e valori
della persona.
Antonino domanda: I
Pugliesi che votavano per decenni Democrazia Cristiana erano Lattanziani o Morotei. Ci
potresti spiegare in che cosa consisteva questa rivalità e contrapposizione?
Giovanni risponde:: Lattanzio e Moro
erano due autentici Democristiani e quindi
si consideravano, prima di tutto già Amici. Sul
piano personale si rispettavano sia in pubblico, sia in privato, ma la cronaca
politica, per aumentare l'interesse della gente, aveva l'abitudine di
amplificare le loro differenze sulle scelte politiche.
Antonino
domanda: Giovanni, Ti chiedo
come se facessimo del Gossip negli anni '60-'70 per nulla paragonabile agli
eccessi del Gossip dell'era digitale: in che cosa Lattanzio e Moro tra i più
votati rivali nella DC in Puglia erano dei rivali politici?
Giovanni risponde:: Innanzi
tutto, vorrei chiarire che noi Democristiani anche quando sutemi di
carattere politico abbiamo opinioni diverse, siamo sempre degli Amici e come
tali ci rispettiamo sempre. È una
caratteristica che come abbiamo visto in questi ultimi 30
anni, non rientra nel DNA di altri Partiti, specialmente quelli che
si basano sulla gestione di un unico
leader e non
sulla naturale selezione della classe dirigente, ma
soprattutto sulla fedeltà al leader di turno. Comunque stiamo parlando di due
Persone con alti Valori etici e Cristiani, due
grandi Servitori per la Politica.
Antonino domanda:
Quali sono stati i provvedimenti
e i progetti più importanti che ricordi della concretezza politica che veniva
attribuita a Lattanzio?
Giovanni risponde:: Vito
Lattanzio si è sempre
interessato, in prima persona, nell'esercizio del suo potere
istituzionale, con interventi a favore della Regione Puglia. Ricordo, in primis,
il suo impegno per la Sanità: lo sviluppo concreto del Policlinico di Bari, con
significativi investimenti per le infrastrutture, le tecnologie e il
personale. Da quell'impegno anch'io ho potuto continuare, quando
sono stato Presidente della Giunta Regionale della Puglia (1993), con
l'avvio del Progetto Asclepios con il Prof. Paolo Livrea, Preside
della Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell'Università di Bari. Ma Lattanzio è intervenuto
anche in altri settori, ad esempio l'Agricoltura, era stato Presidente della
grande organizzazione Coldiretti.
Antonino domanda: Vito Lattanzio,
resta, nell'immaginario collettivo, il Ministro della Difesa che, nel 1977, si
dimise, un mese dopo la fuga del criminale di guerra nazista Herbert Kappler dal
Policlinico militare del Celio, a Roma.
Giovanni risponde:: Innanzi
tutto affermo che il Ministro della Difesa Vito Lattanzio non c'entrava nulla conquella
fuga, masi assunse la responsabilità politica e si dimise. Ma a conferma
del suo operato che fu da tutti considerato trasparente, nel rimpasto
governativo Lattanzio, senza soluzione di continuità, fu nominato alla guida del
Ministero dei Trasporti e della Marina Mercantile che a quell'epoca erano
Ministeri divisi, mentre oggi sono stati
accorpati.
Antonino domanda:
Negli anni '90 arrivò Mani Pulite: un flagello per i Politici Democristiani e
Socialisti che governavano allora. Il clima di Mani Pulite, travolse, con
l'inchiesta "Speranza", anche due Politici, Ministri, in quegli anni. Cosi
scrivevano i giornalisti di quel tempo: "Si può
dire che la
carriera politica di Lattanzio sia finita il 28 marzo del 1995, quando fu posto
agli arresti domiciliari assieme all'altro ex ministro barese Rino Formica,
socialista, indagato per corruzione e finanziamento
illecito nell'ambito dell'inchiesta "Speranza"
condotta dall'allora pm Alberto Maritati". Il
processo "Speranza" fu devastante per la politica nella Regione Puglia per poi
concludersi nel nulla: tutti innocenti tranne uno che avrebbe fatto associazione
a delinquere con sé stesso il riferimento
rimasto di quell'inchiesta è Francesco
Cavallari, detto Cicci, Presidente
del Gruppo Case di Cura Riunite
(4mila dipendenti), che operava nella
Sanità e che è morto
da colpevole, ma era innocente Giovanni,
ci potresti dire cosa pensi oggi di
quella vicenda?
Giovanni risponde:: Vito
Lattanzio, democristiano, e Rino
Formica, socialista del Garofano furono coinvolti nell'inchiesta «Speranza» II
28 marzo del '95, i due Ministri
condivisero la sorte di quell'inchiesta degli arresti
domiciliari per finanziamento illecito e corruzione.
Titoloni sui giornali, TG nazionali e regionali, grande
clamore. Dopo 14 anni
di processi, veleni in corpo,
i due Politici, travolti dai mass media nella polvere, furono assolti nel
dicembre del 2009, perché «Il fatto non sussiste». Per
entrambi gli accusati fu certamente meglio saperlo da vivi che da morti. Ma a questo
punto, oggi, non
posso non evidenziare un fatto riguardo a quell'inchiesta
che è figlia del
clima inquisitorio di Mani Pulite che oggi, si può
affermare, che è stato un golpe
mediatico-giudiziario, perché recentemente (2023), così
è stato reso noto da un Magistrato
protagonista: il Giudice Gherardo Colombo che lo scrive nero subianco
nell'introduzione al libro "L'Ultima
Repubblica" di Enzo Carra, l'ultimo portavoce della Dc, scomparso il 2 febbraio Esemplare è una
testimonianza resa proprio nei giorni in cui
tutto cominciò, tra il gennaio e il marzo
del 1993. In quei giorni,
Daniel Server, Incaricato d'Affari dell'Ambasciata statunitense in Italia,
ragguaglia su Tangentopoli
il Dipartimento di Stato e osserva
che i magistrati hanno "intrapreso un processo di cambiamento che non possono
controllare o guidare completamente", perché la loro "responsabilità è quella
d'assicurarsi che giustizia sia fatta, non di indicare linee
politiche per stabilire quando abbastanza è abbastanza"...........Gherardo
Colombo dice poi "che se i
politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto "a che
fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta
Stato-Tangentopoli, del tutto illegale così infatti ha commentato Piero
Sansonetti su Il Riformista: "Dal
punto di vista
del codice penale, se Colombo racconta il vero, il
pool commise un reato piuttosto serio. Violò l'articolo 338 che punisce
severamente la minaccia a corpo
politico. Nella
sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parla di singoli politici, o di
imputati: parla di "politica", al singolare, cioè si riferisce esattamente al
"soggetto collettivo" al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la
minaccia del carcere. L'articolo 338 del c.p. prevede pene fino a sette
anni di reclusione. Ovviamente
i reati sono caduti in prescrizione,
però resta la ferita allo Stato. La
Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano sempre se è
vero quello che dice il dottor Colombo - fu comunque
portato avanti, con gli arresti sistematici, con l'aggiramento del Gip, con i
mandati di cattura a rate,
col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni o con nuovi
mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi" Un altro riferimento
disponibile è "Tangentopoli fu colpo di Stato. Lo
dicono le toghe", scritto
da Ruben Razzante su La Nuova
Bussola Quotidiana: "l'inchiesta
di Mani Pulite fu in realtà un vero Colpo di Stato per
sgominare la DC. La furia
giacobina di quelle toghe ha distrutto
la Prima Repubblica con l'intento di costruirne un'altra governata da un'altra
forza politica: la sinistra" Mi sono soffermato su questa pagina di Tangentopoli
perché ha colpito anche Vito Lattanzio: Politico,
grande servitore dello Stato e bella
persona che grazie alla sua Fede Cristiana seppe affrontare tutte le accuse dei
PM he si sono rivelate del tutto
infondate. Infine,
inviterei a riflettere su quanto ha
scritto il Capo della Procura del Tribunale di Milano, Francesco Saverio
Borrelli: "Se fossi un uomo
pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume
chiedere scusa per i propri sbagli, vi
chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non
valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in
quello attuale". Un dato di fatto
va ricordato: Mani Pulite ha provocato 40 Suicidi e centinaia
di Politici arrestati e assolti!
Antonino domanda: Giovanni,
potresti spiegarci il pensiero politico di Vito Lattanzio e il suo "Servire la
Politica e non servirsi della politica" come diceva Don Luigi Sturzo
nell'Appello ai Liberi e Forti (104 anni fa che è sempre attuale) che poi Tu hai
praticato nel tuo percorso politico di Democristiano di Centro?
Giovanni risponde:: Mi
ha unito a Vito
Lattanzio una comunanza di principi ideali di Umanesimo cristiano e di
sensibilità che è stata segnata da un lungo rapporto di amicizia
profondo che non è stato
mai scalfito durante l'impegno comune di realizzare le nostre scelte politiche
con la Democrazia Cristiana per il miglioramento del Bene Comune della gente di
Puglia e dell'intero
Paese. Una Visione comune: eravamo contrari all'idea di Stato padrone, e dei
Cittadini sudditi, ma avevamo e continuo ad avere
una Visione che vede lo Stato
come regolatore dei processi con l'affermazione dei principi di
sussidiarietà, di lasciare ai cittadini la libertà d'intraprendere e di
operare in un
mercato libero che si è andato
globalizzando, senza più barriere
con servizi commerciali in internet in tutto il mondo. Mi piace ricordare in
particolare, il tenace impegno che Vito ha
sempre profuso per la nostra terra, la Puglia, e la sua risoluzione ai problemi
del Mezzogiorno con proposte concreta di Legge. Se rileggessimo
le cronache politiche di qualche decennio fa, scopriremmo che Vito Lattanzio,
era rispettato dai suoi avversari politici sia di Sinistra, sia di Destra
che oggi, come il Sen. La Russa, Presidente del Senato della Repubblica, così
scriveva quando era Ministro della Difesa del Governo Berlusconi: "Vito
Lattanzio ha lasciato
un segno profondo nella storia delle istituzioni democratiche del nostro Paese e in
tutti noi un ricordo indelebile quale uomo politico e di
cultura di altissimo spessore al servizio della Repubblica”
Antonino domanda: Se guardiamo al
futuro nell'era dell'Intelligenza Artificiale, con un Relativismo etico sempre
più esteso e anti cristiano, come l'inaugurazione delle Olimpiadi ha dimostrato,
ritorneranno i principi e gli insegnamenti della Democrazia Cristiana?
Ritorneranno i Politici con la P maiuscola, come sono stati Lattanzio e Moro?
Giovanni risponde:
Non lo so, ma prima di risponderti,
faccio una considerazione: dopo Mani Pulite che ha di fatto distrutto un'intera
classe dirigente, abbiamo appreso di recente che lo
fece con un vero colpo di Stato per sostituirla. Così, la Politica è stata, da allora,
troppo spesso immeritatamente vituperata anche a causa
dello spettacolo offerto da numerosi politici e da
nuovi partiti che, poi, si sono
liquefatti in pochi anni. La Politica, che scrivo sempre con la P maiuscola, è stata
bersaglio di ironie e sberleffi e
i giovani e giovanissimi,
non avendo più esempi di Testimoni di Vita, autentici Servitori dello Stato, non
sono più attratti dalla Politica, per costruire la Polis nel proprio territorio.
Oggi, dopo aver superato da poco 80 anni, Ti confesso, innanzi tutto, che
continuerò a dire
NO a coloro
che promuovono e diffondono
il Pensiero che Dio non esiste e che
con le nuove tecnologie è l'Uomo-dio, assistito e/o
sostituito dalla "macchina dell'Intelligenza Artificiale". Questo pensiero, che
alimenta la diffusione del Nichilismo e del
Relativismo individuale, è una
prospettiva davvero disumanizzante che, oggi, Vito Lattanzio avrebbe combattuto,
come faccio lo, con tanti Amici Democristiani, Lattanziani e Morotei
della mia generazione, ma anche con i più giovani che non si sentono
rappresentati e non
vanno a votare. Oggi, purtroppo, esistono solo posizioni partitiche di Sinistra e di
Destra, perché lo schema è bipolare. Io ho sempre
operato dal Centro della Politica che purtroppo oggi non è più rappresentato
come lo era con la Dc. Da numerosi anni, servirebbe una legge elettorale
proporzionale, unica legge democratica, che
chiuderebbe la lunga fase di transizione, iniziata negli anni '90, con la legge cosiddetta
"mattarellum". Oggi s'impone
per tutti di ridare identità ai gruppi
politici e protagonismo
all'Elettore che è escluso
dalla scelta del Candidato sul suo Territorio, come invece accadeva ai tempi di
Lattanzio e di
Moro che avevano un larghissimo consenso con centinaia di migliaia di
preferenze, come tanti Politici Dc in altre Regioni.
Antonino domanda: Un'ultima domanda:
nello scenario politico italiano, sarà possibile la presenza di una Democrazia
Cristiana storica? Oppure la presenza di Una DC 2.0 dell'era digitale?
Giovanni risponde:Caro
Antonino, intanto Ti ringrazio per questa tua pregevole intervista, e quindi
rispondo a questa
tua ultima domanda che lo considero non possa avere una risposta con una
certezza di previsione: sarebbe velleitario formularla per chiunque. Ma, per
l'interesse dei moltissimi cittadini e specialmente dei più
giovani che leggeranno le Testimonianze dei grandi Padri della Dc storica, non
mi sottraggo. A mio
avviso, per realizzare nell'era digitale un obiettivo così ambizioso, servirà
che i giovani delle nuove classi dirigenti abbiano desiderio e determinazione a impegnarsi
in Politica per affermare nella Società un nuovo Umanesimo, certamente digitale,
ma anche un Umanesimo cristiano. A
tale riguardo, mi auguro, che le numerose riflessioni in corso,
che anche Tu stai
sviluppando in tanti Convegni in Italia, sul tema: Intelligenza
Artificiale ed Etica: la Società va verso un nuovo Umanesimo o un Transumanesimo? faranno
nascere una diffusa passione civile nei più giovani, come è accaduto,
dopo la II^ guerra mondiale, per la nostra generazione e per
quelle immediatamente successive per la Ricostruzione dell'Italia. Il
futuro, certamente, appartiene ai Giovani Millenials, Alpha, Zeta e ancora
ai più giovani: saranno
loro che dovranno sentire l'impegno per ricostruire la Polis con la tutela della
Persona della sua Dignità, dell'Ambiente, del
Creato, e per realizzare
il Miglioramento del Bene Comune. Concluderei
con questa considerazione: l'impresa di ricostruire la Dc storica è ormai
un'impresa quasi impossibile perché troppo diversi sono: contesto sociale,
economico, tecnologico, geopolitico e, inoltre, ci sono
le vicende di carattere amministrativo, patrimoniale, giudiziario che sono state
utilizzate per alimentare solo un'immagine negativa della Dc
storica. Penso, comunque, che debba continuare l'impegno di ex
Democristiani, Cattolici e Laici, ispirati
cristianamente, che possiedono e/o condividono Valori etici, cristiani e la
cultura politica della Dc storica. Servirà promuovere sul territorio e nella
comunità, dove
si vive e si opera, la presenza di questi Valori nella Società, attraverso
aggregazioni partitiche che saranno scelte e spero
che ci sia
anche un nuovo Partito di Cattolici e Laici nell'era del cambiamento
d'Epoca, previsto nei prossimi 20/30 anni con l'Intelligenza Artificiale.
Infatti, sono convinto che un nuovo Partito: Dc 2.0, inserito nel Partito
Popolare Europeo, voluto da Alcide De Gasperi, Schuman e Adenauer, i
veri Fondatori dell'Europa dei Popoli, potrà contribuire stabilmente a realizzare
un progetto politico. Ma ci vorrebbero Politici, come Vito Lattanzio e Aldo
Moro, uomini d'onore, Cattolici che non si vergognino di essere frequentatori di
Messe e di
Curie, che abbiano Virtù etiche nell'esercitare il loro potere, senza
approfittarsi per sé e per i loro
familiari e amici.
Sarebbe questa una prova di moralità
della nuova Politica: un'incarnazione dell'ideologia associata a un
esercizio del potere! Vito Lattanzio ha lasciato, sulla "sponda dei viventi", 84 anni
di vita democristiana, è stato e resta un Testimone anche per i Giovani dell'era
digitale perché sappiano impegnarsi, nel loro futuro, a realizzare un Mondo
Migliore.
A
cura di Giovanni
Copertino *,
intervistato da
Antonino Giannone
**
Nell'intervista, Copertino
e Giannone si chiamano per nome: sono Amici dagli anni '90.
nel 70esimo anniversario
della scomparsa di Alcide De Gasperi (9
agosto 1954)
* Giovanni Copertino, nato a
Monopoli (25 Gennaio 1943) dove risiede e vive; Laureato in Agraria, è stato
Ufficiale del Corpo Forestale dello Stato. Copertino è chiamato dai Cittadini e
dagli Amici, Giovanni, ha ereditato la "corrente dei Democristiani che fanno
capo a Vito Lattanzio". È stato Presidente della Regione Puglia dal 4 dicembre
1992 al 3 settembre 1993. Nel 1994, con lo scioglimento della Dc, aderisce al
Centro Cristiano Democratico di Pier Ferdinando Casini, con il quale venne
rieletto in Regione; ha ricoperto l'incarico di Presidente del Consiglio
Regionale dal 1995 al 2000; Vice Presidente della Giunta Regionale (2000-2005) e
Consigliere Regionale ininterrottamente fino al 2015. È stato anche Presidente
della Provincia di Bari e Sindaco di Monopoli. Copertino, in numerosi anni, si è
adoperato nelle Istituzioni come promotore per approvare, in particolare: La
legge sull'Università del tempo libero e della Terza Età e la Legge sulla
Famiglia. Per le iniziative politiche della Democrazia Cristiana, Copertino,
con tanti altri Amici della Regione Puglia, ha sostenuto, per numerosi anni, il
Progetto che, purtroppo, non si è realizzato, di un'autentica rinascita della Dc
storica.
** Antonino Giannone, barese (11
Giugno 1943), Ingegnere, intervista Giovanni Copertino È stato Top Manager di
aziende fino agli anni duemila; Professore a contratto all'Università degli
Studi di Bari e per oltre quindici anni al Politecnico di Torino. Dal 2019 al
2023, Presidente del Comitato Scientifico (C.S.) della Fondazione Fiorentino
Sullo/Democrazia Cristiana, con Presidente l'on. le Gianfranco Rotondi. Nel C.S.
partecipavano 80 Esperti su 22 Aree tematiche di diverse generazioni che hanno
sviluppato, in eventi culturali, temi attuali, principi e valori anche della
cultura politica della DC storica. Nel 2024 è stato tra i Fondatori
dell'Associazione culturale "Umanesimo ed Etica per la Società Digitale.
Gerardo Bianco "non
iscritto al club degli statisti"
Gerardo Bianco nasce a Guardia dei Lombardi nel 1931 da Bonifacio Bianco,
veterinario e geometra, e donna Maria, nobildonna originaria di Morra de Sanctis
imparentata coi principi Biondi Morra: una famiglia della buona borghesia, si
direbbe oggi, ma il piccolo Gerardo, come si suol dire, non ‘se la tirava’,
giocava con tutti, studiava, aiutava i compagni meno bravi a fare i compiti,
insomma era una perla di ragazzo di cui giustamente andavano orgogliosi i
fortunati genitori.
Nulla faceva presagire l’impegno
politico del piccolo Gerardo, che tuttavia si interessava alla contesa locale,
ed esprimeva le sue idee con libertà, seguendo con curiosità la nascita della
Dc, e così dissociandosi dalla tradizione leggermente più conservatrice delle
famiglie di origine.
Come tanti ragazzi del Sud, allora
come oggi, Gerardo Bianco a diciotto anni diverrà ‘milanese’: entrerà nella
prestigiosa università Cattolica, facoltà di lettere e filosofia. L’impronta
milanese accompagnerà sempre Gerardo Bianco e altri compagni di università
destinati a splendide carriere: Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi, per dire i più
noti.
Il sodalizio con De Mita nacque a
Milano, nella frequentazione degli ambienti della sinistra cattolica lombarda,
dove i due giovanotti irpini furono notati da quello che a buon diritto veniva
considerato uno dei potenti d’Italia: Enrico Mattei, il presidente dell’Eni il
cui nome si lega al sogno della autonomia energetica italiana. Mattei fondò una
sua corrente personale nella Dc: la sinistra di ‘Base’, e ne affidò la
leadership all’ex partigiano ,futuro ministro dell’agricoltura, Giovanni
Marcora. De Mita, Marcora e Bianco crearono un ponte tra quel ‘milieu’ lombardo
e il fervido laboratorio della Dc irpina, dove imperava un giovane parlamentare
che fu arruolato da Mattei come leader parlamentare della corrente: Fiorentino
Sullo.
Gerardo Bianco era l’ intellettuale
del gruppo, ‘il migliore dei numeri due’ lo definiva De Mita, laddove il numero
uno era lui. Bianco mise a disposizione del gruppo le sue relazioni di impronta
borghese, compresa la frequentazione del salotto romano del suo parente
principe Biondi Morra, dove si narra che si mangiasse ancor meno che in casa
Agnelli, al punto che una volta a fine serata Sullo e De Mita imposero una
puntatina in pizzeria.
Gerardo Bianco si laureò con tesi su
‘Iunio moderato Cocumella’, di cui diverrà - secondo la Treccani- il massimo
studioso nel mondo. Seguirà una cattedra universitaria in vari atenei italiani,
l’ultima a Parma. Ma non sarà l’università l’approdo esclusivo del professor
Bianco: terminati gli studi, il suo amico De Mita era tornato ad Avellino, ed
era divenuto- sulla scia di Sullo- segretario provinciale della Dc. Il numero
due Gerardo Bianco lo seguì a ruota, prima succedendogli da segretario
provinciale, quando Ciriaco divenne deputato, poi raggiungendolo a Montecitorio
nelle elezioni del 1968.
Le immancabili baruffe democristiane
divisero prima il duo della ‘Cattolica’ dal leader Sullo, e successivamente
frantumarono anche il sodalizio tra De Mita e Bianco, che pareva impossibile da
scalfire. Scrisse il giornalista irpino Pasquale Grasso: ‘Sullo, De Mita e
Bianco sono tra le intelligenze più attrezzate della Dc, uniti dominerebbero la
scena e non ce ne sarebbe per nessuno’. La scena l’hanno dominata per anni, ma
ognuno per conto suo: uniti non furono più. De Mita e Bianco scalzeranno Sullo
dalla leadership della Base e dalla guida della Dc irpina, fino a costringerlo
ad abbandonare il partito( tranne poi rientrarvi anni dopo, su iniziativa
proprio di Gerardo Bianco).
A dividere Bianco e de Mita sarà un
diverso giudizio sulla solidarietà nazionale e l’autonomia dei gruppi
parlamentari : la maggioranza dei deputati dc diffidava dell’intesa col PCI, e
voleva essere guidato dal giovane vicepresidente Gerardo Bianco, che però era
ostacolato dalle correnti; a quella carica teneva De Mita, ma i numeri non erano
dalla sua. Bianco si candidò e vinse, contro ogni previsione. Ma con la vittoria
si consumò una rottura personale che lo addolorò infinitamente.
Nella lotta al potere demitiano nel
collegio irpino Bianco ebbe poche solidarietà: principalmente gli fummo a fianco
noi giovani che fondammo in gruppo chiamato Proposta 80, sulla scia del gruppo
nazionale del deputato lombardo Roberto Mazzotta, allievo di Marcora ,divenuto
fieramente anticomunista ( l’asse Avellino-Milano continuava a funzionare).
Bianco combatterà il correntismo
democristiano, e si rifiuterà di organizzare una corrente propria, individuando
nel frazionismo la fonte della dissoluzione del partito e della nascita di
circoli di malaffare. Verrà tangentopoli, che risparmierà quasi soltanto lui,
l’onesto Gerardo che - immune da ogni sospetto- sarà anche il solo ad alzarsi
virilmente in parlamento a denunciare l’attacco di alcune procure a corpi dello
Stato( presenterà in proposito anche un esposto alla procura di Roma, mai preso
in considerazione).
‘ Il cristiano è segno di
contraddizione ‘ diceva Paolo VI e
Bianco incarnava contraddizioni virtuose: lui onesto difendeva la Dc
dall’ordalia animata da procure e giornali; lui anticomunista , qualche anno
dopo, sarà chiamato a guidare il Partito Popolare alleato della sinistra, contro
la frazione del partito che Rocco Buttiglione porterà all’intesa con Berlusconi.
In quella occasione le nostre strade
si separarono, con grande dolore mio e suo. Prevarrà sempre il suo carattere
mite e sincero, sia nel mantenimento dell’amicizia con me, sia nella
ricomposizione umana con Buttiglione, che io celebrai con una memorabile serata
a tre in birreria.
‘Non sono iscritto al club
degli statisti’ amava dire Bianco, con
un filo di snobismo. Invece era un uomo di Stato, come pochi e ben oltre un
corso di onori che è stato generoso ma infinitamente al di sotto delle
potenzialità di un personaggio che la Dc non aveva valorizzato fino in fondo.
Rimane il tenero ricordo
dell’ultimo viaggio assieme a Nusco, per salutare Ciriaco De Mita. Bianco non
volle avvicinarsi alla salma, ‘alla
nostra età è solo un arrivederci’ sussurrò
commosso. E infatti se ne andrà sei mesi dopo, nel dicembre del 2022.
Massimiliano Cencelli nasce a Roma
nel 1936. Di suo padre, collaboratore di Pio XII, ricorda l’estrema semplicità.
Proprio lui gli descriveva il Papa di quegli anni bui come un uomo essenziale,
che cenava in quei tempi con un bicchiere di latte, e che tradiva con i suoi
collaboratori il dolore per quanto accadeva.
Gli anni belli e difficili della
guerra. Il ruolo nella DC
Masimiliano Cencelli ha raccontato
(fonte Vatican News) di aver spesso ascoltato in casa storie di tanti altri
salvataggi di ebrei voluti e messi in atto dallo stesso Pio XII, a partire dalle
centinaia di uomini nascosti come guardie palatine o delle donne accolte in
palazzi del Vaticano o in conventi.
Una mattina – racconta – bussò alla
porta un vecchio amico di mio padre e disse che i tedeschi stavano portando via
tutti gli ebrei dal ghetto. Poi indicò il bambino e disse : “Questo è mio
figlio”. E mio padre rispose senza indugio: “Entra”. Fu così che all’età di
sette anni Massimiliano si trovò a vivere con un nuovo fratello sotto lo stesso
tetto durante l’occupazione nazista di Roma. Quel ragazzino, Leone Terracina,
non ha dimenticato, come non lo ha fatto lo Stato di Israele che ha consegnato a
Massimiliano Cencelli, non molti anni fa, la medaglia d’oro del padre e della
madre, Armando e Luisa, insigniti del titolo di Giusti fra le Nazioni.
“Quando parliamodi
umanità e di diversità religiose - afferma Massimiliano Cencelli, pensando a
quei momenti di grande solidarietà “- dobbiamo esser fermi nella convinzione che
in ogni caso esiste una sola razza umana, il resto sono invenzioni di potere”. E
delle religioni dice: “Non possono
definirsi tali se non conservano umanità”.
Negli anni seguenti post-bellici -
il padre, che era stato l’autista personale di Pio XII, pensava per lui a un
lavoro in Vaticano e l’affidò a Raimondo Manzini, direttore dell’Osservatore
Romano, il quale, vista la sua passione per la politica, gli trovò un lavoro
nella segreteria democristiana in piazza del Gesù.
Inizia da qui la lunga carriera
politica di Massimiliano Cencelli nella DC. Diverrà un brillante ed ascoltato
funzionario negli anni seguenti e, in particolare, sarà segretario di Adolfo
Sarti. Successivamente diventerà collaboratore di Nicola Mancino, prima che
questi \ricoprisse la carica di Vicepresidente del CSM. Cencelli, non ha mai
avuto grandi incarichi elettivi, se non quello di Sindaco del Comune di
Caldarola, un paesino agricolo di 1500 abitanti in Provincia di Macerata.
Quel nome ingombrante
Il suo nome, a partire dal 1981, è
tirato in ballo dal solo archivio digitale dell’Ansa 799 volte in relazione al
suo celeberrimo "manuale". Il termine "cencellismo" compare ufficialmente anche
nella Treccani. Inoltre, non c'è intervista remota o presente in cui il
giornalista di turno non chieda lumi sulla sua quasi pitagorica invenzione.
"Per vanità io dovrei
essere contento che il mio nome continui a girare - dice
in un'intervista al Fatto Quotidiano -
però adesso basta".
Con spiccato senso dell'ironia, ma
insieme con una punta di orgoglio, Cencelli racconta anche qualche aneddoto al
riguardo. Berlusconi, la prima volta che glielo presentarono, a metà degli anni
Novanta, gli chiese se era figlio dell’autore del codice. Gianni Letta corresse
prontamente: «Manuale, Presidente, non codice». Cencelli, che a quel tempo
curava le pubbliche relazioni del San Raffaele, gli rispose che l’autore era
lui.
Il piccolo chimico della politica
Noi però non possiamo esimerci
dallo spiegare ai lettori questo "congegno", affidandoci alle stesse parole del
suo creatore, secondo un'intervista rilasciata ad Avvenire il
25 Luglio 2003. «Nel 1967 Sarti, con
Cossiga e Taviani, fondò al congresso di Milano la corrente dei ‘pontieri’,
cosiddetta perché doveva fare da ponte fra maggioranza e sinistra. Ottenemmo il
12% e c’era da decidere gli incarichi in direzione. Allora io proposi: se
abbiamo il 12%, come nel consiglio di amministrazione di una società gli
incarichi vengono divisi in base alle azioni possedute, lo stesso deve avvenire
per gli incarichi di partito e di governo in base alle tessere. Sarti mi disse
di lavorarci su. In quel modo Taviani mantenne l’Interno, Gaspari fu
Sottosegretario alle Poste, Cossiga alla Difesa, Sarti al Turismo e spettacolo.
La cosa divenne di pubblico dominio perché durante le crisi di governo, Sarti,
che amava scherzare, rispondeva sempre ai giornalisti che volevano
anticipazioni: chiedetelo a Cencelli».
Ma entriamo nello specifico.
Caratteristica di questo metodo era il doppio peso tra qualità e quantità.
Cencelli aveva calcolato la forza di ogni corrente, tenendo conto delle
percentuali ottenute ai congressi (queste cifre le aggiorna periodicamente) e
aveva poi diviso in categorie di importanza decrescente i posti appetibili: i
ministeri sono ripartiti in “grossissimi”, in “grossi”, “piccoli”, e “senza
portafogli”. Tra i primi ci sono l’Interno, gli Esteri, la Difesa e il Tesoro
per molto sempre in mani DC . La distribuzione dei posti diventava un problema
matematico. Tra due correnti di uguale forza, se una avesse ottenuto un
ministero “grossissimo”, avrebbe potuto avere, per esempio solo due
sottosegretari. L’altra corrente, se avesse ottenuto un ministero di seconda
categoria sarebbe stato compensato con un numero maggiore di sottosegretari,
alcuni dei quali nei ministeri di prima categoria».
Era anche previsto un equilibrio
nella rappresentanza geografica. Gli incarichi erano ovviamente assegnati a
seconda della percentuale dei voti ottenuti dal partito e le correnti interne
ottenevano gli incarichi che spettavano al partito in proporzione al numero di
iscritti al partito e dai risultati congressi.
In un' Intervista a
Metropolitan del 2021, Cencelli esterna tutto il fascino ed insieme la fatica
del suo oscuro lavoro: “Alla fine sulla scrivania tenevo sempre una calcolatrice
e un faldone aggiornato sulle fibrillazioni interne. Una vitaccia”. E Continua
così “C’è stato un momento in cui avevo un potere enorme: i posti di governo
passavano tutti dalla mia scrivania. E un vicepresidente americano mi confidò
che il mio sistema era utilizzato anche a Washington”.
La DC nel cuore e quella firma
autografa di De Gasperi
“La prima tessera me
l’aveva data proprio De Gasperi con la sua firma autografa e la scrittura di
pugno del mio’ nome e cognome”. E
prosegue: "Abitavamo a due passi, di
fronte al Vaticano”. Mio zio era
segretario della sezione Borgo. Io avevo solo 15 anni e lui chiese proprio allo
Statista di fare un'eccezione.
"Sono questi i grandi
ricordi della vita", dice Cencelli con
le lacrime agli occhi in un’intervista dei primi del nuovo secolo, non più il
suo ormai.
Franco Banchi
Luigi Gui, il ministro DC della “scuola aperta a tutti”
Luigi Gui ha fatto parte di quella
generazione di giovani cattolici che assunsero l’impegno della ricostruzione
dell’Italia dopo la tragedia del fascismo e della guerra perduta.
Veniva da una famiglia modesta, con
una borsa di studio poté studiare alla Università Cattolica, dove ebbe incontri
decisivi per la sua futura vita politica, lì conobbe i “professorini” Fanfani,
Dossetti, Lazzati, La Pira che rincontrò in Assemblea Costituente e tramite
l’esperienza nella Fuci entrò in contatto con Aldo Moro che ne era diventato il
presidente nazionale nel 1939.
Tenente degli Alpini in Russia al
rientro in Italia prese i primi contatti con il mondo partigiano, scrisse nel
1944 un opuscolo intitolato “Uno qualunque, la politica del buon senso”.
L’opuscolo di una ventina di pagine fu ciclostilato presso il collegio cattolico
padovano Barbarigo, dove operavano due sacerdoti fortemente impegnati nella
lotta antifascista, don Mario Apolloni e don Giovanni Nervo, e diffuso
clandestinamente ebbe una notevole fortuna, come primo orientamento per la
ricostruzione democratica del paese.
Come il coetaneo Mariano Rumor entrò
in politica avendo già alle spalle una esperienza dirigenziale nel mondo
associativo: Rumor Presidente provinciale delle Acli vicentine, Gui presidente
provinciale della Coldiretti padovana. Nel 1946 viene eletto consigliere
comunale a Padova e diventa capogruppo della Dc, guidando la formazione della
nuova giunta post Cln con l’estromissione dei comunisti dal governo cittadino,
poi l’elezione alla Assemblea Costituente e alla Camera nel 1948.
A Roma è tra i deputati dossettiani,
Gui diviene segretario di Civitas Humana, che era il gruppo culturale fondato da
Giuseppe Dossetti e poi redattore di Cronache sociali, la rivista del gruppo che
tra il 1947 e il 1951 rappresentò le idee più avanzate nell’esperienza politica
della Dc, con l’ambizione di costruire un progetto culturale per la società
italiana, dotandosi di strumenti scientifici e culturali adeguati all’impresa.
Iniziano presto le responsabilità di
governo, a partire da quello di sottosegretario all’Agricoltura nel 1951
(Ministro era Amintore Fanfani) con la delega di dare attuazione alla legge
sulla riforma agraria, di cui era stato relatore alla Camera dei deputati. Aveva
scelto del resto in quella prima legislatura di essere assegnato alla
Commissione Agricoltura ed Alimentazione, di cui era stato eletto segretario,
contando evidentemente sulla conoscenza del mondo agricolo che aveva acquisito
con il lavoro svolto per la nascita della Coldiretti padovana.
Un primo impegno governativo di
forte impatto sociale con l’esproprio di oltre 700.000 ettari di grandi
proprietà terriere a favore di coltivatori diretti. A questo primo impegno
sarebbero succeduti incarichi ministeriali di primo livello: Ministro del Lavoro
(1957), Ministro della Pubblica istruzione (1962 – 1968), Ministro della Difesa
(1968 – 1970), Ministro della Sanità (1973 – 1974), Ministro dell’Interno (1974
-1976), Ministro della Pubblica Amministrazione e delle Regioni (1974).
Un ruolo governativo sostenuto da
una lunga una esperienza parlamentare, che si sarebbe succeduta per sette
legislature alla Camera e per una ulteriore al Senato. E incarichi tutti
conquistati con un rapporto costante con il collegio di elezione, come dimostra
il consenso espresso con il voto di preferenza, con il picco di oltre 63.000
voti raggiunti nel 1963, secondo degli eletti democristiani nella circoscrizione
Verona, Padova, Vicenza, Rovigo, dietro il capolista Mariano Rumor.
Della lunga esperienza governativa
di Luigi Gui va ricordato soprattutto (così voleva lui) l’approvazione la legge
per la scuola media unica nel 1962. Rimuovendo un inaccettabile strumento di
diseguaglianza che discriminava i bambini fin dalle elementari, tra chi poteva
accedere a livelli di studio superiori e chi doveva prendere la strada
dell’avviamento professionale. Le statistiche di allora ci dicono che oltre
l’80% dei ragazzi dopo i 10 anni abbandonava gli studi, avviandosi precocemente
al lavoro o all’istruzione professionale di base: un grande progetto di
alfabetizzazione del paese, senza preclusioni di classe.
La riforma della scuola media
unica è stata una vera riforma. Che ha cambiato in meglio la vita degli
italiani, ha dato attuazione ai principi costituzionali di eguaglianza, non a
caso il primo articolo della legge di riforma fa riferimento all’articolo 34
della Costituzione: “La scuola è aperta a
tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e
gratuita”.
Come tutte le riforme vere Gui
dovette vincere resistenze, conservatorismi, interessi corporativi, tra chi
temeva che vi fosse un abbassamento della qualità dell’insegnamento, che vi
fosse un sovraccarico per il corpo insegnante, che si sprecassero risorse per
formare giovani che avrebbero dovuto comunque avviarsi ad assicurare la
necessaria manodopera alle attività produttive.
Non riuscì invece a portare a
termine il progetto di riforma universitaria, osteggiata dai conservatori perché
troppo innovativa, dagli innovatori perché troppo timida. Sarebbe stata invece
una riforma importante, che avrebbe con equilibrio avviato un processo
essenziale di riforma per il quale si dovette poi aspettare moltissimi anni. Va
invece ricordato che da Ministro della Sanità impostò i fondamenti di una
riforma sanitaria che pio fu portata a termine da Tina Anselmi.
Gui fu capogruppo della Dc tra il
1958 ed il 1962, periodo delicatissimo tra le dimissioni di Fanfani dalla
Segreteria nazionale della DC nel 1959, l'elezione di Aldo Moro, la preparazione
della nuova fase dell’apertura a sinistra con l’entrata dei socialisti nel
governo, fortemente osteggiata dagli ambienti conservatori e da una parte della
gerarchia cattolica.
Gui si trovò ad essere un necessario
punto di equilibrio tra l’esuberante iniziativa politica di Amintore Fanfani,
allora insieme Presidente del Consiglio e Segretario Politico nazionale e quella
parte del partito e dei gruppi che mal tolleravano questa concentrazione di
potere e l’iniziativa riformatrice sia nel campo della politica interna che in
quella estera.
Nacque uno stretto sodalizio con
Aldo Moro che durò fino all’assassinio dello statista pugliese. Nel Veneto
capeggiò la corrente morotea, fortemente maggioritaria a Padova e da quelle
posizioni contestò tra l’altro in particolare l’ascesa di Toni Bisaglia, di cui
non condivideva metodi e linea politica.
Gui dovette affrontare anche prove
difficili, quando, ingiustamente tirato in causa nello scandalo Lockheed nel
febbraio del 1976 si dimise immediatamente da Ministro dell’Interno, pur
sapendosi totalmente innocente. Dovette aspettare il 1979 perché la Corte
Costituzionale lo assolvesse con formula piena per non aver commesso il fatto.
Per capire il clima a cui fu
sottoposto un uomo onesto vale la testimonianza di Mino Martinazzoli, che aveva
presieduto la Commissione Inquirente: “Rivedo
Gui vicino alla moglie, davanti all’ingresso di Montecitorio. Lo insultavano e
la folla gli buttava le monetine. Ho un ricordo penoso nella memoria lontana:
quel giorno fu l’epifania di una tendenziale disumanità della politica”.
Di fatto quella vicenda pose termine
alla carriera politica di Gui, anche la scomparsa di Moro lo privò del suo
principale riferimento politico. Luigi Gui seppe terminare comunque con dignità
la sua lunga e operosa carriera politica. Nel 1983 accettò la candidatura nel
collegio senatoriale di Padova, un collegio che tutte le previsioni davano
perdente, ma Gui considerò suo dovere condurre la battaglia elettorale. In
quelle elezioni la Dc conquistò nel Veneto ancora 14 deputati e 12 senatori.
Gui avrebbe ancora meritato una
presenza in un collegio sicuro. Aveva in fondo 69 anni e avrebbe potuto dare
ancora un apporto significativo alla iniziativa parlamentare del gruppo
democristiano. Non si usava il termine inurbano di rottamazione, tuttavia il
rinnovamento avveniva egualmente, ma fu una vera ingiustizia: di una parte
consistente dei molti democristiani veneti eletti in quella occasione non restò
traccia significativa a livello nazionale.
Ripensando alla sua lunga vita
politica Luigi Gui così scriveva nel 1987: “esperienze,
avvenimenti, e problemi sono ripensati dal punto di vista che vorrebbe essere
quello di umanesimo consapevole, nello sforzo di cimentarne l’ispirazione
cristiana con le concretezze della realtà quotidiana e delle vie da rimediare o
da escogitare in essa al fine del bene comune”.
Sono parole che possono applicarsi ad altri esponenti di quella generazione di
cattolici che si trovarono a guidare la ricostruzione del paese e la sua
rinascita economica, sociale e culturale, nel tentativo costante di tradurre una
alta ispirazione ideale nella dura concretezza della vita politica.
Paolo Giaretta *
20 Agosto 2024
* Padovano. Dal 1987 al 1993 sindaco
di Padova. Nel 1996 è eletto senatore della Repubblica per la XIII legislatura.
Riconfermato nel 2001 per la XIV legislatura, e nel 2006 eletto al Senato per
la terza volta. Nelle elezioni del 13 e 14 aprile 2008 è nuovamente eletto
senatore.
Quando
il senatore e ministro Giovanni Marcora morì nel 1983 a soli sessant’anni, il
presidente del Senato Francesco Cossiga venne a Milano per commemorarlo al
teatro San Carlo. Erano intervenute molte centinaia di persone e tanti stavano
in piedi per mancanza di posti. Cossiga iniziò il suo discorso con una frase
che è certamente rimasta nella memoria di tutti i presenti. Disse: «Mentre
venivo qui mi domandavo cosa avrei detto nel luogo dove lui aveva operato così
bene per tutta la vita e mi chiedevo come avrei potuto non essere retorico di
fronte ai suoi amici, a chi lo conosceva bene, ai suoi collaboratori, a chi
aveva combattuto con lui per anni cambiando profondamente la natura della
Democrazia Cristiana anche a livello nazionale. Ero confuso dalla retorica
quando all’improvviso mi sentii esplodere nella mente la sua voce roca che mi
diceva: ‘Francesco, non fare il pirla, ricordati che non ero Napoleone’».
Bisognerà aspettare l’ex allenatore
dell’Inter Mourinho per sentire qualcosa di simile. Fu chiamato per tutta la
vita «Albertino», nome di battaglia assunto come vicecomandante del
raggruppamento divisione Fratelli Di Dio, due eroi della Resistenza uccisi dai
nazisti. Il suo comandante era Eugenio Cefis futuro presidente dell’ENI e della
Montedison. Zona di operazioni l’Ossola e il Mottarone, punto di appoggio la
parrocchia di Lesa, retta da don Federico Mercalli, futuro vicario episcopale
della diocesi di Novara e sacerdote che celebrò le nozze di Cefis e battezzò i
figli di Marcora.
In vetta alla piramide del comando
c’era Enrico Mattei, che fu il tesoriere della Resistenza e il comandante in
capo di tutte le forze partigiane di ispirazione cristiana con il fazzoletto
azzurro al collo. Tra gli uomini sotto il comando di Marcora ricordo Gian Angelo
Mauri, mio amico personale, e Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza,
torturato dai nazisti e futuro capo della guardia personale di Enrico Mattei,
presidente dell’ENI.
La Resistenza ha segnato dunque per
sempre la vita di Marcora che, nato a Inveruno, figlio di contadini, rimase ben
presto orfano di entrambi i genitori e allevato dalla zia, che lui chiamò per
tutta la vita mamma. Fu uomo dotato di un forte carisma personale, un vero capo,
e con notevoli capacità imprenditoriali.
De Gasperi e Mattei lo incaricarono
di organizzare la sfilata della vittoria a Milano. In un primo tempo si dedicò
all’autotrasporto tra Milano e Genova. Quando Fanfani diventò segretario della
DC, Mattei, che stava creando un impero economico con l’aiuto di Cefis, su
suggerimento di don Federico e dell’ingegner Gianmaria Capuani, futuro
presidente della Camera di Commercio di Novara, decise di convocare Marcora
perché́ desse vita nella DC a una corrente che coprisse lo spazio politico della
sinistra degasperiana. Nel 1956 nacque a Belgirate la corrente di Base.
A fianco di Capuani e Marcora si
schierarono ben presto due giovani studenti della Cattolica provenienti dal Sud,
ossia Misasi e Ciriaco De Mita, ma anche Luigi Granelli, ex operaio della
Dalmine, autodidatta, nonché́ le prime donne impegnate in politica nella DC,
come Lidia Brisca Menapace, Tina Anselmi e Adriana Guerrini. Sin dall’inizio
aderirono alla Base il bergamasco Rampa, Marchetti di Varese, Arnaud di Torino,
Follini (padre) di Piacenza, De Poli di Treviso e tanti ex partigiani tutti
futuri parlamentari e imprenditori di successo.
Dal 1956 agli inizi degli anni
Sessanta la corrente di Marcora, che si collegò presto a Firenze con La Pira e
Pistelli, a Bologna con Ardigò e Prodi e a Roma con Galloni e Sullo, crebbe
fino a superare il 6% nazionale della DC e soprattutto conquistò la provincia
di Milano, di cui Marcora divenne segretario provinciale. Dopo la morte di
Mattei la Base subì̀ un trauma e perse il controllo di Milano, per riprenderlo a
metà degli anni Sessanta, realizzando il primo esperimento di alleanza con i
socialisti nell’amministrazione provinciale e comunale della città.
La vicenda fu duramente contestata
dal mondo cattolico milanese e ci fu in particolare, alla fine degli anni
Cinquanta, una dura polemica tra l’arcivescovo Montini, futuro Paolo VI, e Luigi
Granelli, che per questo non ebbe il numero di preferenze necessario per essere
eletto deputato. Quando Marcora tornò alla guida del partito a Milano capì che
era necessario creare un gruppo dirigente dotato di un maggior livello culturale
e tutto questo organizzò con la collaborazione determinante di chi scrive, che
trovò in lui, oltre che una guida politica, un secondo padre, tanto che
accettò volentieri di farmi da testimone di nozze.
Si creò un gruppo di giovani che
sostenne la corrente sia in Lombardia sia nel resto d’Italia, soprattutto a
Roma, dove si aprì una sede nazionale in via Uffici del Vicario. Alle elezioni
del 1968 furono eletti una trentina di parlamentari della corrente, tra cui
Beccaria, Gargani, Bianco, Granelli, De Mita e De Poli. Nel 1970 la corrente
ebbe la forza di acquisire la presidenza della Lombardia con Piero Bassetti e
importanti incarichi per Rino Golfari e Beppe Guzzetti, futuri presidenti della
Regione.
La corrente superò il 10% nazionale
e De Mita divenne vicesegretario nazionale della DC con la segreteria di Piccoli
prima e di Forlani dopo. Anche Marcora per un brevissimo periodo fu
vicesegretario nazionale con Fanfani, per poi ricoprire, all’inizio degli anni
Settanta, il posto adatto a lui: il Ministero dell’Agricoltura che tenne per
sette anni, riuscendo a essere il miglior ministro mai visto in quel settore.
Nel 1980 divenne ministro
dell’Industria, pur conservando il ruolo di capo storico della corrente e, anche
grazie a un’intelligente politica delle alleanze, si rivelò come la testa
pensante della DC, tanto da portare nel 1982 Ciriaco De Mita alla segreteria
nazionale del partito e Francesco Cossiga, che da tempo era entrato nella
corrente di Base, alla presidenza del Consiglio prima e poi a quella del Senato.
Marcora era un punto di forza per quanto riguardava le necessità economiche
della sua corrente in tutta Italia, nonché́ del partito laddove c’erano basisti
alla guida della DC sul territorio.
Aveva dato vita anche a
un’agenzia giornalistica nazionale chiamata Radar,
con sede a Roma e diretta da un intellettuale, autore di numerosi libri e
pubblicazioni, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, Giovanni Di
Capua. La sua principale fonte di approvvigionamento economico era ovviamente il
«cane a sei zampe», ossia l’ENI. Perché́ non ci siano equivoci di alcun genere
su come Marcora conciliasse la raccolta dei mezzi necessari per la politica con
l’attività̀ politica stessa, è utile ricordare che in un grande convegno,
presenti centinaia di dirigenti della corrente di Base della Lombardia, si
rivolse a un membro dell’assemblea che doveva lasciare un incarico per
acquisirne uno più̀ importante dicendogli: «Mi
raccomando, per il mestiere che fai sei abituato a rubare sul gasolio, ma questo
non lo puoi fare nella banca dove andrai».
Quando, molti anni dopo la
morte di Mattei, divenne presidente dell’ENI il marchigiano Girotti, mi capitò
di scambiare qualche parola con un autorevole marchigiano, l’onorevole Forlani,
e gli dissi: «Adesso con Girotti sei
sicuramente più̀ forte nell’ENI». «Eh
no», mi rispose Forlani, «sull’ENI
si protende più̀ che mai la lunga ombra del ministro Marcora.»
In effetti Marcora ricavava da
questi autorevoli contatti la concessione di molte pompe di benzina che gestiva
in proprio o affittava, procurandosi così quella liquidità che in buona parte
veniva investita nella politica. Quando fu approvato il finanziamento pubblico
dei partiti con una legge che Marcora non aveva per nulla gradito, si incontrò
con me per invitarmi a studiare qualcosa di nuovo, perché́ secondo lui la legge
non risolveva il problema, come dimostrerà̀ poi Tangentopoli. Marcora non voleva
violare tale legge per poter dormire tranquillo.
Dopo tanti scambi di idee, giungemmo
alla soluzione che occorresse mettere in piedi qualcosa di simile a quello che
avevano fatto i comunisti con le cooperative rosse. Fu questa la ragione per
cui, pur continuando a occuparmi del partito, impiegai tutte le mie energie per
dar vita a un grande consorzio cooperativo edilizio di cui fui presidente per
qualche anno. Va notato che, mentre il PCI era unito e coeso e quello che
decideva il segretario nazionale del partito veniva attuato pronta- mente
ovunque, nella DC la presenza di correnti di ogni genere creava problemi
concorrenziali interni, per cui i democristiani, invece di aiutarsi, si
ostacolavano l’un l’altro.
Questo spiega sia il fallimento
delle cooperative dell’onorevole Franco Verga, sia in parte di quelle che
facevano riferimento a me e alle ACLI nelle altre zone del Paese. Marcora era
estremamente contrario, nell’ambito della spartizione degli enti a livello
nazionale, a cedere l’ENI al PSI, e riuscì̀ a inserire un membro della sua
corrente nel consiglio di amministrazione di tale ente: il giovane Gianni
dell’Orto, che io stesso gli avevo presentato anni prima. Comunque, il destino
cinico non favorì Marcora.
Infatti, De Mita divenne segretario
del partito e Craxi iniziava la sua breve marcia verso la guida del Paese,
mentre lui cominciava a manifestare i segni della grave malattia che lo aveva
colpito. Non ebbe quindi più̀ la forza di lottare contemporaneamente contro De
Mita e Craxi. Si preoccupò, comunque, che l’ex onorevole De Poli arrivasse alla
presidenza dell’ente Cellulosa, carica che poi lasciò per assumere la
presidenza di una grande fondazione bancaria, cedendo il posto a Giovanni Di
Capua, indicato pure da Marcora. Rognoni, un altro basista, andava a occupare il
Ministero degli Interni lasciato vacante da Cossiga, che diventava presidente
del Senato, e Galloni infine veniva nominato vicepresidente del CSM.
Come si vede, si verificava quello
che tante volte il leader aveva immaginato: la sinistra di Base avrebbe
acquisito nella DC un potere senza precedenti. Se fosse vissuto avrebbe anche
impedito a Goria di liquidare la Federconsorzi, errore le cui ripercussioni
gravano ancora oggi sul nostro Paese. Fra l’altro era uno dei pochi leader
politici disponibili al ricambio generazionale; un aspetto questo a cui molti
altri eminenti esponenti della DC erano poco sensibili.
A tale proposito ricordo un
episodio che ebbe come protagonista Siro Brondoni, già direttore del Popolo
Lombardo e presidente dell’UNURI (Unione
Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana). Durante una riunione della
direzione provinciale presieduta da Marcora, in cui si discuteva per
l’inserimento di alcuni nominativi fra i candidati dell’elezione del 1968,
Brondoni ricordò ciò che Lal Bahadur Shastri, succeduto a Nehru, dopo la sua
morte, nella carica di primo ministro della Repubblica Indiana, rispose ai
giornalisti che gli chiedevano da dove fosse spuntato, dal momento che non
avevano mai udito il suo nome. Shastri rispose pressappoco così: «Gli
uomini di potere sono come gli alberi dalla grande chioma sotto la cui ombra non
cresce nulla. Io sono sbucato fuori solo ora perché́ ho avuto l’audacia di
arrampicarmi sull’albero».
Marcora non era un moralista,
ma era impregnato di una forte componente di moralità̀ cristiana tradizionale
derivante dal mondo contadino. Viveva veramente i problemi di quelli vicini a
lui e non usava «a vanvera» la parola amico. Mi ricordo benissimo di quando,
appena tornato da Bruxelles, venne a riferirci che l’assessore di Firenze Remo
Giannelli, direttore di Politica,
era stato accusato di corruzione e arrestato in relazione alla costruzione di un
forno di incenerimento.
Nel darci la notizia aveva gli occhi
gonfi di pianto e ci ricordava che Giannelli era una persona per bene,
probabilmente caduto nelle mani di qualche furbacchione che aveva approfittato
della sua buona fede. Marcora avvertiva che si stava avvicinando un periodo
buio, in cui i politici avrebbero corso molti rischi, sia a causa della furbizia
di certi imprenditori sia dei pesanti interventi della magistratura.
Concluse dicendoci che, se qualcosa
del genere fosse accaduto a lui, noi dovevamo sapere che tutto quello che aveva
fatto era stato finalizzato agli interessi della corrente e del partito e che
per lui era importante che noi manifestassimo la nostra solidarietà̀. Quando,
non molto tempo dopo, venne il momento della scarcerazione di Giannelli, Marcora
gli fece trovare davanti alle porte del carcere una sua vettura con autista e
con a bordo l’intera famiglia.
La macchina si diresse verso
Bedonia, la nota tenuta agricola che Marcora aveva nel parmense, e ospitò tutta
la famiglia Giannelli per un certo periodo. È noto che Marcora era solito
ospitare a Bedonia anche i suoi colleghi europei, ministri dell’Agricoltura, ai
quali mostrava con orgoglio le sue mandrie di mucche pezzate o brunalpine. Più
passa il tempo e più̀ la gente che ne ha semplicemente sentito parlare chiede
notizie sul ruolo che Marcora ha avuto nella vita politica italiana. Oltre che
per l’abilità, competenza e concretezza mostrate nella gestione del Ministero
dell’Agricoltura e dell’Industria, va ricordato per la legge Marcora
sull’obiezione di coscienza, alla quale anche il sottoscritto diede un
importante contributo, e per la legge Gozzini, riguardante il trattamento dei
detenuti nelle carceri.
Un’altra legge da lui voluta è
quella tesa ad agevolare le cooperative nei vari settori produttivi, legge più̀
volte modificata, ma tuttora in vigore. Marcora, memore della sua esperienza
nella Resistenza, non condivideva l’idea di De Mita che si potesse dar vita a un
Patto costituzionale con i comunisti. Mi aveva raccontato che almeno in due
circostanze, durante la Resistenza, i partigiani comunisti avevano cercato di
eliminarlo fisicamente. Da qui la sua giustificata diffidenza nei confronti dei
comunisti.
Purtroppo, la persona delegata a
polemizzare con il leader campano su tali problemi ero proprio io, e in tal modo
non mi conquistai certo la simpatia di De Mita, destinato a diventare il futuro
segretario nazionale della DC. Marcora scrisse anche tre lettere al presidente
del Consiglio Cossiga nelle quali, sia pure in modo garbato, criticava la
politica economica sul lavoro del suo governo. Secondo lui si stava esagerando
nel fare una politica tesa a garantire i posti di lavoro già̀ esistenti,
rinunciando a una politica di crescita globale.
Il buon senso, infatti, suggeriva
che, il giorno in cui in Italia ci fossero stati cinquanta milioni di assistiti,
nessuno avrebbe potuto mantenerli a meno di non fare invadere l’Italia dalla
Svizzera o dalla Germania. Nell’ultima lettera annunciava le sue dimissioni da
ministro, ma Cossiga riuscì̀ a dissuaderlo.
Marcora, come Mosè, non poté́ però
entrare nella terra promessa. Infatti, quasi sicuramente sarebbe diventato
segretario nazionale della DC o presidente del Consiglio. Afflitto da alcuni
anni da un tumore, pochi mesi dopo la morte di don Federico, ai primi di
febbraio del 1983, a sessant’anni appena compiuti, morì. Ai suoi funerali la
chiesa di Inveruno era piena all’inverosimile di tante persone che si erano
legate a lui; in un angolo mi ricordo di aver visto piangere Donat-Cattin, il
duro che aveva litigato tanto e tante volte con lui.
Nell’editoriale dedicato alla
sua morte, Montanelli concluse così: «Già̀
ridotta al lumicino come qualità̀ e quantità̀ di effettivi, la classe politica
del Nord perde con Marcora uno dei maggiori protagonisti e forse il più̀
difficile da sostituire. Non vedo infatti chi possa riempire il vuoto che egli
lascia. Non solo nella DC, ma anche negli altri partiti, dei Marcora si è perso
lo stampo. Di un personaggio politico che muore è raro poter dire: ‘Era un
uomo’, di Marcora è impossibile dire altro».
Io che lo conoscevo molto più̀
di Montanelli, non posso che associarmi pienamente al suo intelligente commento.
Ho ancora vivo il ricordo di Marcora mentre sedevamo a un tavolo per una
frettolosa colazione. Terminato il piccolo pasto, Marcora si accese una
sigaretta, ma all’improvviso la spense dicendo: «Che
sciocco, mi ero dimenticato che siamo in Quaresima».
Ezio Cartotto*
12 Agosto 2024
*Pagine tratte dal libro di Ezio
Cartotto: Gli uomini che
fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso
della politica nell’Italia di oggi - 2012
Sperling & Kupfer- su gentile autorizzazione di Elena Cartotto.
Luigi Granelli si colloca tra i
maggiori dirigenti della DC lombarda e nazionale. Estremamente forte fu il suo
legame con Marcora, senza che sfociasse mai in forme di servilismo. Bergamasco,
nato alla fine degli anni Venti, è stato uno dei più̀ giovani partigiani della
sua zona e militò, data la sua educazione cattolica, nelle brigate dei
partigiani bianchi.
Ancora ragazzo, alla fine
della guerra ritornò a lavorare con il padre, esercitando il mestiere di
imbianchino. A sedici anni verniciava di minio i cancelli della Dalmine. Di
media statura, aveva lineamenti fini ed era dotato di una straordinaria
intelligenza dialettica e oratoria. Per queste ragioni, agli inizi degli anni
Cinquanta fece una rapida carriera nella DC di Bergamo, ricoprendo il ruolo di
direttore del giornale locale Il
Campanone e collaborando con altri
personaggi dotati di una cultura più̀ vasta della sua, come Beppe Chiarante e
Luigi Magri, futuri parlamentari del PCI.
Granelli si formò da solo e
quando la stima nei suoi confronti crebbe cominciò a essere chiamato fuori
dalla sua provincia. Dopo la fondazione della corrente di Base fu avvicinato da
Marcora, che gli propose di dirigere una rivista chiamata proprio La
Base. In quella redazione incontrò la
giovane dottoressa Adriana Guerrini, assistente alla cattedra di Diritto
costituzionale alla Cattolica di Milano, con la quale si sposò. Impegnati
entrambi in politica, ebbero un solo figlio.
Quando Fanfani divenne
segretario al congresso nazionale di Trento, si scontrò subito con Granelli che
lo accusava di voler fare e agire senza pensare e progettare. In modo sprezzante
Fanfani gli rispose: «Non si preoccupi,
per voi faremo un pensatoio!» In seguito
Fanfani sospese dal partito Granelli, Magri, Chiarante, l’onorevole Bartesaghi
di Lecco e Mario Melloni, che con lo pseudonimo di Fortebraccio sarebbe
diventato un bravissimo umorista dell’Unità,
famoso per le sue vignette e le sue battute.
Mentre Magri, Chiarante e
Bartesaghi finirono nel PCI, Granelli resistette nella DC con l’aiuto di
Marcora, di sua moglie e della professoressa Brisca Menapace, di origine
trentina e docente alla Cattolica di Milano. Quest’ultima finirà̀ anche lei nel
PCI e poi al manifesto.
Granelli si trasferì̀ a Milano
dove, a metà degli anni Cinquanta, Marcora aveva vinto il congresso
provinciale, dando respiro a nuove e importanti prospettive. Divenne, come
capiterà̀ più̀ tardi a chi scrive, prima dirigente degli enti locali e in
seguito direttore del Popolo Lombardo,
il settimanale della DC milanese.
Granelli tentò, ancora
giovanissimo, di presentarsi candidato alle elezioni del 1958, sfruttando le sue
capacità dialettiche e di abile giornalista. Purtroppo, in quella circostanza
si scontrò con il vicario della diocesi di Milano monsignor Manfredini, futuro
vescovo e delegato dall’arcivescovo Montini ai rapporti con il laicato cattolico
milanese. Granelli era convinto sostenitore di quell’apertura a sinistra che
prevedeva un accordo con il PSI, rifacendosi alla famosa frase di De Gasperi: «La
DC è un partito di centro che guarda a sinistra».
Per lui, la Base era la sinistra
degasperiana, cioè̀ una sinistra più̀ laica di quella aclista di Vittorino
Colombo a Milano o di La Pira a Firenze. Monsignor Manfredini, invece, era su
posizioni decisamente diverse, che lo portavano a caldeggiare il mantenimento
del centrismo sia al comune di Milano sia in provincia. Nel momento cruciale
delle elezioni del 1958 ebbe luogo un disastroso confronto tra Granelli da una
parte e l’arcivescovo Montini, destinato alla carica di pontefice come Paolo VI,
dall’altra. Dopo un incontro privato con Montini, Granelli pubblicò un
comunicato nel quale diceva che le divergenze erano state chiarite in modo
positivo. Gli piombò addosso una pesantissima smentita della curia milanese,
nella quale si negava non solo l’esito positivo del suddetto chiarimento, ma
proprio che il chiarimento ci fosse stato.
Come è facile immaginare, Granelli
non fu eletto e, dato che Marcora perse un congresso provinciale agli inizi
degli anni Sessanta, poté́ presentarsi candidato solo dieci anni dopo, nel 1968,
a circa quarant’anni, quando lo stesso Marcora divenne senatore. Chi scrive
s’era messo a disposizione di Marcora alla metà degli anni Sessanta, prima
quindi che Marcora vincesse nuovamente il congresso provinciale di Milano,
ritornando alla segreteria del partito. In vista delle elezioni del 1968 Marcora
progettò e attuò un ricambio generazionale di vaste dimensioni. Io ero
perfettamente d’accordo con tale progetto e ho contribuito con tutte le mie
forze al suo successo.
Tra l’altro, anche per la
profonda stima che nutrivo nei confronti di Luigi Granelli, ho contribuito a
farlo inserire tra i primi degli eletti (allora c’erano i voti di preferenza). A
questo scopo organizzai diverse manifestazioni, una delle quali con migliaia di
persone al Palalido di Milano e super ospite la cantante Patty Pravo, che in
quel periodo lanciava la famosa canzone La
bambola. Feci anche venire Fanfani al
teatro Dal Verme che era strapieno. Tutti questi successi convinsero Marcora,
dopo le elezioni, a chiedermi di collaborare con lui per organizzare a livello
nazionale la corrente di Base che era riuscita a eleggere in tutta Italia più̀
di trenta fra deputati e senatori. Io accettai e mi trovai a dover svolgere
un’enorme mole di lavoro perché́, con il dono dell’ubiquità̀ che non avevo,
dovevo essere presente a Roma circa tre giorni alla settimana e
contemporaneamente seguire la mia attività̀ politica a Milano, dove presto
divenni direttore del Popolo Lombardo,
entrai a far parte del comitato regionale e perfino del consiglio di
amministrazione dell’ATM.
In quel periodo potevo contare su
una squadra di amici quasi tutti laureati o studenti universitari che
costituivano i miei più̀ stretti collaboratori e con cui avevamo preso una
felice abitudine: incontrare una volta alla settimana l’onorevole Granelli, vero
maestro di politica. A volte le nostre chiacchierate nel suo ufficio di corso
Pellegrini finivano ben oltre le due del mattino. Luigi Granelli era il
personaggio politico che invitavamo sempre a concludere i corsi di formazione
dei giovani democristiani perché́ aveva quel dono raro di accendere
istantaneamente l’entusiasmo. Una volta, a un congresso nazionale gli toccò la
parola in un momento favorevole in cui l’assemblea era piena di gente e, forse
spinto dai tanti applausi e incoraggiamenti, fece un incredibile exploit.
Rivolgendosi alla maggioranza
dorotea e fanfaniana disse: «Non ho alcun
dubbio che il nostro gruppo, ricco come è di giovani intelligenze, sarà̀ domani
l’intera DC». Questa frase divenne
famosa e noi, orgogliosi di essere le «giovani intelligenze» di cui sopra, la
ripetemmo ovviamente in tutta Italia.
Granelli era venuto con noi nelle
università̀ occupate a Milano e in altre città e aveva polemizzato molto
abilmente con il professor Miglio, favorevole all’ipotesi di nazioni guidate da
élite conservatrici. Granelli divenne in seguito membro del governo in qualità̀
di sottosegretario agli Esteri e si avvicinò molto, assieme all’onorevole
Galloni, alle posizioni di Aldo Moro.
Questo suo atteggiamento suscitò il
rancore di Marcora e De Mita che si sentivano più̀ affini a Piccoli e Forlani.
Quando cadde sulla nostra testa il fulmine della morte di Marcora, che avveniva
a pochi anni di distanza dall’assassinio di Moro, Granelli divenne il sostituto
di Marcora a Milano, prendendo anche il suo posto di senatore di Vimercate,
senza peraltro lasciare la vita governativa che continuò come ministro delle
Partecipazioni statali.
Anche lui fu però danneggiato
dall’arrivo nella segreteria del partito di De Mita, che decise di collocare nei
punti chiave uomini della sua squadra, come per esempio Tabacci in Lombardia.
Nel linguaggio demitiano Granelli divenne la «Vecchia
Guardia», e ciò̀ segna sempre l’inizio
del declino. Luigi, però, non si arrese tanto facilmente e, a differenza di me,
imparò a usare le nuove tecniche informatiche, continuando a partecipare al
dibattito politico.
Da quando Luigi è morto, poco più
che settantenne, ho sofferto della sua assenza come di pochi altri e spesso e
volentieri mi ricordo il pensiero e le frasi così belle e vigorose di
quest’autodidatta destinato a diventare un maestro, per me tra i più̀ grandi.
Ezio Cartotto* 10 Agosto 2024
* Pagine
tratte dal libro di Ezio Cartotto: Gli
uomini che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il
senso della politica nell’Italia di oggi -
2012 Sperling & Kupfer-su gentile autorizzazione di Elena Cartotto.
Un giurista, un politico, un
cattolico. Soprattutto un sardo, anzi un sassarese, profondamente legato alla
sua città natale, culla di grandi dinastie politiche come i Berlinguer ed i
Cossiga.
Qui nacque nel 1891 da una nobile
famiglia e divise la sua età giovanile tra lo studio del diritto, di cui divenne
professore nel 1920 e la passione politica, che lo portò a unirsi al Partito
Popolare di Don Sturzo sin dalla fondazione nel 1919. La carriera accademica
proseguì tra Perugia, Cagliari, Pavia e Sassari (ma non Napoli, dove la sua
nomina fu impedita dalle autorità fasciste) mentre quella politica si fermò per
tutto il ventennio.
Da Sassari a Palazzo Chigi
Dopo la Liberazione fu uno dei
principali fondatori della Democrazia Cristiana in Sardegna e dirigente
nazionale del partito. Membro della Costituente, ricoprì per ben undici volte
l'incarico di ministro. Fu due volte presidente del Consiglio, infine, capo
dello Stato. Un uomo di governo, un legislatore, più che un leader di partito.
Il suo nome si lega anche alla
riforma agraria, una delle più importanti riforme nella storia d’Italia dal 1861
in poi.
Secondo lo stesso comunista Giorgio
Amendola, la legge aveva dato un colpo alle vecchie classi latifondiste e rotto
il vecchio equilibrio delle classi dominanti in Italia, l’equilibrio del blocco
industriale e agrario. La riforma offrì un lavoro e una vita stabile a più di
centomila famiglie, aumentò la produzione, favorì lo sviluppo della
cooperazione, costituì una sorta di potente incentivo allo sviluppo economico
generale.
Deputato dalla prima legislatura
fino all’elezione al Quirinale, in quel periodo ricoprì numerosi incarichi di
governo. Come Presidente del Consiglio formò due governi: il primo (1955-57),
con una coalizione di centro (DC con PDSI e PLI). Il secondo (1959-60) fu invece
un monocolore DC ma con appoggio esterno di liberali, monarchici e del MSI.
Il primo governo è ricordato in
quanto ci fu la firma, il 25 marzo 1957, dei Trattati di Roma, che segnarono la
nascita della CEE e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o
Euratom). Sono stati anche anni di consolidamento delle istituzioni italiane con
la formazione e l’insediamento della Corte Costituzionale, prevista dalla
Costituzione, ma fino al 1957 mai insediata. Ci fu inoltre una riorganizzazione
dell’assetto di governance delle imprese di stato con la creazione del Ministero
per le Partecipazioni Statali. Questo rese le imprese di proprietà pubblica
autonome dal punto di vista sindacale e non legate alla Confindustria.
Quando le categorie sono
insufficienti
Definirlo un conservatore,
come molti politologi e pubblicisti hanno fatto, è un giudizio semplicistico.
Per molti uomini politici è sufficiente un aggettivo per definirli:
conservatore, progressista, riformista. Per Antonio Segni un aggettivo non
basta. Il suo non è un profilo semplificabile. L’interpretazione articolata
della sua opera sembra quella più seria e rispettosa. A volte gli accadde di
essere avanti rispetto al processo politico-sociale, quando per esempio elaborò
il già citato e ambizioso progetto della riforma fondiaria generale. Altre si
trovò più titubante, a esempio sul percorso riformista, in particolare durante
la stagione del centro-sinistra. E' per questo
che la complessa figura di Antonio Segni non va né etichettata in modo rigido
né mitizzata. Il ricordo più equilibrato è stato quello dell'attuale Presidente
Mattarella, in occasione dei 130 anni dalla nascita: “La
sua figura e l'opera appartengono alla storia repubblicana, che lo annovera tra
gli artefici della ricostruzione e dello sviluppo del Paese”
Il ricordo va dunque a uno statista
che si è impegnato con tutte le sue forze per costruire l’Italia repubblicana.
Al Quirinale, senza dubbio, fu un
presidente “conservatore”, perché avrebbe voluto conservare gli equilibri
politici che si erano affermati durante gli anni Cinquanta: la Dc al centro, con
i piccoli partiti (Psdi, Pli, Pri) attorno.
La comprensione del rapporto tra
Segni e le gerarchie cattoliche fornisce elementi interessanti circa la sua
cautela nell'avallare il processo di apertura verso i governi di
centro-sinistra, già prima di diventare Presidente della Repubblica.
Tardini, allora Segretario di
Stato Vaticano, si dichiarò contro ogni governo sostenuto anche dalla sola
astensione dei socialisti. L’apertura a sinistra avrebbe portato − avvertì
l’autorevole porporato − alla scissione interna della Dc. Nel 1960 Segni si
trovò al centro delle pressioni del Vaticano. Cedette, convinto della necessita
di non procedere immediatamente all’apertura a sinistra. Tuttavia, denotando un
grande senso tattico, scrisse a Giuseppe Siri, presidente della Cei: occorre
mettere alla prova i socialisti; se non per altro, per una questione di
strategia politica: una risposta negativa da parte del Psi avrebbe marcato la
scelta dei socialisti di non differenziarsi dai comunisti; una risposta
positiva, invece, avrebbe separato il Psi dal Pci, e reso la sinistra italiana
più debole».
Nel cuore sempre il Parlamento,
ma la via è il Quirinale
“Mi sia consentita un'
ultima espressione: quella del profondo mio rimpianto di lasciare quest'aula,
dove nell'Assemblea Costituente e sin dall'inizio del Parlamento della
Repubblica ho servito quelli che sono gli ideali di tutta la mia vita:
democrazia, libertà, giustizia e ordinato progresso.”
Questa citazione, che risale già i tempi del “salto” di Segni dal Parlamento a
Palazzo Chigi, fa capire in modo molto preciso quanto il futuro Presidente
avesse a cuore la dialettica politica nell'agorà della democrazia . Ma il suo
“destino” era altrove.
Le elezioni del 1962 videro Segni da
subito individuato come candidato della DC da Aldo Moro. Questa scelta serviva
per soddisfare la parte più conservatrice del partito, della società e
dell'economia nazionale e rendere possibile al contempo l’avvicinamento ai
socialisti. A livello internazionale a equilibrare i rapporti con la politica
stelle e strisce, che, pur vedendo governare i democratici, non poteva
indispettire l'ala repubblicana.
Il 6 maggio 1962 venne eletto
presidente della Repubblica, e l'11 maggio, prestando giuramento davanti al
parlamento, indirizzò a questo un messaggio, nel quale indicò alcuni punti fermi
cui ispirare il compimento del suo mandato: l' ideale europeistico, la fedeltà
all'alleanza atlantica, il rigoroso rispetto della Costituzione e delle
prerogative politiche del parlamento e del governo, l'impegno a operare per
l'ordinato progresso della democrazia italiana, in un collegamento forte con i
valori della libertà, della giustizia e dell’indipendenza per i quali si erano
immolati i protagonisti del Risorgimento e della Resistenza (menzionata in
ideale continuità con il primo, quale “secondo Risorgimento”).
Significativo il nesso tra
europeismo e adesione alla visione atlantica. Ecco cosa scrive al riguardo
Segni: “L'Italia ha dato e, a mio avviso,
continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di un' unità europea
effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono
contenuti nei trattati di Roma.” E
prosegue così:“A questo punto, non esito
ad affermare che tanto l’alleanza atlantica quanto l’Unione europea occidentale
non solo non impediscono in alcun modo una politica distensiva, ma
contribuiscono a realizzarla.”
Negli anni al Quirinale fu alle
prese con i tentativi di nascita della coalizione di centrosinistra. Il 1963 fu
l’anno delle elezioni a seguito delle quali ci fu, a opera di un primo tentativo
di Aldo Moro, la formazione del governo Leone I, monocolore DC transitorio. Nel
dicembre dello stesso anno Aldo Moro riuscì a formare un governo con PRI, PSDI e
PSI, il primo governo di centrosinistra della storia italiana.
Anni difficili: ombre estere ed
interne
Nel messaggio agli italiani in
occasione del Capodanno 1964, trasmesso in diretta radiotelevisiva dal palazzo
del Quirinale il 31 dicembre 1963, Segni ricordò come fra gli «avvenimenti
gravi e memorabili che hanno contrassegnato il corso del 1963» vi
era stata la scomparsa di papa Giovanni XXIII e quella del presidente Kennedy, «due
grandi fiamme che avevano illuminato a tutti la difficile via verso la pace
nella libertà e nella giustizia: quella pace nella quale profondamente credevano
e nella quale anche noi profondamente crediamo».
Il 1964 fu l’ultimo della breve e
travagliata presidenza, quando Segni rivelò di essere assai preoccupato per le
conseguenze che la crisi economica avrebbe potuto produrre, in termini di
destabilizzazione sociale.
Nelle more, aveva suscitato
viva apprensione il fatto che il Capo dello Stato avesse ritenuto di consultare,
oltre ai rappresentanti delle forze politiche, il generale De Lorenzo, Capo del
Sifar e il gen. Aloia, Capo
di Stato Maggiore dell’Esercito, per sapere se, in caso di ricorso anticipato
alle urne, vi sarebbero stati dei pericoli per l’ordine pubblico, ricevendone
ampie assicurazioni sull’inesistenza di qualsivoglia rischio di tumulti di
piazza, in grado di mettere a repentaglio le istituzioni democratiche.
Andreotti, commemorandolo Segni nel
1991 (centenario dalla nascita), aiutò a capire meglio il delicato contesto di
quello che molta pubblicista ha ricondotto al “Piano solo”. Per Andreotti il
Presidente Segni ebbe la preoccupazione costante delle minacce incombenti
dall’Est comunista e aveva invitato, conseguentemente, a curare le Forze Armate
convenzionali, per scongiurare i rischi di una difesa atomica, prendendo a cuore
il correlato aspetto dell’effettiva capacità dei Carabinieri a mantenere
l’ordine interno, dietro le linee di un’eventuale resistenza militare avverso
aggressioni esterne.
E, proseguì Andreotti, non
andava dimenticato che la commistione tra comunismo interno e internazionale “non
era allora fantasiosa”.
Il 7 agosto 1964, nel pieno di
un’estate densa di emozioni per l’anziano statista, ebbe termine de facto, seppure
non ancora de jure, il mandato di Segni, che
– secondo allo scarno comunicato emesso dalla Presidenza della Repubblica - era
stato improvvisamente colpito da “disturbi circolatori cerebrali”.
All’ictus seguì l’accertamento
della sua condizione di “impedimento
temporaneo”. Come da procedura assunse
le funzioni il presidente del Senato Cesare Merzagora. Nonostante la gravità
della condizione non si arrivò ad accertare la condizione di “impedimento
permanente” che avrebbe comportato la
decadenza dall’incarico e nuove elezioni. Risolse lui l’impasse con le
dimissioni volontarie il 6 dicembre dello stesso anno. Divenne Senatore a vita
di diritto e morì nel 1972 a 81 anni.
Coscienza di credente, rigore e
senso del dovere
Giovani Leone, da Capo dello
Stato, volle ricordarlo nella circostanza dello scoprimento di un busto in onore
dello scomparso: “Nella personalità di
Antonio Segni – disse - confluivano
il rigore morale della sua coscienza di credente, la linearità di pensiero e
azione del finissimo giurista, il vigore del suo carattere sardo, tutto ciò fuso
ed armonizzato dalla consapevolezza che ogni servizio reso alla vita pubblica,
deve essere illuminato esclusivamente dal senso del dovere”.
Crediamo pertanto, aggiungiamo noi,
che non sia opera vana dare giusto risalto al ruolo di Segni come europeista
convinto, lungimirante fautore del moderno sviluppo dell’agricoltura,
sostenitore appassionato della solidarietà internazionale, difensore delle
libertà entro un quadro internazionale di guerra fredda, soprattutto integerrimo
servitore dello Stato, alieno da ogni personale, egoistico interesse.
Umberto Merlin (1885-1964) fu
personaggio di spicco prima nel movimento cattolico polesano e veneto e poi,
dopo la Prima guerra mondiale, nel Partito popolare, di cui era stato uno dei
fondatori, firmando l’ “Appello ai liberi e forti” di Luigi Sturzo.
Fu consigliere provinciale e
comunale di Rovigo e poi deputato del partito sturziano, eletto nel 1919, 1921 e
1924. Nei governi Bonomi, Facta e nel primo governo Mussolini fu sottosegretario
alle Terre liberate.
In quegli anni la carriera politica
di Merlin fu parallela a quella del suo coetaneo Giacomo Matteotti, del quale
era stato compagno di liceo. Gli scontri politici fra i due, al Parlamento e in
una provincia come il Polesine, dominata dai socialisti, fanno parte ormai della
storia travagliata di quegli anni.
Nei suoi lucidi interventi –
discorsi parlamentari e articoli – colse perfettamente il nodo centrale della
politica italiana del tempo: l’impossibilità pratica dell’intesa fra cattolici e
socialisti, che impedì la formazione di una maggioranza democratica e
riformatrice e spianò la strada alla vittoria del fascismo.
Durante il ventennio si dedicò
esclusivamente alla professione forense, che esercitò con successo a Rovigo e a
Padova. Lo stesso Matteotti aveva consigliato sua mamma di farsi assistere da
Merlin in alcune controversie legali.
Dopo la Seconda guerra mondiale fece
parte della Consulta nazionale e ritornò al Parlamento come senatore dal 1946
fino alla morte. Per brevi periodi fu ministro delle Poste e dei Lavori Pubblici
nei governi a formula centrista.
Ma la stagione politica di Umberto
Merlin era ormai tramontata. Suo figlio Luigi, pure avvocato, fu sindaco di
Padova dal 1977 al 1980.
Sulla figura di Umberto Merlin,
ampiamente ricordata negli studi sul popolarismo, manca uno studio adeguato.
Gianpaolo Romanato 18 agosto 2024
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ALCIDE DE
GASPERI: PADRE E MAESTRO DI TUTTI I DEMOCRATICI CRISTIANI
Alcide Amedeo Francesco De Gasperi,
nacque 3 aprile 1881 a Pieve Tesino in Tirolo che all’epoca apparteneva
all’Impero austrungarico. Il 14 giugno 1922 De Gasperi sposò Francesca Romani
(30 agosto 1894 - 20 agosto 1998) ed ebbe quattro figlie, Maria Romana, Lucia,
Cecilia e Paola.
Dal 1896 De Gasperi fu attivo nel
movimento cristiano sociale. Nel 1900 entra a far parte della Facoltà di Lettere
e Filosofia di Vienna, dove ha svolto un ruolo importante all’inizio del
movimento studentesco cristiano. Egli è stato molto ispirato dall’enciclica
Rerum novarum
Nel 1905, De Gasperi si laureò in
filologia. Nel 1911 divenne membro del Parlamento dell'Unione politica popolare
del Trentino (UPPT) nel Reichsrat d'Austria, incarico che ricoperse per sei
anni. All'inizio della prima guerra mondiale, fu politicamente neutrale e
simpatizzò con gli sforzi di Papa Benedetto XV e Carlo I d'Austria per ottenere
una pace onorevole e fermare la guerra.
Nel 1919 fu tra i fondatori del
Partito Popolare Italiano (PPI), con Luigi Sturzo. Fu membro del Parlamento
italiano dal 1921 al 1924, periodo segnato dall'ascesa del fascismo.
Inizialmente sostenne la partecipazione del PPI al primo governo di Benito
Mussolini nell'ottobre 1922.
De Gasperi fu arrestato nel marzo
1927 e condannato a quattro anni di carcere. Il Vaticano ha negoziato la sua
liberazione. Nel 1929 i suoi contatti ecclesiastici gli assicurarono un lavoro
come catalogatore nella Biblioteca Vaticana, dove trascorse i successivi
quattordici anni fino al crollo del fascismo nel luglio 1943.
Fondazione della Democrazia Cristiana
Durante la seconda guerra mondiale,
organizzò l'istituzione del primo partito della Democrazia Cristiana (DC),
basato sull'ideologia del PPI. Divenne il primo segretario nazionale del nuovo
partito nel 1944.
De Gasperi fu il leader indiscusso
della Democrazia Cristiana, il partito che dominò il Parlamento per decenni. De
Gasperi nel gabinetto di Ferruccio Parri, divenne ministro degli Esteri.
Il Primo Ministro d'Italia
Dal 1945 al 1953 fu il primo
ministro di otto governi successivi guidati dalla DC. La sua regola di otto anni
rimane una pietra miliare nella longevità politica di un leader nella moderna
politica italiana. Durante i suoi governi successivi, l'Italia divenne una
repubblica (1946), firmò un trattato di pace con gli Alleati (1947), si unì alla
NATO nel 1949 e divenne un alleato degli Stati Uniti, che contribuì a rilanciare
l'economia italiana attraverso il Piano Marshall. Durante questo periodo,
l'Italia è diventata membro della Comunità europea del carbone e dell'acciaio
(CECA), che in seguito sarebbe diventata l'Unione europea (UE).
Nel dicembre 1945 divenne primo
ministro per la prima volta e guidò un governo di coalizione che comprendeva sia
il Partito Comunista Italiano (PCI) che il Partito Socialista Italiano (PSI),
insieme ad altri partiti minori come il Partito Repubblicano Italiano (PRI). Il
leader comunista Palmiro Togliatti è stato vice primo ministro.
Nel giugno 1946, l'Italia tenne il
referendum costituzionale per decidere se l'Italia sarebbe rimasta una monarchia
o sarebbe diventata una repubblica; i repubblicani vinsero con il 54% dei voti.
De Gasperi è stato nominato capo di Stato ad interim dal 18 al 28 giugno, quando
l'Assemblea Costituente ha eletto il Liberale Enrico De Nicola come capo di
Stato ad interim.
Come capo della delegazione italiana
alla conferenza di pace della seconda guerra mondiale a Parigi, De Gasperi
criticò duramente le sanzioni imposte all'Italia, ma ottenne concessioni dagli
Alleati che garantivano la sovranità italiana. Secondo il Trattato di pace con
l'Italia del 1947, la Jugoslavia perse l'area di confine orientale e il
territorio libero di Trieste fu diviso tra i due stati.
Uno dei suoi più eclatanti risultati
in materia di politica estera fu l'accordo Gruber-De Gasperi con l'Austria nel
settembre 1946, che stabilì che Il Trentino Alto Adige sarebbe diventata regione
autonoma.
Elezioni generali nel 1948
Le elezioni generali dell'aprile
1948 furono fortemente influenzate dalla Guerra Fredda tra l'Unione Sovietica e
gli Stati Uniti. La campagna elettorale fu ineguagliata nell'aggressione verbale
e nel fanatismo nella storia dell'Italia da entrambe le parti. La scelta è stata
tra due visioni opposte del futuro della società italiana. Da una parte,
un’Italia cattolica romana, conservatrice e capitalista, rappresentata dai
governanti democratici cristiani di De Gasperi; dall’altra, una società laica,
rivoluzionaria e socialista, rappresentata dal Fronte Democratico Popolare.
Alcide De Gasperi, l’uomo della ricostruzione nazionale
La Democrazia Cristiana ottenne una
clamorosa vittoria con il 48,5% dei voti (il miglior risultato della sua
storia). Con la maggioranza assoluta in entrambe le camere, De Gasperi avrebbe
potuto formare un governo esclusivamente democristiano. Invece, ha formato una
coalizione con liberali, repubblicani e socialdemocratici. De Gasperi formò tre
ministeri, il secondo nel 1950 dopo la defezione dei liberali, che si
aspettavano più politiche di destra, e il terzo nel 1951 dopo la defezione dei
socialdemocratici, che si aspettavano più politiche di sinistra. Ha governato
per altri cinque anni, guidando quattro coalizioni aggiuntive.
Le riforme della sicurezza sociale
Nella politica interna, diversi
ministri dei gabinetti di De Gasperi hanno attuato una serie di riforme della
sicurezza sociale nei settori dell'affitto e dell'edilizia sociale,
dell'assicurazione contro la disoccupazione e delle pensioni.
Nel 1952, De Gasperi fu oggetto di
crescenti critiche da parte dell'ala sinistra emergente del partito..
Le elezioni generali del 1953 furono
caratterizzate da cambiamenti nella legge elettorale. Anche se la struttura
complessiva rimaneva incorrotta, il governo ha introdotto un superbo due terzi
dei seggi della Camera per la coalizione che avrebbe ottenuto la maggioranza
assoluta dei voti. I partiti di opposizione della DC definì la nuova legge “
legge truffa”.
La coalizione di governo (DC, PSDI, PLI, PRI, SVP e il Partito dell’Unione
Sarda) ha ottenuto il 49,9% dei voti nazionali.
Tecnicamente, il governo ha vinto le
elezioni con una chiara maggioranza, ma la frustrazione per non aver vinto con
una maggioranza più ampia ha portato a tensioni significative nella coalizione
di leadership. De Gasperi è stato costretto a dimettersi dal Parlamento il 2
agosto. Nel 1954, De Gasperi dovette anche dimettersi dalla leadership del
partito, e Amintore Fanfani fu nominato nuovo segretario della Democrazia
Cristiana nel mese di giugno.
La morte e l'eredità
Il 19 agosto 1954 De Gasperi morì a
Sella di Valsugana, nel suo amato Trentino. È sepolto nella Basilica di San
Lorenzo fuori le Mura, basilica di Roma.
Insieme a Konrad Adenauer, Robert
Schuman e Jean Monnet, è considerato padre dell'Europa. Dalla fine della guerra,
De Gasperi aveva attivamente condotto una campagna per l'unità europea, convinto
che questo fosse l'unico modo per evitare i conflitti in futuro. La loro
motivazione era una chiara visione di un’Europa unita che non avrebbe sostituito
i vari Stati, ma che avrebbe permesso loro di completarsi a vicenda, di
sostenersi, aiutarsi, completarsi e di lavorare insieme.
Nonostante non abbia vissuto
abbastanza per vederne l’attuazione (morì nell’agosto del 1954), il suo ruolo
ricevette ampio riconoscimento quando nel 1957 vennero firmati i Trattati di
Roma.
Il processo di beatificazione
Il processo di beatificazione è
stato aperto nel 1993.
“Tutte le sue azioni personali e
politiche sono state dettate da un grande senso di umanità e vero spirito
cristiano: per questo credo che Alcide De Gasperi debba essere fatto beato”. Lo
ha dichiarato Giulio Andreotti che di De Gasperi fu stretto collaboratore per
molti anni.
Ho molto studiato la figura dello
Statista trentino e ravviso nella sua vita i tratti di colui che ha vissuto in
grado eroico le virtù della fede, della speranza e della carità. I suoi scritti
trasudano di “imitatio Christi”. E’ sempre stato devoto figlio della Chiesa,
distinguendo bene il ministero/magistero della Chiesa e il suo ruolo di uomo
politico.
Sulle virtù personali dello Statista
di Trento vi è una corale convergenza. Quando, il 19 agosto 1954, egli morì
improvvisamente a Sella di Valsugana, dove si trovava in vacanza, subito si
parlò di fama di santità, come le cronache dei giornali sottolinearono. L’allora
patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, prima di diventare
papa Giovanni XXIII, rilevò immediatamente questo diffuso sentimento e così
commentò: «Venissi interrogato in un eventuale processo di beatificazione, la
mia testimonianza sarebbe nettamente favorevole a riconoscere la virtù dello
statista, evidentemente ispirato da una visione biblica della vita, del servizio
di Dio, della Chiesa, della Patria».
Anche Giovanni Paolo II ebbe per lui
in varie occasioni molte buone parole. In una lettera ai vescovi italiani,
ricordò così il suo europeismo: «Non è significativo che, tra i principali
promotori dell’unificazione del continente, vi siano uomini… quali De Gasperi,
Adenauer, Schuman… animati da profonda fede cristiana? Non fu forse dai valori
evangelici della libertà e della solidarietà che essi trassero ispirazione per
il loro coraggioso disegno?»
De Gasperi, Alcide - Hrvatska enciklopedija
Il processo di canonizzazione è
avviato da tempo. Convinto ammiratore della singolare ed esemplare testimonianza
cristiana di Alcide De Gasperi e raccogliendo le crescenti sollecitazioni per
avviare l'iter per la canonizzazione, l'arcivescovo di Trento Alessandro Maria
Gottardi il 28 gennaio 1987 volle sentire il parere dei Vescovi della Conferenza
Episcopale delle Tre Venezie sull'ipotesi di iniziare un procedimento canonico
per il riconoscimento da parte della Chiesa delle singolari, e certamente
eminenti virtù cristiane dello Statista trentino, uomo libero e forte che nelle
circostanze più dolorose e nelle occasioni più difficile rispose alla chiamata
divina con il suo singolare servizio, dimostrandosi modello di sapienza, maestro
di speranza e, divenendo nel suo delicato e arduo ministero, lungimirante
profeta e coraggioso testimone. Pur ottenendo l'assenso unanime dei vescovi
Triveneti, l'iniziativa rimase allo stato di proposta.
L’8 dicembre 1992 il Successore
dell'arcivescovo Gottardi, monsignor Giovanni Sartori, si rivolse alla Santa
Sede, «avendo ricevuto istanza dal postulatore padre Tito M. Sartori osm e il
consenso della Conferenza episcopale triveneta», per chiedere il nulla osta
all’introduzione della causa. Il cardinale Felici, prefetto della Congregazione
delle cause dei Santi, il 29 aprile 1993 concesse il nulla osta e si aprì così
la “fase diocesana” del processo di canonizzazione.
Alcide De Gasperi fu davvero un
grande uomo politico, e un credente tutto d’un pezzo. Dalla documentazione che
si sta esaminando a Trento, oltre tutto ciò che è stato pubblicato soprattutto
dalla figlia Maria Romana traspare l’uomo e il credente che pone la sua fiducia
totale nel Signore. In una lettera indirizzata alla moglie il 31 maggio 1927,
giorno in cui venne condannato a quattro anni di carcere da un tribunale
fascista, per le sue idee di democrazia e di libertà, scrisse: «…Dio ha un
disegno imperscrutabile, di fronte al quale m’inchino adorandolo… Egli ci ama e
fa di noi qualcosa che oggi non comprendiamo…».
E nel suo servizio politico egli
esercitò davvero – come disse più tardi Paolo VI - la più alta forma di carità.
Egli seppe tenersi ammirevolmente lontano dalle vischiosità quotidiane della
pratica di Governo, dalle ombre di un mestiere che troppo spesso richiede gravi
compromessi.
Una «convinta fama di santità», la
esprime il sacerdote di Vicenza, don Domenico Piccoli, che scrisse alla figlia
Maria Romana: «Mi convinco sempre più dell’opportunità di beatificazione del suo
papà… Quando la Provvidenza ci manderà altri uomini come suo padre e Adenauer e
Schuman? Bisogna meritarseli…».
Perché allora si è ... fermato o va
molto a rilento il processo diocesano nonostante l’accordo dei vescovi del
Triveneto? Il 18 settembre 1993, il compianto monsignor Wilhem Egger, vescovo di
Bolzano e Bressanone, pur riconoscendo «le forti motivazioni cristiane e ideali»
che avevano permesso l’avvio del processo di canonizzazione di Alcide De
Gasperi, fece capire senza troppi giri di parole che dichiarò che la popolazione
altoatesina «non aveva accolto favorevolmente” l’introduzione del processo di
beatificazione. Ed erano espresse “severe riserve circa l’azione politica di De
Gasperi, in rapporto alla soluzione del problema dell’Alto Adige… al punto tale
che il processo canonico potrebbe costituire, almeno per una certa parte di
fedeli di lingua tedesca, un problema anche sul piano religioso».
Il riferimento è al noto “accordo De
Gasperi/Gruber” raggiunto a Parigi il 5 settembre 1946 per regolare la questione
altoatesina. In base a esso veniva garantita alla popolazione di lingua tedesca
e di tradizioni tirolesi una larga autonomia e un esteso potere esecutivo in
ambito regionale, che sarebbero stati formalizzati nella costituzione della
Provincia autonoma di Bolzano e in seguito nello statuto speciale concesso dal
governo italiano al Trentino-Alto Adige.
La decisione di Alcide De Gasperi di
estendere i privilegi concessi a Bolzano anche a Trento non poté non scontentare
una parte dell’opinione pubblica: quella di ceppo tedesco della propria regione
d’origine che accusò di menzogna il Presidente del Consiglio.
Ho avuto modo di farne parola della
questione direttamente con il senatore a Giulio Andreotti il quale, dimenticando
la sua proverbiale calma e pazienza mi disse animatamente: “Posso assicurare e
testimoniare che Alcide De Gasperi non mentì. Anzi: posso dire che la provincia
di Bolzano non avrebbe mai ottenuto la sua autonomia se non fosse stata concessa
anche alla provincia di Trento”. E mi pregò di dire all’allora arcivescovo di
Trento S.E. mons. Luigi Bressan di mettersi in contatto personale con lui - “fin
che è in vita” -per essere ascoltato come teste e dissipare questo dubbio
assolutamente inesistente.
Una conferma autorevole di questa
ipotesi è offerta da monsignor Igino Rogger, sacerdote della Diocesi di Trento,
il quale scrive: «L'11 novembre 1991 mi trovai a fungere da interprete per la
deposizione resa da Gruber a Vienna nei preliminari del processo canonico per la
beatificazione di Alcide De Gasperi. Profittando alquanto della mia posizione
cercai di approfondire l'interrogativo su quelle che potevano essere state le
intenzioni di De Gasperi nel dilatare al Trentino l'autonomia prevista come
necessaria per la salvaguardia del carattere etnico e dello sviluppo culturale
ed economico degli abitanti di lingua tedesca dell'Alto Adige. Chiesi infatti a
Gruber se fosse possibile che De Gasperi, nell'idea di agganciare l'autonomia
dei trentini a quella dei sudtirolesi, secondo un'idea che egli certo favoriva e
per la quale aveva acquisito simpatizzanti anche nel Sudtirolo, avesse fiducia
che tale inclusione tornasse a vantaggio dei sudtirolesi stessi nel processo di
realizzazione di essa. Gruber rispose testualmente: "De Gasperi ne era convinto:
se l'autonomia si realizza per i trentini, diventa un fatto irreversibile. Se si
realizza per i trentini, si realizza anche per i sudtirolesi; ogni pericolo di
vanificarla verrà respinto anche dai trentini".
Recentemente è venuta alla luce una
lettera indirizzata a Karl Gruber il 4 febbraio 1948, in cui De Gasperi scrive
testualmente: "Rispondo in ritardo alla sua cortese lettera del 10 gennaio
scorso ... Sono lieto di farlo oggi, essendo in grado di poterle comunicare che
le consultazioni coi rappresentanti delle popolazioni locali hanno avuto per
esito la definitiva elaborazione di uno Statuto per l'autonimia della Regione
"Trentino Alto Adige" (approvato dall'Assemblea costituente), nei quali sono
stati pressoché interamente accolti i desiderata espressi da Vostra Eccellenza
nella lettera cui rispondo...." (Alcide Degasperi, Una vita a tappe, Lettere e
commenti, Ed. l'Adige2021).
Mi dispiace che non siano stati
fatti passi in questa direzione e che per la “questione altoatesina” la fase
diocesana del processo di beatificazione del grande Statista trentino Alcide De
Gasperi conosca un tempo di stasi. De Gasperi non lo merita. Anche se (ne sono
persuaso) egli già gode della venerazione di molti e certamente la visione
beatifica di quel Dio che ha amato e servito anche attraverso la più alta forma
della carità: la politica a servizio dell’uomo e del bene comune in tempo ardui
e difficilissimi.
Dietro il successo di molti uomini
spesso ci stanno grandi sogni o grandi emozioni provate in circostanza
particolari. Enrico Mattei diceva di trovare in una situazione vissuta da
bambino la giusta motivazione per dare una certa impostazione alla sua vita, non
solo di uomo, ma anche di imprenditore.
Raccontava pressappoco così: «Ero
un bambino di sette o otto anni e mi trovavo nel cortile di una cascina in un
caldo mezzogiorno d’estate. Vidi avvicinarsi una ragazza che portava una grossa
marmitta di cibo a un gruppo di cani radunati sotto l’ombra di un albero. Appena
la giovane ebbe posato la grossa ciotola per terra i cani si avventarono sul
cibo avidamente. Quasi subito si avvicinò un gattino che timidamente cercava di
procurarsi qualche boccone, ma il cane più̀ grosso gli diede immediatamente una
zampata scaraventandolo lontano. Mi avvicinai allo sfortunato gattino con
l’intenzione di soccorrerlo, ma mi accorsi che era morto. In quel momento giurai
a me stesso che avrei fatto di tutto perché́ scene simili non si verificassero
nel mondo degli uomini».
Indubbiamente Enrico Mattei fu uno
dei più̀ grandi uomini del secolo scorso ai quali dobbiamo immensa gratitudine
per aver egli dato una svolta radicale positiva all’economia del nostro Paese.
Chi era?
Nacque nelle Marche ad Acqualagna
nel 1906, figlio di un brigadiere, poi maresciallo, dei carabinieri. Non aveva
molta voglia di studiare, tuttavia, dotato di una volontà̀ ferrea, riuscì̀ a
diplomarsi perito industriale per compiacere il padre. Trasferitasi la famiglia
a Matelica, ottenne il diploma e cominciò giovane a lavorare, per poi recarsi a
Milano.
Avrebbe potuto fare l’attore del
cinema dato il suo aspetto attraente: alto, grintoso, dotato di una parlantina
capace di convincere anche i compratori più̀ riottosi ad acquistare ciò̀ che lui
proponeva. Alla periferia di Milano aprì un piccolo laboratorio di prodotti
chimici che trovarono una vasta clientela.
Negli anni Trenta il giovane Mattei,
oltre che ottimo venditore, si rivelò anche eccellente imprenditore, pronto ad
avvalersi delle innovazioni più̀ moderne per far funzionare la propria azienda.
Aveva anche intuito che per aver successo negli affari era importante curare la
propria immagine e adottare un certo stile di vita. Infatti, fu uno dei primi
imprenditori milanesi a girare con macchine di lusso con tanto di autista,
acquistò uno splendido appartamento nel centro di Milano e organizzò incontri
e feste con scadenza quasi settimanale, finalizzati al successo della sua
attività̀.
Vi invitava, oltre ai suoi tecnici e
venditori, persone di prestigio del mondo della cultura, professori
universitari, in primis quelli dell’Università̀ Cattolica, dalle cui
intelligenti conversazioni sapeva trarre spunti per dar vita a cose nuove. Uno
dei suoi più̀ assidui commensali fu Marcello Boldrini, professore di Statistica
della Cattolica, che gli fece conoscere altri personaggi che diventeranno poi
famosi nel mondo della politica come Fanfani, La Pira e Dossetti.
Mattei, da buon cattolico praticante, non venne mai meno ai suoi principi
religiosi, conservando una fede salda unita a una profonda lealtà̀ verso i
membri della sua famiglia di origine, della cui collaborazione si valse per
tutto il periodo del suo frenetico «fare». Fu per lui importante soprattutto la
sorella, che era a conoscenza di tutte le sue operazioni finanziarie.
Il giovane e brillante Enrico Mattei
suscitava ovviamente ammirazione anche nel mondo femminile, ed essendo lui
desideroso di farsi una famiglia propria, godeva di un’ampia possibilità̀ di
scelta. Scelta che cadde su una bella ballerina austriaca che divenne sua
moglie. L’unione si rivelò felice e duratura ma non fu allietata dalla nascita
di figli, che i coniugi tanto desideravano, a causa di un’interruzione spontanea
di gravidanza che precluse alla moglie ogni speranza di maternità̀.
Mentre l’Italia entrava in guerra,
Mattei ebbe modo di conoscere altri personaggi che sarebbero diventati politici
di prima grandezza, come Ezio Vanoni e Ferrari Aggradi. Quando cadde il fascismo
Mattei, che era sempre stato antifascista, ma senza esporsi troppo come tale,
per non avere guai con le sue aziende, fu invitato da De Gasperi, che stava
dando vita alla Democrazia Cristiana, a rappresentare la DC nel CLNAI (Comitato
di Liberazione Nazionale Alta Italia) e, viste le sue caratteristiche di capo, a
organizzare le formazioni partigiane di matrice cattolica, quelle con il
fazzoletto azzurro. Durante la resistenza si procurò grande fama sia per la sua
onestà, tanto che gli stessi partigiani comunisti si affidavano a lui come
tesoriere del CLN, sia per il coraggio con cui seppe affrontare difficili
situazioni. Ebbe la sventura di essere arrestato sotto falso nome e poi
incarcerato al San Donnino di Como.
Fortunatamente, i fascisti non si
accorsero di avere nelle mani il tesoriere del CLN. Riuscì̀ poi a evadere dal
carcere con la complicità̀ di una guardia che era riuscito a corrompere. Ad
attenderlo fuori dalle mura, che era riuscito a scavalcare grazie a un non
casuale blackout, c’era la fidata sorella con un’aut mobile pronta a portarlo in
un covo sicuro. Tra i suoi più stretti collaboratori di allora ricordo don
Federico Mercalli, parroco di Lesa, l’ufficiale dell’esercito Eugenio Cefis,
conosciuto tra i partigiani come Alberto, e Giovanni Marcora, chiamato
Albertino.
Le Brigate Azzurre operarono nell’Ossola, sul Mottarone e, verso la fine della
guerra, sul Lago Maggiore, dove, fra l’altro, ebbero modo di salvare la famiglia
Mondadori dalle minacce dei partigiani comunisti. Per ordine di De Gasperi
partecipò in prima fila alla sfilata dei partigiani in piazza Duomo a Milano,
mentre Marcora (Albertino) distribuiva fazzoletti azzurri sia ai partigiani
presenti sia a tutti quelli che gli capitavano sottomano, pur di far vedere che
erano in tanti. In quel momento della sua vita Mattei, a quasi quarant’anni,
godeva di una stima totale, non solo da parte dei cattolici, ma anche da parte
di tutti coloro che avevano partecipato alla Resistenza, dai liberali ai
comunisti.
Nel 1945 fu nominato commissario straordinario per liquidare un ente pubblico
considerato di serie B, l’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli). Mattei,
lavoratore infaticabile, abituato ad agire velocemente, andò̀ subito a
controllare l’archivio dell’AGIP e, da quel grande imprenditore che era, sentì
odore di grandi affari. Incerto se darsi alla politica o all’impresa, chiese
consiglio a monsignor Mercalli, il quale senza esitazione gli disse: «Tu sei
nato per gli affari, dedicati all’AGIP che secondo me è una sicura fonte di
ricchezza per la nostra Italia; lascia che la politica la facciano gli altri».
Mattei riuscì̀ scovare gli ex
dipendenti dell’AGIP che se ne stavano nascosti temendo di essere accusati come
fascisti. Al loro capo fissò un appuntamento alle cinque del mattino in piazza
Duomo. Fecero una lunga passeggiata per le vie della città ancora addormentata,
durante la quale Mattei si fece dire tutto quello che c’era da sapere su
quell’ente che correva il rischio di essere messo in liquidazione. Alla fine,
promise al suo interlocutore la riassunzione immediata, purché́ fosse in grado
di rimettere in funzione l’azienda. Insieme si recarono poi a Caviaga, nella
pianura padana, e furono iniziate le trivellazioni.
Il metano, l’oro italiano di allora,
scaturì̀ in abbondanza. La buona notizia fu subito comunicata a De Gasperi e
Vanoni che, pur molto soddisfatti, invitarono Mattei a non comunicare ufficiale
notizia dell’evento finché non avessero trovato anche un po’ di petrolio. Solo
allora avrebbero potuto offrire una rassicurante immagine dell’Italia agli amici
americani. Il petrolio non c’era, se non in minima quantità̀, ma nei film Luce
di allora lo si vide sgorgare abbondantemente assieme al metano (trucco
all’italiana).
Mattei non si scoraggiò, sapeva che
il solo metano avrebbe provveduto a rifornire l’Italia di energia per circa un
decennio; il petrolio lo avrebbe procurato per altre vie. Infatti, diede il via
a rapide trattative con i Paesi che ne erano ricchi, come quelli del Nord
Africa, del Medio Oriente e con la stessa Russia, firmando contratti vantaggiosi
sia per chi comprava, sia per chi possedeva il prezioso idrocarburo (utili
divisi a metà), comportamento corretto ben diverso da quello adottato dai vari
Paesi occidentali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, ispirato allo
sfruttamento del più̀ debole. È evidente che questo nuovo modo di gestire gli
affari gli procurò dei nemici potenti, tra i primi le Sette sorelle. Il metano
da solo fu sufficiente a dare a tutta l’industria italiana l’energia a basso
costo che le mancava per diventare una potenza industriale.
Alla scoperta del metano fece seguito un fiorire di aziende e società̀ destinate
al suo utilizzo più razionale e meno dispendioso, facendolo arrivare alle
fabbriche e alle singole abitazioni. Nacquero così la SNAM (Società̀ Nazionale
Metanodotti) e altre aziende indispensabili a gestire i vari settori che furono
da lui affidati alla guida dei suoi amici ex partigiani.
Cefis gestì la parte economica e
Marcora quella edilizia e dei trasporti. Allo stesso don Federico fu affidata la
Gasburner, società̀ che forniva metano a piccole città come Domodossola in
Piemonte e Cesano Maderno in Lombardia. Va detto che Mattei non era del tutto
rispettoso delle norme vigenti che regolavano i lavori pubblici e sovente
rasentava i limiti della legalità̀. Ne sanno qualcosa i cremonesi che una
mattina, senza che fosse stato dato loro alcun preavviso, si svegliarono e
trovarono la città forata da buche e lastricata da tubi. Infatti, Mattei aveva
individuato Cremona come passaggio ideale per posare i metanodotti che dovevano
poi proseguire verso Milano e altri importanti centri lombardi.
Consapevole della lentezza della
burocrazia e voglioso di realizzare la rete in tempi brevi, non chiese di
proposito l’autorizzazione ai lavori. Dopo aver messo sottosopra Cremona, Mattei
si rese irreperibile per due giorni, per poi ricomparire davanti al sindaco e al
prefetto addossandosi ogni responsabilità̀ e promettendo che i lavori sarebbero
stati immediatamente sospesi. Si sentì rispondere che i lavori non andavano
affatto interrotti, ma che bisognava in tutta fretta ultimarli per rendere
agibile la città.
Era proprio ciò̀ che Mattei voleva
sentirsi dire, aveva vinto contro la burocrazia. I cremonesi, da parte loro,
superato il disagio temporaneo, constatato l’esito positivo dei lavori, si
sentirono grati al disinvolto imprenditore. Interpellato da un giornalista su
questo modo troppo spigliato di usare i fondi dell’azienda, che in fin dei conti
erano pubblici, allo scopo di corrompere i vari politici i cui voti gli erano
necessari, diede la famosa risposta: «Non capisco come si possa parlare di
corruttela: per me i partiti e i politici sono tutti uguali. Sono come un taxi,
ci salgo sopra, mi faccio portare dove intendo andare, pago e me ne vado. Che
c’è di illegale?»
“Il primo gesto terroristico del nostro Paese”. Alcune valutazioni ...
Mattei diede poi il via alla costruzione di due centri operativi, a San Donato
Milanese e all’EUR di Roma, e realizzò i porti petroliferi di Gela e Ravenna.
Comprò diversi aerei per l’azienda e viaggiò per tutto il mondo, sempre alla
ricerca di buoni affari per il suo Paese. Quando nacque l’ENI tutti gli italiani
poterono ammirare il cane a sei zampe, che ne era il simbolo (frutto della
genialità̀ di Leo Longanesi) e che faceva la sua comparsa sui giornali e sui
cartelloni pubblicitari di tutta Italia.
L’AGIP che aveva ottenuto
l’esclusiva per la ricerca di idrocarburi nel sottosuolo italiano, era guardata
con ostilità̀ dalle Sette sorelle, le grandi compagnie angloamericane che
controllavano il petrolio nel mondo, anche perché́, come ho già̀ ricordato,
erano infastidite dal modo inconsueto di operare dell’imprenditore italiano, che
ovviamente danneggiava i loro interessi.
Mattei tentò di accordarsi con
loro, ma tutto si concluse in un violento litigio. Trovò invece un alleato in
De Gaulle, con il quale si accordò per l’utilizzo del petrolio algerino. Sul
versante interno, l’operato di Mattei fu spesso oggetto di attacchi da parte di
diversi quotidiani italiani. Per questo fondò un proprio giornale, Il Giorno,
che si diffuse in tutta Italia con molto successo anche grazie a grandi
direttori come Baldacci, Pietra, Zincone e Afeltra.
Ogni cosa che Mattei intraprendeva
sembrava avere esito più̀ che positivo e produceva soldi. Questo lo sapeva anche
La Pira, allora sindaco di Firenze, che, trovandosi una marea di cittadini senza
lavoro perché́ era fallita la Pignone, azienda che operava sul suo territorio,
si rivolse a lui per chiedere aiuto. Mattei in un primo momento gli rispose che,
pure sentendosi amareggiato, non poteva farci niente, anche perché́ era in
partenza per l’Iran, dove l’attendeva la conclusione di un grosso affare.
Anche se l’amico La Pira in un sogno
lo aveva visto come un salvatore, questo salvatore non era lui. Mentre si
accingeva a partire fu avvisato che lo scià aveva sospeso l’appuntamento.
Mattei, da buon credente, interpretò tale contrattempo come un segno della
Provvidenza: la sua meta non doveva essere la Persia, ma Firenze, come voleva La
Pira. Comunicò all’amico che avrebbe realizzato il suo sogno. Si recò nel
capoluogo toscano e in breve tempo mise in piedi La Nuova Pignone, che avrebbe
costruito i distributori del suo gruppo destinati a tutto il mondo e che avrebbe
quindi riassunto tutti gli operai disoccupati.
Mattei sapeva che la sua vita era in
pericolo, nonostante fosse sorvegliato da un’agguerrita guardia del corpo
capitanata da Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza. Un giorno la
moglie, con la quale viveva in un albergo (da anni non aveva una residenza
stabile), lo sorprese a piangere: temeva di dover presto morire. Ciò̀ accadde
nel cielo di Bascapè, vicino a Milano, quando l’aereo su cui viaggiava esplose.
Era il 1962. Sicuramente si trattò
di un attentato riuscito, ma ordito chissà̀ dove e chissà̀ da chi: ancora oggi
è un mistero, anche se non mancano diverse ipotesi credibili. Se ne andava
così il più̀ grande imprenditore italiano del secolo scorso che tanto si era
dato da fare, non per arricchire se stesso, ma per migliorare il tenore di vita
di tutto il popolo italiano.
All’estero Mattei era molto
apprezzato, lo testimonia un incontro avvenuto a Mosca tra un furibondo Krusciov
e l’ambasciatore italiano. Il capo sovietico aggredì̀ quest’ultimo con le
seguenti parole: «Voi italiani avevate l’uomo più importante del mondo, Enrico
Mattei, e lo avete lasciato ammazzare. Dovevate dirlo a noi che non eravate in
grado di proteggerlo, la nostra ottima polizia segreta l’avrebbe sicuramente
salvato».
Ezio Cartotto *
* Pagine tratte dal libro di Ezio
Cartotto: Gli uomini che fecero la Repubblica- L’esempio dei maestri di ieri per
ritrovare il senso della politica nell’Italia di oggi- 2012 Sperling & Kupfer-su
gentile autorizzazione di Elena Cartotto
Mario Scelba nacque a Caltagirone,
la città di Luigi Sturzo, il 5 settembre 1901. Morì a Roma il 29 ottobre 1991.
Giovanissimo, dopo aver ottenuto la
laurea in Giurisprudenza, divenne segretario particolare.
Sturzo non fu formalmente esiliato
dal governo fascista, ma volontariamente, su consiglio del cardinal Gasparri,
andò a fare il viceparroco in un sobborgo di Londra. A causa dei bombardamenti
del 1940 Sturzo emigrò negli USA, dove poté curare i gravi disturbi respiratori
di cui soffriva in un ospedale della Florida. Nel 1946 rientrò in Italia su una
nave che lo portò a Napoli.
Scelba, informato del suo arrivo,
emozionatissimo, avvertì De Gasperi, Spataro e Silvio Gava invitandoli ad
andare ad accoglierlo. Con loro salì su una piccola imbarcazione e si avvicinò
al transatlantico il cui comandante, avvertito dalle autorità̀ portuali, fece
calare la scaletta su cui si arrampicarono ansiosi di riabbracciare il vecchio
amico. Quando arrivarono sul ponte seppero che Sturzo non si trovava nella sua
cabina, ma sul ponte della nave a prendere il sole della sua Italia, su una
sedia a sdraio, dopo più̀ di vent’anni di esilio.
Immaginatevi lo stupore di Sturzo
quando Scelba, non visto, gli posò le mani sugli occhi gridando «Sorpresa!» con
accento siciliano. Fu un indescrivibile momento quello in cui cinque uomini si
misero contemporaneamente a ridere e a piangere. Superato il primo attimo di
grande emozione, vennero a parlare di cose più̀ serie e Sturzo raccomandò a
tutti di seguire rigorosamente la guida di De Gasperi.
Mario Scelba era un uomo forte,
estremamente dinamico, che De Gasperi volle sempre al suo fianco, soprattutto
per affrontare i problemi dell’ordine pubblico. Terminato il secondo conflitto
mondiale si era evidenziato estremamente pericoloso, in Sicilia, il tentativo,
già in atto da qualche tempo e capeggiato dal regionalista Finocchiaro Aprile,
di rendere l’isola indipendente.
Va ricordato a tale proposito che il
presidente degli USA Roosevelt, per favorire lo sbarco alleato in Sicilia, si
era accordato con i capi della mafia americana Lucky Luciano e Vito Genovese.
Costoro ebbero buon gioco a indurre la mafia isolana, già̀ inviperita contro il
fascismo per la repressione del prefetto Mori, ad aiutare gli americani a
sbarcare a Gela e lungo tutta la costa meridionale, facendoli poi risalire
rapidamente fino a Messina.
Il colonnello Charles Poletti,
italoamericano, affiancato da Vito Genovese in qualità̀ di interprete,
approfittò della buona fede degli americani per razziare viveri e ogni cosa
potesse servire alla popolazione, per far vedere che mentre lo Stato
perseguitava la gente, la mafia sapeva aiutarla concretamente, trucco che durava
dai tempi dei Vespri siciliani.
De Gasperi, che da buon trentino
aveva saputo discutere alla pari con gli austriaci dei problemi del
Trentino-Alto Adige, ritenne opportuno affidare al siciliano Scelba la
complicata situazione dell’isola. Infatti, Scelba, prima si liberò del problema
di Finocchiaro Aprile con l’aiuto degli americani, poi affrontò le bande di
uomini armati capeggiati da Giuliano e Pisciotta, che volevano con l’uso della
forza cacciare l’Italia dalla Sicilia.
Il loro intento era di fare
dell’isola una regione autonoma anche dal punto di vista giudiziario e penale,
dotata di un’Alta Corte di Giustizia indipendente dalla Cassazione e con un
presidente regionale avente il diritto di partecipare a ogni Consiglio dei
ministri italiano in cui si discutessero i problemi della Sicilia. Scelba ebbe
quindi pieni poteri e tutti i mezzi necessari per portare l’isola nell’ambito
dell’unità d’Italia.
Inoltre, in Sicilia erano in corso
lotte sindacali e sociali legate al latifondo, che contrapponeva pochi ricchi
proprietari terrieri a una massa di braccianti in gravi difficoltà economiche.
Esisteva anche il problema dell’acqua. Non perché́ tale prezioso e
indispensabile elemento scarseggiasse, ma perché́ c’era chi, nel proprio
interesse, ne controllava la distribuzione.
In questo contesto accadde che,
durante una manifestazione per la ridistribuzione delle terre, promossa dai
sindacati e dai partiti di sinistra a Portella delle Ginestre, Giuliano aprisse
il fuoco sulla folla facendo molte vittime. Subito la sinistra fece nascere la
leggenda dell’«odioso e odiato» ministro degli Interni Scelba che, colluso con
la mafia, avrebbe avuto la machiavellica pensata di spingere Giuliano, proprio
attraverso la mafia, a sparare sulla gente comune. Il fine sarebbe stato quello
di rendere l’immagine del bandito invisa alla folla, che ne avrebbe favorito la
cattura.
Fra l’altro la mafia, che i
testimoni li preferisce piuttosto morti che vivi, avrebbe pagato Pisciotta,
braccio destro di Giuliano, per uccidere quest’ultimo. Pisciotta si dichiarò
colpevole e qualche tempo dopo, mentre era in attesa di processo, morì in
carcere avvelenato dal solito caffè. Addirittura, persone dotate di fantasia
dicevano che forse l’uomo assassinato non fosse il vero Giuliano, ma un altro
bandito creduto tale. Il vero Giuliano sarebbe stato fatto fuggire all’estero.
Per chiarire questi dubbi nel 2010
il procuratore Ingroia avrebbe ordinato di disseppellire Giuliano per
verificarne il DNA. È molto difficile dimostrare una qualsiasi contiguità̀ di
Scelba con la mafia, non solo perché́ Scelba era un cattolico praticante e un
fedele discepolo di Sturzo, ma anche perché́ non cercò mai, nei congressi della
DC, di crearsi una corrente siciliana propria (possibilmente gradita alla
mafia), come fece invece Andreotti.
In ogni caso, fu a Scelba che vennero affidati i
poteri sull’ordine pubblico di tutta Italia e, grazie alla capillare propaganda
comunista, Scelba divenne il manganellatore, il macellaio, il torturatore. È
pur vero che durante le manifestazioni e gli scioperi ci furono caroselli della
polizia e più̀ di una persona fu investita e uccisa, ma Scelba non espresse mai
compiacimento per queste disgrazie. Tuttavia, egli non si tirò mai indietro e,
quando Pajetta e i comunisti più̀ focosi saltavano i banchi del Parlamento per
aggredirlo mentre lui si trovava sui banchi del governo, non ebbe mai momenti di
reazione se non per dire con parole ferme: «I
poliziotti non sono colpevoli, l’unico colpevole sono io che ho dato gli ordini.
Che vi piaccia o no, quando voi andate in giro a distruggere e a provocare caos
troverete sulla vostra strada la mia polizia, di cui mi assumo ogni
responsabilità̀».
Fu Scelba, imitato poi da Fanfani, a
consigliare che i pompieri irrorassero con acqua colorata i manifestanti, allo
scopo di sedare i bollori, ma soprattutto di poter individuare con una certa
facilità i colpevoli di eventuali fatti criminosi. Scelba fu solidale con De
Gasperi quando quest’ultimo rifiutò l’invito di Pio XII di fare una lista
comune con le destre in occasione delle elezioni comunali di Roma e diede il suo
nome alla legge elettorale che i comunisti chiamarono «Legge truffa».
Quando De Gasperi scomparve dalla
scena politica gli succedette alla guida del governo l’economista Pella con
Fanfani al Ministero degli Interni, il quale dovette affrontare questa volta i
disordini di piazza al grido di «Trieste all’Italia». Mentre gli alleati si
apprestavano ad abbandonare Trieste, si profilò il pericolo che i partigiani
occupassero la città e Pella mobilitò un piccolo esercito italiano per
difenderla. La vicenda si risolse salomonicamente: gli alleati garantirono alla
Jugoslavia la provincia di Trieste, chiamata zona B, e all’Italia la città di
Trieste, zona A.
Dopo questa controversia con gli
alleati Pella si dimise lasciando la guida del governo a Scelba, affiancato dal
sottosegretario Oscar Luigi Scalfaro, governo che durò quasi due anni. Scelba
si disinteressò sempre della vita interna del partito, pur avendo molto
consenso nel Paese, che lo apprezzava per la grinta e la chiarezza delle idee e,
come già dissi, non intendeva organizzare una sua corrente.
Tuttavia, a causa del mutamento del sistema
elettorale all’interno della Democrazia Cristiana, che da maggioritario divenne
proporzionale, anche Scelba fu costretto a crearsi una corrente chiamata
«centrismo popolare» che, però, si estinse in breve tempo e alla quale
aderirono quasi tutti gli ex degasperiani come Spataro, Tupini, Gonella.
Quest’ultimo inventò una felice metafora in cui diceva, a proposito dei
socialisti: «Troppo spesso i lupi si
travestono da pecore tra gli applausi dei pastori».
Dopo la scissione di Iniziativa
Democratica e dopo la brutta esperienza del governo Tambroni, Fanfani, ritornato
alla guida del governo, si diresse come un treno verso l’abbraccio con Nenni,
anche se rallentato dai Moro-dorotei.
In sede congressuale a Napoli Scelba
fece il miglior discorso di opposizione all’accordo con i socialisti. Con una
chiarezza di ragionamento degna di Luigi Sturzo, egli affermò che una DC
alleata con il PSI avrebbe provocato due disastri contemporaneamente. Anzitutto
la DC avrebbe perso la sua credibilità̀ e un certo numero di elettori moderati,
non più̀ trattenuti da una motivazione cattolica, avrebbe votato per il Partito
liberale. Questa perdita di voti si sarebbe consolidata a favore dei liberali e
il peso complessivo dei parlamentari DC sarebbe sempre più̀ diminuito.
Inoltre, il PSI, anche se si fosse
alleato con i saragattiani, avrebbe perso voti a sinistra a favore dei
secessionisti del PSIUP e degli stessi comunisti. Fatti i conti, la maggioranza
di governo avrebbe avuto ben pochi voti in più̀ dell’opposizione. A questo
punto, dato il nostro sistema parlamentare, con una maggioranza così fragile si
sarebbe dovuto trattare ogni cosa con i comunisti che, senza assumersi
responsabilità̀ di governo, avrebbero di fatto partecipato alla guida del Paese.
Così avevano insegnato Gramsci e Togliatti e questo si stava verificando.
Scelba ebbe un vasto consenso, pari
al 20% del partito, ma non aveva nessuna intenzione di organizzare questo
consenso, come si è visto, in una corrente. Perciò̀, i suoi ragionamenti così
lineari finirono a poco a poco per essere demoliti o dimenticati e Scelba venne
di fatto emarginato dalla guida politica del partito e dal governo. Si dedicò
quindi sempre di più̀ alla politica europea, dove riceveva maggiori
soddisfazioni.
In sede europea una volta si verificò un simpatico
scambio di battute tra lui e La Pira durante un pranzo a Strasburgo, al quale io
partecipavo con un gruppo di giovani. Ricordo che a un certo punto Scelba,
rivolto a La Pira, disse: «Giorgio, spero
di morire dopo di te perché́ quando tu sarai morto, tutti vorranno farti subito
santo e allora io interverrò̀ e scriverò̀ alla Congregazione per le Cause dei
Santi che La Pira non può̀ essere santificato perché́ nel corso della sua vita,
almeno una volta, è stato un imbroglione e un truffatore, cosa che io posso
dimostrare».
La Pira, colpito in modo così inaspettato,
abbandonò le posate e si mise ad agitare le mani dicendo: «Ma
Mario, cosa mai stai dicendo davanti a questi giovani. Io non pretendo di
diventare santo ma non posso permettere che tu mi definisca imbroglione e
truffatore. Quando questo sarebbe accaduto?» Scelba
rispose subito: «Ti ricordi quando tu eri
sottosegretario al Lavoro e ti occupasti della controversia tra armatori e
sindacati?» «Certo che me ne ricordo. C’erano le navi cariche di carbone e di
grano ferme nei porti e, se non si fosse provveduto a scaricarle subito, il
Paese avrebbe sofferto il freddo e la fame. Gli armatori, nella persona del
comandante Lauro, loro presidente, ci fecero sapere che gli aumenti chiesti dai
sindacati non si potevano concedere a meno che il governo non fosse intervenuto
con finanziamenti a fondo perduto a favore della loro categoria. Allora io
chiamai il comandante Lauro e gli dissi che il governo avrebbe acconsentito alla
richiesta. In questo modo le navi scaricarono il grano e il carbone e il
pericolo fu superato», concluse con aria
ispirata La Pira.
Scelba però implacabile riprese: «Vedi,
non solo sei un peccatore, ma perseveri nel peccato perché́ sai benissimo che io
ero presente al Consiglio dei ministri che decise di non concedere prestiti agli
armatori e Fanfani assicurò che te l’avrebbe comunicato». Allora
La Pira concluse dicendo: «Beh, forse
avrò̀ capito male, ma a fin di bene, anche perché́ gli armatori i soldi li hanno
poi avuti». «Certo», concluse Scelba. «Come
facevo a quel punto a non concedere il finanziamento che tu ti eri impegnato a
far pervenire a nome del governo. Si rischiava una rivolta e io ti diedi una
mano sostenendo che per motivi di ordine pubblico bisognava chiudere la
vertenza. Ma tu resti sempre quello che ti ho definito prima.» Ci
fu una risata generale che coinvolse Scelba, La Pira e tutti coloro che erano
presenti.
È interessante sapere che Scelba,
mentre era ancora vivo, cosa molto insolita, poté́ vedere innalzato in suo onore
un monumento nella cittadina di Caltagirone, dove era nato. Ciò̀ gli portò
fortuna: morì quasi centenario.
Ezio Cartotto *
* (Pagine tratte dal libro di Ezio
Cartotto: Gli uomini
che fecero la Repubblica - L’esempio dei maestri di ieri per ritrovare il senso
della politica nell’Italia di oggi,-
2012 Sperling & Kupfer. Per gentile autorizzazione di Elena Cartotto)
Franco Maria Malfatti
nacque il 13 giugno 1927 a Roma dove mori il 10 dicembre 1991. Le onoranze
funebri si celebrarono nella Chiesa del Gesù, proprio davanti al palazzetto sede
della direzione nazionale della Democrazia cristiana di cui aveva fatto parte,
ininterrottamente, per circa quaranta anni. L'orazione funebre fu tenuta da
Arnaldo Forlani. La partecipazione alle esequie del Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga era stata anticipata da un messaggio di cordoglio ai familiari
e a Arnaldo Forlani: "..Ho appreso con animo rattristato la dolorosa notizia
dell'improvvisa scomparsa di Franco Maria Malfatti, capo della segreteria
politica della Democrazia cristiana. Con lui il Paese, il Parlamento ed il
partito perdono un costante punto di riferimento di grande rigore morale e di
altissimo ingegno,che gli valsero unanime apprezzamento non meno che la sincera,
saldissima amicizia di tutti coloro, tra i quali mi onoro di annoverarmi, che
condivisero con lui anni di fraterna e proficua consuetudine intellettuale ed
umana. Egli seppe indirizzare la sua appassionata militanza politica,ispirata a
una forte e consapevole adesione ai più alti valori cristiani e civili,
all'ideale del liberalismo democratico e a una coerente dedizione al partito,
nel senso di un severo e convinto impegno al servizio del Paese e delle
istituzioni, che illustrò attraverso la sua opera di parlamentare e di ministro
della Repubblica, al cui alto ufficio venne più volte chiamato..". La commossa e inusuale
densità anche umana, del messaggio presidenziale dava conto dello straordinario
spessore intellettuale, etico e politico di un personaggio che aveva
attraversato, con ruoli di altissime responsabilità, quaranta anni di storia
repubblicana senza indulgere a protagonismi , attento e rigoroso nella gestione
del potere, inteso come servizio agli altri da esercitare con mite umiltà e
discrezione. Come ben sanno e sperimentato gli elettori del suo collegio
elettorale, in particolare i sabini (ma non solo!) che addirittura hanno creato
una fondazione, ricca di iniziative per manifestare la loro gratitudine a un
parlamentare che non aveva mai dimenticato di ascoltare i propri elettori.
Franco Maria Malfatti
aveva raccolto l'invito di Giuseppe Dossetti,che ne aveva intuito le grandi
qualità, a collaborare a "Cronache sociali", periodico che dal 1947 era
diventato fulcro di un vivace dibattito nel mondo cattolico alla ricerca di
progetti per la nuova società svincolati dai retaggi del passato e da proiettare
in un futuro tutto da costruire. Così Dossetti selezionava e preparava giovani
che avrebbero dovuto formare la nuova classe dirigente e Malfatti si trovò a
respirare l'aria impegnata, vivace e talora divertente, della comunità del
Porcellino con "professorini "del calibro e del carattere di Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani,
Giorgio La Pira e, naturalmente, lo stesso Dossetti. A quei giovani i
"professorini" richiedevano di studiare i problemi, legarli alla realtà,
quantificare le risorse a disposizione, i tempi di realizzazione. Solo dopo
questa complessa analisi era lecito passare alla proposta operativa secondo una
scala di priorità che doveva privilegiare i bisogni delle fasce di popolazione
più vulnerabili. Nell'Italia devastata dalla guerra la politica non poteva
permettersi improvvisazioni. Le risorse erano poche e dovevano essere utilizzate
nella maniera più efficace. Dossetti nel 1951 rinunciò
alla sua avventura politica scegliendo la vocazione monastica."Cronache
sociali" chiuse e, su quella esperienza nacque "Nuove Cronache" diretto da
Amintore Fanfani che diventò la palestra, insieme ad altri periodici come "Per
l'Azione ", in cui Malfatti e altri giovani di grande talento si confronteranno
nella fervida ricerca di coniugare la libertà con la responsabilità, la
democrazia con la partecipazione, la dignità del lavoro e la giustizia sociale,
gli Stati Uniti D'Europa e il patto atlantico come scelta di civiltà e di pace. Nel 1957 Malfatti fu
nominato dirigente nazionale della SPES e, in quella veste, varò il manifesto
il cui slogan " Progresso senza avventure" avrebbe ispirato anche molte campagne
elettorali successive perché coglieva nel profondo le speranze del grande
popolo democristiano. Nel 1958 (terza
legislatura repubblicana) Malfatti venne eletto in Parlamento (circoscrizione
Perugia-Terni-Rieti) dove rimase fino alla sua scomparsa. Nel gruppo
parlamentare della Democrazia cristiana vigeva la regola che i deputati di
prima legislatura non potevano candidarsi a cariche di Governo. Prima dovevano
dare buona prova nel loro incarico parlamentare. Sicché Malfatti ebbe il suo
primo incarico di Governo (Sottosegretario di Stato al Ministero dell'industria,
del Commercio e dell'Artigianato) nella quarta legislatura, rimanendo poi
ininterrottamente nel Governo con incarichi di crescente importanza (Ministro
della pubblica istruzione ,delle Finanze, delle Poste, delle Partecipazioni
statali, degli Esteri) senza che mai, neppure un'ombra, sfiorasse il suo
operato. Nel 1974 da Ministro della
pubblica istruzione intervenne con i decreti delegati (DD) per porre ordine e un
argine alle contrapposizioni ideologiche che devastavano la scuola. L'onda lunga
del '68, le rivendicazioni salariali, la stagione del terrorismo che non
accennava a placarsi rendevano la materia incandescente. I DD, come allora si
chiamarono, vennero criticati da destra e da sinistra con mugugni anche al
centro, ma rappresentarono un solido e pragmatico punto di equilibrio,
ovviamente perfettibile, che spezzò un sistema chiuso, selettivo e verticistico
per aprirsi alle istanze di democratizzazione e di partecipazione. Le elezioni
per gli organi collegiali si risolsero con un successo del movimento
studentesco di comunione e liberazione che relegò, quasi ovunque, in minoranza
le tesi vocianti, confusionarie e meramente agitatorie di una certa sinistra
più scioperaiola che propositiva. A cinquanta anni di distanza da quei decreti,
uno studioso dei problemi scolastici Enrico Nistri ( in beemagazine. it) ha
concluso il suo saggio di raffronto con la situazione odierna con queste
parole:"I DD saranno stati anche "malfatti", ma scaturivano pur sempre da una
visione alta della scuola che, al giorno d'oggi, sembra a volte,
irrimediabilmente smarrita. Nei giorni più bui della
storia della nostra Repubblica quelli segnati dal rapimento di Aldo Moro e
dell'uccisione della sua scorta, Malfatti era Ministro delle finanze e, in
quanto tale, partecipava alle riunioni del Comitato tecnico-operativo preposto
alla gestione della crisi. Si parlò di supposte lettere a lui indirizzate,
peraltro mai rese pubbliche dalle Brigate rosse nè pervenute al destinatario di
cui era nota l'assoluta affidabilità unita a un senso di grande e rispettoso
riserbo istituzionale. Sicchè, se la questione delle lettere forse mai scritte
e, comunque, mai pervenute non ha convinto tutti (sembra che l'unico punto sul
quale si è raggiunto l'unanimità sia la morte del rapito!) è, invece, probabile
che Malfatti abbia concorso alla tessitura della delicatissima trama dei
rapporti che portò il Presidente del Senato Amintore Fsnfani a valutare la
possibilità di un estremo tentativo per salvare la vita dell'on.Moro. Il
tentativo fanfaniano che recuperava un principio fondante della Democrazia
cristiana ("al centro la persona non lo Stato") si infranse, in quel drammatico
9 maggio 1978. sabotata dalla feroce violenza che trasformò il corpo
martoriato del Presidente della DC in un martire della democrazia e della
libertà. Perché le Brigate rosse scelsero con quel gesto di odio insensato di
suicidarsi politicamente è ormai materia per gli storici che verranno. Appartiene invece
all'attualità il discorso che Malfatti, Presidente della commissione europea,
pronunciò il 22 gennaio 1972 al Castello di Egmont, in occasione della storica
adesione al Trattato della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda. Per la
prima volta si andava oltre i confini dei Paesi fondatori. Un piccolo passo, ma
un sogno per gli europeista di ogni colore.Si concludeva una trattativa
difficilissima in cui il ruolo del Presidente Malfatti era emerso in tutto il
suo vigore nella fermezza con cui aveva inteso aprire la Commissione europea ad
una visione politica che accelerasse i processi verso una Europa sempre più
solidale e unita. Non si aspettava il Presidente francese Pompidou, più incline
al freno che alle accelerazioni quando si parlava di processi unitari da
perseguire, sia pure con prudente tenacia, la risposta ferma del giovane
Presidente italiano:"Se volevate un tecnocrate avete sbagliato a scegliere la
mia persona!" Gli studi recenti tendono ad apprezzare il ruolo complicato, ma
positivo dell'esperienza di Malfatti al vertice della Commissione europea che
era stato appannato dalla decisione di dimettersi due mesi prima della scadenza
naturale del mandato per poter partecipare alle elezioni politiche anticipate
che si sarebbero tenute in Italia. Le vestali di una Europa ferma e
conservatrice espressero la loro puzza sotto il naso. Ironia della sorte i
partiti di opposizione, che avevano votato sempre contro i Trattati si
scandalizzarono. Ma i tempi lunghi della storia servono a distinguere il grano
da loglio. E così oggi possiamo apprezzare la visione anticipatrice del discorso
di Egmont alla ricerca del tempo perduto in tante miopi liti condominiali
(leggi: egoismi, nazionalismi, sovranismi e così via) di cui oggi la realtà ci
presenta il conto. Aveva detto Malfatti all'augusto uditorio:..."Dobbiamo
essere realisti, ma non per frenare la nostra immaginazione; dobbiamo essere
pragmatici, ma non per limitare la nostra impazienza; dobbiamo essere prudenti,
ma non per indebolire il nostro coraggio". Parole chiave di una scuola lontana,
quella della comunità del "Porcellino",e, in qualche modo, un autoritratto del
Presidente Malfatti che così proseguiva: "Uniti noi avremo la
possibilità di scrivere una nuova pagina di storia, di essere un fattore
importante di libertà, di sicurezza, di pace, di progresso nel mondo. Divisi noi
potremo essere spettatori dello sviluppo della storia". Frasi pronunciate 52 anni
fa, ma che conservano drammaticamente intatta la loro attualità.
Amintore Fanfani, nato a Pieve S.
Stefano in provincia di Arezzo il 6 febbraio 1908 si spense a Roma il 20
novembre 1999. I funerali si svolsero nella Basilica di S.Maria degli Angeli al
cospetto delle massime Autorità dello Stato e di una grande folla che rendeva
onore a uno dei più importanti protagonisti della politica italiana del secondo
Novecento.
Quella folla avvertiva la profondità
della perdita dell'ultimo "cavallo di razza" di un partito, la Democrazia
Cristiana, che, in quel tempo, non esisteva più mentre continuavano a esistere i
democratici cristiani. Forse qualcuno ricordava che quando si cominciò a
parlare, nel marasma dell'antipolitica avviato da "mani pulite”, di cambiare
nome alla D.C. Fanfani, per rispondere alla domanda di un giornalista, aveva
scomodato la saggezza dei contadini della sua terra aretina: “A correr troppo si
ruzzola e qualche volta ci si rompe la testa".
"Guai se il tuo sforzo fallisse!“
gli aveva scritto, poco prima di morire, Alcide De Gasperi in una lettera che
apparve subito come un ideale passaggio di testimone al prescelto di una nuova
generazione di politici di alto livello che, uniti ("Solo se saremo uniti saremo
forti, solo se saremo forti saremo liberi") avrebbero proseguito nelle scelte di
civiltà, atlantiche e europeiste, dell’Era degasperiana guidando gli
straordinari processi di sviluppo economic, di trasformazione sociale e di
partecipazione politica che interesseranno l'Italia nei decenni successivi.
Amintore Fanfani economista,
pittore, docente universitario fu sei volte Presidente del Consiglio dei
Ministri, titolare degli Esteri, degli Interni e di altri importanti Dicasteri,
Segretario nazionale della Democrazia cristiana, attivissimo membro
dell'Assemblea Costituente (sua è la formulazione del primo articolo della
Costituzione "l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro").
Deputato nelle prime cinque
legislature repubblicane e, successivamente, senatore eletto fino alla nomina a
vita (1972) da parte del Presidente della repubblica Leone: per circa quindici
anni Presidente del Senato nonché, negli anni 1965-1966,Presidente
dell'Assemblea Generale dell'ONU.
Semplici titoli, tuttavia non
esaustivi, di un "cursus honorum"e di responsabilità esercitate con grande
rigore morale. saldi principi, indiscussa preparazione e un dinamismo
eccezionale. Fanfani ebbe il privilegio di poter testare sul campo i risultati
dei suoi studi accademici e delle sue riflessioni sulle teorie economiche nonché
delle elaborazioni programmatiche frutto del dibattito sul Codice di Camaldoli e
degli accesi confronti nella comunità del Porcellino (Dossetti, La Pira,Fanfani,
Lazzati).
Sicché,applicati alla realtà con
criteri lontani dal liberismo senza freni e dal collettivismo autoritario, gli
schemi keynesiani, l'umanesimo integrale di Maritain, la dottrina sociale della
Chiesa cattolica si chiamarono Piano INA-Case, Legge per la Montagna, Riforma
agraria, Riforma della scuola, partecipazioni statali, nazionalizzazione
dell'industria elettrica e così via. Il tutto impegnandosi in una politica
internazionale di distensione e di pace attenta ai bisogni della povera gente e
del terzo mondo.
Ettore Bernabei ha raccontato
("L'Italia del Miracolo e del Futuro"- 2012) che il Presidente Kennedy volle che
Fanfani andasse a incontrarlo negli Stati Uniti. Al primo incontro gli disse:
“Ho bisogno che Lei mi assista perché ho studiato economia nel suo testo
"Capitalismo, protestantesimo e cattolicesimo”. Vorrei che le sue idee fossero
applicate negli Stati Uniti e nei paesi in via di sviluppo".
Amato, stimato, temuto, contestato,
da taluni maledetto, Fanfani andò incontro anche a cocenti sconfitte che, in
politica, avrebbero demolito chiunque. Ma lui, dopo una pausa di ripensamento in
cui si dedicava maggiormente alla sua adorata pittura e all'approfondimento
delle sue ricerche sull'economia, non mancava di rialzarsi e tornare con il suo
trascinante dinamismo nell'agone politico, tanto che il famoso giornalista Indro
Montanelli lo aveva soprannominato "Rieccolo ".
Fanfani spiegava che qualche suo
insuccesso dipendeva dalla sua capacità di anticipare i tempi, di prevedere gli
accadimenti molto prima degli altri e dunque ,spesso, di non essere compreso. Ma
in politica, concludeva amaramente, “avere ragione dopo dieci anni quando sei
già morto e sepolto non serve! “Una considerazione di orgogliosa autostima
accolta con perfida ironia dai suoi detrattori, allora vivaci nelle cronache
quotidiane, ma di cui la storia ha perso le tracce.
Nel 1970, alla Conferenza di San
Francisco per il XXV Anniversario della Fondazione dell’ONU, Fanfani denunciò i
gravi danni che uno sconsiderato sfruttamento della natura stava arrecando
all'umanità, invitando tutti i Paesi del mondo a adottare una comune strategia
della sopravvivenza. Pochi lo compresero e molti considerarono stravaganze
quelle che oggi descriverebbero come lungimiranza.
Oggi le ricerche degli studiosi
sull'imponente archivio di Amintore Fanfani, depositato al Senato dalla
Fondazione che reca il suo nome, ci restituiscono, senza le distorsioni della
strumentalità politica, l'immagine della grande capacità di visione e
lungimiranza dello Statista aretino.
In una pubblicazione uscita postuma
(2014), curata da M.Poetinger, "Dall'Eden alla terza guerra mondiale”, basata su
manoscritti (1991) frutto di decenni di studi, Fanfani si concentra sulle
innovazioni tecnologiche della terza rivoluzione industriale intuendo
l'approssimarsi di quel vertiginoso cambiamento epocale di cui oggi parla Papa
Francesco. Percepisce i rischi manipolatori dell'evoluzione informatica (oggi
intelligenza artificiale) e l'inadeguatezza delle istituzioni a farvi fronte con
la stessa velocità.
Di qui il messaggio, quasi un
testamento, rivolto specialmente ai giovani a riappropriarsi della
responsabilità del progresso economico e della pace di tutta l'umanità nella
convinzione scriveva Fanfani nel 1991, che se non si opera per una strategia
della pace e della sopravvivenza in un mondo nuclearizzato si rischia una sfida
missilistica. apocalittica.
GIUSEPPE TONIOLO,
PROFETA E SIMBOLO DI UN’ECONOMIA PER L’UOMO
articolo di Marco Zabotti (1)
Il 5 dicembre 1873 la sua lezione fondamentale su etica ed economia
all’Università di Padova
“Università di Padova, 5 dicembre 1873. Giuseppe Toniolo, ventotto anni, è un
professore cheinizia trepidante la sua carriera accademica con una
“prelezione” per la libera docenza di economiapolitica.
Tema: “Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggieconomiche”
Parla a un qualificato uditorio che registra la presenza di professori comeAngelo Messedaglia e Luigi Luzzatti, suoi ex docenti, che egli
venera comemaestri. Quanto basta perché dal loro
ascolto, egli si senta insieme onorato epreoccupato.
Sarà all’altezza delle loro attese?”.
Esordisce così Domenico Sorrentino nel suo recente, prezioso volume“Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo.
Una riletturasistematica” (Vita e Pensiero, 2021),
ricordando il contributo dottrinale cherimarrà
fondamentale per tutto il percorso scientifico dell’insigne sociologo edeconomista cattolico, manifestato esattamente nell’occasione di
150 anni fa.
Il giovane Toniolo sarà sicuramente all’altezza di questo arduo compito,come dimostrerà allora e come testimonierà con il suo “pensiero-
azione” lungotutte le fasi della sua esistenza.
Al primo posto, dunque, la visione di un’economia umana, che - come sosteneva il
Toniolo nellasua lezione attualissima e lungimirante di
un secolo e mezzo orsono - “contribuisca più efficacementealla soluzione del grande problema del secolo nostro, che è
quello di conciliare i nuovi sistemiindustriali e la
nuova vita economica da cui dipendono le ragioni dell’utile, col rispetto e ilrinnovamento dei sentimenti etici da cui dipendono i destini,
il decoro e la pace della società”.
Tutto dunque inizia con la famosa lezione nelle aule dell’Università patavina,
che contiene “in
nuce” quello che sarà lo straordinario magistero del futuro beato, cristiano
laico che credeva e agiva
per una “società di santi”, primo economista salito agli onori degli altari con
la beatificazione
avvenuta a Roma nella basilica di San Paolo fuori le Mura il 29 aprile 2012.
Oggi Giuseppe Toniolo? Certo. A oltre 105 anni dalla sua morte, avvenuta a Pisa
il 7 ottobre 1918,
la grande attualità del “pensiero-azione”
dell’insigne professore di economia politica risalta con
particolare rilievo nella vita della Chiesa e del Paese.
(1) direttore scientifico Istituto Diocesano Beato Toniolo. Le vie dei Santi
L'arcivescovo Domenico Sorrentino
insieme a Francesco Bortolini nel
Duomo di Pieve di Soligo.
Il pensiero e l’azione di un protagonista della storia della Chiesa e del Paese
Nato a Treviso il 7 marzo 1845, formatosi a Venezia, laureato in giurisprudenza
a Padova, docente
universitario di economia politica per quarant’anni a Pisa, sepolto nel Duomo di
Pieve di Soligo, il
beato è modello riconosciuto di virtù umane e cristiane.
“Voglio farmi santo” era il suo intento di vita, sin da giovanissimo. Il suo
diario spirituale è
specchio e conferma di questo impegno quotidiano, nella vita di sposo, padre,
docente universitario
ed educatore dei giovani, animatore instancabile e guida autorevole del
movimento cattolico tra fine
‘800 e inizi ‘900, teorico del primato dell’etica in economia, della
cooperazione e della solidarietà
sociale, consulente di Leone XIII per l’enciclica “Rerum Novarum” del 1891,
guida e riformatore di
Azione Cattolica e presidente dell’Unione Popolare, fondatore di riviste e studi
internazionali e delle
Settimane Sociali (Pistoia, 1907), sostenitore della nascita dell’Università
Cattolica e di un futuro
“Istituto cattolico di diritto internazionale” per la pace (1917).
Un nuovo modello per la vita buona della società
Primato della persona e dei corpi intermedi; alleanza tra capitale, impresa e
lavoro; mutualità e
cooperazione; una riforma sociale in cui prevalgono l’etica, la giustizia e lo
spirito cristiano sulle
leggi rigide dell’economia come “dottrina dei bilanci del dare e dell’avere”,
superando sia
l’individualismo utilitarista, sia il collettivismo materialista; una visione
complessiva di democrazia
sociale ordinata secondo i principi della sussidiarietà e dal bene comune; i
percorsi ispirati della pace
e della cooperazione internazionale, temi tutti di drammatica attualità nello
scenario mondiale
odierno.
Sono le intuizioni anticipatrici e gli obiettivi concreti del Toniolo, le
antiche e nuove vie della
dottrina sociale della Chiesa, che oggi mettono al primo posto l’importanza
della cultura del dono, il
ruolo dell’economia civile, l’esigenza di un modello di sviluppo più umano,
giusto e solidale a livello
planetario, contro le logiche dell’economia senza volto, dello strapotere delle
oligarchie tecnologiche
e finanziarie, della disumanizzazione del lavoro; la salvaguardia del creato
come “casa comune” e
bene universale.
150 anni fa Toniolo aveva visto giusto, aveva guardato lontano, e nel nostro
tempo sentiamo
ancora vivissime e irrisolti le sue inquietudini e il suo impegno rigoroso e
generoso di fronte alle
ingiustizie patite dal proletariato della terra e degli opifici di allora. Un
esempio concreto e innovativo
di questa sua azione illuminata di riforma economica e sociale?
La Latteria Soligo, con gli statuti firmati proprio dal Toniolo, agli albori di
una cooperativa che
proprio in questo 2023 ha celebrato i 140 anni dalla sua fondazione.
Toniolo santo, simbolo di una economia umana per il XXI secolo
Maestro nella nostra epoca perché testimone autorevole, coerente e credibile nel
suo tempo, come
direbbe papa San Paolo VI, Giuseppe Toniolo si candida a divenire un simbolo
autentico di una nuova
dottrina dell’umano in campo economico e sociale.
Lo è sempre stato, in effetti, ma la sua beatificazione ha finalmente
allontanato il rischio della
possibile dissipazione di questa magnifica eredità, ma anche dei ritardi e delle
distrazioni da parte di
alcune cerchie di intellettuali, portando all’attenzione del popolo cristiano e
della cultura
contemporanea lo straordinario apporto scientifico e vitale di questo
protagonista autentico della
storia del movimento cattolico.
La parrocchia e la città di Pieve di Soligo, nella diocesi di Vittorio Veneto,
hanno il dono e la
responsabilità di custodire le reliquie tonioliane nel Duomo di Santa Maria
Assunta e di aver
contribuito con lungo percorso di fede, di devozione popolare e di impegno
culturale, e pure con
miracolo della guarigione di Francesco Bortolini per intercessione del Toniolo,
alla conoscenza, alla
valorizzazione e alla stessa beatificazione dell’insigne docente trevigiano.
D’altronde, proprio Giuseppe Toniolo aveva manifestato il desiderio di essere
sepolto a Pieve di
Soligo, luogo di origine dell’amata consorte Maria Schiratti e da lui stesso ben
conosciuto e
frequentato, cosicché “gli umili verranno a deporre un “requiem” sulla mia
tomba”, come egli diceva.
Ora si tratta di rafforzare l’impegno di tutti i soggetti ecclesiali coinvolti
per poter giungere a quel
nuovo miracolo che porterebbe al felicissimo traguardo della canonizzazione del
Toniolo, così
come auspicato anche nella recente riunione del comitato nazionale presieduto
dall’arcivescovo
Domenico Sorrentino, presenti anche il Vescovo Corrado Pizziolo e la
rappresentanza dell’Istituto
Diocesano Beato Toniolo.
L’intuizione anticipatrice di una economia autenticamente umana, che era nella
mente e nel
cuore del beato Toniolo alle origini della sua missione di uomo e di docente,
esattamente 150
anni fa, possa motivare un rinnovato e instancabile impegno di consapevolezza,
comunicazione e
condivisione della bellezza e dell’attualità della sua opera e del suo esempio,
per donare simboli,
riferimenti e buone notizie all’umanità smarrita del nostro tempo.
La figura di Lucio
Magri è stata ricordata all'istituto Sturzo nel dibattito sul tema "Bianchi e
Rossi nel dopoguerra" e Bartolo Ciccardini ha portato un contributo storico.
A proposito di Lucio Magri Intervento di Bartolo Ciccardini il 22 Ottobre all’Istituto Sturzo
1. Il partito: primo amore della nostra generazione
Non so perchè Luciana mi abbia chiesto di parlare del libro che raccoglie alcuni
scritti di Lucio. Ma una cosa è certa. La nostra fu una generazione che ebbe
come tema della sua vita il “partito”, il “principe” gramsciano, lo strumento
rivoluzionario per eccellenza, indaffarati a tempo pieno per costruirlo, per
rinnovarlo, per distruggerlo, per amarlo, per rifiutarlo, in una esperienza
totalizzante amara e dolcissima. In questa malattia seguimmo strade diverse e
forse per questo si voleva da me un giudizio non casalingo, ma contrapposto,
capace però di capire, di essere su quella lunghezza d’onda, di sentire
sim-patia e cum-passione. E leggiamo questa storia come una storia d’amore,
combattuto ed inevitabile, continuamente conquistato e sempre perduto.
2. Il ritorno del cattolicesimo politico e lo scontro-incontro con il comunismo
Il cattolicesimo, dopo la fine della persecuzione dei modernisti, esce dalla
torre in cui si difendeva ed affronta il confronto, ma anche il dialogo, con la
modernità. In Francia, in Belgio, in Germania c’è una forte ripresa della
filosofia, della teologia, degli studi biblici, storici e sociali. Queste idee
si incontrano con la cultura della crisi, sotto la impressione delle grandi
catastrofi europee: le due guerre ed il male assoluto del nazismo e del
totalitarismo.
Benedetto XV, con scandalo di tutta l’Europa, si pronuncia contro “l’inutile
strage” ed è questa la prima scelta di rottura contro la piaga delle guerre
civili europee. La seconda rottura è la scelta della democrazia, proprio nel
momento in cui l’Europa è nelle mani di Hitler. Una generazione di cattolici si
forma in questi anni ed il loro frutto si chiamerà “Comunità Europea”.
La cultura del cattolicesimo sociale non poteva non misurarsi con il problema
posto dal comunismo, che si era affermato “in un solo paese” e “nel punto più
basso”. Il contributo dei comunisti alla lotta antifascista poneva il comunismo
nella condizione di proporsi in molti paesi e nello stesso “punto più alto”
dell’Europa che per metà era già stata conquistata e che avrebbe potuto
conquistare con le armi, come conquistò poi gran parte dell’Asia. Contrariamente
al nazismo il comunismo era una filosofia, anzi la filosofia figlia ultima del
pensiero storicista, considerata già esaurita da Benedetto Croce al principio
del secolo, ma vivissima ed assisa sul carro dei vincitori alla fine della
guerra.
Ed il Pci era innanzitutto la soluzione scientifica del problema posto dalla
insufficienza del capitalismo, l’incarnazione del materialismo storico, frutto
di teoria e di prassi, di strategia e di tattica.
L’incontro, il confronto, lo scontro, avrebbero avuto un significato speciale in
Italia, dove aveva sede il centro della Chiesa cattolica e dove aveva messo le
tende il Partito Comunista più forte del mondo occidentale.
3. L’intuizione di Gramsci
La singolarità di questa situazione storica era già presente in un giudizio di
Gramsci sulla nascita del Partito Popolare. Gramsci, alla fine della prima
guerra mondiale, dette un giudizio che apparve strano e che rimase ignorato per
molto tempo: l’ingresso dei cattolici in politica con il Partito Popolare,
significava, per Gramsci, il compimento dell’unità italiana ed il componimento
della sua identità con l’inserimento di contadini che finora erano rimasti
estranei al Risorgimento. Questo, secondo Gramsci, avrebbe portato alla
secolarizzazione ed infine alla scomparsa della Chiesa cattolica, perchè quel
movimento popolare non avrebbe potuto non inserirsi (non inverarsi, avrebbero
detto i cattolici) nella costruzione della società nuova, frutto della
rivoluzione proletaria. Questa seconda parte appare oggi meno probabile, anche
se certamente il Concilio, che ha profondamente mutato la Chiesa cattolica,
potrebbe essere considerato qualcosa di simile nella prospettiva profetica della
secolarizzazione e del dissolvimento prevista da Gramsci.
Inoltre, un armistizio fra cattolici e comunisti era di fatto sopravvenuto nella
Resistenza e nel comune sentire dell’antifascismo.
4. Il primo compromesso storico
Alla Costituente poi l’antifascismo, questo comune sentire, permise un primo
compromesso storico fra principi liberali, socialisti, democratici-cristiani e
comunisti, che fu alla base di una buona Costituzione. E’ significativo che
Togliatti, nella sua dichiarazione di voto, sull’ordine del giorno organizzativo
dei lavori, proposto da Dossetti, accettasse il concetto fondamentale di
“persona umana”, come non contrastante alla concezione comunista della
democrazia. Ed accettasse perfino l’idea di Dossetti che una definizione dello
spazio legittimo della Chiesa cattolica fosse anche una garanzia ed un confine
per gli spazi della laicità dello Stato. Dossetti sperò anche in una
utilizzazione dei comunisti, seppur nel rispetto di principi diversi per
giungere al rinnovamento radicale, in senso democratico, dello Stato in Italia,
dopo aver convinto i cattolici a non considerare lo Stato come un nemico.
Ma la divisione del mondo in due blocchi, il mostrarsi duro e totalitario del
dominio sovietico sulla parte dell’Europa conquistata e la dura reazione
americana, raggelarono i fiori della primavera antifascista, denunciando il
limite dell’antifascismo, che era capace di riunire contro qualcosa e non per
qualcosa.
Non c’è dubbio che per realizzare questo proposito Dossetti partiva dalla
possibilità di utilizzare il comunismo, come se si trattasse di una eresia
cristiana. E su questo dovette subire alcune delusioni che lo portarono a
ritenere impossibile senza i comunisti la riforma dello Stato democratico e
quindi necessaria, prima di altre cosa, una trasformazione profonda del pensiero
cattolico. Di qui il suo ritiro dalla politica, che non fu una fuga, ma
piuttosto una rincorsa.
5. Comunisti perché cattolici
Ma vi era anche un altro gruppo di cattolici, che avevano una posizione
minoritaria, ma che si ponevano, senza propositi egemonici, lo stesso problema,
che, essi per primi, chiamarono “l’inveramento cristiano del comunismo”. Erano i
cattolici comunisti che con questo titolo parteciparono alla Resistenza. Questo
nome fu dettato da Monsignor De Luca, con la spiegazione che “cattolico” era un
sostantivo e “comunista” un aggettivo. Monsignor De Luca, personaggio
straordinario fu, tanti anni dopo, alla fine dei suoi giorni, quello che portò a
Togliatti il messaggio di Giovanni XXIII, diretto e Krusciov: “Fatevi vivi!”.
Dopo la Liberazione si chiamarono “sinistra cristiana”. E quando si resero conto
di non poter influire con la loro forza sul Pci, decisero di sciogliersi per
portare il loro pensiero all’interno di quel partito che consideravano lo
strumento scientifico esatto per costruire una nuova società umana, per cui era
doveroso per un cattolico prendervi parte. Comunisti perché cattolici.
Il Pci, che a quei tempi era impassibile, non si accorse molto di loro, li
trattò con proletaria ospitalità e per loro scrisse nel suo statuto il famoso
articolo 2, che ammetteva l’adesione di membri di fede cattolica. Ho la
maliziosa interpretazione che fossero preoccupati che questi cattolici
provocassero qualche danno nei confronti del necessario rapporto con la DC.
Quando alcuni di essi rinunciarono al disegno di “inverare” il comunismo
dall’interno del partito, il Pci accolse la loro decisione con il duro malizioso
trattamento che dedicavano ai transfughi, che però somigliava più ad un sospiro
di sollievo che ad una scomunica. (Ma questo è un sospetto da democristiano).
Per una strana ragione, forse per quella lettura di Gramsci che allora era più
praticata dai giovani cattolici che dai giovani comunisti, quel gruppo ebbe per
un periodo necessariamente breve, una forte influenza sui giovani
democratici-cristiani e sui giovani della Gioventù Cattolica.
Del Noce afferma che la novità anzi, addirittura l’unicità delle tesi di questo
gruppo è che esso fu il primo a pronunciare nel campo della cultura cattolica la
formula “dell’inveramento cristiano del marxismo”.
6. Il mitico 1952
Il 1952 fu un anno straordinario. Dossetti, profeta della cultura della crisi,
secondo la grammatica di Maritain lascia il piano della politica per portarsi
ad un piano più alto della riforma della pietas cristiana, ordinando con cura le
sua eredità, come suo costume. Da un lato affidando a Rumor “Iniziativa
Democratica”, la seconda generazione dossettiana che porterà a termine il
ralliement degasperiano; dall’altro alimentando una zona di libero scambio, che
raccoglierà il meglio della cultura della crisi. E’ infatti l’anno della uscita
dei cattolici comunisti di Torino dal Pci, del riesame della sofferta questione
che essi avevano chiamato “inveramento del comunismo”. E’ l’anno in cui si
prepara “Terza Generazione”; in cui Guerzoni prende in mano “Per l’Azione”,
rivista dal dolce titolo leninista; in cui “Lo studente d’Italia” viene affidato
a Baduel e Fogu; in cui vengono chiamati a Roma Beppe Chiarante e Lucio Magri[1]
.
I comunisti cattolici erano un movimento liceale, nato nel liceo Visconti di
Roma e nel liceo Massimo d’Azeglio di Torino. Fu comunista perché antianarchico
e modernista, ma, dice Del Noce “rispettò lo scrupolo della più rigorosa
ortodossia nei riguardi del dogma cattolico”.
Nel 1952 il collettivo di lavoro torinese formato da Felice Balbo, Mario Motta,
Giorgio Sebregondi, Alessandro Fe’ d’Ostiani, Ubaldo Scassellati, scende a Roma
e si incontra con Dossetti e praticamente si trasferisce a casa sua. Forse si
trasferirono a Roma per ricongiungersi con il gruppo romano, formato da Franco
Rodano, sua moglie Marisa Cinciari, Antonio Tatò, Gabriele De Rosa, Adriano
Ossicini, Luciano Barca. Quando Dossetti incontra il gruppo dei torinesi, scatta
una sintonia. Il problema che essi si ponevano non era un’abiura del comunismo.
Era piuttosto la constatazione dell’impossibilità di realizzare l’inveramento
del Pci, come Dossetti ormai giudicava impossibile un inveramento della DC.
I due gruppi erano fatti per intendersi, per capirsi, per stimarsi, per
incontrarsi in questo crocevia, ma avendo mete diverse[2].
7. Cosa significa l’inveramento del comunismo?
Lo dice Del Noce in una bella pagina, che sarebbe troppo lunga da rileggere qui,
e che riassumo con parole povere. Non si è cattolici comunisti, ma comunisti
perché cattolici, non potendo non essere dalla parte dei poveri e degli
sfruttati, ma proprio perchè il comunismo dava la chiave di lettura del mondo
moderno. Così si accettava il materialismo storico come scienza della storia,
facilmente separabile dal materialismo dialettico che loro consideravano
sovrastruttura ideologica non essenziale. Da questa posizione Felice Balbo
cercherà di dare una nuova interpretazione del comunismo, sostituendo al
materialismo dialettico una teoria dello sviluppo dell’essere, non più fondata
sul contrasto fra tesi ed antitesi di Hegel, ma fondata sulla filosofia
dell’essere di San Tommaso.
E fu questa teoria la ragione della rottura con Rodano che poneva in primo piano
un obiettivo politico, quello di un’intesa fra Partito Comunista e Chiesa
Cattolica, senza mediazioni e senza invasioni di campo. Come si vede stiamo
parlando di ben altre cose, ben diverse dal chiacchiericcio di oggi. Abbiamo
frequentato questo crocevia affollato di gioventù, che non è mai stato uno
spazio per trasmigrare. Ma un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del
mondo nuovo. O come lo definiva Balbo: “Un buscar l’occidente per trovare
l’oriente”. Tutto questo nodo filosofico, da me rozzamente riassunto,
presupponeva una grande utopia: il dialogo cattolico comunista, il programma di
inveramento cristiano del marxismo come fondamento della politica militante
antifascista ed infine la certezza della necessaria evoluzione del comunismo
italiano[3].
8. Il crocevia
Quello che io ho chiamato crocevia è uno snodo interessante del pensiero
politico, una sorta di incontro, di percorsi diversi che non abbiamo il tempo di
descrivere, ma appena di accennare.
C’è il “ritorno” a Roma di un collettivo di comunisti provenienti dalla sinistra
cristiana, che cercano di collocare nel mondo cattolico la loro esigenza di
rinnovamento della politica. Vorrebbero ricongiungersi con Franco Rodano, che è
stato loro compagno di pensiero sulla questione cattolica, ma egli decide di
restare nel Pci e sarà l’ispiratore di riviste come “Lo Spettatore Italiano” e
“Dibattito politico”.
C’è Gabriele De Rosa che, come ci racconta in un suo prezioso librettino, ha
maturato ad El Alamein la sua vocazione antifascista e democratica. De Rosa
viene indirizzato sia da Monsignor De Luca, sia da Franco Rodano, ad andare a
conoscere Luigi Sturzo. Intraprende così un viaggio molto lungo che lo porterà a
dirigere, molti anni dopo, il Gruppo Senatoriale della DC (e questo Istituto).
Ma nel frattempo dirige “Lo Spettatore Italiano” in cui scrivono fra gli altri
Benedetto Croce, Vittorio De Caprariis ed Ettore Passerin d’Entrèves.
E c’è una generazione di giovani che cerca un superamento delle “parti”
abbeverandosi a questa cultura, superamento che avverrà in forma diversa e con
esiti non felici con il “Sessantotto” solo 20 anni dopo. Ed ancora, una buona
parte del gruppo Einaudiano, con Saraceno, Mario Motta, Cesare Pavese e Natalia
Ginzburg. Per non parlare poi di “Terza Generazione”.
Il giudizio su de Gasperi di Dossetti e di Rodano è simile. Ma Rodano pensa ad
un rapporto del Pci con la Chiesa Cattolica, senza mediazione di partiti
cristiani. E condanna con forza il pensiero di Dossetti: “Il tanto conclamato
sinistrismo dei dossettiani non deve dunque trarre in inganno. Esso era, alla
fin dei conti, un ammodernata forma integralista e ad altro non ha servito, né
poteva servire che a misconoscere nella maniera più comprensiva, e a cercare di
farci obliterare il reale significato storico e possibili contributi innovatori
dei più grandi e decisivi partiti italiani”. (E da qui parte un ampio
riconoscimento dei meriti della DC, di Luigi Sturzo e di De Gasperi).
Mentre invece la posizione di De Gasperi appare a Rodano “come quella più capace
di collocarsi – entro i limiti per essa possibili – nella dimensione laica della
società civile. In effetti accettando la democrazia liberale come forma suprema
della dimensione politica (…) Sturzo e De Gasperi avevano appunto saputo
ricondurre pienamente i cattolici nella continuità dello sviluppo concreto del
loro Paese ed insomma nella storia reale”.
Beppe Chiarante nel suo libro ricorda il percorso dei giovani democratici
cristiani ed il loro avvicinamento a De Gasperi che avvenne, non sotto
l’influenza di Rodano, ma proprio per una indicazione di Dossetti. Non fu Rodano
ad influenzare la linea di “Per l’Azione”,ma Balbo come, sia Beppe Chiarante sia
Augusto Del Noce, ricordano.
9. Il cronotopo
In tutte queste valutazioni c’era una caratteristica comune: l’idea che l’Italia
fosse il laboratorio mondiale da cui potesse uscire la soluzione del grande
problema della crisi. Non si capiscono queste posizioni se non si ricorda la
cultura della crisi, nata fra le due guerre, ma che emerge in Italia nella
Resistenza e nel dopoguerra.
Felice Balbo chiamerà questa occasione “il cronotopo”, il luogo ed il tempo
adatto e preciso per far trovare la soluzione della crisi.
In tutti era presente la particolarità dell’Italia per la presenza in Italia del
più forte Partito Comunista dell’Occidente, e della sede della Chiesa cattolica,
punto di riferimento essenziale dell’occidente. Augusto Del Noce, che ha
dedicato a Rodano un libro di 400 pagine, con il titolo “Il cattolico
comunista”, parla di “giobertismo rodaniano”.
10. Lucio Magri
Il ricordo di questo ciclone di pensiero che ho chiamato crocevia, ci illumina
sul particolare cammino percorso da Lucio Magri. A lui ben si addice il motto e
la motivazione dei comunisti cattolici: “Comunisti perché cattolici”. E fu
comunista al punto, non di dimenticare il cattolico, ma di renderlo
politicamente superfluo. Un particolare curioso: applicò in forma così estrema
il suo essere comunista perché cattolico, che per un certo periodo fu comunista
clandestino con la etichetta di cattolico e non per una tattica maliziosa, ma
per una interpretazione integralista, come lui era, di essere comunista.
Effettivamente non era più cattolico perché la sua formazione
democratica-cristiana proveniva più dall’ambiente sociale che non dalla
militanza nelle associazioni cattoliche. Quindi non si poneva i problemi
dell’inveramento del comunismo, alla maniera di Dossetti e di Rodano. Arrivava
al comunismo come una scelta definitiva e non problematica. Anche se io, su
questo, ho dei dubbi.
Quando, parlando con ammirazione di Berlinguer dice: “Le masse lo accoglievano
come una madonna pellegrina”, Lucio usa una espressione profondamente cattolica.
Detta da un laico quella frase sarebbe solo malevola.
Lucio attraversò quel crocevia avendo contatti con tutti. Lucio entrò
nell’esecutivo di Malfatti, mentre Beppe divenne consigliere nazionale del
partito. Collaborarono più tardi con riviste che erano espressione lombarda
della sinistra di base (“Il Ribelle” ed “Il Conformista”). È vero che lui e
Beppe non si intesero con Felice Balbo, che sentirono più vicinanza con Franco
Rodano, da cui poi si distaccarono. Ma, soprattutto per Lucio, “l’inveramento
del comunismo” sfociava in una soluzione tanto personale quanto logica:
diventare comunista.
Non si poneva il problema di risolvere il materialismo dialettico con San
Tommaso, ma solo quello di esperimentare la militanza del partito, lo strumento
perfetto ed indefettibile. Adopero “indefettibile” nel suo significato
cattolico: completo e perfetto per i suoi fini.
Questo percorso è importante a spiegarsi perché ci illumina sul suo
integralismo, sulla ricerca continua ed assoluta della forma partito, della sua
azione liberatrice, della sua sacra moralità.
Ma la ricerca rivoluzionaria, l’amore del progetto liberatore era sempre di
marca cattolica. Non voglio dire che in lui non ci fosse la sete di giustizia
che è la forza intima della militanza comunista: c’era, ma era preponderante
l’intelligenza e la ricerca di perfezione del disegno rivoluzionario, come un
alchimista che cerchi instancabilmente l’oro, cercava la formula superba e
lucida di quando, a Lenin, cadde addosso il mondo, per un felice concatenarsi
delle contraddizioni del sistema, quelle contraddizioni che Lucio
instancabilmente studiava.
Cercava quella combinazione di elementi che scatenasse di nuovo l’incendio, non
in un solo Paese, non nel punto più basso, ma qui e ora.
Lucio Magri, finalmente accettato nel Pci, scopre la difficoltà di tradurre le
sue convinzioni nella politica quotidiana di un grande partito alle prese con i
problemi della sua corposità. In realtà è le sua stessa intelligenza che lo
mette in difficoltà. Non era semplice che personaggi storici che avevano fatto
la prigione, accettassero lezioni di leninismo da un giovane che proveniva dal
movimento giovanile DC.
La difficoltà che poi si incontrò era che il più forte partito comunista
dell’occidente non era nelle condizioni di essere generativo in occidente per il
suo rigido legame con l’Unione Sovietica. Come risolvevamo allora questo
problema? (Io stesso mi ricordo che in un convegno di studio delle Acli a
Vallembrosa, nel 1956, sostenni che in realtà esistevano due partiti comunisti.
Uno indisponibile nella politica estera, ed uno invece disponibile per la
crescita democratica italiana, perché promotore di una emancipazione democratica
nazionale).
Anche Rodano si pone questo problema, della vera natura del partito comunista,
che si risolverebbe solamente, come lui dice, “in un non dogmatico rapporto con
il leninismo”. Del resto così era in Gramsci sostenitore della linea leninista
al congresso a Lione contro Bordiga, ma “italianamente”, secondo Rodano, “aperta
ai consigli di fabbrica, a Gobetti ed in maniera particolarmente profetica alla
comprensione del popolarismo”. Lucio, fatto il suo noviziato di cattolico
comunista, entra decisamente nel dibattito sulla natura del partito.
E questa linea seguirà con la tenacia e con la intransigenza che caratterizzano
tutta la sua vita.
11. Gli anni ‘60
Nel 1962, Lucio Magri scrive un saggio per la rivista “Les Temps Modernes”,
diretta da Jean Paul Sartre, in cui cerca di inquadrare nello schema
marxista-leninista classico le nuove forme del capitalismo, in un Paese che
attraversava un periodo di grande espansione economica, che veniva
superficialmente chiamato da altri neo-capitalismo. Ma non è un saggio
scolastico e ripetitivo. Già ci sono in lui le domande significative che lo
porteranno ad essere un uomo scomodo per qualsiasi partito. Scrive: “Cosa
significa una società di uomini liberi? Cosa significa concretamente
l’eliminazione del lavoro alienato ed il passaggio dalla preistoria alla storia
dell’uomo? Come si può concepire l’economia in una società che non sia governata
dallo sfruttamento e dalla scambio? Che cosa significa deterioramento dello
Stato e società regolata dagli individui? In quale senso si può concepire la
storicità della società comunista e delle sue istituzioni? Queste domande
condizionano ormai in maniera molto stretta la strategia e la tattica del
Movimento Operaio in Occidente”.
Questi interrogativi sviluppati in uno studio lungo e particolareggiato mettono
in discussione la solida semplicità ideologica su cui si fonda la strategia e la
tattica del Pci.
Lucio non si pone dalla parte dei revisionisti, anzi riconferma in pieno “la
sola linea di pensiero e la sola esperienza non possono essere che quelle del
marxismo ortodosso e dell’internazionalismo leninista”. Aggiungendo subito che
era sbagliato considerare il destino della rivoluzione mondiale legato
unicamente alla dinamica dei paesi socialisti.
E poi ancora: “Senza l’apporto del proletariato europeo i problemi potrebbero
essere difficilmente risolti”.
12. Il centro-sinistra
Luciana Castellina descrive le difficoltà di Lucio, quando era direttore di “Per
l’Azione”, con il segretario politico DC Fanfani. Questo le fa dare un giudizio
di eccessiva esemplificazione sul neocapitalismo di Fanfani. In realtà Fanfani
si batte, con molte opposizioni, per una politica di centro-sinistra all’interno
e “terzomondista” all’estero, comunque la si voglia giudicare. È il momento in
cui la sinistra democratica si batte per il centro-sinistra a cui si oppone
fortemente il Partito Comunista.
Il Partito Comunista dette un giudizio molto duro nei confronti del
centro-sinistra e nei confronti del partito socialista e della sua alleanza di
governo con i democratici cristiani. Rodano si differenzia dalla linea di
Togliatti con un giudizio sul centro sinistra. Ma il suo obiettivo finale è
sempre l’accordo fra Pci e cattolici.
Ed anche nella elaborazione di Lucio Magri notiamo questa differenza che io
ritengo molto significativa.
L’apprezzamento di Rodano per il centro sinistra non è disgiunto però dalla
condanna definitiva ed incomprensibile della socialdemocrazia.
Sentiamo questa tensione nella parole scritte da Lucio dopo il 1968: “Abbiamo
sostenuto con forza i consigli di zona e le 150 ore dedicate alla formazione
presenti nel contratto dei metalmeccanici, siamo stati un punto di riferimento
nei consigli di fabbrica, nella critica della organizzazione del lavoro ed
abbiamo portato avanti nelle scuole e nelle Università la critica ed i ruoli
professionali tradizionali ed alla divisione sociale del lavoro. Questo nostro
importante impegno si scontrava però con l’insieme delle politiche della
sinistra vecchia e nuova. L’idea che con tutti gli altri della nuova sinistra si
potesse fare il partito rivoluzionario si è rapidamente rivelata una ipotesi
velleitaria. Ed il PCI intanto avviava la politica del “compromesso storico”,
rendendo ancora più difficile la ripresa di un dialogo”.
In quel momento i suoi vecchi amici restati nella DC si battevano per il centro
sinistra come elemento evolutivo di una società che era già cambiata con la
riorganizzazione dell’economia, con la rifondazione delle industrie, con la fine
dell’agricoltura, con le grandi migrazioni interne ed esterne e chiedevano una
nuova e più vera democrazia.
Ci sembrava che il problema centrale per l’Italia divenuta quinta potenza
mondiale con il sacrificio di milioni di profughi meritasse una nuova
democrazia. Perdemmo quella battaglia e tuttavia non ci sembrano estranee queste
analisi in cui non c’è traccia della nuova situazione e del blocco storico
politico che le aveva causate. Eravamo iscritti fra i
nemici e lavoravamo per le stesse
passioni in due pianeti diversi, al punto che certe raffinate considerazioni ci
appaiono irreali come tele di ragno. Perché non ci parlavamo? (Ci parlavamo
tutti i giorni ma non di questo).
Eppure la storia del tentativo di aprire il sistema dei partiti a quella febbre
intensa ed inconsistente che colpì l’Italia dell’Oscar della moneta. Lo stesso
rifiuto di cui si lamenta Lucio si manifestò anche nella DC, dove il tentativo
di adeguare il partito ad una società più viva ed aperta fu soffocato ed
estinto.
Sarebbe troppo lungo parlare qui di questo ma gli argomenti della conservazione
del “grande monumento”del sistema furono gli stessi di quelli del PCI. E
l’obiettivo indicato per sfuggire al rinnovamento era lo stesso “compromesso
storico”.
13. Gli anni ‘70
Nel 1969, ai tempi dei fatti di Praga e dell’insorgere del movimento
studentesco, Lucio Magri è parte importante del gruppo che fonda il Manifesto e
che viene espulso dal Partito Comunista. Incomincia una lunga marcia dedicata al
tentativo di trasformare il tumultuoso torrente della rivolta italiana in
partito politico.
Nel 1970, in un saggio dall’impegnativo titolo “Problemi e la teoria marxista
del partito rivoluzionario”, scrive: “Il partito diventa inevitabilmente un
apparato autoritario e burocratico se coesiste una massa disorganizzata. (…) Fra
il partito e le masse deve esserci un terzo momento che media il rapporto che
corre fra loro: istituzioni politiche autonome ed unitarie della classe operaia.
Tali istituzioni devono emergere direttamente dalla società (fabbriche, uffici e
scuole)”. È il tentativo più alto di ricondurre il disordinato movimento sociale
da cui scaturiranno le Brigate Rosse, alla forma storica ideale di partito della
teoria marxista. Era una linea che avrebbe impedito al movimento di diventare
collaterali con le BR ed avrebbe impedito al partito di annegare nella social
democrazia europea.
Nel tragico 1977 Lucio Magri tiene una relazione al seminario del PDUP a
Bellaria, dal titolo: “Le ragioni di una sconfitta”.
Lucio Magri liquida l’esperienza movimentista e pensa al PDUP come “una forza
organizzata minoritaria (che) intende agire insieme ad altre forze che critica e
combatte ma alle quali si sente organicamente unita”.
È ancora la speranza di poter influire su un Partito Comunista che in quel
momento, dopo l’uccisione di Moro, dà il suo appoggio indiretto al Governo
Andreotti.
Eppure trovo nell’analisi di Lucio Magri, insieme all’indifferenza di quello che
avveniva nel grande partito che governava l’Italia, un’attenzione non casuale ad
un fatto che sembra secondario ma che io considero molto significativo: la crisi
del collateralismo.
Le Acli, che erano gran parte della DC, che nella loro carta costitutiva
mettevano al primo punto la “fedeltà alla classe lavoratrice”, si distaccarono
dalla DC. Non fu, come si suol dire, una crisi del collateralismo, fu
principalmente l’inizio della crisi esistenziale di un partito popolare, di un
partito che non riusciva più a contenere i movimenti della società da cui era
nato.
Lucio in quel periodo si occupa con attenzione della scelta di Livio Labor, che
fu impropriamente chiamata la “scelta socialista”. Infatti non era la
trasmigrazione in un altro partito, ma piuttosto il disegno di rifondare la
sinistra democratica a partire dalle nuove condizioni del Paese. Il tentativo di
Labor era immaturo: il Partito Comunista e persino il Partito Socialista non
erano in grado di pensare ad un partito unitario della sinistra democratica
attraverso la mediazione dei cattolici. Il Partito Comunista era fermo nella sua
identità che presupponeva un’egemonia, considerava i socialdemocratici quasi
socialfascisti, e lo stesso Partito Socialista si avviava verso una linea di
guerra dura al Partito Comunista.
Eppure l’idea di un nuovo partito della sinistra democratica che superasse le
divisioni fra comunisti, socialisti e cristiano-sociali non era assurda.
Fu proprio il disegno del “compromesso storico” ad uccidere quella idea nella
culla.
Sulla sponda DC, Moro in quel periodo liquida Forlani, spinge la rottura del
centro-sinistra, ritira l’adesione di Donat-Cattin al progetto di Labor. Anche
Labor fu espulso, seppure alla maniera democristiana. I due grandi partiti si
appoggiarono reciprocamente nel fugare il pericolo di cambiare. Se guardiamo
bene da questo speculare rifiuto di guardare alla realtà, non nacque forse la
partitocrazia? Ed il percorso di questo regime ingessato non ricorda la lunga
decadenza sovietica? Ed i due regimi, il sovietico in Russia ed il
partitocratico in Italia, non caddero nello stesso anno? La pagina in cui Lucio
narra l’XI Congresso e la sua sconfitta elettorale del 72, non c’è straniera. E
la sua attenzione alla cosiddetta crisi del collateralismo ci rivela che neppure
a lui era straniero lo speculare tentativo di rinnovamento della DC.
14. Caso Moro
Qui finisce il lungo avventuroso viaggio di Lucio Magri alla ricerca di una
possibile unità della sinistra. Egli compie con i suoi amici l’unico vero
tentativo di dare forma politica, partendo dal tumulto dei movimenti, ad un vero
partito alla sinistra del Pci, ma non contro il Pci. Ed in parte ci riesce. Ma è
come un viaggio sulla banchisa ghiacciata, con i banchi di giaccio che si
scontrano, si allontanano e si disperdono. Scrive: “Il regime di DC-PCI non
c’era, ma la rabbia e la delusione c’erano”.
Il lungo periodo della ricerca finisce con la morte di Moro. (Senza soffermarmi
troppo devo qui accennare, solo per memoria, che quando andai a chiedere a
Zaccagnini la riunione del Consiglio Nazionale, con altri quattro consiglieri
favorevoli alla trattativa per salvare Moro, trovai l’anticamera presidiata da
un sospettoso Tatò, sostenitore della fermezza).
Alla fine dello sconsolato racconto del fallimento della onda lunga del ’68,
Lucio ritrova una sua valutazione conclusiva che prevede la prossima catastrofe
in un episodio particolare che io trovo fortemente esplicativo e profetico.
Lucio ricorda una intuizione di Togliatti, di un Togliatti che sembra avere
ancora una simpatia dossettiana. È la considerazione del 1965 di Togliatti sulla
natura della Chiesa cattolica (che era sulla stessa lunghezza d’onda del
giudizio di Gramsci sul Partito Popolare).
Quella convinzione sparì nelle vicende della guerra fredda fra DC e PCI degli
ani ’50 per riemergere come un lampo solitario nel famoso discorso di Bergamo
che fu occasionato da una iniziativa del buon Eliseo Milani.
Ed è significativo che a commento del fallimento della sinistra movimentista e
del tentativo di unità nazionale, provocato dalla morte di Moro, Lucio, che
aveva di persona vissuto il dramma della ricerca di una proposta politica
unificante ritorna a quel discorso di Togliatti: “Berlinguer era stato molto
influenzato dall’equivoco rodaniano che teneva insieme in un tuttuno DC e mondo
cattolico. C’è proprio il capovolgimento della cosa più innovativa prodotta da
Togliatti con il discorso di Bergamo sui cattolici. Ai tempi di Gramsci la
questione cattolica era la questione contadina. Dopo la guerra la questione
cattolica è diventata la questione democratica. Dopo il 1960, Togliatti fa un
vero e proprio salto. A Bergamo Togliatti dice che la fede religiosa, seriamente
intesa, avrebbe messo in discussione, l’equazione: libertà uguale
individualismo. E che i cattolici avrebbero potuto essere parte importante del
cambiamento radicale della società. Togliatti si avvede che nella problematica
religiosa vi sono questioni fondamentali che possono entrare in relazione
positiva con il socialismo. Supera l’identificazione fra questione cattolica e
DC”. Lucio annota e sottolinea nel discorso di Togliatti la condanna della
“equazione libertà uguale individualismo”, che ricorda un concetto fondamentale
di Felice Balbo: “Questi problemi (…) si determinano per la scomparsa
fallimentare del modello umano (…) del sistema storico sociale individualistico:
questo modello umano può definirsi nei termini de“l’autosufficienza
dell’individuo” e va dalla Grecia a Marx”. Ed annota sempre Balbo: “E’
individualistico contro le apparenze anche il sistema comunista per la sua
originaria ed ineliminabile ispirazione anarchica”.
Lucio emerge da un’esperienza in cui l’esasperato individualismo portato fino
all’anarchismo era riuscito a buttare via acqua sporca, acqua pulita e bambino.
E ritorna con la memoria al giorno felice in cui Eliseo Milani riuscì a portare
a Bergamo un Togliatti inspirato che, già intimamente scosso dal problema
sovietico, ritornava al suo momento “dossettiano” della Costituente. E trova
quella condanna della “equazione libertà uguale individualismo”, che ancora oggi
potrebbe essere un punto di incontro generativo fra le aspirazioni della
sinistra e dei cattolici.
15. Ritorno a casa
Da quel momento Lucio pensa solo a ritornare al suo Partito, al suo principe. In
quel momento eravamo al nostro perielio. Io cercavo la strada per colpire la
partitocrazia e Lucio non si rassegnava alla fine del Pci, strumento
indefettibile per la costruzione di un mondo senza sfruttamento. Lucio parla
del Congresso di Firenze del 1986, il primo Congresso dopo il suo rientro. Ma
non pensavo mai di trovare un suo giudizio molto importante sullo strumento che
dà forma ai partiti, la legge elettorale: “Il problema che io ponevo era quello
di affrontare i limiti del sistema elettorale proporzionale e guardavo con
interesse al modello tedesco perchè già si avvertiva che il sistema
proporzionale in quanto tale non avrebbe più retto. Era una questione delicata e
sociale che si sarebbe dovuta affrontare per tempo”.
E per me è una sorpresa date alcune nostre dissensi proprio sulle leggi
elettorali al tempo dei referendum.
Ci avviamo al 1989, al Congresso di Roma, che dà una delega in bianco ad
Occhetto, il quale cambierà il nome al partito e metterà fine a
quell’esperienza. Non c’è una mozione della sinistra e sembra non esserci una
vera opposizione. Lucio annota che in quel congresso non parlò di politica ma
parlò di economia.
Di fatto fece una fuga in avanti di dieci anni, perché parlò di debito pubblico,
di imposta patrimoniale, di austerità necessaria. Lungimirante era arrivato ai
temi della crisi che si stava per aprire.
In quella occasione Lucio si lamenta che il Partito Comunista non avesse mai
proposto l’Europa come terza forza nel mondo. La pagina critica sull’assenza
della politica estera degli anni ’80 e sulla mancata comprensione della funzione
dell’Europa è disperante. Eppure è una pagina che va riletta, perché è ancora
attualissima. In una situazione diversa, senza più PCI e URSS, il problema è
rimasto identico.
16. Una attenzione particolare all’Europa
Vi era stato un precedente, già negli anni sessanta, quando pensare all’Europa
ed una Europa addirittura sganciata dalla politica estera sovietica era ancor
più difficile.
In quel periodo La Pira, come sindaco di Firenze, aveva preso delle iniziative
come il Convegno per la Pace e la Civiltà Cristiana dal 1952 al ’56, l’incontro
coi sindaci delle capitali di tutto il mondo nel 1955, ed i colloqui
mediterranei nel 1958.
Secondo La Pira l’Italia doveva rappresentare una terza forza negli equilibri
internazionali come elemento di polarizzazione e di guida. La politica
energetica di Mattei andava in questa direzione. È interessante notare che nella
collaborazione a “Prospettive” sia Magri che Chiarante si inserivano sulla linea
dettata da una collaborazione molto interessante: quella di G. Rovan. Cito
testualmente: “Un Europa neutrale ed armata, indipendente dai due blocchi ed in
grado di giocare un ruolo pacifico, sarebbe possibile solo a condizione che
l’America rinunciasse alla sua volontà di guida sui paesi occidentali e che
l’Unione Sovietica abbandonasse contemporaneamente il suo controllo sulla
Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria”.
Questo spiraglio veniva esplorato da Chiarante in un articolo su Prospettive del
1955: “E non è del resto evidente che per gli europei il solo modo di restar
presenti in Asia ed in Africa è ormai quello di rigettare ogni velleità di
sfruttamento colonialistico e di cercare invece di favorire l‘ascesa dei popoli
coloniali, sia con un continuo apporto di civiltà, sia difendendone il libero
sviluppo contro i pericoli dell’imperialismo sovietico e di quello americano?”.
Ed è, non senza sorpresa, ma con sincera ammirazione, che prendiamo nota della
posizione di Lucio Magri, che scrive sempre in Prospettive del 1955: “Non è
sufficiente creare una fascia di paesi neutrali che impedisca l’immediato e
pericoloso contatto tra le posizioni militari di due blocchi . è invece
necessario ed essenziale che si sviluppi una forza nuova, culturalmente e
politicamente capace di risolvere i problemi che da anni si trascinano insoluti:
una forza in altri termini non meccanicamente ma politicamente mediatrice”.
Ed in questa politica chiaramente ispirata alla posizione di La Pira, Lucio
Magri vede importante la posizione della Chiesa cattolica che “si trova oggi
nella necessità di non subordinarsi alla pressione americana e di riconquistare
anche politicamente le basi della propria universalità”. L’Europa si farà
soltanto quando avrà un riferimento politico, non solo nei confronti degli USA,
ma anche nei confronti della Russia.
17. Una annotazione particolare all’inizio degli anni ‘90
(È il caso di fare un confronto con quello che stava succedendo a noi pur
dovendoci essere una ragione per la quale eravamo schegge simili che seguivano
traiettorie diverse. Nel 1963 quando Lucio Magri si impegna nella macchina del
Partito Comunista noi ci battevamo per il centro-sinistra, la più grande novità
politica di quel periodo che, il PCI combatteva duramente. Nel ’70, quando Lucio
viene espulso ed inizia il suo tentativo di rendere “partito” il movimento
sessantottino, noi iniziavamo una critica ai partiti ed alla partitocrazia, per
una struttura politica più aperta alla società civile attraverso l’elezione
democratica diretta dei sindaci e l’opposizione al compromesso storico, comune
ad entrambi. Nel ’77 votando, con molte riserve, sia Pertini sia Andreotti,
incominciavamo un lungo percorso che ci avrebbe portato a quella vittoria
referendaria del 1991 che Lucio deplorerà amaramente).
Nel 1990 io e Mario Segni salimmo intimiditi le scale di Via Botteghe Oscure,
per chiedere ad Occhetto di salvare il referendum favorevole al sistema
maggioritario, impresa in cui avevamo puntato tutto. Ci ricevettero Occhetto,
D’Alema e Veltroni. Noi non ci aspettavamo nulla ed Occhetto, coraggioso ed
incosciente, ci dette tutto. (Ma alcuni mesi dopo Occhetto avrebbe consegnato –
verbo che in latino si esprime con il verbo tradere – Segni a Scalfaro
permettendogli di fare Presidente del Consiglio Ciampi e non Segni). Ma è
interessante confrontare questo ricordo con il giudizio di Lucio: “La cosa ancor
più grave è che il PCI non solo ha scelto di suicidarsi, ma ha, con Occhetto,
deciso di sostenere il referendum promosso da Mario Segni sul passaggio dal
proporzionale al sistema maggioritario, un referendum che è stato il primo atto
di una campagna contro i partiti e poi di rifiuto della politica. Silvio
Berlusconi ha vinto proprio sull’onda di quella campagna referendaria,
sull’esaltazione del nuovo e sulla parola d’ordine tutti i partiti sono eguali”.
Questo l’anatema di Lucio. A me resta soltanto il grido di dolore di Santoro:
“Io che ho votato Bartolo Ciccardini!”.
18. L’ultima battaglia
Passeranno 27 anni di coraggiosi esperimenti per arrivare stanchi e disperati
agli errori di Rifondazione Comunista. Pregano di scrivere il testo di una
relazione che spiegasse le ragioni di coloro che non si rassegnavano alla
liquidazione del Pci. E’ un testo di speranza che guarda al futuro. Ma di nuovo
i gruppuscoli raggiungono l’unanimità solo nel respingere quel testo. Ed
all’ultimo capitolo di questa storia quel Bertinotti che così accuratamente ha
di nuovo espulso Lucio Magri finirà, guarda caso, col pugnalare il dossettiano
Prodi. Una tragedia italiana.
Lucio fa ancora una rivista, scrive ancora un libro in cui riassume il senso
della sua battaglia e prese congedo dalla politica. Dice Perry Anderson: “La
causa immediata che lo aveva spinto a prendere quella decisione fu il miope
tatticismo delle svariate componenti della sinistra italiana”. Ma in realtà
secondo Anderson la ragione è un’altra: “L’intransigente coerenza rispetto al
proposito che aveva dettato la sua adesione al comunismo”. Ed io, di persona, so
quanto fosse serio e profondo in lui quell’impegno.
Fu l’unico comunista in Italia a sostenere fino alla fine la filosofia
dell’unità fra teoria e pratica che era stata la pietra angolare del
materialismo storico, ormai scomparso dagli annali del marxismo occidentale.
Quella pietra miliare che i cattolici comunisti avevano considerato essere la
condizione per “l’inveramento del comunismo”. Magri non aveva mai dimenticato
quella accettazione del materialismo storico, appresa nel crocevia del 1952 per
la quale aveva scritto il suo primo articolo su “Per l’Azione” intitolato: “I
limiti del riformismo”. E che, dice Luciana Castellina: “E’ più o meno lo stesso
di un saggio scritto vent’anni dopo sul Manifesto”.
19. Preghiera
Quando Lucio morì scrissi di lui un ricordo personale della prima giovinezza che
qui non voglio rileggere.
Ma voglio ripetere la citazione di Thomas Mann che la sua dipartita mi aveva
suggerito. Il protagonista del Doctor Faustus, in cui Mann si rappresenta perde
il suo più straordinario amico, nei giorni in cui la sua patria, la Germania,
sprofonda nell’abisso “coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con
l’altro”. E noi, in un momento tragico della nostra Patria, parlando di un amico
che ha dedicato tutta la vita al disperato progetto di salvarla dal suo destino,
rileggiamo quel saluto di Thomas Mann: “Quando sorgerà dall’estrema
disperazione, pari ad un miracolo superiore ad ogni fede, il nuovo crepuscolo di
una speranza? Un uomo solitario giunge le mani ed invoca: Dio sia clemente alle
vostre povere anime, o amico, o patria!”.
Bartolo Ciccardini
[1] Contrariamente a quanto si dice o si scrive fui io a chiedere a Malfatti di
portare in esecutivo Chiarante e Magri, ad affidare “Lo studente d’Italia” a
Paolo Valmarana e Corrado Guerzoni, a portare dal mio gruppo perugino a Roma
Gianni Fogu ed Ugo Baduel. In quell’anno il Movimento Giovanile DC portò a
termine due importanti iniziative: gli incontri della Gioventù (un concorso per
i migliori lavori in diverse materie) ed il Congresso della Stampa Studentesca.
[2] Dossetti aveva sostenuto un rinnovamento totale dello Stato rovesciando
l’antica diffidenza cattolica per lo Stato. Si rendeva conto del fallimento ed
indicava la strada di una intesa con De Gasperi. Beppe Chiarante ne trova una
traccia espressamente citata su “Per l’Azione”: il noto articolo “De Gasperi e
lo Stato Democratico” e l’ancor più noto titolo “Conservare lo Stato per la
rivoluzione”.
[3] Il documento più significativo della sinistra cattolica è l’opuscolo “Il
Comunismo ed i cattolici” composto nell’inverno 1943-1944. Fu pensato da Rodano
e da Balbo, discusso con Ossicini e Tatò e redatto da Fedele D’Amico. Aveva nel
risvolto un brano di “L’imitazione di Cristo”.
ARISTIDE,
FRANCESCO, PAOLO MERLONI: Una grande storia italiana, una grande famiglia
d’imprenditori
articolo di Maurizio Eufemi
tratto dal giornale online “beemagazine” del 19 Dicembre 2022 relativo al libro
di Giorgio Mangani "Francesco Merloni, il secolo dello sviluppo.
Internazionalizzazione e coscienza territoriale"
Fra i regali più graditi di queste festività c’è stato un bel libro scritto da
Giorgio Mangani, che ho letto con grande piacere e interesse. È su Francesco
Merloni, ingegnere, imprenditore, politico, protagonista del secolo dello
sviluppo, ma è una storia che parte da Aristide Merloni, il padre.
È un libro ricco di ricordi e di
aneddoti su un passaggio generazionale. Entrambi esponenti della Dc con
cariche elettive sia locali, sia nazionali, al Senato e alla Camera per
numerose legislature, con un passaggio di testimone nel 1970 dopo il decesso
di Aristide.
È una storia che sembra un
romanzo di avventura, tanti sono gli episodi e i personaggi su cui verrebbe
voglia di soffermarsi. È un secolo che vede la nascita e l’affermazione del
movimento cattolico, poi la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo,
la grande crisi finanziaria del 1929, la seconda guerra mondiale,la
Resistenza, la ricostruzione degasperiana, il miracolo economico, la crisi
economica e sociale, la internazionalizzazione nella globalizzazione, la
quarta fase del capitalismo.
È una storia, imprenditoriale e
industriale; è una storia politica; è una storia di una famiglia con un
forte legame con il territorio di Fabriano e le Marche, che rappresenteranno
un sentiero di sviluppo sociologico originale, con il modello marchigiano e
la via Adriatica, i metalmezzadri, di cui si faranno interpreti studiosi ed
intellettuali, come Corrado Barberis e Giuseppe De Rita.
È una storia di valori familiari,
politici, economici e sociali con radici profonde nella comunità. Poi con
la fase della crisi del miracolo economico si determina la svolta nella
quarta fase della ricerca tecnologica applicata nella società della
conoscenza. In questa storia entrano di prepotenza alcuni personaggi che con
Aristide prima e Francesco Merloni poi, sapranno dare il meglio nelle
opzioni di scelte che saranno decisive nella affermazione e nella crescita
delle azienda di famiglia fino a diventare da multinazionale tascabile una
holding internazionale.
Mi riferisco a Enrico Mattei, prima, poi
con i Dc della prima generazione, da Fernando Tambroni, Umberto Delle Fave,
a De Cocci, poi al rapporto di amicizia con Nino Andreatta, a Romano Prodi,
Franco Grassini, Mario Baldassarri e a tanti altri. Poi si avviano rapporti
di intensa collaborazione culturale e politica con l’agenzia Arel e Oikos,
oltre che con la casa editrice
il Mulino. Francesco Merloni
amava e ama circondarsi di competenze alte che lo portavano a scegliere il
meglio delle professionalità culturali e manageriali per affidare loro
responsabilità di innovare e crescere.
Aristide Merloni è un politico che fa
l’imprenditore, avviando una azienda nel 1930 a Albacina che negli anni
sessanta diventerà una tra le prime trecento italiane. Il suo progetto
imprenditoriale è la concretizzazione della dottrina sociale ed economica
della Chiesa, teorizzata dal sociologo cattolico Giuseppe Toniolo, ma con
radici profonde nel movimento cattolico di Romolo Murri, nei principi della
Rerum Novarum,
per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e nelle idee
del popolarismo sturziano. Lo fa fin alle origini, in continuità, da
esponente “popolare” prima e da democristiano poi.
L’avventura industriale di
Aristide inizia dopo la prima guerra mondiale, quando i suoi studi
all’istituto Montani di Fermo, dove si formeranno altri pionieri della
industria marchigiana, come Cecchetti di Civitanova, Benelli di Pesaro,
Nardi di Ascoli, Clementoni di Potenza Picena, lo porteranno a dirigere a
Pinerolo la ditta Buroni, fabbrica di basculle, stadere e strumenti per
pesare. Poi la Buroni acquisirá la Opessi. Li stringerà un forte rapporto
politico con un giovane popolare figlio di un panettiere, accentratore,
stacanovista e ambizioso, Lorenzo Guglielmone che diventerà sindaco,
senatore e fondatore della banca Balbis Guglielmone.
A Pinerolo frequenta Attilio
Piccioni che poi sarà segretario nazionale della Dc e vicinissimo a De
Gasperi. Poi decide di tornare ad Albacina e di creare con dodicimila lire
di risparmi, una propria attività avviando una impresa di bascule
interamente in ferro e di grande precisione. Sviluppa accordi commerciali
tra Pinerolo e Albacina come formula di produzione e contoterzismo. Nel 1938
raggiunge un fatturato di cinquecentomila lire!
La sua idea era di fermare la
emigrazione e portare il lavoro a casa dei lavoratori creando migliori
condizioni di vita, superando il sottosviluppo.
Si univano ambizioni imprenditoriali e un
progetto politico e sociale. Il parroco del paese, don Giuseppe Rinaldi
detto Titta, osteggiato dal fascismo, intraprendente, coraggioso e
sostenitore del progetto svolse la funzione di merchant bank coinvolgendo e garantendo i risparmi dei
contadini più agiati.
Con la prima fabbrica di
Albacina si affermerà un modello di stabilimenti monoprodotto, moderni, con
un limite di occupati, diffusi sulle colline, dove prevaleva un
atteggiamento rurale con piccola proprietà contadina come fattore di
stabilità economica e sociale, in contrapposizione all’urbanesimo alienante
che portava alla concentrazione delle masse operaie sindacalizzate nel
centri industriali del nord italia. Erano valori centrali del movimento dei
popolari marchigiani insieme alla vocazione autonomistica e regionalistica
emarginate dallo Stato liberale. Non a caso il PPI nel 1919 ottiene il 27,4
dei voti nelle circoscrizioni marchigiane e il 29,9 contro una media
nazionale del 20 per cento.
Poi viene la crisi con la
seconda guerra mondiale. Mancavano le materie prime e la fabbrica va in
rovina. Francesco è renitente alla leva e fu nascosto da don Pacifico Veschi
nel campanile della Chiesa di Poggeto insieme ad altri ospiti scomodi ed
armati tra cui Dalmato Seneghini dirigente della piccola repubblica
partigiana. Poi sfuggì all’arresto ad Albacina mostrando i documenti del
fratello Antonio.
Al suo posto fu imprigionata,
per rappresaglia, la madre, che fu liberata solo a seguito del bombardamento
di Fabriano dell’11 gennaio 1945. Finita la guerra Francesco si laurea in
ingegneria meccanica a Pisa, i fratelli Antonio in scienze economiche e
Vittorio in economia e commercio. Il padre Aristide si impegna nella azione
Cattolica e poi nella Cassa di risparmio che viene risanata con capacità e
rigore.
Poi verranno i successi nelle
produzioni di gabbie per allevamenti, su idea del fratello Vittorio, i primi
mobili metallici da cucina, le lavastoviglie, il sistema di cucina
componibile l’Unibloc Ariston, con la formula della casa.
Il legame con Enrico Mattei non
era solo familiare e territoriale. Si concretizzò nel 1953, quando Aristide
e Francesco suggeriscono l’idea di avviare in Fabriano la produzione di
bombole di gas liquido. La frequentazione universitaria di Francesco a Pisa,
con Luca Benini, figlio del proprietario della Pignone di Firenze, portó ad
una idea industriale, alla diversificazione produttiva, sviluppando le
competenze e le tecniche consolidate da “piegalamiere”.
La crisi della Pignone si
riverberó sulla produzione di Fabriano.
Aristide punta prima sulla Liquigas guidata dal vecchio amico Tereso
Guglielmone di Pinerolo e poi sulla Ultragas,
appena nata, ma capace di ordinare trecentomila pezzi. Erano le condizioni
per potere ripartire, portando energia nelle campagne, nei posti più
sperduti, anche nei luoghi privi di distribuzione centralizzata. La
produzione di bombole diventerà la banca di famiglia e terrá in piedi il
conto economico dell’azienda.
Poi verrà il successo negli
scaldabagni nel principio della “diversificazione concentrata” con il
passaggio dai beni strumentali ai beni durevoli.
Verranno il Presidente del
Consiglio Aldo Moro nel 1968 e Forlani nel 1973, a inaugurare nuovi
stabilimenti a Borgo Tufico e a Melano Marischio , poi seguiranno quelli di
Vico Pisano, di Rieti e di Arcevia. L’apertura ai mercati esteri avvia la
fase della internazionalizzazione con stabilimenti in Polonia, Russia,
Ungheria, Jugoslavia, Cile, Portogallo, Arabia Saudita, Belgio.
Dopo una prima organizzazione
aziendale nel 1959, i fratelli Merloni realizzano una forma che coniuga la
organizzativa divisionale sul modello delle corporation americane, con le
esigenze dei fratelli che volevano affermarsi autonomamente con la loro propria
personalità in settori produttivi diversi.
Poi Aristide Merloni muore nel 1970
in un tragico incidente automobilistico. Nel 1930 aveva iniziato in piena crisi
finanziaria mondiale, prevedendo gli orientamenti del mercato, gli sviluppi
della tecnologia, il coraggio di scommettere sul futuro, l’ottimismo della
volontà contro il pessimismo della ragione.
La storia insegna che nel 2022
occorre affrontare la crisi geopolitica e dei conflitti nelle aree strategiche
del globo che spingono all’accorciamento della catena del valore con strumenti
nuovi, non con quelli del passato, e chi ci riesce guadagna il futuro. !
Francesco Merloni prende il
testimone del padre con la elezioni politiche del 1972 prima senatore, poi
deputato e Ministro dei governi Amato e Ciampi. Fu una scelta favorita dal suo
amico Gerardo Bianco, capogruppo e membro della delegazione Dc. Durante la crisi
degli anni Novanta realizzó la grande riforma degli appalti.
Ma
ora metto da parte il libro e affondo nei ricordi con quello del primo incontro
negli anni Settanta quando nella stagione di solidarietà nazionale si
affrontavano le questioni della ristrutturazione industriale, delle grande
imprese in crisi, dell’Egam.
Francesco Merloni partecipava attivamente alla elaborazione di testi legislativi
che richiedevano molte correzioni.
La
sua linea, con parole misurate ed essenziali, era sempre chiara e razionale:
ridurre gli elementi di socialismo che erano stati introdotti nel sistema
economico e ritornare alla mission
delle Partecipazioni Statali,
quindi alla economicità di gestione, senza costosi e distorsivi oneri impropri.
Ne ebbi contezza quando a fine anni
Settanta si pose il problema di trovare una soluzione legislativa per la storica
azienda Cartiere Miliani di Fabriano in una fase di crisi. Non c’era solo un
legame affettivo, avendo il nonno lavorato in quella azienda; non c’era solo un
legame territoriale con la sua Fabriano; c’era un marchio e una storia da
difendere. Non voleva che quella azienda così specializzata in produzioni di
qualità, ad alto valore aggiunto, fino alle carte valori, fosse equiparata ad un
cartonificio qualsiasi.!
Poi un lungo rapporto di amicizia anche attraverso Gerardo Bianco e tante
occasioni di incontro su questioni politiche ed economiche, dagli incontri di
Fiuggi con i giovani di Bartolo Ciccardini, alle iniziative dell’Arel con Nino
Andreatta. Non mancava, quando i suoi impegni potevano consentirlo – una volta
perfino per una visita ortopedica al Rizzoli – con la presentazione dei
rapporti trimestrali di Prometeia,
all’hotel Royal Carlton di Bologna, di immergersi nell’attualità dell’economia
in una sintesi tra mondo accademico ed economia reale. Era il suo modo costante
di ascoltare e capire.
Una giornata indimenticabile fu a Cerreto d’Esi in occasione della
commemorazione di Bartolo Ciccardini nel teatro comunale Casanova, promossa dal
centro studi Riganelli del Prof Aldo Crialesi con la lectio magistralis del Prof. Francesco Malgeri e tante
testimonianze personali sulle vicende della loro gioventù nella Resistenza di
una comunità tra Fabriano e Matelica.
In quell’incontro così ricco di
significati, intervennero Adriano Ciaffi, Alessandro Forlani e Cristina Olini
per l’associazione Nazionale Partigiani Cristiani. Francesco Merloni volle
ricordare gli anni della gioventù, della resistenza durante l’occupazione
nazista, dell’impegno universitario, il legame con il territorio e a tanti
scritti su Cerreto.
È stata l’occasione per ricordare
l’episodio di quando il ricercato, Enrico Mattei, futuro capo dei partigiani
Alta Italia, si salvò da una squadra di fascisti alla ricerca di un carro di
fieno che nascondeva armi nascosto proprio in casa Mattei. Fu una storia di vita
vissuta.
Poi i tanti racconti dei viaggi in
Vietnam dove aveva insediamenti produttivi, con delegazioni governative, dove
portava la sua esperienza per affermare prodotti nei nuovi mercati del sud est
asiatico.
Dopo il sisma del Centroitalia del
2016 diede con la Fondazione Merloni nella sede delle banche popolari, un
contributo originale per la ripresa delle aree interne, con idee originali e
innovative puntando su investimenti infrastrutturali con completamento ed
integrazione del Quadrilatero con le reti viarie, agricoltura di montagna in
colture specializzate, e un welfare tecnologico con servizi alla persona.
Poi partecipò con soddisfazione alla
cerimonia commemorativa per i suoi novant’anni, con lo stesso spirito con cui fu
premiato qualche anno prima Giorgio Tupini. Era come se la comunità marchigiana
dopo tante battaglie politiche e tante vittorie si ritrovasse per guardare
insieme l’orizzonte e trovare idee nuove per una fase di sviluppo del quarto
capitalismo.
Poi il passaggio generazionale ha
trasferito il testimone da Francesco al figlio Paolo, per una nuova fase
In conclusione: Francesco Merloni,
classe 1925, 97 anni, una storia italiana, saggezza e tenacia con sguardo lungo
con radici, valori, progetti, sfide e successi!
Maurizio Eufemi
NICOLA
SIGNORELLO, EX SINDACO DI ROMA E PIÙ VOLTE MINISTRO, HA ONORATO LA DEMOCRAZIA
CRISTIANA.
“A me piace ricordare Nicola -
scrive qui Persichetti - così come mi apparve fin dal primo momento: sorridente,
gioviale, espansivo ed allegro, nonostante la ben nota riservatezza e la
contenuta discrezione”.
Articolo di Emilio Persichetti comparso sul giornale online "ildomaniditalia.it"
del 29 Dicembre 2022
Così
proprio nel bel mezzo delle feste del Santo Natale ci ha lasciato il nostro
Nicola Signorello. E con lui se ne va anche un pezzo della bellissima storia
della Democrazia cristiana romana, che ci ha visto giovani ma precocemente
maturi, convinti protagonisti di tante battaglie politiche alimentate da grandi
ideali e profondi convincimenti. Ed è in fondo questa la vera eredità che ci
lascia Nicola: una profonda coerenza a un ideale politico vissuto con passione e
lealtà sin dall’esordio come giovanissimo Consigliere provinciale a Palazzo
Valentini, di cui si ha traccia nel bel libro di memorie – A piccoli passi.
Storie di un militante dal 1943 al 1988, Newton Compton editore – certamente
specchio di sé e insieme testimonianza viva per le generazioni future di una
vita spesa interamente e generosamente al servizio della comunità.
È questo ciò che conta nella vita
di un uomo politico: il ricordo non di ciò che hai fatto, che alla fine
svanisce, ma di ciò che sei stato. Conta, insomma, il ricordo che lasci di te.
Allora, nel giorno dell’ultimo incontro con i suoi amici e i suoi cari, non va
dimenticato il suo profondo senso religioso caratterizzante, in modo discreto, i
lunghi anni di militanza politica. È evidente, poi, che spicca nella memoria il
curriculum politico di Nicola, davvero ricco e snodatosi in molteplici e
delicati incarichi tutti assolti con grande passione e con grande senso di
responsabilità. Mi piace ricordarne i tre davvero significativi: Segretario di
partito a più riprese, di Sindaco di Roma e Ministro in due diversi governi.
Incarichi svolti brillantemente nella continuità di una esperienza politica e
anche amministrativa, multiforme e ricchissima, quale fu appunto quella della
Democrazia cristiana romana. Non posso non ricordare che dopo nove anni di guida
capitolina della sinistra, riconquistato alla fine il Campidoglio nel 1983,
Nicola Signorello riorientò le forze e tutte le energie culturali e politiche di
Roma, e non solo, nella direzione di una progettualità urbanistica complessiva,
accantonata perché non compresa nella sua sostanza dalle giunte di sinistra di
allora (e oggi, nondimeno, vale la stessa trascuratezza).
Un’attenzione particolare allo
sviluppo urbanistico della città che fu il tratto qualificante e proprio di
quella classe dirigente democristiana che era giunta alla guida del partito alla
fine degli anni cinquanta provenendo dalle sezioni e perciò da un lungo
confronto con i bisogni del territorio e delle periferie cresciute troppo in
fretta. Fu proprio quella classe dirigente popolare e sinceramente democratica a
mettere in pista, dopo l’esaltante esperienza delle Olimpiadi del 1960, l’idea
di un Nuovo Piano Regolatore centrato sul famoso “Asse Attrezzato” (poi SDO)
nella parte orientale della città. E fu merito di Nicola, in quella breve
stagione da Sindaco, l’aver tentato il rilancio della più organica e strategica
operazione urbanistica che mai la città abbia conosciuto.
Più complessa ed articolata la
sua esperienza di Ministro negli anni che la storia sicuramente rivaluterà,
durante i quali il centro sinistra contribuì, e non poco, a strutturare una
parte della Italia di oggi nella continuità con il centrismo degasperiano, ma
anche nella discontinuità imposta dall’ingresso del partito socialista nell’area
di governo. La riflessione storica ancora non è giunta a maturazione su quella
stagione eccezionale e dunque rimane fatalmente in ombra l’intenso lavoro svolto
da Nicola. Né potrebbe essere diversamente. Il giudizio storico non può
appartenere alla generazione che è stata protagonista degli avvenimenti presi in
esame, la quale invece ha il compito di dare fedele testimonianza dei fatti
avvenuti lasciando alle generazioni future la valutazione più serena e
distaccata. E chi è stato appunto testimone sa che Andreotti, sempre attento
alle vicende della città, affidava volentieri alla paziente e riservata
iniziativa di Nicola l’onere di sbrogliare, come si suol dire, qualche matassa
particolarmente ingarbugliata.
Nel giorno dell’ultimo addio
voglio però portare la mia piccola testimonianza su quello che invece è stato un
fatto storico importante, e perciò da riscoprire e ben studiare: la Dc di Roma.
Non parlerò, ancora per riguardo a Nicola, delle sue ben note doti di
organizzatore e animatore di innumerevoli gruppi, né della sua capacità di
comunicatore, dono innato e messo fedelmente al servizio del partito e degli
ideali che lo animavano. Non a caso gli fu affidata la responsabilità della
Spes, l’ufficio Studi e Propaganda – così Dossetti aveva voluto che si chiamasse
– di Piazza del Gesù. Voglio invece ricordare Nicola così come l’ho conosciuto e
visto da vicino la prima volta, lui neo eletto segretario del Comitato romano ed
io giovanissimo dirigente del Movimento giovanile.
C’è fermento e un via vai
frenetico quel lunedì sera, lì nella grande e spaziosa stanza del Segretario al
secondo piano di piazza Nicosia. I seggi elettorali si sono chiusi come sempre
alle due e finalmente cominciano ad arrivare i segretari sezionali e le
staffette che portano i risultati elettorali quartiere a quartiere, sezione
elettorale a sezione elettorale. Internet non esiste e la comunicazione
istantanea neanche concepibile. Occorrerà aspettare molte ore per avere dati
certi dal Ministero dell’Interno e dal seggio Centrale di via dei Cerchi dove
pure ci sono i “nostri”. Ed invece noi abbiamo fretta. Dobbiamo arrivare per
primi. Come sempre siamo riusciti a trovare un rappresentante di seggio per ogni
sezione elettorale e dunque, per fortuna, ora siamo in grado di avere i dati per
ogni sezione sin da quando il seggio ha terminato lo scrutinio.
Occorre prendere una decisione
difficile: esporre la bandiera della Dc al balcone che dà sul lungotevere in
segno di vittoria o no. È una decisone importante perché se sbagliassimo
inevitabilmente ed implacabilmente verremmo svillaneggiati il giorno dopo
dall’Unità: si dichiarano vincitori ed invece non lo sono. Attorno al grande
tavolo alcuni stanno seduti a corona di fronte al segretario e altri stanno in
piedi. La discussione è accesa. Cominciamo ad elaborare proiezioni, a fare i
conti, a vedere i rapporti con i risultati delle elezioni precedenti. Fumo,
battutacce per i segretari dove la Dc è in calo e lodi per quelli dove siamo
cresciuti: il clima è febbrile e la tensione si taglia a fette. Alla fine sarà
lui, il nostro Nicola, a tirare le righe ed ad assumere la decisione: sì la
bandiera si espone, la vittoria è nostra. Sospiro di sollievo, volti sorridenti
e allegria nei cuori.
Ecco, in un giorno di dolore,
mentre il sacerdote impartisce la benedizione e chiama gli Angeli e i Santi ad
accompagnare in cielo quell’anima, a me piace ricordare Nicola così come mi
apparve fin dal primo momento: sorridente, gioviale, espansivo ed allegro,
nonostante la ben nota riservatezza e la contenuta discrezione. E lo ricordo
volentieri così ricordando anche quella che fu la Dc romana, non perché sia un
barboso “laudator temporis acti”, ma perché quel modello di partito va oggi
ripreso ristudiato e riproposto. Per difendere le libertà civili e la stessa
democrazia, è essenziale tornare infatti al modello di partito popolare e
saldamente ancorato al territorio dopo che la disintermediazione digitale
imposta da movimenti come i ‘5 Stelle’ ha reso i partiti liquidi, devitalizzati
e legati al carro del capo con più ‘like’ e con meno idee.
Lo scorso anno quando abbiamo
consegnato la medaglia al presidente Bianco chiesi a Falomi di volere dare un
saluto a Gerardo.
Volevo dopo tanti anni di vita in
comune e di collaborazione politica, dirgli in pubblico che lo ringraziavo per
quello che aveva fatto per me, perché era stato il mio maestro e il mio
riferimento.
Siamo nati in Alta Irpinia in paesi
distanti pochi chilometri e abbiamo riferimento di parentela per cui, se pure
nella differenza di pochi anni di età, abbiamo giocato insieme.
Gerardo sin dalle scuole medie era
un riferimento per tutti, per il paese, per i compagni di scuola.
Negli anni universitari le
discussioni tra noi erano culturali e politiche e per questo e anche per
l’amicizia con De Mita diventai socio onorario di quella grande scuola
dell’Università cattolica che condivideva appunto con De Mita e Misasi.
Gerardo, insomma, ha coltivato la
mia passione politica e mi ha aiutato a inserirmi in quella rigorosa scuola
politica che faceva capo alla DC.
Ci siamo impegnati a creare una
classe dirigente che in Campania e in Irpinia aveva forte tradizione da
Francesco De Sanctis in poi e che si è imposta all’attenzione nazionale. Ma
Bianco a differenza di tutti noi non rinunziava ai suoi studi storici e
letterari e all’inizio dell’estate di ogni anno ci salutava e andava in Germania
per tre mesi ad approfondire le sue ricerche.
Siamo una generazione, noi tutti ex
deputati, con un po’ di anni ed esperienza sulle spalle, che ha considerato la
politica come emanazione della cultura, con un riferimento ideologico che sempre
dovrebbe ispirare le azioni della politica, ma Gerardo Bianco dava prevalenza
alla cultura e alle sue ricerche storiche e latiniste. Una prova di questa
particolarità è che Gerardo è stato in Italia il più grande interprete e
conoscitore di Francesco De Sanctis; questo non gli è stato riconosciuto per
rivalità accademiche che alcune volte ha confessato a me.
Egli riteneva De Sanctis un campione
dell’umanità per aver inventato la letteratura, come lui diceva, e questo era la
linfa vitale per il conseguente impegno politico.
La generazione intorno a De Sanctis
aveva costruito l’unità d’Italia e posto sin da allora il problema del
mezzogiorno.
Il meridionalismo è stata la ragione
dell’impegno politico di Bianco. In Parlamento nelle sue diverse responsabilità
ha portato con il prestigio e la forza morale che aveva, il problema del
riscatto del mezzogiorno per completare l’unità del nostro Paese, e poi, dopo la
costruzione europea, per avere un’Europa unita con il sud d’Italia. Bisognava e
bisogna evitare che vi sia una differenza tra il Nord Europa e il Sud
dell’Italia.
Tutto il suo impegno politico lo ha profuso nel difendere il Parlamento.da capo
gruppo della DC ha difeso le ragioni del partito ma la sua particolare
convinzione era che il gruppo parlamentare dovesse dialetticamente contribuire a
rafforzare insieme agli altri gruppi la democrazia nel Parlamento.
Credeva nella militanza nel partito e l’ha praticata, ma credeva ancor più, per
le responsabilità istituzioni che ha avuto, nel ruolo dei gruppi parlamentari di
maggioranza e di opposizione che insieme superano le parzialità dei partiti.
Rileggete i discorsi fatti in Parlamento e avrete questa precisa valutazione.
siamo stati insieme nel partito e nel Parlamento per molte legislature e abbiamo
avuto contese dialettiche, potrei dire anche ideologiche, ma che hanno
rafforzato l’amicizia e la stima. Bianco da presidente dell’Associazione ha
continuato a difendere il Parlamento e mi diceva che aveva accettato quel ruolo
proprio per questo,
per difendere le istituzioni.
Questo il significato che dava alla difesa dei nostri diritti istituzionali e le
polemiche sostenute per convincere che l’autonomia del parlamentare è la
condizione della Repubblica parlamentare e il presupposto per una rappresentanza
adeguata dei cittadini, rispondevano a quelle motivazioni.
Nell’ultimo periodo è stato ostinato nel contestare il presidenzialismo, cioè il
cambiamento della Costituzione e l’ autonomia “sfrenata” (è sua la parola) delle
Regioni con il carico di poteri abnormi che non possano coesistere con l’unità
del Paese.
Nelle ultime settimane è stato costretto a casa ma mi aveva garantito che
sarebbe stato presente oggi per registrare questa unità che abbiamorealizzato
tra esperienze diverse ma con una forte tradizione di politica che ispira le
nostre azioni e il nostro stare insieme.
Io ho il dovere di dirvi che voleva essere presente oggi per raccomandare di
continuare a difendere il Parlamento e quindi la complessa e completa struttura
istituzionale disegnata dalla Costituzione.
Credo di poter dire che l’impegno di tutta la lista che si presenta alla vostra
attenzione è in questo senso, ed è sulla scia del programma e del metodo
scrupoloso e attento che ha portato avanti il presidente Falomi, eccezionale
nostro riferimento, intellettualmente legato a Bianco e degnissimo suo
successore.
Speriamo anche noi del nuovo direttivo di essere degni successori
GIOVANNI MARCORA: Gli uomini della Base, la sinistra politica della DC.
Ricordo di Marcora nel centenario della nascita.
articolo tratto dal giornale online
"ildomaniditalia.it" del 2 novembre 2022
Il
prossimo 12 novembre, nell’anno centenario della nascita di Giovanni Marcora
(Inveruno, 28 dicembre 1922), il Comune di Inveruno ed il Centro Studi Marcora
organizzano una mostra convegno commemorativa in coincidenza con l’apertura
della 415esima edizione dell’Antica Fiera di San Martino. Tra gli altri
parleranno, oltre alla sindaca Sara Bettinelli, Gianni Borsa, Mariapia
Garavaglia, Patrizia Toia.
Di
seguito riportiamo il ricordo tracciato anni fa da Camillo Ripamonti, amico e
collaboratore di Marcora, esponente di spicco della sinistra di Base,
parlamentare e ministro, in ultimo Presidente dell’Anci.
Lo
scritto di Ripamonti, “Una sensibilità unica”, fa parte di un volume di
testimonianze dal titolo “Ribelle e statista. Albertino Marcora”.
Camillo Ripamonti
Le
testimonianze che si possono rendere su “Albertino” rischiano d’essere sempre
incomplete, tanto è stato l’impegno che Marcora profuse nella sua non lunga, e
tuttavia intensissima, vita, tanti sono gli insegnamenti che andrebbero tratti
dalle attività di un personaggio davvero unico, che sapeva farsi apprezzare – ed
anche farsi volere bene — da amici ed avversari, da chiunque avesse la ventura
d’incontrarlo nei suoi poliedrici interessi, umani e politici.
“Albertino”
fu un politico singolare. Trascorse più tempo a preparare una cordata che
mirasse alle idee del futuro, che non a tessere una organizzazione per la
contemporaneità. Certo, non gli erano estranei gli interessi concreti ed
immediati; al contrario, egli fu fra i rari politici che badavano al sodo, alle
cose da fare, subito, e sulle quali impegnare, senza indugi, la propria parte di
responsabilità. Ma la sua esperienza va letta in maniera più compiuta,
riflettendo sulle ragioni che lo condussero, lui uomo d’azione, a circondarsi di
intellettuali ai quali affidare la progettazione del domani.
Ricorda, nella sua testimonianza qui prodotta, Giovanni Galloni taluni momenti
significativi di quella irripetibile vicenda che fu la Base, un movimento di
idee che andava a scavare in un macrocosmo pigro, aduso a non porsi i problemi
dell’avvenire dando per scontato ch’esso non potesse essere che più fulgido del
presente. Di quei momenti andrebbero analizzati risvolti ancor più profondi:
perché ricchissima fu quella stagione, alla quale Marcora seppe sempre imprimere
un personale segno; e perché quelle esperienze valgono a capire meglio come si è
formata una classe dirigente, ora in prima linea politica, che non aspirava a
sostituire altri gruppi, ma solo ad adeguare la politica ai tempi mutati.
Si fa presto a dire rinnovamento.
Specie oggi che tutti ne parlano, ognuno cercando più nuove immagini, facciate
rinfrescate, che indirizzi e visioni volti al futuro. Si fa presto a conclamarsi
progressisti, se poi, nei fatti, si tende ad ostacolare ogni pur timida novità,
ci si preoccupa della difesa d’una antica, certamente gloriosa, bandiera, senza
però riprenderne lo spirito rinnovatore, senza lasciar spazio ad idee più
fresche, a mutamenti sostanziosi nel sistema dei partiti, senza abbandonare il
bagaglio della demagogia spicciola e farsi responsabili: appunto classe
dirigente. Giovanni Marcora fu responsabile. Solo così si spiega la sua lunga
attesa per un proprio, personale impegno politico. Solo così si spiega come egli
sia potuto passare dalla vita partigiana al rango di statista, dei più
apprezzati fra l’altro. ‘
Se
rileggessimo, tutti, al di là degli steccati di partito, ed ovviamente al di là
delle divisioni fra gruppi e gruppuscoli tradizionali nella vita interna alla
democrazia cristiana, con occhio davvero vigile l’intera esperienza di
“Albertino” Marcora, forse ci aiuteremmo l’un l’altro a comprendere meglio gli
stessi ultimi quarant’anni di vita democratica. Scopriremmo il significato dei
“ribelli” cristiani, che volevano cambiare l’Italia, ma per farla avanzare sul
terreno della libertà e della democrazia. Scopriremmo il senso di responsabilità
che fu presente a tanta parte del movimento clandestino, che mirava a far
maturare una coscienza nuova, civile ancorché politica, fra la gente, fra le
nuove generazioni soprattutto, perché esse erano sbandate, corrotte da un
propagandismo che le aveva gettate allo sbaraglio e, una volta deluse, esposte
al rischio di facili abbandoni nei miraggi di inesistenti, impossibili paradisi
terreni.
Scopriremmo che la repubblica è stata animata, non sui giornali e nella
pubblicistica di comodo, ma nella realtà di ogni giorno, da un popolo di
formiche: quello di cui parlava Tommaso Fiore, a proposito della sua Puglia, ma
che, a maggior ragione forse, è rintracciabile in tutte le aree nazionali dove
si manifestavano, in operoso silenzio, come diceva Aldo Moro, anima e volontà di
andare avanti, di non fermarsi a contemplare l’avuto o il presunto
irraggiungibile. Indubbiamente “Albertino” si qualificò per il suo radicamento
lombardo, per quel suo sfrenato amore per tutto ciò che la sua terra d’origine
sapeva dare alla comunità nazionale.
Il
suo fastidio, persino ossessivo, per tutto ciò che non fosse efficiente e
produttivo esprimeva una connotazione ed una condizione assieme, prima che il
segno d’un carattere forte, deciso e di una volontà laboriosa, instancabile. La
sua alta considerazione per il mondo delle campagne, oltre che per quello delle
ciminiere e degli uffici, è legata a quella sua origine ed a quel desiderio –
comune a tanti padani – di vedere crescere la società ricorrendo agli strumenti
i più nuovi e sofisticati, senza tuttavia cancellare la terra, fonte primaria
della stessa vita umana. Appunto per questo Giovanni Marcora è stato l’uomo
politico più popolare della Lombardia. Come sottolineato anche, in un club
milanese, dal professor Rumi, Marcora ha rappresentato – e, forse, ancor più
avrebbe potuto rappresentare nel tempo — l’espressione più autentica e genuina
della gente lombarda, come da decenni non si ritrovava – e, forse non si
ritroverà più —, pur nella numerosa schiera di uomini politici lombardi presenti
in tutti i partiti.
Rammento, in proposito, un articolo -“Linea ambrosiana e linea lombarda” -,
apparso sulla rivista Itinerari diretta da Francesco Rossi, un amico la cui
vicenda umana si è troppo presto conclusa. L’anno, il 1967, ahimè quasi
vent’anni fa.
Il
luogo: la sede della Dc di Milano. “Chi parla, seduto nervosamente su un divano,
alzandosi di scatto come per inseguire altre idee o una telefonata, non è il
direttore generale di una industria all’avanguardia, ma Giovanni Marcora,
segretario provinciale della Dc milanese. Marcora, è un personaggio quasi
leggendario per la sinistra democristiana di tutta Italia. Marcora, che sembra
rappresentare l’uomo dell’organizzazione e dell’efficienza anche in politica, a
ben guardare impersona, nel suo generoso volontarismo e nell’intransigente
spirito critico (“sono entrato nella resistenza per desiderio di libertà e ne
sono uscito civile”, egli dice) le ansie, le contraddizioni e, soprattutto, il
realismo politico della sinistra democristiana milanese…Marcora non ambisce ad
essere leadership ideologica, non è soltanto il manager politico che sa
raccogliere i voti per la Dc e quelli preferenziali per i suoi amici, ma il
politico conoscitore di uomini e di situazioni che ha compreso come, muovendosi
da posizioni di sinistra, si possano interpretare le esigenze di un elettorato
popolare qual è quello di Milano e del suo vasto hinterland”.
Di
quel periodo milanese quasi non esistono tracce: almeno nelle ricostruzioni.
Eppure, basterebbe andare a spulciare la collezione del Popolo lombardo,
riguardare le stesse annotazioni di Marcora, rileggere, con più distacco, se si
vuole, purché con spirito di verità, il complesso delle vicende che precedettero
la fase della contestazione giovanile ed operaia, che fra l’altro coincise col
matricolato di “Albertino” nella vita parlamentare, per comprendere cosa Marcora
ha rappresentato per un’altra leva di politici, dopo quella che gli era stata a
fianco nella fase più gloriosa del noviziato e della costruzione della corrente
di Base.
Di
quei momenti varrebbe la pena di rammentare le tensioni, le passioni, le
incomprensioni. Di alcune dice Giovanni Galloni, nel discorso del 6 febbraio
1986 al Museo del Duomo di Milano il cui testo viene qui riproposto anche per
rispondere ad un desiderio espresso da tanti giovani presenti a quell’incontro,
organizzato dal Centro culturale “Puecher”, così bene animato dal suo
presidente, avvocato Dittrich.
Mi
limito a ricordare alcuni riferimenti – Nicola Pistelli, Vincenzo Gagliardi, e
gli incontri di via Brera, via Santa Eufemia, via Cosimo del Fante – così cari
alla memoria di quella limitata pattuglia che, con Marcora e sotto il suo
quotidiano stimolo, animò le battaglie della Base contrassegnando un lungo
periodo, certa-mente il più fervido di idee e di apporti di nuove leve
intellettuali e giovanili alla democrazia cristiana.
Anche
Giovanni Di Capua porge qui un suo contributo alla conoscenza di “Albertino”
Marcora, scegliendo la testimonianza su uno strumento di azione politica, la
agenzia Radar, di cui egli stesso è stato inventore e attore. Non è la storia di
quella agenzia, che viene proposta, ma la spiegazione della sua origine, cui
moltissimo si deve appunto alla fantasia di Marcora, lombardo deciso a far
valere nuove idee in campo nazionale e però attento a stabilire un caposaldo
nell’osservatorio politico per eccellenza, Montecitorio.
Ai
giovani che poco sanno o che troppo poco conoscono se non per informazioni
distorte fornite da chi non aveva interesse alcuno ad esporre fatti, situazioni,
personaggi e idee per ciò che veramente furono e per ciò che effettivamente
erano in grado di significare nella vicenda politica nazionale, i contributi di
Giovanni Galloni e di Giovanni Di Capua, possono tornare utili: se non altro, a
sapere come si faceva politica un tempo, nel disinteresse personale, pensando a
far crescere gli altri, a sentirsi paghi solo di aver partecipato alla
definizione di un grande rivolgimento ideale.
Non
si potrebbe concludere una sia pur rapida carrellata su Giovanni Marcora senza
rammentare gli uomini che nella sua vita, ed in quella della Dc, hanno lasciato
una loro impronta profonda.
Sono,
quasi elencandoli: dopo Alcide De Gasperi, il presidente della ricostruzione,
Enrico Mattei, soprattutto per quello ch’egli rappresentò nella lotta di
liberazione, “scuola di coraggio civile e di virtù eroiche”, oltre che per la
fondazione dell’Eni; e, ancora, Giovanni Gronchi, con le speranze che suscitò
col suo avvento al Quirinale, ed Ezio Vanoni, con le sue lezioni di politica
economica non disgiunte da consigli di vita e da una solidarietà nella medesima
battaglia interna alla democrazia cristiana; e, infine, Aldo Moro, cui
“Albertino” guardava con rispetto, avvertendone il fascino intellettuale,
criticandone le lentezze operative, e che, tuttavia, seppe tradurre le
prospettazioni politiche della Base nella politica dei governi di centro
sinistra, portando tutto il partito laddove uno sparuto nugolo di giovani aveva
da tempo detto che fosse giusto andare.
Marcora, però, ebbe per somma maestra la vita, i fatti della gente operosa, le
idee miranti all’avvenire. Quella fu la sua vera scuola. Su di essa fondò la sua
azione di governo. Per questo riuscì a farsi capire anche all’estero, dove
l’Italia di Marcora veniva guardata con rispetto, non coi paraocchi di
detrattori o imbonitori, individui estranei ad una cultura europea quale
“Albertino”, l’opposto dell’intellettuale, pure possedeva.
Vorrei
innanzitutto ringraziare la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi (nelle
persone del suo presidente, Prof. Giuseppe Tognon, e del suo direttore,
Dott. Marco Odorizzi) per l’invito che mi è stato rivolto a tenere la Lectio
degasperiana 2022. È un grande onore per me, oltre che un piacere per via
dei legami familiari, sentimentali e intellettuali che mi legano al
Trentino.
L’argomento
che mi è stato chiesto di discutere è L’aggressione russa dell’Ucraina,
iniziata il il ritorno della guerra in Europa. 24 febbraio scorso,
rappresenta un evento drammatico, di proporzioni storiche. Sebbene l’Unione
europea (Ue) abbia reagito compatta all’aggressione russa, è tuttavia
indubbio che essa si sia trovata impreparata ad affrontare il problema della
guerra. Un problema, invece, che i leader europei (a cominciare da Alcide De
Gasperi) si erano posti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli
anni Cinquanta del secolo scorso, elaborando e quindi sottoscrivendo (il 27
maggio 1952) il progetto più avanzato di integrazione militare e politica,
la Comunità europea della difesa (CED).
Tenendo
presente quell’esperienza, analizzerò le implicazioni dell’aggressione russa
per l’Europa integrata. Procederò come segue.
Primo,
discuterò le ragioni che hanno reso l’Europa impreparata ad affrontare
l’invasione russa dell’Ucraina.
Secondo,
discuterò il Trattato della CED, così come era stato pensato da Alcide De
Gasperi nel dialogo con Altiero Spinelli, progetto finalizzato a difendere
l’Europa da minacce esterne ed interne.
Terzo,
discuterò le conseguenze del fallimento della CED (1954) sullo sviluppo
successivo dell’Europa integrata.
Concluderò
derivando da questa analisi, sulla base dell’azione di De Gasperi e del
pensiero di Spinelli, una agenda per il futuro della sicurezza
24
febbraio 2022.
L’Ue ha
risposto con immediatezza e compattezza all’aggressione russa dell’Ucraina
del 24 febbraio 2022, decidendo di inviare armi letali al governo ucraino
per potersi difendere e concordando con gli alleati atlantici diversi di
pacchetti di sanzioni economiche nei confronti del governo russo.
Tuttavia, è
indubbio che l’Ue si sia trovata impreparata, sul piano istituzionale e
culturale, ad affrontare la guerra in casa propria. Durante la Guerra Fredda
(1950-1991) alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) il compito di
garantire la sicurezza dei Paesi europei, dopo la Guerra Fredda ha finito
per ritenere che la sicurezza non fosse più in pericolo nel continente
europeo. Per l’Ue, con il crollo del muro di Ber lino (1989) e l’implosione
dell’Unione Sovietica (1991), la “storia era finita”.
L’epoca della
violenza tra stati avrebbe lasciato il posto alla cooperazione economica e
culturale tra di essi. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, le
leadership europee (sotto la pressione di quelle tedesche) hanno finito per
pensare che la lotta per il potere tra gli stati sarebbe scomparsa dalla
politica internazionale, in quanto le relazioni interstatali si sarebbero
svolte all’interno di regimi internazionali istituzionalizzati le cui norme
e aspettative avrebbero mitigato le loro pulsioni aggressive.
E così è
avvenuto. L’interdipendenza economica e culturale è stata causa ed effetto
della formazione di un sistema di istituzioni internazionali incaricate di
risolvere le dispute e i conflitti tra stati e attori privati attraverso il
multilateralismo o ricorrendo alla mediazione di magistrature
internazionali. Si è infatti formato un ordine legale globale capace di
influenzare le scelte degli stati così come degli altri attori
internazionali (corporations multinazionali, lobbies internazionali,
organizzazioni non-governative).
L’Ue è stata
la protagonista di tale normazione della globalizzazione, divenendo una vera
e propria potenza normativa, un attore internazionale specializzato
nell’esportazione di regole e nella promozione di commerci. L’Ue si è
talmente identificata con questo suo ruolo che ha finito per pensare che,
come se fossimo in un mondo post moderno, la guerra era stata ormai
delegittimata in quanto strumento per la soluzione delle contese.
Certamente, attraverso la diffusione di intensi scambi commerciali,
finanziari, industriali, culturali, il sistema internazionale si
globalizzato, di persone dei Paesi non industriali di uscire consentendo a
milioni dalla miseria.
Anche se non
erano mancati conflitti (si pensi a quelli generati dal fallimento della ex
Jugoslavia) che avevano messo in discussione l’interdipendenza economica, è
stata soprattutto la decisione di Putin del 24 febbraio scorso a mostrare
l’altra faccia di quest’ultima.
Sebbene,
negli ultimi trent’anni, l’economia russa si sia venuta ad intrecciare con
le economie dei Paesi europei, in particolare della Germania; sebbene il Pil
russo sia divenuto dipendente dalle esportazioni di gas e materie prime nei
Paesi dell’Europa integrata (tra cui il nostro); sebbene la nuova classe
media russa sia stata attratta dai consumi occidentali; sebbene i ricchi
russi abbiano trovato estese e convenienti occasioni di investimento
finanziario, immobiliare e industriale in Paesi come il Regno Unito; sebbene
le sanzioni successive al 2014 (in risposta all’annessione della Crimea da
parte della Russia) abbiano accresciuto la dipendenza energetica di Paesi
come l’Italia e la Germania al gas russo; sebbene tutto ciò, Putin non ha
avuto scrupoli a mandare all’aria l’interdipendenza economica, invadendo
militarmente l’Ucraina. Dunque, i commerci contano, ma non abbastanza per
fermare la guerra.
Quest’ultima,
infatti, deriva quasi sempre da logiche interne, logiche che nei regimi
autoritari (come la Russia di Putin) non incontrano ostacoli. Quei regimi,
per dirla con Michail Sergeevič Gorbačëv, sono “automobili senza il freno a
mano”. dell’Ucraina è il risultato delle scelte di attori Nel nostro caso,
l’aggressione russa domestici (Vladimir Putin e la sua cerchia di potere)
per promuovere una precisa visione del ruolo internazionale della Russia,
sostenuta da una precisa ideologia politica (la Russia è una nazione-impero
con una missione storica da perseguire).
Nel discorso
del 21 febbraio 2022, Putin affermò di volere rimediare agli errori di
Lenin, il principale dei quali era stato quello di legittimare il principio
di autodeterminazione nazionale. Tale principio, per Putin, aveva infatti
condotto alla formazione di una pluralità di repubbliche (quindi aggregate
nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) che, con la fine della
Guerra Fredda, poterono rivendicare la loro sovranità nazionale.
L’aggressione
all’Ucraina del 2022 è dunque una tappa del percorso di ri costruzione di
una Grande Russia di impronta zarista. Un percorso iniziato nel 2008 con
l’invasione della Georgia, andato avanti nel 2014 con l’annessione della
Crimea, rafforzato con l’annessione di fatto della Bielorussia di Aljaksandr
Ryhoravič Lukašėnk a e giunto quindi all’aggressione dell’Ucraina nel 2022.
La Russia di Putin rappresenta una minaccia permanente per l’Europa
integrata. Putin ha ricordato all’Ue che la storia non è finita, che la
guerra non è scomparsa.
27
maggio 1952
La Comunità
europea della difesa (CED) Che la guerra costituisse una minaccia permanente
in Europa, ciò era invece molto chiaro ad Alcide De Gasperi e ai leader
europei (come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Paul Henri Spaak) che si
trovarono al governo delle nuove democrazie europee postbelliche.
Per De
Gasperi, la minaccia della guerra proveniva sia dall’esterno (dall’Unione
Sovietica) che dall’interno (dalla rivalità tra gli stati nazionali
dell’Europa occidentale). La minaccia esterna divenne subito chiara con
l’invasione militare della Corea del Sud, il 25 giugno 1950, da parte della
Corea del Nord (sostenuta dalla Russia sovietica oltre che dalla Cina
comunista).
Quell’invasione ruppe definitivamente la fragile alleanza tra i Paesi
vincitori della Seconda guerra mondia le, diffondendo la consapevolezza che
un dramma simile si sarebbe potuto verificare anche nell’Europa
continentale. Dopo tutto, il ferreo controllo sovietico dei Paesi
dell’Europa dell’est, seguito alla Conferenza di Postdam dell’estate 1945,
confermava la minaccia rappresentata dal regime staliniano, minaccia che
aveva spinto il governo De Gasperi ad essere tra i cofirmatari del Patto
atlantico che dette vita alla NATO nel 1949. Tale minaccia esterna imponeva
con urgenza il problema del riarmo della Germania dell’Ovest, senza la quale
sarebbe stato difficile garantire la sicurezza europea. A sua volta, il
riarmo della Germania dell’Ovest sollevava il problema della minaccia
interna alla pace europea, una minaccia alimentata dai nazionalismi
sopravvissuti a i drammi delle due guerre mondiali e dell’Olocausto.
Dirà De
Gasperi (Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951),
“Il bisogno di sicurezza ha creato il Patto Atlantico, cioè
un’organizzazione che tende a ristabilire l’equilibrio delle forze. È questa
la prima linea di difesa contro il pericolo esterno (…) Ma la condizione
essenziale per una resistenza esterna efficace è in Europa la difesa interna
contro una funesta eredità di guerre civili - tali bisogna considerare le
guerre europee - dal punto di vista della storia universale”.
Contrariamente agli statisti che, dopo la Prima guerra mondiale, cercarono
di costruire un nuovo ordine europeo basato sulla cooperazione tra stati
(seppure nell’ambito della nuova Società delle nazioni, istituita il 10
gennaio 1920), i leader dell’Europa democratica emersa dopo la Seconda
guerra mondiale sapevano che la buona volontà dei governi nazionali non
basta se non viene istituzionalizzata all’interno di un sistema
sovranazionale.
Questa
consapevolezza è all’origine della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950,
considerata l’atto di nascita dell’Europa integrata.
Da quella
Dichiarazione emergono due progetti sovranazionali distinti (ma collegati).
Il progetto della Comunità del Carbone e dell’Acciaio o CEC A (con il
Trattato di Parigi del 18 aprile 1951) e il progetto della Comunità europea
della difesa o CED (con il Trattato di Parigi del 27 maggio 1952).
A sua volta,
quest’ultima derivò dal Piano per una difesa europea presentato dal
presidente del Consiglio francese René Pleven all’Assemblea nazionale
francese il 24 ottobre 1950, divenuto quindi la base della Conferenza
diplomatica per la CED, convocata dal governo francese il 26 febbraio 1951,
che elaborò un Rapporto inviato il 27 luglio 1951 ai sei governi che avevano
aderito alla CECA (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo).
Per De
Gasperi, le nuove istituzioni (della CED in specifico) non dovevano essere
percepite come accorgimenti meramente tecnocratici. “Se noi costruiamo
soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore
vivificata da un organismo centra le, nel quale le volontà nazionali si
incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, noi
rischieremo che questa attività europea appaia al confronto della vitalità
nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale” (De Gasperi,
Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951).
Ecco perché,
per De Gasperi, la costruzione della CED doveva essere accompagnata
dall’idea di una patria europea, inclusiva delle patrie nazionali ma nello
stesso tempo più grande della loro somma. “Se noi chiamiamo le forze armate
dei diversi Paesi a fondersi insieme in un organismo permanente e
costituzionale e, se occorre, a difendere una Patria più vasta, bisogna che
questa Patria sia visibile, solida e viva, anche se non tutta la costruzione
è perfetta occorre che sin da ora se ne vedano le mura maestre e che una
volontà politica comune sia sempre vigilante perché riassuma gli ideali più
puri delle nazioni associate e li faccia brillare alla luce di un focolare
comune” (De Gasperi, Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10
dicembre 1951).
La CED, più
che la CECA, è al centro della strategia europeista di De Gasperi. “Questo è
il problema principale: impedire, attraverso la costituzione di una
federazione o confederazione europea, che si de nuovamente, ad esempio,
motivi di attrito e di revanche terminino tra la Francia e la Germania,
sarebbe già un grande risultato.
Ma il nostro
trattato si propone una méta più alta; esso sarà un trattato di pace perché
poggia su uno strumento di pace, perché è garantito dal fatto che i Paesi
membri hanno un esercito in comune” Per De Gasperi, la costruzione della CED
costituisce la missione principale della sua generazione politica.
Così
continua, “Non si tratta soltanto di impedire la guerra fra noi, ma anche di
formare una comunità di difesa, che abbia a suo programma non di attaccare,
non di conquistare, ma solo di scoraggiare qualsiasi attacco dall’esterno in
odio a questa formazione dell’Europa unita” (De Gasperi, Conferenza dei 6
ministri degli esteri, Parigi, 31 dicembre 1951).
Un’Europa
unita che, come abbiamo visto, continua ad essere odiata anche oggi dai
tiranni e dai loro amici di casa nostra.
De
Gasperi e Spinelli
Nel
promuovere il progetto della CED, De Gasperi dovette affrontare diversi e
numerosi nemici. Fuori dal governo, nell’opposizione comunista-socialista
per la quale la difesa europea era uno strumento al servizio degli americani
e la federazione europea una manifestazione del nostro servilismo verso
questi ultimi.
Si chiederà
De Gasperi nel dibattito con gli esponenti di quella opposizione, allora
“anche Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo erano filoamericani perché volevano
la federazione europea?” L’opposizione comunista- socialista alla difesa
europea era in realtà finalizzata a mantener e l’Europa occidentale in una
condizione di debolezza, così come l’accusa del suo carattere militarista in
nome di ideali pacifisti era strumentale a garantire rapporti di forza
favorevoli alla Russia sovietica.
Come si vede,
niente di nuovo sotto il sole, se si considerano le critiche ricevute dal
governo Draghi per aver aiutato militarmente l’Ucraina. Ma De Gasperi
dovette fronteggiare anche un’opposizione interna al suo partito, la
Democrazia Cristiana, in particolare da parte della sinistra dossettiana
ispirata da una visione pessimistica della democrazia. Intellettualmente, De
Gasperi e Dossetti erano assai diversi.
Se De Gasperi
era stato un lettore di Le democrazie moderne di James Bryce (1921),
Giuseppe Dossetti preferiva l’ Autunno del Medioevo di Johan Huizinga
(1919), l’uno era interessato a capire come le democrazie concretamente
funzionano, l’altro a come le epoche storiche (con i loro assetti economici
e politici) si concludono.
In un’epoca
di scarsa conoscenza delle democrazie liberali, mentre Dossetti proponeva
una lettura terzomondista dell’America, De Gasperi fa invece costante
riferimento alla democrazia americana come ad un modello. Nel suo discorso a
Bruxelles del 20 novembre 1948, noto come “Le basi morali della democrazia”,
la indica come un esempio per “limitare il potere” attraverso “le sue
molteplici istituzioni di controllo e la complicata macchina politica”.
Anche se poi aggiunge che “nessuna precauzione di ordine costituzionale
potrebbe impedire l’avvento della tirannia se una attiva coscienza
democratica non è operante nel popolo”. Sulla CED, invece, De Gasperi ebbe
l’aiuto fattivo di Altiero Spinelli, autore insieme a Ernesto Rossi del
Manifesto di Ventotene del federalismo Italia del 1941 (di forte impronta
socialista) ed esponente no di sinistra, oltre che il sostegno
dell’azionismo italiano rappresentata da Ferruccio Parri.
Quest’ultimo
scriverà nel 1952: “O accettiamo, con il coraggio e la decisione necessari,
l'idea di una comunità europea sopranazionale, organica e funzionale, e d
accettiamo quindi di realizzarne le conseguenze logiche, la prima delle
quali è l'unità della politica estera e l'unitarietà dello sforzo difensivo,
oppure questa politica è solo una lustra, provvisoria e reticente
mascheratura di contrasti di fondo e di diversi fini (…)”.
Sarà
soprattutto nel Promemoria sul Rapporto del 27 luglio 1951 che Spinelli
scriverà per De Gasperi nel settembre successivo che l’idea dell’Europa
federale troverà una sua più articolata definizione. In quel Promemoria,
Spinelli osserva criticamente: “Gli autori del Rapporto pensano che sia
possibile creare un esercito unico europeo senza creare uno Stato europeo
(…) Si pone di conseguenza immediatamente il problema: a chi appartiene
l’esercito europeo?”.
Seguendo il
modello della CEC, il Rapporto affidava infatti ad un
Commissario/Commissariato della difesa un compito esecutivo, corrispondente
a quello di un Ministero della difesa, senza rendersi conto che quest’ultimo
“non è che un pezzo dello Stato, e che per poter funzionare deve essere
connesso strettamente con tutti gli altri pezzi”.
Annota
Spinelli, “la Conferenza propone di creare un organo esecutivo privo di
sovranità ed obbligato a ricevere ordine dal di fuori. Ma una Comunità non
può fare a meno di un organo sovrano”. Per Spinelli, una Comunità della
difesa “trasforma completamente tutto il sistema della sovranità”, un
problema che non può essere risolto dal Consiglio dei ministri della
Comunità (cioè dalla Conferenza di stati sovrani).
Invece, in
una Comunità federale “è naturale che accanto all’Assemblea popolare vi sia
un’Assemblea o un Consiglio di Stati (…) Ma il Consiglio di Stati è una
camera del Parlamento, e non già una Conferenza diplomatica, come è previsto
nel Rapporto”. Per poi concludere, “ogni volta che si è voluto raggiungere
l’unità di azione di Stati, senza menomare le loro sovranità, il regolare
risultato è stato sempre la paralisi della Comunità che si voleva fondare”.
Spinelli
quindi conclude, “se si tocca la sovranità nazionale nel campo militare,
occorre toccare la sovranità nazionale anche nel campo fiscale”. Dunque, la
Comunità della difesa richiede la contestuale creazione di istituzioni
democratiche (legislative, esecutive e giudiziarie) per gestire la sovranità
ad essa trasferita. La Conferenza “dovrebbe redigere né più né meno che un
testo di costituzione federale europea”.
Questo fu
proprio l’obiettivo che De Gasperi si propose di perseguire nelle complesse
negoziazioni con gli altri governi (in particolare con quello francese),
consapevole anche delle resistenze interne agli apparati del suo stesso
governo (in particolare tra i diplomatici e i militari). Dopo tutto, come
disse all’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, il 10 dicembre
1951, “questa è l’occasione che passa e non tornerà più. Bisogna afferrarla
ed inserirla nella logica della storia”.
L’esito di
quell’azione fu il Trattato per la Comunità europea della difesa, costituito
di 132 articoli e 12 protocolli, firmato a Parigi il 27 maggio 1952. Un
Trattato che iniziava (Art. 1) collocando la CED all’interno del Patto
Atlantico e precisando subito che essa ha “un carattere sovranazionale,
consistendo di istituzioni comuni, di Forze armate comuni e di un budget
comune”.
Soprattutto
il Trattato prevedeva (Art. 38) la creazione di “un’Assemblea della Comunità
di difesa europea eletta su basi democratiche (che avrebbe dovuto) tenere in
mente che l’organizzazione definitiva che prenderà il posto dell’attuale
transitoria organizzazione dovrà essere concepita come uno degli elementi di
una futura struttura federale o confederale, basata sul principio della
separazione dei poteri, così da includere, in particolare, un sistema
rappresentativo bicamerale”.
Questo
Articolo, di importanza storica, celebra il successo della collaborazione
tra De Gasperi Le resistenze al Trattato si fecero però sentire. e Spinelli.
Al punto che, di fronte ai ritardi nell’avviare i lavori della Assemblea
della CED, De Gasperi propose che fosse l’Assemblea della CECA, di già
funzionante, a definire il progetto federale cui ricondurre entrambe le
organizzazioni. Ma la finestra dell’opportunità si stava chiudendo.
Soprattutto
in Francia, dove le conseguenze della decolonizzazione avevano polarizzato
il sistema dei partiti, ma anche in Italia, dove l’approvazione parlamentare
del Trattato fu tenuta in sospeso per negoziare concessioni territoriali
sulla frontiera orientale.
Nonostante le
formidabili pressioni americane affinché si arrivasse quanto prima ad una
autonoma capacità di difesa europea, la logica della politica interna ai
singoli Paesi conducevano in direzione opposta.
Il 30 agosto
1954, l’Assemblea nazionale francese, con un escamotage tecnico, decise di
non votare il Trattato costitutivo della CED, sotto la spinta
dell’opposizione sia della sinistra comunista che de lla destra gaullista.
Un esito che De Gasperi aveva fortemente temuto nei suoi ultimi giorni di
vita. Scrisse Spinelli nell’ottobre 1954: “De Gasperi può essere morto di
crepacuore alla prospettiva dell’imminente fine del tentativo di
unificazione europea” , quindi aggiungendo “L’epoca dei governi europeisti è
finita il 30 agosto”.
Dopo
il 30 agosto 1954
Prima
l’economia
Nonostante la
delusione comprensibile di Spinelli, in quel 30 agosto 1954 si concluse il
ciclo federalista dell’integrazione, non già quest’ultima in quanto tale. La
sicurezza europea fu appaltata all’America rafforzando la guida militare e
politica di quest’ultima all’interno della NATO (la NATO doveva servire a,
“to keep the Russians out, the Germans down and the Americans in”, gli
“americani dentro” perché essi non volevano rimanere in Europa, come
sostenuto più volte dai presidenti Truman e Eisenhower).
Il modello
che aveva in mente De Gasperi (cioè una NATO basata su tre pilastri:
americano, britannico ed europeo) fu sostituito da un a NATO basata quasi
esclusivamente sulle tecnologie, i finanziamenti e le capacità militari
americane. Non tutti a Washington D.C. furono felici di questa soluzione, ma
non ve ne era un’altra disponibile.
Il 9 maggio
1955, quattro giorni dopo la fine dell’occupazione militare da parte delle
Forze Alleate, la Germania occidentale venne accolta all’interno della NATO,
avviando una graduale politica di riarmo sotto la supervisione americana. De
responsabilizzati sul piano della propria sicurezza militare, gli europei
finirono per abbandonare la prospettiva federale.
Non oberati
dalle spese militari (trasferite ai contribuenti americani), gli stati
dell’Europa occidentale poterono utilizzare le risorse nazionali per
rafforzare le basi economiche del loro svilupp-aiuti (sempre americani)
ricevuti tra il 1948, già ricostruite attraverso gli 1952 nel contesto dello
Program European Recovery (più noto come Piano Marshal).
Da allora,
l’Europa occidentale è stata la beneficiaria di un gigantesco ‘azzardo
morale’, in virtù del quale si è garantita protezione senza pagarla. In
cambio, gli americani poterono condizionare la nostra politica interna. I
Trattati di Roma del 1957 celebrarono la nuova divisione del lavoro. Gli
americani pensavano alla sicurezza comune, noi ad un mercato comune,
divenuto quindi unico nel 1987.
Seppure nati
da accordi intergovernativi, i Trattati in questione celebrarono la visione
funzionalista dell’integrazione europea, sostenuta da Jean Monnet in
alternativa alla visione federalista di Altiero Spinelli. Si decise di
partire dal basso (dalla soluzione di specifici problemi comuni nel contesto
del funzionamento del mercato), non più dall’alto (dalla creazione di comuni
istituzioni nel contesto di un accordo costituzionale).
Per fare ciò,
venne de finito un sistema istituzionale triangolare in cui la Commissione
europea detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa, il Consiglio dei
ministri nazionali e quindi il Parlamento europeo (eletto direttamente a
partire dal 1979) approvano o rifiutano le sue proposte (direttive o
regolamenti), sotto la vigilanza della Corte di giustizia europea (CGE).
Si trattava
di un sistema sovranazionale, in quanto un ruolo cruciale veniva esercitato
da istituzione (la Commissione europea, la CGE e quindi il Parlamento
europeo) non dipendenti dai governi nazionali. Il mercato unico è stato un
grande successo, consentendo ai Paesi dell’Europa occidentale di crescere
impetuosamente (nel caso dell’Italia di diventare una potenza industriale in
meno di una generazione). An cora oggi, costituisce la condizione del nostro
benessere economico (e della nostra stabilità politica).
L’economia
non basta più
Le cose però
cambiarono con la fine della Guerra Fredda (19891991). Se nei tre decenni
precedenti, la politica di sicurezza (militare ed estera) era rientrata nei
ministeri nazionali, dopo il 1991 la divisione del lavoro stabilita a Roma
nel 1957 dovette essere rivista.
Il Trattato
di Maastricht del 1991 istituì un Pilastro intergovernativo per la Politica
estera e di sicurezza (PESC), al cui interno fu inserito (a partire dal
1999) la Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), mentre rimase
sovranazionale il Pilastro del mercato unico (chiamato Comunità economica).
Pilastri quindi ricomposti all’interno dell’Unione europea (Ue), così
chiamata ufficialmente per la prima volta. Obbligata a fare i conti con il
nuovo scenario europeo e internazionale, l’Ue accettò il compito ricorrendo
però alla logica intergovernativa. Certamente non sono mancati i tentativi
di mitigare la logica intergovernativa inaugurata a Maastricht.
Con il
Trattato di Amsterdam del 1997, ad esempio, venne formalizzata l’Alto
rappresentante per la politica estera e di sicurezza, cui il Trattato di
Lisbona del n2009 assegnerà il doppio compito di presiedere per cinque anni
il Consiglio dei ministri nazionali per gli affari esteri e
contemporaneamente di esercitare il ruolo di vicepresidente della
Commissione europea. L’obiettivo era quello di collega re la logica
intergovernativa del Consiglio dei ministri con quella sovranazionale della
Commissione europea, ma non si può dire che abbia funzionato in quanto la
prima si è regolarmente imposta sulla seconda.
Il Trattato
di Lisbona del 2009 abolì la divisione in Pilastri, ma non la logica
intergovernativa della politica estera e di sicurezza. Anzi, la rafforzò
ulteriormente riconoscendo, per la prima volta formalmente, il Consiglio
europeo dei capi di stato e di governo, cui affidare il compito di stabilir
e le grandi scelte dell’Ue.
Così, a
partire dal Trattato di Lisbona, nel contesto delle crisi multiple del
decennio successivo e sotto la pressione proveniente dai Paesi del nord e
dell’est entrati tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, l’Ue
ha registrato lo sviluppo spettacolare della logica intergovernativa, al
punto da offuscare quella sovranazionale operante nelle materie regolative
del mercato unico.
La logica
intergovernativa ha caratteristiche molto precise. Si basa sul coordinamento
volontario tra i membri dei governi nazionali (nei Consigli dei ministri
degli affari esteri e della difesa) i quali monopolizzano il processo
decisionale, relegando la Commissione europea a svolgere funzioni tecniche,
con il Parlamento europeo e la CGE collocati ai margini di quel processo.
La PESC e la
PSDC consistono di atti politici piuttosto che legislativi (come sono invece
le direttive e i regolamenti), atti poi implementati dalle rispettive
amministrazioni nazionali. All’interno dei Consigli (in particolare del
Consiglio europeo), il processo decisionale si basa sul consenso o
unanimità, così riconoscendo un potere di veto ad ogni ministro o capo di
governo rispetto alla decisione da prendere. Un potere di veto regolarmente
esercitato o minacciato da governi nazionali, come quello ungherese di
Viktor Orban o polacco di Mateusz Morawiecki.
È stato
inevitabile che l’Ue diventasse una potenza normativa, o che esercitasse
esclusivamente la sua influenza economica, vista natura intergovernativa del
suo pro cesso decisionale nella politica di sicurezza (e l’impossibilità di
usare le risorse dell’ hard power rimaste sotto il controllo dei governi
nazionali).
Certamente,
di fronte a situazioni drammatiche, come l’aggressione russa dell’Ucraina,
il Consiglio europeo è riuscito a prendere decisioni cruciali, immediate e
consensuali. Tuttavia, un processo decisionale non può aver bisogno della
eccezionalità e drammaticità di una crisi per divenire efficace. Anche le
proposte recenti di un’Unione della difesa, come quella del presidente
francese Emmanuel Macron, non fuoriescono dall’orizzonte intergovernativo.
Per il
presidente francese, si tratta di rafforzare il coordinamento militare tra
alcuni Paesi, con la Francia però destinata ad esercitare un ruolo di
leadership al suo interno. L’impegno assunto dal cancelliere tedesco Olaf
Scholz, all’indomani dell’aggressione russa, di investire cento miliardi di
euro nella difesa nazionale, così come la maggiore spesa nazionale per la
difesa, promessa da diversi governi nazionali, non aumentano le capacità
militari europee, mentre aumentano le duplicazioni, le diseconomie, le
disfunzionalità tra i vari apparti militari nazionali. Così, gli impegni a
maggiori investimenti nelle tecnologie militari non sono ricondotti ad un
progetto europeo ma si basano su consorzi bi competitivi con
l’industrotrinazionali, difficilmente ia militare americana.
Il vincolo
intergovernativo comprime le capacità militari e industriali dell’Ue, un
esito preoccupante se si considerano i cambiamenti in corso nella politica
americana. La presidenza di Trump (2017 europe2020) aveva ricordato agli i
che l’America non è più disposta a pagare per la loro sicurezza, la
presidenza Biden (pur ricostruendo un rapporto più collaborativo con noi) ha
subito chiarito che le sue priorità sono in Asia e non in Europa. Come
risolvere il problema della sicurezza europea?
De
Gasperi settant’anni dopo
La guerra
russa all’Ucraina ha sollevato il tappeto sotto il quale era stata nascosta
la questione della sicurezza dal 1954, il cui esito è stato una Europa
integrata sul piano economico ma non su quello politico e mi litare. Un
esito che De Gasperi e Spinelli cercarono tenacemente di scongiurare.
Ritornare a loro, seppure criticamente, aiuta ad affrontare il problema
della sicurezza europea settant’anni dopo.
Infatti, De
Gasperi ci ricorda che la guerra è una minaccia permanente per l’Europa
(confinando con un aggressivo regime autoritario dotato di armi nucleari),
Spinelli che tale minaccia non può essere affrontata con il coordinamento
intergovernativo. Naturalmente, non si tratta di finire nel vicolo cieco di
una nuova guerra fredda.
Il rapporto
con la Russia (o con la Cina) non dovrà sostanziarsi in un confronto
esclusivamente militare, ma dovrà preservare o promuovere tutte le occasioni
per scambi economici e culturali con loro. Tuttavia, l’Europa integrata non
deve essere più ricattabile, sul piano delle risorse energetiche o degli
scambi industriali, dai regimi autoritari.
L’interdipendenza dovrà approfondirsi al suo interno, ma alleggerirsi al suo
esterno (con i regimi autoritari). La globalizzazione dovrà divenir e
selettiva. Se la guerra è una minaccia permanente, e se l’America sta
rivolgendo sempre di più la sua attenzione in Asia, allora è necessario che
l’Europa integrata si assuma il problema di garantire la propria sicurezza.
Senza una efficace capacità di autodifesa, l’Europa integrata non potrà
difendere le sue libertà, la sua democrazia, il suo welfare.
Capacità di
autodifesa che potrà essere garantita solamente da un’organizzazione
sovranazionale. Tuttavia, contrariamente al progetto del 1952, la difesa
europea non dovrà basarsi sulla fusione delle difese nazionali, bensì dovrà
caratterizzarsi come un nucleo di capacità e risorse che si aggiunge a
queste ultime, con lo scopo garantire la difesa collettiva.
Gli stati
possono conservare le loro difese nazionali per fronteggiare sfide locali,
anche se esse dovranno essere razionalizzate così da non ostacolare la
difesa comune. La difesa europea dovrà agire in coordinamento con la NATO,
come sostenuto con insistenza da De Gasperi.
Essa dovrà
riflettere la visione strategica dell’Europa integrata, cui dovrà
corrispondere una politica industriale europea per tecnologie di rilevanza
militare. L’autonomia strategica dell’Europa integrata richiederà la
costruzione di un’autorità di politica estera, così come la di fesa comune
richiederà l’esistenza di un’autorità di politica militare.
Nello stesso
tempo, non si potrà parlare di una politica estera e di difesa europee senza
la creazione di un budget europeo con cui sostenerle, alimentato da risorse
fiscali autonome e non da trasferimenti finanziari nazionali.
L’autonomia
strategica implicherà anche la necessità di parlare con una voce singola
all’interno delle organizzazioni internazionali, a cominciare dal Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite. Come sottolineato da Spinelli e condiviso
da De Gasperi, le nuove autorità di politica estera e di difesa dovranno
essere parte di un’unione politica più ampia che garantisca la loro
legittimità democratica, oltre che il loro rendiconto politico.
Oggi sappiamo
ciò che non era evidente nel 1952, ovvero che un’unione politica non
abbisogna di divenire uno stato per poter esercitare i suoi compiti
autoritativi. Essa dovrebbe acquisire le caratteristiche di un’unione
federale, non già di uno stato federale (come auspicava Spinelli nel 1952).
Infatti, uno
stato federale che organizza la vita di centinaia di milioni di abitanti
condurrebbe ad una accumulazione di potere tale da minacciare le libertà
individuali. Per questo motivo, un’unione federale assegna al centro
federale competenze esclusive solamente sulle materie che riguardano la
sicurezza collettiva, riconoscendo agli stati federati competenze su “tutto
il resto”.
Naturalmente,
tale distribuzione sarà oggetto di continua negoziazione tra i livelli di
governo, richiedendo la disponibilità di questi ultimi al costante
compromesso. Sia i governi federati che le autorità federali dovranno essere
legittimati elettoralmente, oltre che supervisionati dalle rispettive corti
costituzionali.
Come De
Gasperi aveva chiaro, l’unione tra stati non implica la soppressione del
sentimento nazionale. “Badate bene che quando diciamo che non siamo
nazionalisti (…) non diciamo qualche cosa che limiti le nostre forze reali,
che diminuisca, comprima e deprima il nostro sentimento nazionale” (Senato
della Repubblica, 15 novembre 1950).
Nel nostro
caso, l’unione federale richiede identità multiple, non già la sostituzione
di un’identità nazionale con un’identità europea. Seppure siano l’esito di
un’invenzione, gli stati europei hanno profonde radici nei simboli e nelle
relazioni dei loro cittadini.
Non si tratta
di cancellare una storia, ma di aggiungerne un’altra, creando una
cittadinanza europea di nazionalità distinte. Il nazionalismo è
incompatibile con l’unione federale, ma non lo sono le identità nazionali
intese come sistemi aperti di esperienze e memorie.
L’identità
europea, invece, dovrà basarsi necessariamente sulla condivisione di valori
politici, gli unici che possono unire vicende culturali o religiose diverse.
Ciò che dovrà tenere insieme l’unione federale è la condivisione dei
principi liberali dello stato di diritto e delle libertà individuali e i
principi della divisione dei poteri che garantiscono la democrazia politica.
Sappiamo che
diversi governi nazionali dell’Europa integrata (nell’Europa dell’est) non
condividono quei principi. Sappiamo anche che altri governi nazionali
(dell’Europa del nord) hanno aderito all’Europa integrata per ragioni
esclusivamente economiche, ed altri governi nazionali (nei Balcani
occidentali) vi aderirebbero per ragioni opportunistiche. L’unione federale
non emergerà da uno sviluppo biologico, né potrà dipendere dalle
idiosincrasie dell’uno o dell’altro governo nazionale.
Come sostenne
De Gasperi nel 1952 (Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, 15
settembre), un’unione tra stati richiede un preliminare atto “di volontà
politica (…) per realizzarsi”, un atto attraverso il quale gli stati
coinvolti riconoscono che vi sono sfide che non possono affrontare da soli.
È poco plausibile raccogliere tali differenti visioni dell’Europa
all’interno di un unico progetto istituzionale. Occorrerebbe, piuttosto,
organizzare contenitori diversi per visioni diverse. Non mancano le
proposte.
E’ possibile
ipotizzare l’esistenza di: una comunità degli stati europei confederazione
allargata a buona parte agli stati del continente che, basata su un
Consiglio dei capi di , una governo, affronta temi come l’energia, i
trasporti, la ricerca; una coincidente con gli stati che oggi condividono il
mercato comune comunità economica, e ne rispettano il sistema sovranazionale
triangolare; una unione federale, una federazione europea costituita dai
“Paesi del 1952” più quelli che ne condividono l’ispirazione federale (come
la Spagna), cui devolvere il governo delle politiche di sicurezza (da quella
militare a quella monetaria).
Il futuro
dell’Europa dovrà essere plurale.
In
conclusione, l’europeismo di De Gasperi e Spinelli parla al futuro
dell’integrazione, non solo al suo passato. Esso dovrebbe caratterizzare
l’orizzonte della politica italiana, indipendentemente dai governi in
carica, in quanto ci ricorda che fuori dall’Europa non c’è un futuro per
l’Italia.
*
La Lectio degasperianaè
il grande evento pubblico che la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi,
d’intesa con l’Istituto Sturzo di Roma, organizza per onorare la memoria
dello statista trentino nel suo paese natale nei giorni dell'anniversario
della sua morte. Il 18 agosto pomeriggio, qualificati relatori si danno
appuntamento a Pieve Tesino, il paese natale di De Gasperi. Ogni anno un
tema inedito e una figura d’eccellenza per approfondire aspetti della storia
italiana e trentina, della figura dello statista, della democrazia.
** Sergio
Fabbrini (Pesaro, 1948) è Direttore del Dipartimento di Scienze
Politiche, Professore di Scienze politiche e relazioni internazionali e
Intesa Sanpaolo Chair on European Governance presso l’Università LUISS Guido
Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government dal 2010 al 2018.
Fondatore e Direttore della School of International Studies dell’Università
degli Studi Trento dal 2006 al 2009, è stato Pierre Keller Professor presso
la Harvard Kennedy School of Government nel 2019-2020. È Recurrent
Visiting professor presso la University of California di Berkeley (USA).
Ha
insegnato in diverse università degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone,
dell’America Latina e dell’Europa. È stato Jemolo Fellow presso il Nuffield
College di Oxford e Jean Monnet Chair Professor presso il Robert Schuman
Center for Advanced Studies, European University Institute, di Fiesole,
Firenze, e Direttore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” dal 2004
al 2009 (il primo direttore dopo Giovanni Sartori che l’ha fondata nel
1971). È autore e curatore di decine di volumi e di centinaia di saggi
scientifici, tradotti in sette lingue, che gli sono valsi diversi premi
scientifici internazionali e nazionali. È inoltre editorialista del
quotidiano Il Sole 24 Ore; impegno per il quale è stato insignito nel 2017
del Premio Altiero Spinelli che gli è stato consegnato a Ventotene. Nel
2021-2022 è stato membro del Comitato Scientifico della Conferenza sul
futuro dell’Europa, nominato dal Governo Draghi, di cui ha presieduto il
Gruppo su “Democrazia e Stato di Diritto in Europa”. Dal 2020 è Special
Advisor del Commissario europeo Paolo Gentiloni per i temi legati alla
riforma della governance europea. È considerato a livello internazionale uno
dei maggiori studiosi di Scienza politica.
***
Lectio degasperiana
2022
Ricordo di
Maria Romana De Gasperi
Una
De Gasperi
Intervento
del Presidente della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi Giuseppe Tognon
in ricordo di Maria Roma De Gasperi (1923 -2022) in occasione della Lectio
degasperiana 2022, pronunciato a Pieve Tesino del 18 agosto 2022
La figura paterna ha
attraversato ogni fase della lunga e travagliata vita di Maria Romana De
Gasperi, scomparsa quest’anno a 99 anni.
La grandezza
di Alcide De Gasperi è nella storia, eppure ciò che la sua figlia
primogenita ha fatto per curarne la memoria è qualche cosa che va al di là
dell’affetto per un padre.
È stata una
missione e una prova di coraggio. Nata a Trento nel 1923, pochi mesi dopo la
Marcia su Roma e l’avvento di Mussolini, l’infanzia di Maria Romana si
sviluppò tra le ansie per la persecuzione a cui il regime condannò il padre.
Dal carcere
lui le scriveva lettere colme di affetto. Ricordando quegli anni ebbe però a
dire che le rinunce e le preoccupazioni dei suoi genitori non impedirono a
lei e alle sorelle Lucia, Lia e Paola di crescere in un contesto amorevole e
fiero, capace di trovare conforto nell’affetto familiare oltre che nella
fede.
E per
cogliere i sentimenti di gioia e di riconoscenza verso la vita che abitavano
la famiglia dello statista basta rileggere il delizioso racconto della
storia di famiglia che Lia De Gasperi ci ha consegnato in una conferenza a
Torino di alcuni anni fa (che è in rete con il titolo di racconta) o il
delicato libro di Paola De Gasperi Alcide e Francesca Cecilia De Gasperi del
2020, sul rapporto tra due personalità speciali quali furono i loro
genitori.
La moglie
Francesca e Maria Romana arrivarono a Roma nel 1929, nel modestissimo
monolocale che Alcide si poteva permettere con il povero stipendio da
minutante nella biblioteca vaticana dove, dopo l’esperienza del carcere,
mani e menti amiche lo avevano rifugiato. Crescendo, Maria Romana decise di
mettersi al fianco del padre, quasi per proteggerlo: dopo la caduta del
fascismo, nel bel mezzo dell’occupazione nazista di Roma iniziò a
collaborare alla sua attività politica, agendo come staffetta tra il padre e
il gruppo di ex popolari che in clandestinità stava dando vita alla
Democrazia Cristiana.
Si laureò nel
frattempo in Lettere alla Sapienza. Il padre ne aveva stima e fiducia, tanto
da volerla con sé come segretaria particolare una volta divenuto Presidente
del Consiglio nel 1945. Seguì il padre in molti viaggi in Italia e
all’estero, incluso quello famoso negli Stati Uniti del 1947 che segnerà
nell’orbita atlantica l’ingresso dell’Italia. De Gasperi a Roma viveva in
casa con sette donne. La moglie, la sorella Marcella che era venuta a stare
con le nipoti quando erano morti i genitori, le quattro figlie e la tata.
Nel 1947 Maria Romana si è sp osata e Lucia è entrata in convento per farsi
suora. Maria Romana sposò l’ingegner torinese Piero Catti, fratello di
Giorgio, partigiano che cadde nella Resistenza e a cui è dedicato un Centro
Studi a Torino.
Era, quello
del marito, un gruppo di amici antifascisti appassionati di montagna. Ha
avuto tre figli, Giorgio, morto giovane in Francia per un incidente, Paolo e
Maurizio, scomparso nel 2017. Ha avuto quattro nipoti diretti. Appena
sposata ritornò a vivere a Trento, stare vicino al padre la spinsero a ri ma
il richiamo di Roma e il desiderio di prendere la via della capitale. A
Trento conserva un ristretto ma fedele gruppo di amici.
La storia di
questa donna speciale e il suo rapporto con il padre ci apre uno squarcio
prezioso su ciò che un bravo giornalista, Aldo Cazzullo, ha definito “una
delle poche rivoluzioni riuscite che l’Italia contemporanea abbia vissuto”:
la rivoluzione affettiva tra padri e figlie.
Non si è
ancora conclusa ma ha radici solide. Alcide De Gasperi fu un esempio di
padre ‘nuovo’, non più solo padrone, ma uomo che non si vergognava dei
propri sentimenti e, pur nel poco tempo che gli rimaneva, seguiva con
passione e partecipazione anche infantile la crescita delle figlie.
Quando il
padre morì, il 19 agosto 1954, nella piccola casa d i Sella in Valsugana,
Maria Romana si sentì investita di una nuova missione: custodirne la memoria
di fronte a un Paese che con facilità innalza agli altari e ancor più
facilmente dimentica.
Tanto più
avendo visto 2con quanta sofferenza suo padre alla fine della sua vita
dovette piegarsi sotto le scalpitanti ambizioni di un ceto politico che
forse non aveva capito quanto dura fosse la lezione della storia. Mentre la
stessa Democrazia Cristiana sembrava abbandonare al passato il profilo
ingombrante del suo fondatore, giudice implacabile da vivo e da morto della
politica italiana, Maria Romana, con il sostegno della madre Francesca, che
sopravvivrà molti decenni al marito, si immerse tra migliaia di carte e
documenti che raccolse silenziosa da archivi e fondi pubblici e privati,
traendone la prima vera biografia paterna, uscita nel 1964 con il titolo De
Gasperi uomo solo. Poi per anni pubblica raccolte di documenti, saggi e
interviste.
E se anche
talora la passione e l’immedesimazione con la figura del padre prevale sui
criteri filologici e storiografici, è difficile dire cosa sarebbe oggi la
memoria di Alcide De Gasperi senza l’opera di Maria Romana. Molti studiosi
hanno contratto con lei debiti di gratitudine.
Ma molti
altri hanno preferito rimanere ai margini, senza capire che la sua fatica e
il suo impegno avevano bisogno che intorno alla figura di De Gasperi
crescesse davvero una coscienza collettiva per l’impegno civile e per un
ideale federalista europeo. È ciò che la nostra piccola fondazione trentina,
operativa dal 2008, ha ricevuto come compito.
Sarebbe
sbagliato però ricordare Maria Romana De Gasperi solo come biografa e
vestale di suo padre. All’attività editoriale accompagnò un’intensa attività
di animazione civile. Percorse il Paese incessantemente da Nord a Sud, per
parlare del padre e della sua lezione democratica ed europeista.
Non le
mancava certo la capacità di narrare e di arrivare al cuore delle persone,
grazie anche a quell'eleganza e compostezza che faceva specchio all'immagine
del padre. Fino agli ultimissimi tempi, nonostante l'età, non viene meno a
questo dialogo con il suo tempo, curando anche la rubrica settimanale su
“Avvenire” a cui tanto teneva.
La sua figura
di testimone degasperiana visse sempre al di fuori dalla vita dei partiti,
rifiutando di essere eletta. Diceva che per servire il bene comune talvolta
è preferibile fare un passo indietro. Rimase fedele agli ideali politici
paterni, o almeno a quelli che lei valutava essere fondamentali.
De Gasperi
non ha eredi politici, e questo è chiaro, ma l’unicità del personaggio, che
è consegnato alla storia, non ci impedisce di cogliere nel suo stile e in
quello di Maria Romana sfumature che hanno anticipato la rinascita di una
Italia nuova, più libera e autonoma anche nella condizione femminile e
nell’esercizio dei diritti e dei doveri civili.
Il Trentino,
culla di molte storie nazionali ed europee, ha il dovere di essere in prima
fila nel testimoniare che grandi ideali e grandi capacità possono sorgere e
rivelarsi anche in piccole patrie, così come piccole patrie posso ambire ad
esercitare un ruolo propulsivo solo se inserite in un contesto sovrastatale
più ampio. Nella concezione degasperiana della storia essere minoranza non
era una condizione di inferiorità ma piuttosto di forza, se si era animati
da coraggio e visione.
Maria Romana,
donna tenace, devota figlia amatissima, biografa di uno straordinario uomo
pubblico ma anche di un padre e di una famiglia ricca di sentimenti gentili,
riposerà in pace quando vedrà che sotto le ceneri della storia ardono
comunque le braci di una umanità che fa dell’ospitalità, del rispetto
reciproco e del confronto pacifico un dovere quotidiano oltre che cristiano.
RICCARDO MISASI,
POLITICO DEMOCRISTIANO DI ELEVATE QUALITÀ, NEL RICORDO DI CHI LO HA CONOSCIUTO.
Nel volume appena pubblicato da Rubbettino (Riccardo
Misasi. Un tributo) sono raccolte le
testimonianze sul politico calabrese scomparso nel 2000. Tra le varie abbiamo
scelto di pubblicare, per gentile concessione, quella di Bonalberti.
Voglio ringraziare l’amico prof. Pino Nisticò, già presidente della Giunta
regionale calabrese, per aver voluto e curato questa raccolta di testimonianze
sulla figura di Riccardo Misasi, uno dei più autorevoli esponenti della terza
generazione democratico cristiana.
Ricevute
alcune copie del libro ho iniziato a leggere il saggio con passione, al punto
che, ogni volta che interrompevo per una pausa, non riuscivo a stare in riposo
se non per qualche minuto, stimolato a riprendere immediatamente le riflessioni
e i ricordi che tanti amici DC calabresi e non solo hanno voluto scrivere sul
loro leader politico e amico.
Amici
della sua corrente o appartenenti ad altre della costellazione interna
democristiana, hanno espresso tutti il ricordo delle loro esperienze vissute
insieme a Misasi, considerato unanimemente una personalità di grande spessore
umano, culturale e politico, che, giustamente suo figlio Maurizio ha
sintetizzato in una splendida immagine, quella di una persona che “ha concepito
la politica come un servizio all’Uomo e alla sua libertà”. Una personalità che
come è scritto nel motto della Fondazione a lui intestata è: “guardare al
futuro con cuore antico”.
Sì
l’On Misasi questo seppe indicare a tutta la comunità democratico cristiana
calabrese, ossia la capacità e la volontà di “guardare al futuro con cuore
antico”. Lui che, alla Cattolica di Milano con gli amici che, dopo pochi anni, a
Belgirate con Albertino Marcora, Ciriaco De Mita, Gerardo Bianco, Luigi Granelli
e Giovanni Galloni, concorse alla fondazione della corrente DC della Base,
dotato di una cultura straordinaria storica, sociologica, filosofica, giuridica
e politico istituzionale, mise a capo degli obiettivi della sua azione
politica, il riscatto della sua terra dalle condizioni di isolamento e di
arretratezza. A lui, infatti, si devono molte delle istituzioni che con la sua
attività politica da ministro e parlamentare seppe realizzare in Calabria:
dall’università della Calabria (Unical) ad Arcacavata di Rende (Cosenza), del
CUD (Università a distanza) del progetto Telcal (Telematica Calabria) e di
numerose altre scuole prima assenti nel territorio, sempre coerenti con la linea
della promozione umana e sociale con particolare riguardo ai giovani. La cultura
come strumento di elevazione della condizione di emarginazione dei giovani della
sua terra.
Commovente la testimonianza del suo amico e concorrente politico nel partito, il
compianto Carmelo Pujia, l’uomo forte dell’area dorotea, che finì col formare un
sodalizio fortissimo, una sorta di due dioscuri calabresi: l’uno, Pujia,
impegnato soprattutto sul fronte locale e regionale e l’altro, Misasi, su
quello nazionale dove, oltre agli incarichi ministeriali, durante la segreteria
nazionale dell’On De Mita, assunse il ruolo di capo della segreteria politica
prima nel partito e di sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo
presieduto dal leader avellinese. Un ruolo di dominus che, in un mio intervento
al consiglio nazionale della DC amichevolmente paragonai a quello di un
“Minosse”, colui che, nelle nomine consigliava De Mita con l’autorevolezza di
chi “giudica e manda secondo ch’avvinghia”.
Chi,
come me, ha potuto conoscerlo e frequentarlo nelle occasioni dei lavori del
consiglio nazionale del partito, non può dimenticare i tratti del carattere di
Misasi, ben descritti nel libro. Quelli di un uomo sapiente, dai tratti gentili
e sinceri sempre ispirati dalla volontà di concorrere all’equilibrio e alla
ricomposizione dei contrasti; un politico che nei suoi interventi rivelava una
capacità di eloquenza che lo rendeva unico tra i molti esponenti politici della
DC. Fu proprio grazie a un suo appassionato intervento al congresso nazionale
della DC del 1964, insieme a quelli dell’On Carlo Donat Cattin, che,
diciannovenne, scelsi di militare nella sinistra allora unita della DC e per
tutto il resto della mia vita.
Di
Misasi, al fine di comprendere la statura morale, culturale, giuridica e
politica dell’uomo basterà ricordare, con le opere da lui promosse come
l’apertura dell’università anche ai figli delle classi meno abbienti provenienti
dagli istituti medi superiori e l’avvio dell’università della Calabria e delle
due facoltà di farmacia calabresi, l’essere stato l’interlocutore privilegiato
di Aldo Moro. Fu, infatti, Riccardo Misasi, il politico democristiano cui Moro
dal carcere delle BR inviò la lettera nella quale chiedeva di intervenire nella
DC, con tutte le argomentazioni giuridiche e politico istituzionali insieme a
quelle etico morali più opportune per favorire la sua liberazione. Sarà il più
grande cruccio di Misasi quello di non essere riuscito a far prevalere quelle
indicazioni e a convocare, su delega ricevuta dallo stesso Moro, il consiglio
nazionale del partito. Prevalse, ahinoi, la linea della fermezza e con la morte
di Moro si aprì la lunga stagione del declino e della fine politica del nostro
partito.
Edito
da Rubbettino, questo tributo a Misasi curato da Pino Nisticò, mi auguro avvii
una serie di studi e approfondimenti su coloro che nei diversi territori
regionali e in sede nazionale sono stati i rappresentanti più autorevoli dei
loro elettori e del nostro partito. Da parte mia, con l’amico Mario Tassone e
alcuni autorevoli professori di storia dell’università di Padova abbiamo
promosso il comitato 10 Dicembre 2021 che, tra i suoi obiettivi, ha proprio
quello di approfondire lo studio delle figure più autorevoli della DC veneta. Un
obiettivo che la DC dovrebbe far proprio in tutte le nostre realtà locali, anche
per superare la damnatio memoriae con cui una pubblicistica radicale, laicista e
anti DC, ha sin qui relegato la nostra storia politica e amministrativa.
L’on. Riccardo Misasi è stato
ricordato nella Sala Nassarya del Senato per iniziative della Associazione
Pericles presieduta dal prof. Pino Nisticó.
Moltissime le presenze.
In tutti gli interventi la figura del parlamentare e dell’uomo di governo
cosentino è stata posta nella giusta luce.
Molte considerazioni sono uscite dalla ritualità delle frasi fatte.
Nel mio intervento ho inteso raffrontare la stagione in cui ha vussuto e operato
Riccardo con l’oggi.
Allora c’era la politica, l’orgoglio dell’appartenenza, la voglia di
partecipare,il forte desiderio di contribuire ;oggi c’è l’attendismo che è il
contrario dell’assunzione della responsabilità.
Oggi i pensieri seguono gli schematismi di linee preordinate da chi gestisce e
non sono il prodotto di una pluralità di apporti.
Nei partiti,nel l’associazionismo nasceva la classe dirigente, nel libero
pensiero e nelle visioni nuove si allargava l’area della democrazia.
Misasi fu un uomo generoso che nella politica espresse le sue grandi capacità
che mise a disposizione della collettività.
Fu un Uomo di fede,di passione.
Il lascito morale di Riccardo è la coerenza che stride con i tanti
opportunistici traslochi di oggi e l’approccio ai problemi fatto con calore.
Riccardo Misasi ha dato molto a tanti amici.
Ma alla fine fu lasciato solo quando aveva bisogno dì solidarietà in un momento
in cui la macchina del fango era stata attivata per uccidere un Uomo giusto.
La giustizia ha vinto sulle tante miserie di una lotta politica fatta per
demolire l’avversario inteso come nemico.
Oggi possiamo raccogliere tanto dalla vita terrena di Riccardo Misasi:
l’orgoglio di essere stati Democratici Cristiani.
Prendiamo il coraggio di riportare nell’attualità l’impegno unitario del
popolarismo e dei cristiani democratici.
Il ricordo di Misasi è vero se ci convinceremo che quel Suo mondo politico che
fu di tanti, va recuperato perché ideali e valori siano guida di una società
sofferente. Mario Tassone
L'ultimo discorso di La Pira ai
giovani de «La Vela»
articolo del 04/11/2017 di Redazione Toscana Oggi
Come ogni anno, anche alla vigilia di Ferragosto del 1975 l’ex sindaco di
Firenze parlò di pace ai giovani in vacanza al villaggio di Castiglione della
Pescaia. Non l’avrebbe più fatto: e oggi quelle parole sono di nuovo quanto mai
attuali. Quello che presentiamo è tratto dalla sbobinatura del discorso, ancora
inedito, che La Pira fece quel 13 agosto 1975 a La Vela.
Il
13 agosto 1975 fu l’ultima volta che Giorgio La Pira parlò ai «giovani di Pino»,
al campo-scuola al Villaggio «La Vela» di Castiglione della Pescaia (Gr).
Nell’estate seguente le sue condizioni di salute erano già precarie e saltò
quello che era ormai diventato un appuntamento consueto alla vigilia di
Ferragosto con il turno dei «più grandi». Non volle mancare invece al
tradizionale pellegrinaggio a Roma del 3 novembre, che dal 1972 aveva come meta
San Pietro, con la Messa e l’udienza dal Papa, e poi nel pomeriggio la visita ad
un luogo storico, relativo al percorso di studio che i giovani – sotto la guida
di don Ferdinando Manfulli – avevano fatto nei giorni precedenti a Firenze:
dall’«Ara pacis» all’Arco di Costantino, dalle catacombe a Castel Sant’Angelo...
Ad illustrarne il senso, all’interno della sua visione teleologica e bipolare
della storia, era sempre La Pira. Fino a quel 3 novembre 1976, quando le forze
rimaste gli permisero solo di partecipare alla Messa e all’udienza di Paolo VI
al mattino per poi rientrare a Firenze e lasciare le spiegazioni storiche in
piazza del Campidoglio all’amico Fabrizio Fabbrini.
I
suoi incontri con i giovani dell’Opera venivano sempre registrati (anche se non
tutti ci sono poi rimasti). Il testo inedito che pubblichiamo in queste pagine è
parte della sbobinatura del suo ultimo incontro a «La Vela», quel 13 agosto
1975. Davanti a lui, con Pino Arpioni, oltre cento giovani dai 17 anni in su. Il
professore parte, come era solito fare, dai «segni dei tempi», dai grandi
avvenimenti mondiali di quegli anni (come i colloqui tra Ford e Breznev, la
Conferenza di Helsinki, l’Anno Santo voluto da Paolo VI) per poi tracciare un
bilancio del cammino compiuto proprio con i giovani dell’Opera Villaggi per la
Gioventù, che dopo la morte del Professore si chiamerà appunto Opera «La Pira».
Una riflessione che a distanza di oltre 40 anni mantiene tutta la sua attualità
proprio nel momento in cui torna lo spettro di un possibile conflitto nucleare.
Claudio Turrini
La frontiera dell'Apocalisse
Questa è la situazione, il
contesto storico di questo momento, oggi 13 agosto 1975. (…) 6 agosto 1945:
trent’anni dopo la prima atomica, che era di 0,0015 megatoni. (...) Il primo
problema è l’atomica. Perché essa è veramente il problema della vita o della
morte del genere umano e dello spazio.
Che si è fatto in questi
trent’anni?
Abbiamo cercato di eliminarlo, di
non pensarci, per non aver dubbi di coscienza. È come un debitore che ha molti
debiti: cerca di non pensarci. (…)
Tutti i problemi, politici, culturali, spirituali, sono tutti legati a questa
frontiera dell’Apocalisse. O finisce tutto, o comincia tutto. O eliminare
l’atomica o saremo tutti quanti eliminati globalmente, in un contesto atomico.
Contesto spaziale… Chi di voi non sa quello che è avvenuto? L’incontro
tra Apollo e Soyuz. Che senso ha? Le stalle del cielo sono aperte. Voi
potete tirare una bomba atomica di lassù… Quanti mutamenti dall’anno passato a
quest’anno: già un milione di megatoni – 0,0015 quella di Hiroshima.
Poi il contesto politico. Parliamoci francamente… Qualunque sia
l’intenzione, non conta… Il fatto è che Urss e Stati Uniti, Ford e Breznev,
hanno stabilito un ponte. L’unità del mondo almeno su questo piano atomico e
spaziale è già realizzata. Poi, la Conferenza di Helsinki, una cosa incredibile,
come mai sia avvenuta. Perché non è soltanto europea: l’Europa unita e con essa
l’America, il Canada… tutto il mondo. E a capitano di questa conferenza europea
chi c’è? C’è Paolo VI. Non c’era mai stato che la Santa Sede avesse una funzione
motrice e definitoria nelle conferenze internazionali. Che senso ha?
Poi finalmente la componente spirituale. Supponiamo – confratelli – che lo
Spirito Santo esista – ed esiste –, la ragion d’essere della Trinità è tutta
qui, in qualche maniera. Poniamo che la Chiesa – Pietro – abbia la sensibilità
di afferrarne il movimento. E bandisce l’Anno Santo con questa specifica
definizione: l’anno in cui il genere umano viaggerà – è rivolto ai giovani –
verso il porto escatologico. Quindi inevitabilmente sei chiamato… La terza età. Qual
è questa terza età? L’età dello Spirito Santo. Che significa età dello
Spirito Santo? L’età in cui fiorisce… L’età in cui o avviene la distruzione
della terra, l’età atomica, del cosmo o non avvenendo questo avviene un’altra
cosa, che è la fioritura della terra. Quaggiù l’anno del millennio. Che
significa la pace universale? Il testo di Isaia: la pace universale, le armi
cambiate in aratri, la giustizia in qualche maniera attuata tra tutti i popoli
della terra e una cultura (...). Il nostro tempo, se voi lo analizzate
culturalmente e spiritualmente, lo troverete fermentato da queste varie
componenti, teso verso la pace universale – Isaia –, verso l’unità di tutti i
popoli della terra – lo stesso Isaia –, il disarmo inevitabile – lo stesso Isaia
– , e la contemplazione dei grandi misteri della Chiesa e della storia.
Inevitabilmente, non c’è niente da fare.
Supponiamo quando ci vedremo il prossimo anno – inshallah –, fra due
anni, fra tre anni… e voi ci riflettete, vedrete come c’è questo cammino sempre
crescente, sempre verso un porto, il porto escatologico, che è il porto finale
sulla terra, della fioritura del mondo.
Il punto in cui siamo, da dove veniamo, è un punto interessante è il punto
dell’Apocalisse. L’Apocalisse ha due volti: il volto della distruzione
totale e il volto della ricostruzione totale.
Da dove veniamo? Con questa barca che ha come capitano te (Pino), come
bandiera la Vela… In questi anni si è fatto un discorso organico, non a caso. Quali
sono le tappe che abbiamo attraversato?La prima tappa è quando
abbiamo difeso la persona: una lettera fatta a te «Caro Pino» (pubblicata sulla
rivista dell’Opera, «Prospettive», ndr). Qui tutti parlano… ma la persona
chi è? Cos’è questo individuo? E abbiamo affermato che questa persona ha senso,
questo individuo ha senso, se è su una barca ancorata a uno scoglio. E questo
scoglio è soprannaturale, senza di che si spezza, si sbanda, una nave sbandata.
E noi abbiamo contestato questa nave sbandata.
La seconda tappa di questo cammino che abbiamo fatto: i punti fermi. Cioè
questa nave che cammina ha una bussola, dei punti fermi, punti fissi, stelle
fisse che non mutano con il mutare degli eventi? Sì. E quali sono? Quattro.
Noi abbiamo affermato, contestando i punti mobili, che vi erano dei punti
immobili, delle stelle fisse attorno a un punto Omega. Noi crediamo la scelta
del Messia di Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente; la
scelta della Samaritana: Dammi da bere, l’acqua, la Grazia che integra ed
eleva la persona umana; la scelta di Cesarea: Tu sei Pietro, e su questa
pietra…; e la scelta di Isaia, che è quella di Nazareth: Sono venuto a
liberare gli oppressi. Queste quattro scelte sono i quattro punti immobili
verso i quali viaggia sempre inevitabilmente come la bussola la nave che noi
abbiamo, questa nave con questa Vela.
Poi non solo. Poi siamo andati a Roma e abbiamo fatto tre viaggi: nell’uno
abbiamo fatto l’asse tra Pietro e Augusto, l’Ara Pacis... La seconda Pietro e
Costantino. La terza Pietro e Giustiniano (Cesare fui e son Giustiniano).
E poi continua… E arriva fino ad oggi: Pietro e Helsinki. Il telegramma che
abbiamo fatto per la cosa di Helsinki dice così: «Questa nave della pace, che è
stata disegnata nelle capitali europee, che è stata costruita nel cantiere di
Helsinki, e che levata l’ancora è scesa nell’oceano della storia». E poi,
finalmente, indicando che cosa? Che la storia ha una sua finalità, suprema,
imbattibile, invincibile – la teleologia della storia – che ha un suo fondo, è
bipolare: per un verso la Chiesa e per l’altro l’impero. La tesi di Dante. Che
c’è una storiografia del profondo. E finalmente questa fioritura del mondo e il
porto escatologico. Questa è stata la seconda tappa. Prima tappa la persona,
seconda tappa la storia. E questa è l’ultima tappa. Dove si va? Si
va verso la fine, il porto escatologico, che è caratteristico dell’Anno Santo,
che orienta tutto l’Anno Santo, in cui noi ci includiamo.
Ora ragazzi, questo è il problema vero. Siamo in navigazione, tenuti tutti a
dare un colpo di remo a questa nave. Per condurla dove? Verso il porto
escatologico. Come si dà questo colpo di remo? La forza fondamentale è la
preghiera, l’unione con Dio, interiore, l’uomo interiore, che muove qualunque
cosa. Qualunque cosa voi chiederete vi sarà dato… Quindi aiutare tutti gli
sforzi perché la nave arrivi in porto. Non è facile perché le tentazioni nemiche
sono tali, perché le difficoltà terrestri sono tali, economiche, finanziarie,
politiche. Perché bisogna ridurre questo mondo a una unità. Come un’unica
famiglia che ha Dio per Padre. La Chiesa è orientatrice. E tutti noi per
fratelli, senza distinzione di classe… L’unica forza motrice… Tenendo conto che
c’è ancora da imbarcare Israele, tutto; tutti i non credenti, tutti, di
qualunque denominazione siano; tutto il terzo mondo, la Cina. Tutti i popoli
imbarcati verso la pienezza degli ebrei e degli arabi, la famiglia di Abramo, e
verso la pienezza dei gentili, tutti i popoli della terra.
Dice: ma è possibile? Non c’è altro. San Paolo nella Lettera ai Romani lo
dice in maniera esplicita, chiara: Pienezza degli ebrei e pienezza dei
gentili. Questa barca deve fare questo viaggio, inevitabilmente. E ciascuno
di noi è corresponsabile di questo viaggio. La può aiutare con la sua vita
interiore e con la sua azione a tutti i livelli, politica, economica, culturale
e spirituale. Non possiamo dire: «Sa, io non c’ero». Lei c’era. Perché o affonda
anche per te o fiorisce anche per te. (...) Il discorso che fece Kennedy, nel
’61: diecimila anni di pace o la terra ridotta a un braciere, è vero oggi più di
ieri, inevitabilmente. Isaia, ogni giorno più diventa lo storico contemporaneo,
la lettura attraverso questa lente degli avvenimenti che si svolgono davanti a
noi. E noi tutti coimbarcati, con maggiore o minore responsabilità. (...) Per
dare alla terra questa fioritura che poi alla fine è il regno millenario di
Cristo, quaggiù.
26.05.2022 - E' morto stamani ad
Avellino Ciriaco De Mita all'età di 94 anni. In ricordo dell'ex Presidente del
Consiglio ed ex Segretario della Democrazia Cristiana, pubblichiamo un articolo
di Gerardo Bianco, scritto per il "Quotidiano del Sud". In questo testo di
Bianco, i ricordi personali si mescolano alla ricostruzione del profilo
politico e culturale di De Mita, uno dei più significativi ed influenti
esponenti della vita democratica e repubblicana del dopoguerra.
Ecco l'articolo:
De Mita e l’“intelligenza della
politica”
«La politica è conoscere le vicende e dominarle con l’intelligenza», così De
Mita apriva il suo discorso al XV Congresso della Democrazia Cristiana che lo
elesse Segretario del Partito.
È stata questa la sua costante convinzione: la politica intesa, appunto, come
ragionamento, “freddo e lucido” continuava a dire, per capire gli eventi e
trovare le appropriate soluzioni.
Ciò significa creare “nuova statualità”, in grado di canalizzare armonicamente
la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole da tutti
condivise.
La politica per De Mita, la grande passione della sua vita, è, quindi,
soprattutto, cultura delle istituzioni.
Se dovessi indicare una data per l’origine, o comunque la “messa a punto” di
questa visione della politica come progressiva costruzione e cura dello Stato
democratico, risalirei agli anni della sua formazione universitaria nella
Cattolica di Milano. Siamo nell’aureo quinquennio degasperiano, tra il 1949 e il
1953. De Mita approdava a Milano avendo già esperienza associativa e politica;
conosceva Fiorentino Sullo, l’indiscusso e innovatore leader democristiano
dell’Irpinia, era convinto per le sue letture, che bisognava superare lo Stato
liberale, ma è nella vivace e raffinata facoltà giuridica della Cattolica,
nell’insegnamento del suo maestro Domenico Barbero e dei dialoghi inesausti,
anche notturni, con noi puntigliosi colleghi dell’Augustinianum, che egli andò
precisando il suo pensiero politico come costruzione costante di regole
ampiamente condivise, ma con grande attenzione alle trasformazioni in atto di
una società “ribollente” come quella post-bellica, che andavano ben
interpretate.
Siamo agli albori dei primi anni ’50 del secolo scorso e dei primi slanci vitali
di una rinascita, appunto, dopo la distruzione fascista, che si manifestava a
Milano in modo particolarmente vigorosa. Continue erano le scoperte e le
innovazioni, dalle mostre pittoriche, ai grandi incontri culturali, ai concerti
di leggendari pianisti, alla rinascita del teatro e del cinema che aveva in
Mario Apollonio, l’italianista della Cattolica, uno dei più ascoltati
ispiratori, mentre si avviava la grande ricostruzione edilizia, e robusta
riprendeva la produzione industriale. La città si animava di nuovi negozi,
cinema e mostre, a partire da Viale Manzoni, dove eleganti si aprivano al
pubblico le vetrine di Motta e di Alemagna.
Dinanzi a tanto dinamismo era inevitabile che la politica cercasse di mantenere
il passo, e numerosi erano i circoli e i dibattiti, anche pubblici, in Galleria
e in Piazza Duomo. La tradizione del popolarismo e il rilancio della Democrazia
Cristiana erano a Milano molto robusti. Ciò non poteva non avere un forte
impatto nella “Cattolica” dove consistente era, con Giuseppe Lazzati, la
presenza del dossettismo, ma anche di tendenze legate ai Comitati Civici di
Gabrio Lombardi. E fu in occasione di una sua conferenza all’Università che De
Mita organizzò una manifestazione di netto dissenso che metteva ben in luce la
sua concezione anti-integralista della politica, l’ascendenza ideale alla
lezione degasperiana, rivisitata da una coscienza più attenta verso le
trasformazioni sociali necessarie, a partire dal Mezzogiorno d’Italia che fu un
punto fermo della sua vita politica.
Nella logica di questo orientamento “naturale” fu l’incontro di De Mita con la
corrente di Base, che proprio a Milano aveva origine, con Marcora e Granelli, e
che si apriva a nuovi orizzonti di allargamento dell’area democratica, con un
colloquio avviato con il socialismo meneghino nella città fortemente radicato.
Nella Base De Mita divenne, per molti aspetti, il teorico della piattaforma
politica e istituzionale.
Sulla sua lunga vicenda politica, che ha le radici nell’Irpinia dell’immediato
dopoguerra, e nel fervido laboratorio intellettuale dell’Università Cattolica di
Milano degli anni ’50, e sul concreto operato politico nelle diverse esperienze
di governo e di partito, può addentrarsi solo un’avveduta ricerca storica,
scevra da pregiudizi che valuti successi, sconfitte e anche contraddizioni. Ma
ciò che si può già affermare è che egli ha sentito la politica come alta
vocazione, che indubbia è la coerenza del suo pensiero che si condensò in una
dottrina democratica nella quale le “istituzioni pensano e agiscono”, lanciando
fortunate formule politiche come il “patto costituzionale” e “l’arco
costituzionale”.
A testimoniare l’autentica passione politica v’è la sua biografia. Egli,
infatti, non ha mai considerato gerarchie nei ruoli da svolgere, passando,
appunto, dai vertici della Repubblica alla guida come Sindaco di un piccolo
comune, Nusco, sia pure paese natio.
In un momento storico nel quale sempre più si manifesta la crisi della
democrazia rappresentativa e, quindi, del Parlamento, e riemergono tentazioni
decisioniste con le proposte presidenzialiste, la lezione politico-istituzionale
di Ciriaco De Mita, risulta di grande attualità e ci ammonisce di quanto sia
illusoria e pericolosa la soluzione del Governo affidata al leader di turno,
favorendo, così, le spinte populiste, invece di costruire lo spirito pubblico e
il consolidamento sociale di un popolo.
Questo ragionamento ascoltavo nei lontani anni della Cattolica, l’ho ritrovato,
limpidamente esposto, nei suoi libri e l’ho sentito ribadito ancora di recente,
nell’estate scorsa.
È un insegnamento che resiste nel tempo, perché solido e meditato e che rende De
Mita un indiscusso protagonista della tormentata democrazia italiana.
Non sempre le decisioni, le scelte, la gestione del potere sono state da me
condivise.
Agli anni della profonda intesa, nata negli ambulacri della Cattolica,
proseguita nelle battaglie politiche avellinesi e nel cammino del primo, comune
decennio parlamentare, sono seguiti periodi di dissenso, ma poi anche di robusto
accordo per difendere la storia dei cattolici democratici, al momento della
grande frattura buttiglioniana. Diversa ancora è stata la valutazione dello
sbocco politico del popolarismo nell’afono movimento pidiessino, ma comune resta
la difesa intransigente di una storia politica come quella democristiana che ha
costruito la Repubblica democratica dell’Italia, in un quadro rigorosamente
europeo.
In questo lungo tempo di alterni rapporti, non si è, comunque, mai spezzato il
filo sottile dell’amicizia che ha continuato ad accomunarci, anche nella
condivisa profonda amarezza per il tramonto della forza politica, la Democrazia
cristiana, alla quale abbiamo dedicato la vita, ma che resta un prezioso
serbatoio di dottrine e di metodo politico che può ancora indicare la strada di
una nuova, seconda rinascita dell’Italia.
Gerardo Bianco
BARTOLO
CICCARDINI - Commemorazione all'Istituto Sturzo - 1 ottobre 2014
Se dovessi immaginare una
raffigurazione di Bartolo Ciccardini, sintetica della sua personalità, non
riuscirei a trovare nessun’altra immagine che non sia quella di un vulcano in
continua eruzione, perché era tale la sua capacità creativa e inventiva, che
peraltro si traduceva in linee culturali e politiche molto precise ed erano così
innovative ed anche, in qualche maniera, spiazzanti le sue scelte, da apparire a
molti, un po’ schizzinosi del rigore della politica, perfino “poco politico”,
mentre invece Bartolo Ciccardini riusciva a guardare nel presente, avendo ben
chiaro quello che era il flusso culturale, politico e sociale che si innervava
nella nostra società.
La mia è un’amicizia antica, che
risale ai tempi della Cattolica e si è sempre intrecciata con la sua storia
personale.
Io so che molti vogliono dare
testimonianza di questo rapporto con Ciccardini e presentarne lati della sua
ricchissima personalità, quindi non posso che essere succinto e breve. Tanto più
succinto quanto più ampia è la storia personale di Ciccardini, perché attraversa
tutta la vicenda della Democrazia Cristiana, direi fino ai nostri giorni. È una
storia che comincia da lontano, comincia quasi agli albori della storia della
Democrazia Cristiana. Egli partecipa ed è testimone di quell’incontro, diventato
mitico, all’interno della nostra vicenda politica, che è l’incontro del
“porcellino”, quell’incontro straordinario fra Dossetti, Fanfani, Lazzati, la
Bianchini ed altri. Ciccardini ne è testimone, ed ha lasciato in questo libro,
dedicato a Franco Maria Malfatti, che abbiamo presentato qualche giorno fa a
Rieti, una testimonianza bellissima di questa sua esperienza.
Ciccardini, come ha detto benissimo
poco fa Francesco Malgeri, appartiene ad una generazione che ha segnato la
storia del nostro Paese in momenti fondamentali ed importanti. E’ la generazione
degli anni ’20, la generazione che prende in mano l’Italia, dopo la guida di De
Gasperi.
È una generazione interessantissima,
ha nomi prestigiosi, importanti, oggi non catalogati fra i grandi personaggi
della storia, perché altra è la storia che viene scritta nel nostro Paese. E
qui, se permettete, come un mantra, continuo a ripetere che la storia della
Democrazia Cristiana, caro Malgeri, non è stata scritta, o quella che è stata
scritta è una storia distorta, artefatta.
Peraltro, la cosa singolare è che
quando si parla di questi personaggi della Democrazia Cristiana, grandi
personaggi, e sono tanti, sono decine di migliaia di persone, paradossalmente
non si riesce a criticare la grandezza di questi personaggi e si usa sempre
dire, lo hanno fatto perfino con Martinazzoli, nostro grande punto di
riferimento, “democristiano anomalo”, quasi che questi personaggi, che hanno
scritto la storia, sono differenti da che cosa sia stata la Democrazia
Cristiana, che non è stata affatto capita, perché complessa è la sua natura.
Io voglio sottolineare che qui c’è
una testimonianza importante di che cosa abbia rappresentato Bartolo Ciccardini
nel contesto democratico: è la presenza di Pannella, che dimostra quanta
capacità lui aveva di colloquio con uno che rappresentava, dal punto di vista
della visione fondamentale dei valori della società, qualcosa di molto distante
rispetto alla cultura cristiana, però c’era questa grandezza in Ciccardini, la
capacità di colloquiare portando tesi, affrontando i temi con una presenza
culturale molto raffinata.
Bisogna leggere i suoi scritti,
bisogna anche scoprire quella sua venatura spirituale ed anche religiosa che
soprattutto ha alimentato gli ultimi bellissimi scritti di Camaldoli, l’ultimo
tentativo che insieme abbiamo sviluppato per mantenere viva la fiammella di una
cultura politica che rischia di essere completamente dimenticata, ignorata e che
sicuramente, sparendo dal panorama politico italiano, rischia di impoverire
complessivamente tutta la cultura e la società del nostro Paese.
Bartolo Ciccardini ha inventato
mille cose. Nei momenti di depressione del partito c’era Bartolo Ciccardini che
accendeva una fiammella.
Io voglio ricordare, qui c’è
Ferrarini, quello che lui fece, per esempio, in un momento di depressione della
Democrazia Cristiana, inventò le feste dell’amicizia e ci fu il grande incontro
di Palmanova che, come ricordate, fu la riscoperta che, in fondo, non tutto era
cenere nella Democrazia Cristiana, che c’era ancora fuoco all’interno della
Democrazia Cristiana e quel fuoco si riaccese intorno a Zaccagnini, intorno alla
Democrazia Cristiana, e si accesero nuove speranze, che poi sono andate, ahimè,
perdute, anche per nostra insipienza.
Era un personaggio che aveva
nell’animo quella che si chiama la curiositas, un termine latino che
dice molto più della nostra curiosità. Voleva dappertutto sapere, capire.
Io non voglio farla lunga, ma una
delle cose che mi ha più colpito era che, quando discuteva con me, amava parlare
del Mezzogiorno ed ero sorpreso perché conosceva episodi, fatti, vicende che a
me, che pure vivevo nel Mezzogiorno e che qualche libro l’avevo pure letto,
riuscivano praticamente ignote.
Mi dette una volta un manoscritto ed
io questo manoscritto ho voluto che fosse pubblicato. È nato questo libro “Viaggio
nel Mezzogiorno d’Italia”. E’ un libro di una scrittura, come lui sapeva
fare, vivace, ricca. Aveva indagato dappertutto, aveva letto libri di autori
dimenticati, scritti in un italiano desueto, ma erano ricchi di notizie che
diventavano una storia sorprendente, intensa era questa sua capacità di
indagare, per esempio, sulle Repubbliche marinare, e poi anche nella vita vera,
materiale delle comunità nella loro cultura popolare, perché per lui cultura
popolare era anche l’incontro con i cibi, descritti in vivaci squarci narrativi.
Voglio ricordare questo aspetto importante della sua attività. Egli infatti è
l’inventore della catena Ciao. Sapeva che la cultura popolare si manifestava in
tutte le espressioni della vita, non era solo pensiero, non era solo astrazione.
Non parlerò qui di quella che è stata poi la sua intuizione del modo di
affrontare la crisi italiana, c’è qui Zamberletti, c’è qui Mario Segni, ci sono
altri amici che tentarono allora di capire che forse bisognava dare una svolta,
che non passasse solo per la dialettica politica. Io appartenevo ad una corrente
che pensava che la soluzione della crisi italiana passasse per la dialettica fra
i partiti, e non invece per una capacità incisiva riformatrice dello stesso
partito democristiano che, cambiando alcune regole dell’organizzazione
istituzionale del Paese, fosse in grado di affrontare la crisi. Naturalmente
allora ci fu una grande offensiva mediatica contro, e quindi la demonizzazione
del movimento accusato di gollismo, come antidemocratico. Ciccardini fu invece
un anticipatore, un inventore di soluzioni democratiche che oggi sono diventate
pane quotidiano. Si pensi, per esempio, alle famose primarie, ma soprattutto
alla battaglia per l’elezione diretta del Sindaco, una battaglia che cominciò da
lontano e che riuscimmo con Segni a realizzare solo nel 1992.
La sua è una storia straordinaria e,
per scriverla, spero che prima o poi ci si metta insieme a elaborarla, perché
scrivendo la storia di personaggi come Bartolo Ciccardini si aiuta, a mio
avviso, a scrivere la storia non ancora scritta della Democrazia Cristiana,
quella ignorata eppure luminosa. Credo che Bianchi ricorderà, per esempio, le
sue ostinate battaglie per ricordare quello che è stato dimenticato, l’apporto
che i partigiani cristiani e 400 sacerdoti sacrificati durante la Resistenza,
hanno dato alla storia del Paese. Anche questa è una battaglia sulla quale si è
caratterizzato moltissimo l’impegno storiografico di Gabriele De Rosa, quasi che
la Resistenza non avesse visto la partecipazione attiva degli uomini che
appartenevano al filone culturale e politico cattolico-democratico.
Testimonianza del suo amore per la
storia e la libertà è questo libro, che è stato prefato, come è stato ricordato,
da Scoppola. Ma io voglio soprattutto richiamare il ricordo della sua
scorribanda storica lungo le strade del Mezzogiorno. Rosaria ricorderai quando
noi a Positano lo presentammo. Era felice e contento, così come credo che felice
sia finita la sua ultima giornata, ancora fortemente impegnato nella sua
battaglia ideale. Non si rassegnava alla fine della nostra storia e fino
all’ultimo ha tentato di mantenere vivo almeno il discorso culturale.
Per me il ricordo è insieme politico
e personale.
Se permettete, perché è una sintesi,
faccio un riferimento molto personale.
Forse non è elegante che io citi qui
la pagina che lui, quando io gli ho fatto pubblicare questo libro e inserita una
mia prefazione, mi ha dedicato, però lo faccio lo stesso.
“Caro Gerardo, da quando ci
siamo conosciuti, nel 1952, per un mio pellegrinaggio alla Cattolica, a causa di
Terza Generazione (è il momento di ripresa di un discorso nuovo) la mia strada
politica è segnata da pietre miliari, che si chiamano “lettere a Gerardo
Bianco”. Non c’è fase del nostro comune andare che non sia segnata da una
lettera a Gerardo Bianco. Questo libro, di cui sei stato osservatore ed
osservato, è in realtà una lettera a Gerardo Bianco, che vi appare come maestro
in verità, come Virgilio, nel mio viaggio.”
Questa è una delle pagine più care
che ho ricevuto fra i tanti amici. Volle regalarmi questa cravatta. Questa
cravatta, come vedete, porta la balena bianca, non la vediamo più all’orizzonte.
I balenotteri pare che siano scomparsi, ma prima o poi la politica, come la
natura, ricrea sorprese.
Mi dispiace soltanto che il postino
non busserà più per portarmi le lettere di Bartolo Ciccardini.
Gerardo Bianco
L’Azione ricorda
Bartolo Ciccardini - Commemorato a
Roma l’onorevole cerretese Bartolo Ciccardini
di MASSIMO CORTESE (su
l’Azione del 16 Ottobre 2014)
Se mi avessero detto
che, alla Commemorazione dell’onorevole democristiano Bartolo Ciccardini,
sarebbe stata letta una commossa lettera dell’onorevole comunista Luciana
Castellina, che manifestava grande stima per Bartolo, conosciuto nei lontani
Anni Cinquanta, e che al coro degli elogi si sarebbe unito l’onorevole radicale
Marco Pannella che, non pago del suo bellissimo e interminabile intervento, come
solo lui sa fare, avrebbe sollecitato l’onorevole democristiano Arnaldo Forlani
a prendere la parola, avrei risposto, senza mezzi termini, che non poteva essere
vero. Invece è tutto vero, come è stato documentato da Radio Radicale, che ha
filmato l’evento, e dai miei due compagni di viaggio, il cerretese Alberto
Biondi, cugino di Bartolo e locale presidente dell’ANPI ed il professore Aldo
Crialesi, che per un trentennio è stato vicedirettore de L’Azione. Per questa
ragione, quando Michela Bellomaria mi ha chiesto di scrivere qualcosa per
L’Azione sulla Commemorazione del vostro Illustre Concittadino, ho pensato che
la mia riflessione fosse da considerarsi un obbligo, specialmente nell’attuale
momento storico in cui la vostra amatissima Cerreto d’Esi è Commissariata, segno
inconfutabile che la Politica cittadina vive un momento di difficoltà. Perché
Bartolo Ciccardini, oltre ad essere un giornalista, uno scrittore, uno che
pensava in grande, era essenzialmente un politico, ma non ha mai dimenticato i
suoi legami con i luoghi dove è venuto al mondo. Vi chiedo scusa se questa mia
riflessione richiederà qualche minuto del vostro tempo, cercherò di fare del mio
meglio: sarà un’impresa ardua, ma non impossibile: io andrei ad iniziare.
“è mercoledì 1°
ottobre 2014, sono le quindici e quaranta, sto per entrare a Palazzo Sturzo a
Roma per partecipare alla Commemorazione dell’onorevole Bartolo Ciccardini, che
aveva scritto la prefazione per il mio ultimo libro. Nessuno è arrivato, sono in
grande anticipo, vado a cercare la sala dell’incontro, sul tavolo posto
all’ingresso della sala trovo due lettere su carta intestata dell’Istituto
Sturzo, una scritta da Pino Ferrarini, un suo amico, mentre l’altra riporta il
ricordo di Luciana Castellina. Incuriosito, vado a leggere questa lettera
appassionata, perché racconta con nostalgia dei lontani Anni Cinquanta, al tempo
degli incontri e degli scontri tra i due opposti schieramenti dei giovani
comunisti e dei giovani democristiani, nel corso dei quali prese a stimare
Bartolo. I primi ad arrivare sono due operatori di Radio Radicale, con i quali
scambio alcune opinioni a proposito della trasmissione Radio Carcere, che va in
onda presso la storica emittente il martedì sera alle 21.00 e viene replicata il
giovedì sera. Nel frattempo la sala comincia a riempirsi, vedo arrivare molti
volti noti, tra i quali il ministro Zamberletti, Gerardo Bianco, Mario Segni,
Arturo Parisi, Calogero Mannino, Maria Pia Garavaglia e i marchigiani Francesco
Merloni e Adriano Ciaffi, oltre a un bel plotone di giornalisti, tra i quali
riconosco il sempre verde Gianni Bisiach, che per un amante della Storia come me
è una specie di mito. In una sala affollatissima la Commemorazione ha inizio
alle ore 17.15 con l’intervento di Giuseppe Sangiorgi, il Segretario Generale
dell’Istituto Sturzo che, nel fare gli onori di casa, prova ad immaginare una
vicenda curiosa che potrebbe avere accompagnato la scomparsa: “Quando Bartolo è
andato in Paradiso, e a San Pietro è stata presentata la lista dei nuovi venuti,
il santo, quando ha saputo che c’era Bartolo, è andato ad accoglierlo, data la
sua grande popolarità anche da Quelle Parti “. I posti a sedere sono tutti
occupati, a parte uno che, per ironia della sorte, è quello accanto al mio. In
quel momento vedo Pino Ferrarini che, visto il posto libero, fa: è arrivato
Marco Pannella, questo è libero? Certo, faccio io, onorato dall’insolita
situazione, ma dopo qualche secondo un signore occupa il posto. Sento dal fondo
della sala il vocione inconfondibile dell’onorevole Pannella, che ho spesso
sentito a Radio Radicale e alla TV: a quel punto, c’è una sola cosa da fare:
quando Ferrarini accompagnerà Pannella al posto che lui ritiene libero, il
sottoscritto si alzerà e gli cederà il posto. Ed è esattamente quanto è
accaduto: incredibile davvero! All’intervento introduttivo di Sangiorgi, segue
quello dello storico Francesco Malgeri, che cerca di riassumere brevemente
l’esperienza politica di Bartolo, nelle vesti di parlamentare, uomo di governo,
dirigente di partito, giornalista, scrittore, autore di slogan e manifesti
elettorali come il Famoso “La DC ha vent’anni” del 1963, direttore di giornale,
inventore delle Feste dell’Amicizia… È poi la volta di Gerardo Bianco, che
regala all’uditorio l’immagine più genuina dell’onorevole Ciccardini: un vulcano
in continua eruzione. L’ intervento di Gerardo Bianco è stato particolarmente
toccante: aveva idee innovative, nei momenti di difficoltà del Partito reagiva
con nuove iniziative. Poi, quando legge alcuni brani del libro di Bartolo
“Viaggio nel Mezzogiorno d’Italia”, specialmente quando parla delle lettere di
Ciccardini a Gerardo Bianco, si commuove, e noi con lui. Alla commozione di
Gerardo Bianco, segue quella di Giovanni Bianchi, che legge una poesia, che ha
anche il sapore di una preghiera, ritrovata nella Bibbia di Bartolo, in cui lui
chiede al Signore misericordia per quel “capretto storto”, come appunto lui si
definisce. Interviene poi l’onorevole Marco Pannella, chiamato a gran voce da
Sangiorgi a parlare, ad intervenire, a dare il proprio contributo, e lui non si
fa certo pregare. L’onorevole non mi fraintenda, ma la sua presenza, quella di
questo Gian Burrasca della Politica Italiana, che non ha mai avuto peli per la
lingua per nessuno, è fondamentale per comprendere come realmente Bartolo
Ciccardini fosse contro gli schemi, essendo un uomo che dialogava davvero con
tutti, a prescindere dalla militanza politica. Non a caso, molti sono rimasti
sbalorditi nel constatare che Marco Pannella ha fatto di tutto per lasciare
Londra ed essere presente alla Santa Messa organizzata al mattino in suo
suffragio dall’Associazione Ex Parlamentari. È poi seguito l’intervento di
Alessandro Forlani, che ha avuto il privilegio con pochi altri di essere
presente al ritrovo in pizzeria la sera della scomparsa, che ha messo in rilievo
la fede di Bartolo nelle esigenze concrete della sua attività politica. Suo
padre Arnaldo ha evidenziato come Ciccardini fosse rimasto giovane, al punto che
a parlare della sua persona era stato chiamato suo figlio. Flavia Nardelli ha
comunicato che alcune iniziative intraprese da Bartolo verranno portate avanti.
Il noto giornalista Gianni Bisiach ha ricordato Ciccardini quando, era ancora
vivo Pio XII, entrambi s’interessarono addirittura del parto indolore, che
all’epoca costituiva una novità. Perché Bartolo è noto soprattutto per le
innovazioni, per le invenzioni, per le intuizioni, molte delle quali si
sarebbero rivelate delle realtà: in una parola, era un Creativo. Per ultimo, in
ordine di interventi, parla il fabrianese professor Crialesi che, dopo aver
detto che avrebbe messo a disposizione di tutti molti libri d Ciccardini, si
sofferma sul fatto che Bartolo soffrisse per la latitanza del mondo cattolico”.
Cari Amici
dell’Azione, io avrei concluso questa mia riflessione sulla Commemorazione, ma
prima di congedarmi vorrei riportare una osservazione dell’onorevole scomparso,
tratta dall’articolo “Bartolo fuori dagli schemi” scritto da uno che lo
conosceva bene, l’amico Giovanni Bianchi. L’articolo è stato pubblicato sulla
rivista online Camaldoli del 6 ottobre 2014, di cui l’onorevole era Direttore:
ecco quanto diceva Bartolo: “ Io leggo moltissimi giornali, ma quello che mi
sembra fatto meglio è L’Azione, il settimanale di Fabriano-Matelica, che poi è
la terra dove sono nato. Quando mi arriva a Roma ci trovo dentro tutto: la
vicinanza al territorio, ai fatti concreti, anche piccoli, che vi accadono. Una
linea, cioè una angolatura precisa con cui interpretare gli avvenimenti,
proposti però senza chiusure, senza toni tetragoni. E anche una certa freschezza
e vivacità, cosa non troppo frequente per un organo di stampa cattolica”.
Non ci sono parole
migliori per dimostrare, qualora ve ne fosse ancora bisogno, quanto Bartolo
amasse la sua Terra.Non vi dovete commuovere, per favore: l’onorevole non lo
avrebbe mai permesso.
Massimo Cortese
La
commemorazione di Bartolo Ciccardini all’Istituto Sturzo di MAURIZIO EUFEMI
Quello che avrei voluto dire
nell’incontro presso l’Istituto Sturzo su Bartolo Ciccardini, mi è rimasto
dentro. Non ho potuto farlo perché il programma si era dispiegato oltre i tempi
previsti con interventi fuori programma, ma particolarmente graditi, come quelli
di Arnaldo Forlani e del suo amico avversario politico Marco Pannella. Tanti
hanno voluto essere presenti per partecipare al ricordo. Tra questi Francesco
Merloni, Mario Segni, Arturo, Parisi, Dario Antoniozzi, Favia Piccoli Nardelli,
Giuseppe Gargani, Angelo Sanza, Adriano Ciaffi, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe
Zamberletti, Pietro Giubilo e tanti altri ancora. Lo storico Francesco Malgeri
ha lumeggiato la figura politica di Bartolo ricordando le tappe della sua lunga
esperienza politica, di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito,
autore di slogan e manifesti elettorali come quello del 1963 “La DC ha vent’anni
“ direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia, la sua vitalità
straordinaria e la curiosità ai mutamenti. Autore di significative riflessioni
religiose sulla presenza dell’uomo nel mondo. Poi le esperienze recenti di
direttore della rivista culturale on line Camaldoli.org, di animatore dei
partigiani cristiani, ribelle per amore. Per Gerardo Bianco che fa risalire il
primo incontro con Bartolo alla Cattolica di Milano nel 1952 Ciccardini era un
“vulcano in continua eruzione”. Era esponente di quella generazione degli anni
venti protagonista della storia della DC. La loro amicizia profonda ha trovato
espressione nel libro viaggio nel Mezzogiorno configurato come lettere a Gerardo
Bianco, ma ora quel postino che ha recapitato tante lettere di Bartolo ora non
suonerà più. Poi il vecchio leone politico Marco Pannella ha voluto essere
presente e parlare perché è certo che avrebbe fatto piacere a Bartolo. Ha
ricordato le sue battaglie con la sinistra liberale, la sua amicizia antica e il
suo impegno costante a ricercare la storia delle madri, dei padri e dei figli
senza distinzioni. Si è abbandonato a citazioni storiche rivendicando con
orgoglio e ricordando la vicenda Parri e quella verso De Gasperi. Alessandro
Forlani ha ricordato gli ultimi tragici momenti vissuti insieme a parlare di
politica con una grande preoccupazione per il Paese, ma con uno sguardo ancora
al futuro e ad iniziative rivolte alla città di Roma, che dovevano coinvolgere
il Vicariato e le parrocchie E’ stato maestro di più generazioni per un
approccio alla vita pubblica. Ha dato i rudimenti del mestiere a tanti giovani
con gli incontri a Sant’Ignazio e al Terminillo. Sapeva introdurre sempre
elementi innovativi. Giovani Bianchi ha voluto ricordare la battaglia condotta
con i partigiani cristiani e la grande amarezza che aveva avuto nel mancato
riconoscimento. Ciccardini apparteneva alla categoria degli anomali, degli
irregolari di genio, quelli che legavano i partiti con i territori, con i corpi
intermedi. Voleva sottrarre la Resistenza alla epopea e farla capire alle nuove
generazioni. Di qui le iniziative per i 400 sacerdoti uccisi, per Suor Teresina,
per la battaglia della Montagnola per Dossetti e la Resistenza, per il 70° del
Codice di Camaldoli. Per Arnaldo Forlani, Bartolo Ciccardini è morto con i
giovani. Per onorarlo sarebbe bene dare vita ad una casa editrice con una
collana editoriale che riprenda la esperienza delle 5 Lune. Non tutti erano
giovani come Bartolo che sapeva stare con i giovani. Luciana Castellina ha
voluto mandare un ricordo scritto per testimoniare il dialogo tra giovani DC e
giovani comunisti attraverso gli organismi universitari. Nei giorni della famosa
legge truffa litigarono lungo Corso Vittorio ma in realtà erano più d’accordo di
quanto apparisse. “Con lui – ricorda Luciana Castellina – se n’è andato un pezzo
della storia della mia generazione, oltreché un grande amico: il solo amico
democristiano!”Avrei voluto tratteggiare l’aspetto umano, quello della persona,
le telefonate, le mail, i commenti, i giudizi, i programmi, le idee, le
iniziative. Sapeva guardare ad orizzonti lontani. Il Ciccardini parlamentare,
uomo di vasta e profonda cultura. Quello che avrei voluto dire è che Ciccardini
non voleva essere protagonista. Sapeva essere discreto. Preferiva fare il
soggettista sceneggiatore, stare dietro le quinte, scrivere il copione. Non
voleva la ribalta. Altri dovevano essere i protagonisti. Per il 70° di Camaldoli
volle filmare l’evento nonostante un braccio ingessato. Rimase piacevolmente
sorpreso della straordinaria partecipazione ad un evento che si tenne nel pieno
di un torrido mese di luglio. Non si accontentava del sito, voleva una
diffusione larga anche per coloro che non poteva essere presenti nelle sale
della Camera. E la diretta streaming lo riempiva di gioia. E’ mancato pochi
giorni prima della commemorazione del 15° anniversario della scomparsa di Livio
Labor. Era l’occasione per fare il punto su un particolare momento storico
quello della scissione delle Acli agli inizi degli anni settanta che per lui
vecchio aclista fu una ferita non rimarginata. Voleva illuminare la storia con i
protagonisti degli eventi. Bartolo Ciccardini inizia il suo percorso
parlamentare con le elezioni del maggio 1968. Interviene alla Camera il 28
aprile 1970 sulla legge istitutiva del Referendum che marciava parallela alla
legge sul divorzio. Lì, in quell’intervento c’è tutto Bartolo. Quel discorso
racchiude e anticipa le indicazioni e le scelte degli anni successivi fino ad
oggi. Riteneva necessario rendere viva la Costituzione allo sviluppo storico del
Paese. Poneva la esigenza si una legge adeguandola allo spirito della
Costituzione. Riteneva il referendum come mezzo necessario per integrare il
Parlamento e come mezzo di allargamento della vita democratica. Si sofferma sul
ruolo dei partiti. Anticipa di venti anni la elezione diretta del sindaco e la
difesa delle autonomie locali non in una visione percentualistica delle forze
politiche. Con il proporzionale che era nato nel 1919 votiamo i numeri invece
che i nomi. Interviene sul bilancio interno della Camera, sollecitando il
Presidente Pertini, affinchè i pannelli che ornano l’Aula riportino i risultati
del referendum Istitutivo della Repubblica frutto della Resistenza. Era un
simbolo, ma che simbolo! Vedeva scarsa attenzione per Roma Capitale e il rischio
che Roma divenisse il gorgo in cui si perdono i deficit. Propone un asse
attrezzato lontano dal centro storico anziché la concentrazione della città
della politica. Non voleva il privilegio del permanente ferroviario, ma i mezzi
per il contatto con l’elettorato. Richiamò ben 25 anni fa perfino il ruolo
costituzionale del Cnl, che solo oggi viene cancellato. Vede i rischi del
procedimento legislativo con continue incomprensibili norme di rinvio che definì
un “Olimpo giuridico che il popolo non capisce”.Potrei dire e scrivere molto
altro. Mi fermo qui. Resta il ricordo di una persona che sapeva coinvolgerti
anche in progetti difficili. Niente riteneva insuperabile. Apparteneva appunto a
quella generazione degli anni venti formata nella Resistenza, nelle difficoltà
della guerra e del dopoguerra, nella faticosa ricostruzione, negli anni del
contestazione giovanile e poi nel terrorismo e vedeva la necessità di adeguare
il sistema istituzionale nel solco della Costituzione. Un ribelle per amore.
L’Istituto Sturzo gli ha dedicato il giusto tributo in quella che Bartolo
Ciccardini considerava la sua casa, il luogo del confronto delle idee senza
pregiudizi.
Maurizio Eufemi
INTERVENTO COMMEMORAZIONE CICCARDINI
di Alessandro Forlani
Penso di poter dire che Bartolo
abbia concluso la sua esistenza terrena in piena coerenza con quella che è stata
la sua storia personale, quella di un uomo che valorosamente, con energia
intellettuale e passione, si è battuto per il progresso sociale e per il bene
comune. Credo possa qualificarsi come un vero patriota, perché veramente ha
manifestato fino all’ultimo quel grande amore per il suo paese di cui la sua
lunga milizia politica era stato lo strumento, affiancata da un intenso impegno
pubblicistico e associativo. Anche nelle sue ultime parole emergeva prorompente
la preoccupazione per le sorti del Paese, delle giovani generazioni, della
nostra democrazia repubblicana, faticosamente conquistata e sempre a rischio di
derive demagogiche o fuorvianti, rispetto agli ideali e agli intenti delle
origini. A quelle origini, a quei valori e, in particolare, alle radici
dell’impegno sociale e politico dei cattolico-democratici nel nostro paese,
tendeva sempre a richiamarci, quando, da giovani, ci coinvolgeva nelle sue
iniziative formative e culturali. Ed è a questo aspetto della sua storia e della
sua personalità che vorrei oggi rendere testimonianza, mentre gli amici che mi
hanno preceduto hanno evidenziato altri passaggi e caratteri della sua
instancabile attività. Avremo modo poi in altre occasione di focalizzarne altri
ancora, perché l’impegno profuso da Bartolo ha investito diversi campi d’azione
ed è stato particolarmente intenso e sarebbe impossibile ricomprenderlo nella
trattazione di una sola giornata. Ma io, in questa occasione, vorrei soprattutto
testimoniare l’importanza del ruolo che ha svolto nella formazione politica e
culturale di più generazioni di giovani, di cui tanti rappresentanti vedo anche
ora tra i presenti. Con i suoi corsi di formazione, le sue conferenze, i suoi
stimoli ed insegnamenti concorreva sensibilmente alla maturazione delle nostre
consapevolezze sui doveri sociali, sul senso della nostra appartenenza alla
collettività, sulle potenzialità che gli strumenti della cultura e della
democrazia ci offrivano per migliorarla. Spontaneamente e, direi, per vocazione,
Bartolo si interessava ai giovani, voleva sapere quali tematiche e problemi
dovevamo affrontare nei parlamentini scolastici, nei tormentati Anni Settanta,
caratterizzati dagli “opposti estremismi”, da fenomeni di violenza e di
intolleranza, direi, nel mondo giovanile, da un “eccesso di politica”, mentre ai
nostri giorni sembra dominare l’antipolitica! In quegli anni della mia
adolescenza, inoltre, la nostra appartenenza democratico-cristiana era
continuamente sotto attacco, sembrava ci volessero ridurre alla marginalità,
relegandoci in un ghetto di oscurantismo clericale e di conservazione! Cercavano
sempre di metterci in mora, con semplificazioni mistificanti delle nostre
motivazioni e della nostra ispirazione, stimolando un continuo contraddittorio
in cui eravamo indotti a spiegare le nostre ragioni. E il contraddittorio
continuo richiede gli strumenti culturali, quelli di cui, grazie proprio a
persone attente alle istanze giovanili, come appunto l’on. Ciccardini e a
iniziative come quelle da lui organizzate, riuscivamo ad appropriarci per
contrastare quei continui attacchi alla nostra identità e alla nostra scelta di
campo.
Ci dicevano che loro erano laici e
noi confessionali, no, invece eravamo laici di ispirazione cristiana, né
liberisti, né libertari, ma interclassisti, con una visione sociale fondata sul
solidarismo e sulla centralità della persona. I suoi corsi e le sue riunioni
ci offrivano insomma le categorie, i concetti di fondo, le argomentazioni per le
fatiche dialettiche che ci attendevano nelle assemblee, nei “collettivi” e
successivamente per l’impegno sul territorio, nei quartieri ! Ricordo i corsi
presso l’Antica Farmacia, nella Rettoria di S. Ignazio, quelli in un rifugio di
montagna del Terminillo che si tenevano in settembre, i grandi convegni di
Fiuggi! E accanto ai protagonisti della politica nazionale che sovente si
incontravano in queste occasioni, partecipavano altre persone che con generosità
contribuivano alla nostra “educazione” alla vita pubblica, cui dobbiamo
riconoscenza, ricordo in particolare il prof. Ignazio Vitale, sui temi economici
e sindacali, l’ing. Vanni Cocco, sulla famiglia, Celso Destefanis sui problemi
dello Stato e altri temi legislativi e sociali, Anna Maria Cervone,
sull’integrazione europea. Persone sobrie e allo stesso tempo appassionate che
dedicarono – con Bartolo che coordinava – il loro tempo ai giovani della Dc.
Bartolo amava soprattutto ricordare gli albori della storia del Movimento
Cattolico in Italia, le realtà di base che operando nel tessuto sociale avevano
preparato la strada all’impegno politico vero e proprio, attraverso il
partito. L’Opera dei Congressi, le leghe bianche, le cooperative, la stampa
cattolica, le casse rurali, gli studi sociali, le esperienze municipali. E
devo ammettere che il passaggio dalla fase di formazione alla diretta esperienza
nella realtà di partito, così come si profilava a cavallo tra gli Anni Settanta
e gli Ottanta, si rivelò assai deludente, il contrasto con quelle aurore
gloriose evocate nei corsi di formazione appariva piuttosto stridente ! Ancora
la Dc era guidata, in ambito nazionale, da personaggi straordinari e
carismatici, ma sul piano locale la degenerazione e il declino erano purtroppo
evidenti. Cinismo, lotta spregiudicata per il potere, faziosità, arroganza e
tesseramenti gestiti come pacchetti azionari non creavano certo entusiasmo e
motivazione per coloro che iniziavano a cimentarsi nell’agone politico. Ci
illudemmo però di poter salvare quel partito, di rinnovarlo riscoprendo lo
spirito delle origini e consentirgli di recuperare credibilità e fiducia,
attraverso idee innovative, sul piano istituzionale e anche della
riorganizzazione, secondo schemi nuovi, della sua presenza nella società. Idee
che Bartolo elaborava con grande vivacità intellettuale e promuoveva con il suo
attivismo vulcanico. Ma la sincerità di intenti non fu sufficiente e quel
partito chiuse i battenti, per varie ragioni, sulle quali non si è mai
riflettuto abbastanza… e forse lo faremo, scegliendo tempi e modi. La Dc
concluse traumaticamente la sua esperienza e noi ci siamo divisi in tanti
rivoli, ritrovandoci poi, in tante occasioni, anche in questa sede dell’Istituto
Sturzo, a rimpiangere quella scelta e a stigmatizzare la sostanziale marginalità
in cui poi è stata indotta la nostra corrente di pensiero. La Dc finì, ma
restò per molti di noi il rapporto personale con Bartolo, la consuetudine del
confronto di idee, la sua disponibilità al consiglio affettuoso e all’analisi
acuta e illuminante di quanto maturava nella società italiana, lo stimolo
prezioso all’approfondimento delle evoluzioni in essere.
Si preoccupava soprattutto della
crisi sociale, delle prospettive e della demotivazione dei giovani,
dell’irrilevanza della presenza cattolica nella vita politica. Avvertiva, in
questi anni, la crisi di rappresentanza della democrazia italiana, la scarsa
capacità dei partiti di radicarsi nella società civile. A questa carenza si
collega la sua tenace insistenza per la promozione di liste civiche, di
movimenti che sorgessero dalla base della società per perseguire il bene comune!
Così come auspicava l’intensificazione dell’impegno dei gruppi parrocchiali sul
territorio, iniziative di solidarietà verso le persone bisognose sempre più
numerose e servizi alle famiglie. Dall’iniziativa civica di base occorreva –
secondo il suo pensiero – ripartire per restituire motivazione e tensione morale
all’azione sociale e politica e, in questo quadro, perseguiva con noi la
riorganizzazione di momenti formativi per i giovani, nei quartieri e nelle
parrocchie.
Proprio per affrontare questo tema,
in termini anche organizzativi, insieme ad altri amici, ci eravamo incontrati
quella sera in cui ci ha lasciati. E sempre emergeva, nelle sue proposte e
sollecitazioni, il fervido sentimento religioso, calato nella storia e nel
destino degli uomini, una religiosità direi “affettuosa”, verso il Supremo
Pastore, in un tutt’uno con le Sue pecore, proprio quel sentimento che si coglie
nella breve commovente poesia sul Giudizio Universale, quella del capretto, che
è stata prima ricordata.
E speriamo che da quelle altezze
Bartolo possa ancora ispirare la nostra azione e fare in modo che sia degna di
quella che è stata la lezione di vita di cui intendiamo oggi ringraziarlo.
Alessandro Forlani
Ricordo di
Bartolo Ciccardini di Francesco Malgeri
Ho accolto con grande piacere
l’invito di Giuseppe Sangiorgi a essere qui presente, stasera, per ricordare
Bartolo Ciccardini.
Chi vi parla, a differenza della
gran parte dei presenti, ha avuto modo di conoscere, collaborare con Bartolo
Ciccardini solo in anni più recenti, da quando prese a frequentare l’Istituto
Sturzo, riconoscendo in questa sede un luogo dove era possibile riflettere,
studiare e recuperare il senso più autentico e genuino della storia del
cattolicesimo politico.
Un luogo dove era ancora
possibile rievocare la storia italiana della seconda metà del Novecento alla
luce di ricerche serie e documentate, senza le demonizzazioni ricorrenti nei
mass media e nei talk show televisivi, ove sembra predominare una sorta di
cupio dissolvi di una storia che, pur con le sue inevitabili ombre,
costituisce uno dei periodi più felici e costruttivi che l’Italia ha conosciuto
negli oltre centocinquant’anni di unità nazionale.
Bartolo con la sua presenza,
discreta ma incisiva, ha arricchito l’attività dell’Istituto, che con lui ha
trovato, accanto agli archivi cartacei, una sorta di archivio vivente, capace di
illustrare, spiegare, animare momenti,convegni e tavole rotonde che affrontavano
vicende storiche di cui era stato protagonista o testimone per oltre mezzo
secolo.
E’ qui che, di volta in volta, ci
ha ricordato la sua esperienza politica, al fianco di uomini come Mattei,
Malfatti, Fanfani, Rumore molti altri, la sua presenza ininterrotta alla Camera
dei deputati dal 1968 al 1992, la sua attività di governo come sottosegretario
ai trasporti e poi, dal 1980 al 1986 alla Difesa, i ruoli fondamentali da lui
svolti in seno al partito, come direttore dell’organo del movimento giovanile
Per l’Azione, della rivista Terza Generazione e poi della
Discussione. Ci ha ricordato più volte il ruolo svolto in seno alla Spes, e
quell’idea del 1963, del manifesto su La Dc ha vent’anni, rivendicando,
al di là delle facili ironie che suscitò, la validità e il successo di quel
manifesto sul piano elettorale.
Insomma è qui che egli ha
discusso di molti problemi e aspetti politici e culturali legati alla presenza
dei cattolici nel dibattito politico del secondo dopoguerra. Lo ha fatto sempre
con garbo e discrezione, offrendoci contributi che riflettevano la sua lunga
esperienza, la sua conoscenza di molti risvolti sconosciuti, ignorati dagli
storici, la sua capacità di leggere i fatti della storia e della politica,
assieme alla sua profonda cultura che spaziava in campi diversi.
Ricordo una sua bellissima
lezione, nell’ottobre dello scorso anno, sulla figura, il pensiero e
l’itinerario politico culturale di Lucio Magri, assieme a Luciana Castellina e
Gerardo Bianco, ove affrontò il delicato tema del rapporto tra cattolici e
comunisti nella storia del nostro paese.
Ciò che sorprende, della sua
lunga esperienza politica e umana, è la straordinaria vitalità che mai lo ha
abbandonato, e soprattutto la curiosità di fronte ai mutamenti politici,
sociali, culturali, tecnologici. Non è un caso che già in età avanzata, si
cimentasse senza alcuna riserva o timore con le più moderne tecnologie, dando
vita e sostenendo il peso di una rivista on-line, Camaldoli, che nel
nome rievocava una pagina fondamentale nella storia dei cattolici democratici.
Fino al giorno della sua scomparsa egli ha alimentato e arricchito questa
rivista con articoli, riflessioni, proposte, tutte animate da una profonda
carica e da una lettura attenta dei fatti della politica, della Chiesa, della
società e del costume, senza pregiudizi e senza demonizzare la modernità. Non
mancano riflessioni di carattere religioso, che non erano mai fini a se stesse,
ma si confrontavano sempre con la presenza e con i problemi dell’uomo nel mondo.
A rileggerli, gli articoli
apparsi su Camaldoli, nei suoi cinque anni di vita, possiamo
ripercorrere la più recente storia del nostro paese, del quadro internazionale e
della Chiesa cattolica, da Berlusconi a Renzi, da Obama a Putin, da papa
Ratzinger a papa Francesco, alla luce del vaglio critico, a volte pungente, con
cui Ciccardini sapeva arricchire la sua prosa.
Non sarebbe forse una cattiva
idea rimetterli insieme e pubblicarli questi scritti su Camaldoli, come
una testimonianza viva e a volte sofferta di un laico cristiano di fronte ai
mutamenti politici e sociali conosciuti dal mondo negli ultimi anni.
Ma vorrei aggiungere un altro
elemento per ricordare la figura di Ciccardini. Si tratta del suo impegno,
proprio negli ultimi mesi di vita, per ricordare e celebrare degnamente il 70
anniversario della Resistenza.
Così volle spiegare il
significato delle sue iniziative per rievocare la Resistenza e la lotta di
liberazione del nostro paese: “Oggi nel momento in cui affrontiamo il vero
problema dell’identità nazionale, credo che vada riscritta la storia della
Resistenza, tenendo presente quel valore civile diffuso, che indicava una
direzione morale non attendista, non indifferente, ma basata su una scelta di
civiltà: l’appartenere ad una nazione che aveva dignità, che voleva riparare ai
suoi errori, che voleva darsi un avvenire pacifico. E a questo eroismo civile,
per cui i Partigiani cristiani si chiamarono “ribelli per amore”, bisogna
ispirarsi per dare una motivazione ideale alla nostra ultima generazione.
Ricostruire storiograficamente questi valori, significa anche ricordare che la
Resistenza non finì il 25 aprile del 1945, ma continuò nelle conquiste
democratiche della Costituente e del 18 aprile. In momenti difficili della
nostra storia, negli anni di piombo si tentò di mostrare che la Resistenza non
era finita, ma che anzi essa andava ripresa contro la Democrazia Cristiana e
contro le istituzioni democratiche. Il terrorismo insanguinò il nostro paese ed
il sacrificio di Aldo Moro non fu un atto conseguente alla Resistenza ma
piuttosto in una nuovo e terribile ritorno del fascismo. Ritornare al sentimento
civile e popolare della Resistenza è il modo giusto per intravedere uno sviluppo
ed una crescita della società italiana e delle istituzioni della nuova Europa”.
Scrivendomi in vista di una
riunione seminariale tenuta il 30 gennaio 1914 affermava: “Ci prefiggiamo un
lavoro di ricerca ed una mobilitazione di giovani per riscoprire il significato
ed il valore della Resistenza civile e della “Resistenza di coscienza”
(l’obbligazione morale dei “ribelli per amore”) rivedendo con attenzione
l’autogoverno delle zone non controllate dai tedeschi, la partecipazione delle
donne nel loro sacrificio quotidiano, il significato dei sacerdoti come capi
naturali della Resistenza civile”.
Come segretario dell’Associazione
nazionale partigiani cristiani si mise all’opera con grande fervore. Chiese
aiuto ad istituzioni appositamente preposte a fornire contributi per iniziative
celebrative della resistenza, ma, con suo grande disappunto,molte porte si
chiusero.
Non si scoraggiò, chiese a me e
ad altri amici, di aiutarlo per realizzare una serie di iniziative che lui
stesso aveva programmato. Prese contatto con il Vescovo emerito di Perugia,
Mons. Chiaretti, che è il nipote di Concezio Chiaretti, parroco di Leonessa,
cappellano degli Alpini, fucilato dai tedeschi, il 7 aprile 1943.
Ottenne anche il patrocinio
dell’amministrazione comunale di Leonessa. Una sua telefonata a pochi giorni
dalla sua scomparsa, mi comunicava la sua intenzione di realizzare a settembre,
a Leonessa, un convegno sulla resistenza nell’Italia centrale, con l’obiettivo
di mettere in luce una pagina di storia della resistenza civile del nostro
paese, rifiutando le tesi della zona grigia e della morte della patria, per
restituire ad un evento come la lotta di liberazione il suo grande significato
storico.
Lui stesso, del resto, con il
volume dedicato alla Resistenza di una comunità. La repubblica autonoma di
Cerreto d’Esi, aveva già affrontato l’argomento, ricostruendo la singolare
vicenda vissuta dal suo paese natale tra la primavera e l’estate 1944. Nella
bella introduzione a questo volume, Pietro Scoppola ebbe a scrivere: “L’immagine
della zona grigia è inaccettabile e Ciccardini non manca di dichiararlo
esplicitamente: la popolazione del suo piccolo paese (come la popolazione
italiana nel suo insieme) non fu inerte e indifferente di fronte ai mille drammi
umani provocati dall’8 settembre. […] Dobbiamo dire ormai con chiarezza che
prendere le armi non si può considerare l’unica forma di partecipazione e di
coinvolgimento. […] Il fenomeno della lotta armata che conserva tutto il suo
valore non può essere isolato dalle innumerevoli forme di “Resistenza civile”.
Anche per questo dobbiamo ricordare
e ringraziare Bartolo Ciccardini.
articolo di Maurizio Eufemi tratto
dalla rivista "La Discussione" - 1 giugno 2004
ERMANNO GORRIERI:
La grande levatura politica e intellettuale di Ermanno Gorrieri.
Un esempio, il suo, per i cattolici democratici d’oggi
articolo di
Paolo Frascatore
tratto dalla rivista online "Il domani d'Italia" - 3 gennaio 2022
Urge una sorta di
valutazione critica su tutto ciò che ha rappresentato la più recente
esperienza del cattolicesimo democratico, specie in rapporto con le idee e
l’azione pratica che proprio Gorrieri ha saputo esprimere in maniera critica
e costruttiva. (Paolo
Frascatore)
È una situazione politica strana
quella che stiamo vivendo, ma che non è certamente nuova in questa seconda
Repubblica che ha archiviato l’esperienza politica dei Partiti del Novecento
per abbracciare più che la deideologizzazione, il rifiuto della politica
fondata sui valori. Si torna a parlare in continuazione di centro politico
rispetto ad una realtà che paralizza, o meglio radicalizza, le posizioni
politiche sull’uno o sull’altro versante.
I risultati al centro, stando
alle ultime iniziative, mettono in evidenza soltanto una personalizzazione
dell’intervento politico (privo di qualsiasi respiro futuro) che non trova
riferimento, né tanto meno esempi alti di cultura legata all’esperienza dei
cattolici democratici. Eppure gli esempi non mancano! Non manca l’esperienza
del cattolicesimo democratico di frontiera rispetto alla decadenza della
politica, alle alleanze equivoche ed interessate, al suo modo di saper
interpretare gli avvenimenti politico-sociali di questo tempo difficile da
vivere, ma, proprio per questo, più significativo e foriero di nuove idee
originali ed incisive nella storia politica italiana, ormai ridotta ad una
semplice contesa di potere.
Figure come quella di Ermanno
Gorrieri andrebbero studiate e riattualizzate in questo scenario politico
inconcludente e arido, soprattutto se riferito agli attuali “partiti”
politici. Urge infatti una sorta di valutazione critica su tutto ciò che ha
rappresentato, almeno da quattro lustri, l’esperienza politica del
cattolicesimo democratico, specie se confrontata con le idee e l’azione
pratica che proprio Gorrieri ha saputo esprimere in maniera critica e
costruttiva non solo negli ultimi anni della sua vita terrena. Non è
certamente un caso se il suo interesse si concentrava sempre sulla realtà
sociale, sull’uguaglianza delle condizioni di vita, materiali ed
immateriali, di tutti i cittadini al fine di costruire uno Stato veramente
sociale, ossia capace di realizzare le condizioni di vita dignitose per
tutti.
La forza delle sue proposte
rimandava in maniera decisa ed indissolubile alle idee dossettiane (anche
quando Dossetti decise l’abbandono della politica attiva per sposare la
causa del servizio religioso) nella consapevolezza che non solo si poteva
far politica anche al di fuori delle istituzioni (Parlamento), ma
soprattutto che occorreva mettere mano ad uno Stato sociale che non
garantiva (e non garantisce) quella uguaglianza tra cittadini, che per
Gorrieri non era mai stata quella meccanica e semplicistica rivendicazione
ideologica della sinistra marxista, ma azione concreta e sostanziale nel
portare tutti i cittadini su uno stesso piano di vita civile e materiale.
Oggi sembra di rileggere le idee
di Gorrieri nelle affermazioni di Papa Francesco: le guerre viste come
fallimento della civiltà laicista e radicale, materialista. Le prese di
posizione contrarie all’accoglienza come stato essenziale di quanti sono
sempre più legati all’egoismo, all’individualismo, all’utilitarismo. Certo,
la guerra mondiale è vista dal partigiano Gorrieri non solo come motivo di
decadenza culturale, morale e civile, ma anche come catarsi della storia,
come bagno purificatore per costruire una società fondata sui valori della
fratellanza, della solidarietà e della uguaglianza. Su Gorrieri si può e si
deve tornare nella consapevolezza che il suo magistero politico (insieme
agli uomini migliori del cattolicesimo democratico) costituisce oggi il faro
per qualsiasi iniziativa seria in funzione di una nuova presenza dei
cattolici in politica.
FRANCO
SALVI: Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità dei fini
(3 articoli)
FRANCO SALVI NEL CENTENARIO DELLA
SUA NASCITA: VISSE COME UN SAMURAI, UNA VITA DEDICATA ALLA MORALITA’ DEI FINI.
(articolo di Tino Bino)
Franco Salvi moriva la sera del 28
ottobre 1994. La malattia fisica lo aveva aggredito da tempo. La malattia dello
spirito, il declino della energie morali, il morire, erano cominciati con
l’assassinio di Aldo Moro ed erano precipitati con l’uccisione di Bachelet
nell’atrio della Sapienza. Lo avevano trovato Franco, immediatamente accorso,
accasciato ad un angolo dell’università, perso nella disperazione. Bachelet era
l’amico intimo rimasto dopo la morte di Moro. Moro, era stato la ragione di vita
e di impegno di Franco. Quel leader e le idee che incarnava non erano solo
teorie, principi etici, ragioni politiche, progetti illuminati, ma prassi di una
gestione dello Stato che si andava inverando pur fra mille difficoltà e feroci
avversioni interne e internazionali. Era la comprova fattuale che l’anima delle
idee, e tale era il moroteismo, minoranza marginale delle politiche
democristiane, possono divenire egemoni, governare i processi di allargamento
della democrazia, quando contengono la forza non dei numeri, ma dei principi,
quando incarnano i bisogni di giustizia e libertà, quando interpretano
l’irrinunciabile aspirazione all’eguaglianza, destino irraggiungibile forse, ma
proprio per questo irrinunciabile di ogni azione politica e di ogni progetto di
democrazia.
Capiva Franco che, con la morte di
Moro l’Italia sarebbe entrata in una regressione di idee, in una confusione
progettuale, in un disorientamento politico da cui non sarebbe stato facile
uscire. Dopo molti decenni ancora oggi all’Italia non è riuscito di ritrovare il
percorso, una traiettoria di progresso morale, un sentiero di futuro. Perché il
Paese non ha avuto il coraggio di rivisitare i suoi anni settanta e di
sistemarne, ordinatamente, gli avvenimenti che li hanno attraversati. Nel male
ed anche nel bene. Si è chiusa la stagione dei partiti, perno della vita
democratica sancita dalla Carta Costituzionale. Si è archiviata, per colpe
proprie e dell’episcopato italiano, la storia dei cattolici impegnati in
politica. La sinistra, con la morte di Moro, e lo spaesamento di Berlinguer, si
è sciolta nel mare della proprie contraddizioni storiche. Vent’anni di egemonia
berlusconiana hanno sfarinato la democrazia partecipativa, dando vita al
populismo politico, all’individualismo di una società malata di solitudine,
curata adesso con il narcisismo social. Non estraneo alla deriva dei no vax che
impedisce la sconfitta definitiva del virus che ha stravolto la nostra vita
collettiva nell’ultimo biennio.
Franco Salvi fu fra gli ultimi cavalieri, uno degli ultimi sacerdoti della vita
democratica dei cattolici impegnati. Uso termini sacrali perché così lui pensava
la democrazia, un rito che esigeva costi personali, sacrifici individuali,
fedeltà non discutibili. Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità
dei fini. Morì come i soccombenti per eccesso di virtù. In letteratura sono
modelli, i don Chisciotte, i Cyrano di Bergerac. In politica sono i molti leader
sconfitti dal potere ma testimoni di una idea, di una utopia, di una aspirazione
più alta delle nostre mediocrità. È la storia del Risorgimento, della lotta di
liberazione, dei Costituenti per la democrazia in Italia e in ogni parte del
mondo.
Così fu la vita di Franco Salvi,
dalla militanza nella Resistenza, dal carcere nazista di Verona, dalla
leadership nelle fiamma verdi, da una saga familiare ancora tutta da scrivere.
Il suo carisma bresciano lo esercitava con incontri settimanali nella grande
sala della dismessa farmacia paterna nel quartiere popolare del Carmine. Una
sala rimasta sempre arredata dai grandi vasi medicinali della farmacia di Emilio
Salvi che per decenni ha servito i poveri della città e che, per tutto il
periodo della Resistenza, è stata la sede della clandestinità, dei comitati di
liberazione, degli incontri segreti, degli approdi rischiosi. Dentro, crebbe una
famiglia di leader sociali e politici e culturali.
Una palestra riconosciuta di
educazione all’esercizio esemplare della cittadinanza. Il fratello Roberto fu il
partigiano più coraggioso della Resistenza bresciana, il fratello Mario un
dirigente industriale di riconosciuta professionalità, la sorella Elvira una
intellettuale di prestigio, critica d’arte temuta e preparata. I Salvi, come i
Trebeschi, i Montini, i Bazoli, i Minelli sono la storia di Brescia e del suo
cattolicesimo sociale e liberale.
Sono non solo l’ossatura, la trama
della tenuta civile della città, ma l’identità culturale, la leadership politica
per lunghi anni, fino a quando la politica rimase portatrice del ruolo
essenziale della tenuta e della crescita sociali. Ma lo furono perché l’egemonia
del cattolicesimo che quelle famiglie interpretavano era universalmente
riconosciuta. Il loro era un impegno che si generava nei capisaldi della
responsabilità individuale, nell’universalismo cristiano, nel progetto capace di
coinvolgere l’intera società, non una parte di essa. Sono famiglie che hanno
pagato prezzi alti, fedeli ad un comportamento divenuto concezione di vita
emblematico di una storia del cattolicesimo democratico.
Dopo la guerra Franco Salvi si
impegnò immediatamente nella ricosruzione. Fu vice-presidente nazionale della
FUCI per volere di Montini, poi Paolo VI. E in breve, iscritto alla Dc, divenne
responsabile della Camilluccia, la scuola quadri del partito. Passò da lì
l’intera classe dirigente democristiana, metà del giornalismo italiano, tutta la
dirigenza dell’industria pubblica. Fu a lungo parlamentare, primo collaboratore
di Aldo Moro, responsabile dei morotei, fondatore del moroteismo, e dei
rapporti, per conto di Moro, con i leader della sinistra, e le figure d’oltre
Tevere, le teste pensanti del Vaticano. Incarnò in prima persona la linea
politica del cattolicesimo democratico. Gettò a lungo lo sguardo sui problemi
internazionali con collaborazioni dirette e indirette, promosse movimenti, fu
presidente di associazioni per l’Africa e per l’Est Europa. E alla fine accettò
ruoli secondari, incarichi di modeste identità.
Non chiese mai nulla per sé, la sua
carriera, il suo prestigio.
Ho incontrato due anni fa, poco
prima che morisse, Nicola Rana, l’intellettuale di Moro. Abbiamo parlato a lungo
di Franco. Mi ha confermato che Franco Salvi è stata una delle personalità più
rigorose e cristalline della Dc italiana e che non ebbe ciò che meritava. Molte
volte il suo nome figurava nella lista dei ministri da nominare, ma lo stesso
Moro ne chiedeva la rinuncia. Franco, diceva, doveva stare al partito, doveva
dirigere il gruppo, essere il riferimento delle mille controversie che nascevano
in ogni parte d’Italia. La fedeltà, il coraggio, la testimonianza, lo sguardo al
futuro, la passione per il rigore e la verità, l’assunzione del rischio
personale, sono tutte qualità che si trovano intatte nel discorso storico che
Franco pronuncia dalla tribuna del XIV congresso del febbraio 1980. Lo ricorda
in una bella pagina Corrado Belci nella biografia dedicata a Franco. Fu deriso,
insultato, fischiato dai dorotei e da quanti stavano aderendo ad una linea che
era un insulto alla memoria di Moro. Denunciò l’ipocrisia, il potere fine a sé
stesso, il trasformismo imperante, le congiure, il capovolgimento e il
tradimento della linea di Moro e Zaccagnini. Faticò a terminare l’intervento. Le
sue parole erano sommerse da urla e minacce. In tribuna stampa, dove io sedevo,
arrivavano solo echi e stralci del discorso. Ma Salvi, un piccolo punto grigio,
isolato e solitario sulla tribuna al centro di una assemblea babelica, non si
intimidì. “Amicus Plato, concluse, sed magis amica veritas. Per questo, amici,
ho parlato, ho creduto doveroso dire quello che vi ho detto”. Ed era come un
addio, un congedo limpido in una stagione che avrebbe cominciato il declino
finale di una lunga storia.
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FRANCO SALVI UN VERO MAESTRO DI
COERENZA E POLITICA
(Alfredo Bonomi)
Ci sono persone che diventano
determinanti per il percorso umano di una vita. Per me Franco Salvi è stata una
di queste. È datato negli ultimi mesi del 1969 il primo incontro che ho avuto
con lui e da quel colloquio sono uscito con la convinzione che era necessario,
per dar voce al mio desiderio di impegnarmi per la società della Valle Sabbia,
un coinvolgimento diretto nel vivo dell’amministrazione pubblica.
Da questa certezza venne l’idea di
dedicarmi al mio piccolo comune montano, denso di storia e di problemi, visto
come concreto campo d’azione per dar senso a idealità e progettualità maturate
dopo attente riflessioni.
Senza l’incontro con Franco Salvi,
con molta probabilità, non avrei intrapreso quel percorso amministrativo che mi
ha poi visto Sindaco per venticinque anni, attivo a livello della Comunità
Montana di Valle Sabbia e nella U.S.L. n.39. Tutti gli altri impegni nei vari
organismi scolastici e culturali della Valle, ed anche in un raggio più esteso,
sono state ‘piste operative’ saldamente ancorate ad una visione più vasta, non
limitata ad un singolo territorio. In questo ‘sguardo d’insieme’ Franco Salvi mi
ha insegnato che la cultura era fondamentale per dar più valore all’impegno.
Sulla rigorosità morale di Franco
Salvi è già stato detto tutto.
L’impegno politico per lui è
scaturito, come normale conseguenza, da un dovere etico profondo, attento alle
necessità delle persone, nel tentativo di costruire una società giusta e
generosa dove i problemi fossero considerati e affrontati indipendentemente
dalla loro apparente importanza.
Per un giovane la vicinanza di una
personalità così granitica nei valori e così misurata nel porsi, non poteva che
essere percepita come una ‘folgorazione’ per impegnarsi.
Così è stato per me. I moltissimi
incontri avuti con lui, non tanto i convegni ‘di grido’, ma nell’antica farmacia
di via Battaglie, trasformata in studio o, meglio, in un luogo di paziente e
generoso ascolto, erano un sicuro arricchimento umano, ma anche una sorta di
percorso spirituale, dove la politica non si immiseriva nel contendere del
potere, ma era vista come un convinto impegno quotidiano, lontano dalla fuga
dalle responsabilità, che non disdegnava la legittima forza dialettica per la
difesa di valori ritenuti portanti per una società più giusta.
Da questa visione veniva a noi
giovani, e naturalmente a me giovane amministratore, la molla per un impegno
fatto di atti concreti ed anche di decoro sul piano umano.
Non si trattava quindi di impoverire
il cammino intrapreso con una disinvolta pratica nel ‘superare gli ostacoli’, ma
di arricchirlo con la pazienza di rimuovere gli ostacoli di danno per una
visione della società ancorata ai grandi valori cristiani e a quelli portati
dalla Resistenza, tesa a creare uno Stato attento ai bisogni di tutti e
rispettoso delle peculiarità personali, in un quadro complessivo di vera
libertà.
Dal 1970 al 1990 i nostri incontri
sono stati fitti, poi si sono un po’ diradati anche per le sue condizioni di
salute.
Nella farmacia-studio di via
Battaglie portavo problematiche, richieste che riguardavano anche situazioni di
singole persone, che sembravano poca cosa ma che, in realtà, erano ‘grande cosa’
per chi aveva la necessità di essere considerato ed aiutato. Chiedevo pure molti
consigli. Naturalmente questa era la facciata più evidente di un rapporto
‘declinato’ nell’ottica di poter giovarsi di un parere autorevole per rispondere
alle molte esigenze che si presentano quotidianamente ad un amministratore.
A questo versante si affiancava però
una dimensione più profonda.
La coerenza morale di Franco Salvi,
la sua rigorosa adesione ai valori in cui credeva, il suo modo di vedere la
politica, strettamente legata ad una scala valoriale da rispettare, mai da
rinnegare, sono stati una ‘lezione politica’ profonda e motivante per molti
anche nei momenti difficili e drammatici che ha dovuto affrontare.
La mia convinta adesione al ‘Gruppo
Moroteo’ bresciano (un orientamento mai mutato durante tutto il mio ‘cammino
amministrativo’) è maturata e si è consolidata, sino a diventare una ‘dominante’
nel modo di concepire l’impegno pubblico, grazie ai ripetuti colloqui avuti con
Franco Salvi e al suo esempio moralmente luminoso e politicamente tutto dedito
allo spirito di servizio. La sua figura è stata un punto obbligato di
riferimento per un gruppo di valligiani, attivi a livello comunitario, che, pur
nelle difficoltà, hanno cercato di avere una visione d’insieme nell’agire
amministrativo, supportati anche da serie riflessioni culturali.
Ricordando Franco Salvi è però
d’obbligo soffermarsi sulle sue caratteristiche umane. Uomo di poche ma
sostanziali parole, di sguardi significativi più che di gesti teatrali, con una
grande delicatezza nel porsi e nell’esprimere i sentimenti, sapeva rapportarsi
all’interlocutore in maniera penetrante e coinvolgente. Quella che, ad una prima
impressione, poteva sembrare timidezza, era Franco Salvi, Presidente della Fuci
di Brescia e poi Vice Presidente nazionale invece una forma di rispetto per chi
aveva di fronte.
La non eccelsa retorica nel parlare
denotava lo sforzo continuo di trovare i vocaboli giusti e di ‘far parlare
l’animo’. Teneva in alta considerazione l’amicizia. La sua semplicità nel porsi
era dettata da una collaudata propensione a non voler ‘apparire’, ma a voler
‘essere’. Così era anche nei rapporti umani e nell’amicizia.
Il 21 ottobre del 1978 Franco Salvi
mi accompagnò all’altare della piccola e artistica chiesa parrocchiale di
Avenone per il mio matrimonio con Daniela. Io ero a quel tempo Sindaco di
Pertica Bassa e lei segretaria della Sezione D.C. di Vestone-Nozza. La giornata
era di quelle che mozzano il fiato tanto era bella. I picchi della Corna Blacca
sembravano di cristallo, protesi verso il cielo di un azzurro totale. La
tavolozza dei colori autunnali componeva una cartolina di bellezza
indimenticabile. Le sfumature del colore erano in armonia con la felicità dei
cuori.
Gli occhi di Franco Salvi brillavano
mentre mi accompagnava in chiesa. Si era portato in quel di Pertica Bassa per
essere vicino a due giovani in un momento fondamentale della loro vita. Non ho
mai dimenticato il suo volto e l’intensità del suo fugace sorriso che ha detto
molto in quella giornata.
Certo, pensando a Franco Salvi, alla
sua rigorosità morale, alla ‘palestra dei valori’ nella quale allenava il suo
animo, ai drammi che ha affrontato per essere fedele ad una vita coerente ed ad
azioni altrettanto coerenti, non si può scacciare un sottile filo di malinconia
che pervade la mente. Questo filo è alimentato dalla constatazione dei ‘disastri
politici’ che sono venuti dopo, dell’arroganza di ‘politicanti’ presenzialisti,
della nevrosi del dover apparire ad ogni costo, della ‘solitudine della
politica’, così come è stata costretta dall’attuale società, certo per ragioni
che andrebbero attentamente indagate, senza però far venir meno il senso della
speranza.
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LETTERA AGLI ELETTORI
(Brescia, 1992 Franco Salvi)
Ho chiuso la mia esperienza
parlamentare ed anche quella della politica attiva.
Devo ringraziare quanti mi hanno
permesso di stare in Parlamento per così lunghi anni e mi scuso per le
inadempienze, le deficienze e gli errori che hanno accompagnato questa mia vita.
La società o la politica sono
radicalmente cambiate da quando ho incominciato ad interessarmene; pensate che
già dal 25 luglio all'8 settembre del '43 in bicicletta con mio cugino Cesare
Trebeschi andavo in giro per le parrocchie a presentare ai parroci l'opportunità
della creazione della Dc ed è inutile dire quante diverse reazioni
incontrassimo.
Poi vi è stata la Resistenza, il 25
aprile e il risorgere della democrazia. un primo impegno coi giovani della Dc e
poi il Vescovo di allora mi chiese di scegliere tra l'attività politica e la
presidenza della Fuci di Brescia e io lasciai la politica (anche se nelle
elezioni davo il mio possibile contributo all'attività di via Tosio) fino a
quando dopo essere arrivato a Roma quale vice-presidente nazionale della Fuci
conobbi vari dirigenti della Dc e alla scadenza del mio mandato alla Fuci entrai
nell'attività di partito col gruppo di Id (Iniziativa democratica, ndr).
Scusate questa digressione, non
voglio fare ìa mia storia ma mi serviva per dirvi una delle questioni che più mi
hanno colpito ultimamente in questo cambiamento della società e della politica.
Senza essere stato affatto un eroe
ho però partecipato con un contributo modesto a quella che era chiamata lotta di
liberazione contro i tedeschi e i fascisti e io ricordo qui i nostri caduti
della Resistenza, i giovani che hanno disertato la chiamata alle armi della
Repubblica Sociale per passare nclle file della Resistenza e le migliaia di
prigionieri nei lager tcdeschi che hanno prelerito restare e soffrire e morire
in quei campi di concentramento piuttosto che aderire alla Repubblica Sociale.
Ero convinto che il risorgore della
democrazia in Italia fosse sì dovuto alla sconfitta dei tedeschi da parte di
americani, inglesi, francesi, russi, etc., ma che non fosse affatto
insignificante il contributo degli italiani nella liberazione del nostro Paese
con l'atteggiamento che in diverse forme e ìn diverse situazioni avevano dato
alla lolta contro il fascismo e il nazismo.
E avevo sempre saputo e creduto che
la Costituzione italiana nascesse proprio da questo impegno e dai sacriiici che
questo impegno aveva comportato.
Ora sento dire da storici di varia
matrice, e fra questi da Scoppola che pure è un amico e che ha falto battaglie
con noi in questi anni di vita democratica e da ultimo dal prof. Francesco
Cossiga, che quella è stata una guema civile.
Ma certo loro non hanno visto le
nostre città occupate dai tedeschi e dai fascisti! Permettetemi di dirvi, e mi
scuso coi giovani che non hanno vissuto quegli anni, che non riesco ad accettare
questa versione e che, se volete, oltre a tutti gli altri cambiamenti nella vita
politica e sociale che sono sotto gli occhi di tutti quelli che si sono
impegnati nella vita del partito e nelle altre organizzazioni che hanno
contribuito allo svilupparsi della vita politica e sociale di questi 47 anni e
oltre alle condizioni nelle quali stiamo vivendo oggi, questa è un po' la goccia
che fa traboccare il vaso e che mi induce a ritenermi ormai un superato e a
ritirarmi dalla vita politica attiva.
Nuove energie si presentano alla
ribalta e possono ridare slancio e vigore agli ideali che erano alla base della
nostra vita e che credo abbiano ancora una loro validità anche se l'impegno sarà
gravoso per chi continuerà o inizierà questa azione correggendo anche gli
errori, e sono tanti, che noi più anziani abbiamo commesso.
Di fronte al frantumarsi dei partiti
e della società credo ancora che la politica abbia la funzione di sintesi e di
guida degli interessi, delle spinte, delle richieste provenienti dalla società e
il compito di ricercare il bene comune e credo che anche di fronte al crollo del
comunismo resti valida l'opportunità di un impegno unitario dei cattolici; vi
sono valori che sono propri dei cattolici e che, I'esperienza ci insegna per la
presenza anche parlamentare di cattolici in altri partiti, non possono essere
affermati e difesi che nella unità, in questo contrastando Ie affermazioni del
prof. Cossiga.
Certo si tratta di trasformare e
rinnovare i partiti (io non vedo, a parte iI dettame della Costituzione, altri
strumenti diversi atti a garantire la vita democratica). Di fronte al
frantumarsi dei partiti e della società credo ancora che la politica abbia la
funzione di sintesi e di guida degli interessi, delle spinte, delle richieste
provenienti dalla società. Rendere veramente democratica la vita interna del
partito, renderla pulita, sottrarla agli intrecci con gli affari, rivitalizzare
gli ideali, ricollegarla con la società, dare giustizia ai più deboli, ridare
valori ai quali credere a tutti i cittadini ritengo siano compiti che
soprattutto la sinistra della Dc può e deve ancora svolgere.
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Gli articoli citati sono tratti dal
numero di dicembre 2021 del giornale Democratici Cristiani per l'Azione
UGO LA MALFA: Draghi ricorda La
Malfa, riformatore di scuola laico-democratica, sempre attento a bilanciare
crescita ed uguaglianza
Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Presidente del Consiglio
intervenuto ieri alla Camera dei Deputati alla presentazione del “Portale Ugo La
Malfa – scritti, discorsi, epistolario, multimedia”. La “rivoluzione” di La
Malfa – quella della liberalizzazione del commercio con l’estero e
dell’abbattimento del 10 per cento dei dazi, di cui per altro andava
particolarmente orgoglioso – ebbe la consacrazione di un Consiglio dei ministri
che in pochi minuti deliberò le misure da prendere: a riprova del fatto che
“…certe riforme fondamentali – come disse lo stesso La Malfa – non hanno bisogno
di anni di discussione”. De Gasperi e Vanoni (a differenza dì Pella)
appoggiarono il giovane ministro repubblicano, il quale mise a segno, in questo
modo, un’operazione di straordinario effetto sull’economia italiana del secondo
dopoguerra, fino al boom di fine anni ‘50.
Sono molto felice di essere qui oggi per rendere omaggio a Ugo La Malfa. Voglio
prima di tutto ringraziare coloro che hanno contribuito a questa importante
iniziativa, a partire dal figlio Giorgio e dalla nipote Claudia. L’archivio
digitale degli scritti politici di La Malfa, dei suoi discorsi, del suo
epistolario non è solo un viaggio nella nostra memoria collettiva.
È
un tesoro nazionale, da preservare sì, certo per voi, per le generazioni future,
ma anche per noi, ora.
La Malfa è stato uno dei principali costruttori della Repubblica. Antifascista,
la sua opposizione al Regime, come ricordava Claudia, gli costò un arresto e la
degradazione militare, prima dell’espatrio in Svizzera.
La Malfa portò i valori liberali e democratici del Partito d’Azione nel Comitato
di liberazione nazionale e in una nuova casa, quella che fu la sua casa, il
Partito Repubblicano Italiano.
In politica estera agì da convinto atlantista ed europeista. Nel dopoguerra, La
Malfa è stato uno dei padri del miracolo economico. Ministro del Commercio
Estero nel Governo De Gasperi, ha guidato la liberalizzazione degli scambi.
Nel 1951, abbassò i dazi del 10% e aprì le frontiere al libero commercio, a
fronte di accuse di voler distruggere l’economia italiana e di esporre
l’industria alla concorrenza sregolata. A motivarlo era la convinzione che fosse
necessario stimolare l’economia del Paese con la concorrenza, soprattutto al
Sud. Puntare – come ebbe modo di dire – sulla “capacità nazionale di andare sui
mercati”, sull’iniziativa e sullo spirito imprenditoriale degli italiani.
Con audacia, senza complessi di inferiorità. La storia gli ha dato ragione. Le
esportazioni dall’Italia aumentarono rapidamente per tutti gli anni ‘50 e il
deficit commerciale in rapporto ai volumi totali di scambio diminuì. Grazie a La
Malfa, l’Italia divenne un modello per l’Europa.
Altri Paesi, come Francia e Inghilterra, rinunciarono poco dopo alle barriere
doganali. L’Europa tutta si avviò verso un regime di liberalizzazione del
commercio, che sarebbe culminato nel Trattato di Roma e nella Comunità economica
europea.
Queste scelte valsero a La Malfa l’ammirazione dell’Organizzazione per la
cooperazione economica europea e della Germania. Ludwig Erhard, durante una
visita in Italia, elogiò con un certo stupore il suo coraggio e la sua tenacia.
Quell’Italia, aperta e coraggiosa, seppe sorprendere il ministro tedesco
dell’economia sociale di mercato – e, con lui, l’Europa intera.
Da questo passaggio storico si evince un tratto distintivo di Ugo La Malfa. La
grande apertura mentale, accompagnata alla profondità di riflessione
sull’economia. Conoscenze e convinzioni sviluppate direi soprattutto con la
lettura di Keynes e degli economisti americani. Una scoperta avvenuta in un
grande luogo della cultura italiana: l’Ufficio Studi della Banca Commerciale.
Fu Raffaele Mattioli nel ‘33 a volere lì La Malfa, nonostante fosse stato da
poco liberato dopo un arresto politico e sorvegliato dalla polizia. Mattioli
aprì la sua casa ai giovani dell’Ufficio Studi, dove poterono incontrare
intellettuali, scrittori e poeti, da Bacchelli a Montale. E in quegli uffici
della Banca Commerciale, come ricorda lo stesso La Malfa, si svolse la battaglia
clandestina contro il fascismo.
Da uomo di governo, La Malfa continuò a circondarsi di giovani studiosi. Nel
1962, da Ministro del Bilancio, lavorò insieme a Paolo Sylos Labini, a Francesco
Forte, a Giorgio Fuà e a Pasquale Saraceno alla Nota Aggiuntiva – il suo
maggiore lascito intellettuale. Nella Nota, La Malfa cercò di dare risposta a
una questione centrale per la ricostruzione.
Come trasformare il periodo eccezionale che il Paese stava vivendo in una
stagione di crescita di lungo termine.
La Malfa ci ricorda l’importanza di una politica di programmazione, necessaria
per uno “sviluppo equilibrato”.
E
ci invita ad affrontare le situazioni settoriali, regionali e sociali che non
riescono a trarre “sufficiente beneficio dalla generale espansione del sistema”.
“Soltanto in una fase di grande dinamismo – scriveva La Malfa – è possibile
attuare le necessarie modificazioni del meccanismo economico senza incontrare
costi elevati”.
L’alternativa è quella che La Malfa chiamò successivamente il “non-governo”. Una
definizione fulminante, per sottolineare l’incapacità di affrontare i problemi,
di dare continuità alla modernizzazione del Paese. Al “non-governo” va
contrapposto il coraggio delle riforme economiche e sociali. Quel coraggio che
lui sempre dimostrò, insieme ad una visione direi profondamente pessimista della
politica, ma mai sfiduciata. Una visione, quella che Caffè chiamò “la solitudine
del riformista”, che non diminuì mai il suo entusiasmo riformatore. Un’azione
paziente ma decisa, che eviti gli sterili drammi degli scontri ideologici, per
dare all’Italia una prospettiva di sviluppo, coesione, convergenza.
Oggi, ricordiamo La Malfa come grande statista e appassionato riformatore. Uno
degli artefici del boom economico, sempre attento a bilanciare crescita e
uguaglianza. Un uomo onesto e rigoroso, che non dimenticava quando, da giovane
studente alla Ca’ Foscari, per risparmiare si nutriva di fichi secchi. Un
protagonista della vita civile dell’Italia, che non ha mai perso di vista i
valori morali dell’attività clandestina e della Resistenza e l’importanza di
trasmetterne la memoria.
Nella lettera a Donato Menichella all’annuncio delle sue dimissioni da
Governatore della Banca d’Italia, La Malfa si preoccupa che i più giovani non
conoscano mai “quello che noi abbiamo sofferto e quello per cui tutta la vita
abbiamo combattuto”. Sono certo che l’archivio che inauguriamo oggi contribuirà
a diffondere la lezione riformatrice di La Malfa, il suo coraggio, la sua
passione civile.
Mercoledì, 10 Novembre 2021 -
dal giornale online "Il domani d'Italia"
Nei diari di Ettore Bernabei, uno dei
democristiani più potenti, alla guida della Rai
prima e del sistema degli appalti poi,
l’invettiva contro «la reazione capitalista e i
suoi luridi portafogli».
La testimonianza non oggettiva e distaccata di
un fervente cattolico, soprannumerario dell’Opus
Dei, insegna molto sulla storia d'Italia e sulle
radici della profonda crisi della politica di
oggi.
Nella composita
Dc in cui convivevano l'ispirato Giorgio La Pira
e il cinico Giulio Andreotti c'era più
sensibilità al rapporto con gli umili e alla
critica del capitalismo di quanta non se ne veda
oggi nel centrosinistra.
Leggete questa frase: «La reazione capitalista tenta
di riconquistare il vessillo della Santa Crociata
nascondendo i suoi luridi portafogli dietro le
barriere spirituali di un cattolicesimo irretito
nella difesa astratta dei principi e sostanzialmente
avulso dagli uomini e in particolare dai poveri». E
leggete quest’altra frase: «Ora si discute intorno
alla congiuntura, ma è difficile che chi ha trovato
un briciolo di benessere dopo secoli di inedia si
persuada a tornare indietro in base a qualche
teorema liberista diffuso dal governatore della
Banca d’Italia». Potrà sembrare sorprendente che le
abbia scritte nel suo diario privato, a cavallo tra
1963 e 1964, Ettore Bernabei (1921-2016), all’epoca
direttore generale della Rai. Ma proprio per questo
vale la pena di parlarne.
L’UOMO DI FANFANI
Giornalista fiorentino precoce e assai dotato,
Bernabei è stato per decenni uno degli uomini più
potenti d’Italia. Ombra discreta di Amintore Fanfani
(il leader democristiano che insieme ad Aldo Moro ha
segnato la storia della Prima repubblica tra Alcide
De Gasperi e il declino) è stato a 35 anni direttore
del Popolo, l’organo ufficiale della Dc, e a 40
numero uno della Rai che allora contava mille volte
più di adesso, essendo l’unico mezzo di
comunicazione di massa.
Tocca a lui, nell’agosto del 1964, decidere quanti
minuti dei funerali di Palmiro Togliatti sia giusto
far vedere agli italiani. «Si trattava di dare un
doveroso rilievo alla morte di un personaggio che
tanta parte aveva avuto nella vita italiana degli
ultimi vent’anni senza disturbare gli otto-dieci
milioni di suoi ammiratori e senza disturbare i
diciotto-venti milioni di suoi avversari».
Decide per una sintesi registrata di 25 minuti dopo
il telegiornale delle 23, e lo considera un gesto di
attenzione per i comunisti, che di lì a poco
potrebbero essere decisivi per l’elezione di Fanfani
alla presidenza della Repubblica. Bernabei non è un
funzionario, è un militante politico appassionato,
anche se non comprare mai in pubblico ed è
sconosciuto alle masse.
Per conto di Fanfani tratta direttamente con
Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, due leader
popolarissimi del partito orfano di Togliatti, i
voti comunisti per il Quirinale. Rimane al vertice
della Rai per 13 anni, fino al 1974, e i suoi diari
rivelano un ruolo decisivo di snodo del potere.
Svolge le funzioni di ambasciatore di Fanfani presso
il governo degli Stati Uniti, ma è anche spesso a
colloquio con l’ambasciatore sovietico a Roma Nikita
Ryzhov.
Propizia lo storico incontro tra il papa Paolo VI e
il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromyko.
Durante il rapimento di Aldo Moro si svolgono a casa
sua gli incontri segreti tra Fanfani e il leader
socialista Bettino Craxi per soppesare le
possibilità di trattativa con le Brigate rosse.
Dopo il 1974 Bernabei cambierà vita professionale,
diventando ancora più potente alla guida
dell’Italstat, società statale che finisce per
diventare un ministero dei Lavori pubblici ombra,
architrave del mercato degli appalti, un sistema
perverso ma a suo modo efficiente che sarà distrutto
dall’inchiesta Mani pulite. Da allora è una giungla:
nessuno è riuscito a inventare qualcosa in grado di
sostituire il sistema Bernabei.
LE DUE OSSESSIONI
I suoi diari (Piero
Meucci, Il
primato della politica,
Marsilio)
raccontano però la politica. Chi li scrive è un
cattolico fervente, soprannumerario dell’Opus Dei,
ossessionato dai due nemici che per lui minacciano
l’Italia, gli ebrei e i massoni. La sua cronaca
quotidiana copre in modo dettagliato il quarto di
secolo dalla caduta di De Gasperi (1954) alla morte
di Moro e di Paolo VI (1978) e, pur non essendo una
testimonianza oggettiva e distaccata, punteggiata
com’è da interpretazioni stravaganti, insegna molto
sulla storia politica dell’Italia e, quello che più
ci interessa, sulle radici della attuale crisi
profonda.
Una classe politica sempre più ignorante e
improvvisata non è in grado oggi di fare i conti con
la storia che ne determina in larga parte difficoltà
e incertezze. Torniamo dunque alle due frasi da cui
siamo partiti. Bernabei non ha esitazioni, secondo
lui il cattolico deve fare politica dalla parte dei
poveri e degli sfruttati, contro i padroni. Usa
proprio queste parole.
Ma la Dc è un’altra cosa, la Dc è, come si diceva un
tempo, “interclassista”. Sta con gli operai e con i
padroni perché solo in questa sintesi il partito
cattolico raccoglie l’ampio consenso elettorale
(stabilmente attorno al 40 per cento) che gli
consente di governare per 45 anni. L’interclassismo,
sottintende Bernabei, è contro natura, imposto dalla
contingenza storica. Ma oggi vediamo che è durato
così a lungo da sedimentare nel sistema politico
italiano l’idea che sia una pratica virtuosa, una
sintesi “alta”, l’unica declinazione possibile della
cosiddetta cultura di governo. Una deriva perversa
di cui l’attuale partito democratico è il
malinconico risultato.
Per molti anni la vita della Dc è accompagnata
dall’idea strisciante della scissione. Sintetizza
Meucci, curatore dei diari: «La questione che
[Bernabei] mette a fuoco è che il partito dei
cattolici, per la sua forza elettorale e il suo
carattere popolare, deve fare i conti con il destino
di rappresentare dentro di sé due anime che si
fronteggiano e si combattono quotidianamente. Una
sinistra cristiano-sociale e una liberale, che in
quegli anni prende la forma di un conservatorismo
retrivo e reazionario. La soluzione potrebbe essere
una salutare scissione».
È una guerra politica senza esclusione di colpi. Nel
1959, quando contro un Fanfani troppo di sinistra si
forma il correntone “doroteo”, che diventerà la
definizione proverbiale di una politica per il
potere e senza principi, Bernabei scolpisce
un’analisi profetica: il doroteismo «è una vera e
propria categoria della politica italiana ed
europea, è una tenace conservazione mascherata di
progressivismo da chi in buona fede non ha capito
cos’è la dittatura della borghesia e crede di
costruire una società cristiana credendo in Dio a
titolo personale e facendo riaffermazioni verbali di
antifascismo e di socialità, o in mala fede si è
asservito al padronato e gli offre la copertura del
cristianesimo sociale».
CONTROLLO AMERICANO
Ma le due anime del cattolicesimo non possono
separarsi. In primo luogo perché la chiesa non lo
vuole. Una scissione la costringerebbe a scegliere
se appoggiare l’ala cristiano-sociale di Fanfani o
quella filo-padronale dei dorotei. In secondo luogo
perché la Dc è l’architrave del controllo americano
su un paese di confine con il blocco sovietico, in
cui la forza del Pci, non abilitato a governare a
causa dei suoi legami con Mosca, impedisce
un’alternanza al governo tra progressisti e
conservatori come avviene in tutti gli altri paesi
europei. Così la Balena bianca (come la chiamò
Giampaolo Pansa) è condannata a governare unita,
alleata con i liberali di Giovanni Malagodi, i
repubblicani di Ugo La Malfa e i socialdemocratici
di Giuseppe Saragat, poi dal 1963 in avanti anche
con i socialisti di Pietro Nenni.
Gli alleati minori sono considerati da Bernabei i
veri «servi dei padroni»: «Accusano i cattolici di
cedimenti al comunismo temendo proprio l’alleanza
fra chiesa e comunismo come il colpo mortale al
capitalismo e ai privilegi della borghesia».
L’alternanza tra destra e sinistra avviene
all’interno della Dc ed è sempre risultato di dure
battaglie.
C’è la spinta a sinistra di Fanfani dopo il
congresso di Napoli del 1954 che segna la fine del
degasperismo, c’è il tentativo di svolta autoritaria
(definita senza tanti complimenti «avventura
totalitaria clerico-fascista») di Fernando Tambroni,
ex pupillo di Fanfani, c’è la nuova apertura a
sinistra di Fanfani e Moro, la svolta di destra dei
primi anni ’70 capitanata da Giulio Andreotti che
però subito dopo sarà l’uomo chiave dell’ingresso
dei comunisti nella maggioranza.
Tutto avviene dentro la Dc che in realtà federa due
partiti molto distanti tra loro. Si manovra, si
naviga, si combatte. Bernabei annota le parole del
leader doroteo Mariano Rumor (nel tempo segretario
della Dc e presidente del Consiglio): «Vedete, ve lo
dicevamo noi quando avete cominciato ad attaccare i
liberali (cioè i padroni) e a rompere la solidarietà
quadripartita, i preti non ci permetteranno di
andare a sinistra perciò se proprio non volete
andare alla destra smaccata, accontentatevi di
questa destra mimetizzata che è il centro». Rumor è
sprezzante con il sindaco di Firenze Giorgio La
Pira, grande amico di Bernabei e anche lui
legatissimo a Fanfani, definendolo «un ridicolo
visionario perché difende sempre solo gli operai».
Alla vigilia delle elezioni politiche del 1958 il
diarista annota che «sono elezioni decisive perché
segnano l’antinomia evidente tra il padronato e la
Dc». Fanfani va avanti sulla sua strada riformista,
il suo fidato consigliere gongola: «I padroni e la
massoneria hanno capito che con questo governo è
finita l’era liberale e perciò il loro dominio della
situazione è gravemente minacciato». Lo scontro è
duro, «il padronato punta tutte le carte
sull’opposizione interna alla Dc, stipendiando
deputati e senatori».
Il pendolo interno alla Dc si muove secondo la sua
insondabile armonia. Fanfani sale e scende, come
sempre nella sua vita. Nel 1959 perde presidenza del
Consiglio e segreteria del partito, e Bernabei ne
registra la consueta ma rapida crisi depressiva:
«Fanfani in stato di prostrazione pessimistica molto
grave», appare convinto «che in Italia non sia
possibile far politica per chi onestamente non vuol
piegarsi ai ricchi e servirli». I partiti cristiani
sono un equivoco, dice, e le politiche cristiane
sono espedienti che la chiesa usa per guadagnare
tempo. In tono più apocalittico, sostiene che «per
un cristiano non c’è possibilità di svolgere una
politica a favore degli umili».
ANTICAPITALISMO
La Dc occupa il centro tenendo alla sua destra i
partitini centristi che Bernabei considera al
servizio del padronato e alla sua sinistra i
comunisti che, nella sua visione, lavorano per Mosca
e quindi hanno, anche rispetto alle grandi questioni
sociali, posizioni opportunistiche. Meucci
sintetizza così il pensiero di Bernabei: «I
socialisti al servizio della borghesia capitalistica
e i comunisti paralizzati dal loro tatticismo, nello
sforzo di apparire moderati e democratici, hanno
addormentato le masse operaie».
Sullo sfondo, l’elezione di Saragat alla presidenza
della Repubblica (29 dicembre 1964). Bernabei
soffre: «Come è potuto avvenire che un laico
avversario dei cattolici e rappresentante di grandi
interessi finanziari internazionali è assurto alla
prima carica dello stato? Perché questo
comportamento autolesionista della Dc?».
Intanto Fanfani, sconfitto nella corsa al Quirinale
che non vincerà mai, prepara l’ennesima riscossa.
Ancora una volta in nome dell’anticapitalismo.
Annota il suo attento esegeta: «Sente che alla fine
una gran parte degli italiani potrebbe trovare in
lui un restauratore e un propulsore di nuove forme
di vita associativa che non siano quelle ormai
logore della dittatura borghese capitalista
mascherata da democrazia parlamentaristica. Lo anima
la vecchia passione integrale cattolica, anche se
accompagnata da una durissima polemica con la
gerarchia che in questi momenti si è dimostrata
inetta e rinunciataria».
Nel gioco di specchi della politica democristiana e
italiana nulla è come appare e in certi momenti
anche Bernabei sembra che si perda. Nel 1971 va a
pranzo a casa sua l’ambasciatore americano Graham
Martin e il padrone di casa trae dal colloquio uno
scenario un po’ onirico ma con tracce di
autenticità: «L’ambasciatore tiene a far sapere che
il suo governo (lui è molto amico di Nixon) ha
deciso di puntare in Italia solo sulla Dc
correggendo la precedente politica
dell’amministrazione democratica, che puntava anche
e soprattutto sul cavallo socialista.
Per attuare questa politica lui dice che ha carta
bianca, ma che prima di muoversi nell’aiutare la Dc
vuol vedere se saprà essere unita nella campagna
presidenziale. Mi chiede cosa può fare per
raggiungere meglio questi scopi, lasciando
sottintendere che lui e il suo governo vedrebbero
non ostilmente una candidatura Fanfani. Rispondo che
un discorso del genere dovrebbe esser fatto a una
decina di notabili democristiani, ad alcuni
segretari di partito ed esponenti industriali tipo
Agnelli, Pirelli, Cefis. Tace sugli ultimi due. Per
il primo tiene a dire che ha rotto i rapporti perché
troppo implicato nei finanziamenti di movimenti di
sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Potere
operaio).
Ma che malgrado ciò farà sapere anche ad Agnelli le
direttive sulle quali si muove la politica della sua
ambasciata». Agnelli finanzia Lotta continua e
Potere operaio? Difficile da credersi, ma quello che
conta è la visione sottostante, quella di un
cattolico che si sente accerchiato da forze
padronali (e quindi, in automatico, anche massoniche
ed ebraiche) che puntano a ridimensionare l’anima
popolare del partito cattolico.
Il tema è ricorrente da 150 anni. I cattolici e i
socialisti fondano insieme nell’Ottocento le società
di mutuo soccorso che sono l’embrione del Partito
socialista e del sindacato. La chiesa tende, almeno
in teoria, a schierarsi con i poveri contro i
ricchi, se non altro perché è l’unica strada per
tenere viva un’identità culturale originale nella
moderna società industriale. C’è un filo sotterraneo
che unisce, dall’inizio del Novecento all’inizio del
terzo millennio, l’enciclica Rerum
novarum di Leone XIII alla Fratelli
tutti di Jorge Mario Bergoglio. Poi ci sono le
curve della storia. Con il fascismo la chiesa si
mette al servizio del regime e della «dittatura
borghese», ma nella nuova Dc che nasce nella lotta
contro il nazi-fascismo l’anima sociale emerge
fortissima, anche nell’era di De Gasperi che
sosteneva, ricorda Bernabei, che «per la Dc è meglio
perdere due voti a destra per guadagnarne uno a
sinistra».
IL DUO MONTINI-MORO
Impressionanti le righe
dedicate nel 1978 al bilancio storico di due figure
decisive come Aldo
Moro (ucciso dalle
Brigate rosse il 9 maggio) e Giovanni Battista
Montini (Paolo VI), morto il 6 agosto. Secondo
Bernabei avevano costituito «il più saldo anche se
beato sodalizio spirituale e politico mai esistito
tra chiesa e politica italiana».
Papa Montini ha infatti determinato, secondo
Bernabei, il «più complesso e organico esperimento
di (Jacques) Maritain, secondo il quale i cattolici
devono mantenersi diversi e distinti sul piano
dottrinale dai movimenti di ispirazione marxista, ma
devono essere disposti a collaborazioni sul piano
pragmatico anche con i partiti comunisti allo scopo
di impedire che le forze borghesi e capitalistiche,
dividendo le masse comuniste e cattoliche, possano
attuare regimi a sfondo più o meno dichiaratamente
fascista». Montini, prima assistente ecclesiastico
della Fuci (Federazione universitaria cattolica
italiana, grande scuola di formazione religiosa
della classe dirigente alla guida del paese dal
dopoguerra in poi), in seguito segretario di stato,
infine pontefice, determina la prevalenza nella Dc
della «ala pluralistica (dorotei e morotei)
rinunciataria verso qualsiasi proposta contraria di
politica sociale cristiana, disposta a lasciar
prevalere tutte le ideologie e i possibilismi per
fare perdonare i passati errori “esclusivistici” e
“trionfalistici” della chiesa». Di conseguenza,
spiega Meucci, lo scudo crociato volta le spalle
alla linea autonomista propugnata da padre Agostino
Gemelli, fondatore dell’università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano, «che con Fanfani, La Pira e
(Giuseppe) Dossetti propugnava una proposta sociale
cristiana in alternativa a quella illuministica
borghese ma anche a quella marxista». Tanto che
Bernabei ripone grandi speranze nel pontificato di
Albino Luciani (Giovanni Paolo I), che però durerà
solo 33 giorni. Definisce la sua elezione «un soffio
dello Spirito Santo». Commenta Meucci: «L’enfasi
dell’espressione usata dal diarista non è casuale,
esprime l’attesa per una dottrina sociale capace di
rilanciare l’idealità del mondo cattolico e dei suoi
valori. Una visione del mondo capace di competere
con il neoliberismo e l’utopia marxista».
Mentre inizia, con l’uccisione di Moro, il
disfacimento della Dc, Bernabei rimpiange
l’incapacità di proporre un vero modello cattolico
di società e la scelta (che attribuisce al duo
Montini-Moro) di presidiare il centro politico con
una specie di modello intermedio tra liberismo
capitalista e sinistra di ispirazione marxista.
Nei decenni successivi si crea il paradosso
imprevedibile che domina l’Italia di oggi: la Dc
esplode e le sue schegge “pluralistiche” finiscono
prevedibilmente in tutte le aree politiche, ma nel
frattempo liberismo e comunismo si fondono in quella
specie di pensiero unico da cui nasce, per esplicita
rivendicazione, il Pd. Così oggi, di fronte alla
domanda di politica determinata dalla profonda crisi
del capitalismo, ci troviamo a constatare nei diari
di Bernabei che in quella composita Dc in cui
convivevano l’ispirato La Pira e il cinico Giulio
Andreotti c’era più sensibilità al tema del rapporto
con gli umili e della critica del capitalismo di
quanto non si veda nelle formazioni di
centrosinistra di questi tempi.
Un tuffo nel
passato con Mario Segni, padre della stagione referendaria degli
anni ’90, figlio di Antonio (presidente della Repubblica e
ministro Dc) in libreria con “Il colpo di Stato del 1964. La
madre di tutte le fake news”
Mario Segni, il padre
della stagione referendaria degli anni ’90, figlio di Antonio
(presidente della Repubblica e ministro Dc), si racconta a Formiche.net sul
presunto golpe del ’64. Per la sinistra fu un “colpo di Stato”,
per Segni “la madre di tutte le fake news”. Si tratta di un
tuffo nel passato necessario per capire quanto delicata fosse la
situazione politica italiana avendo all’interno del Paese il più
organizzato partito comunista dell’intera area occidentale.
Servizi segreti, carabinieri, istituzioni e presidenza della
Repubblica, erano tutti preoccupati da una possibile avanzata,
anche armata, del Pci. Al centro della scena Antonio Segni, un
politico di alta statura morale e civile, volto a garantire la
tenuta del sistema repubblicano.
Tenendo presente il suo ultimo libro, Il colpo di Stato del
1964. La madre di tutte le fake news, per citare Pietro
Scoppola, la nostra ad oggi è ancora una “Repubblica dei
partiti”?
Certamente
no. La Repubblica dei partiti è finita nel 1992-1993. È finita
da un lato con Mani pulite, ma è finita soprattutto con il
passaggio al sistema maggioritario. Nel ’93 il cambiamento del
sistema elettorale ha posto le basi di una Repubblica non più
dei partiti ma delle istituzioni.
Suo padre, Antonio Segni, non fu solo presidente della
Repubblica ma anche uno stimato ministro con De Gasperi e
presidente del Consiglio. Una carriera nelle istituzioni.
Fu
all’interno delle istituzioni e all’interno della Democrazia
Cristiana. Storicamente non dobbiamo dimenticare che la Dc è il
partito che ebbe il merito della nascita dello Stato democratico
e della ricostruzione economica, sociale e morale del Paese dopo
la guerra. Io in particolar modo dividerei la Prima Repubblica
in due periodi: uno che può essere definito degasperiano che
dura anche un po’ oltre la morte di De Gasperi (governi Scelba,
Segni ecc…) e arriva intorno al 1960, l’altro la seconda parte è
la fase del lungo declino che l’Italia ha iniziato e che ancora
non è finito.
Il rapporto tra suo padre e De Gasperi?
Intanto non
dobbiamo dimenticare che appartenevano allo stesso ristretto
gruppo di fondatori della Democrazia Cristiana. Persone che
avevano molte caratteristiche comuni: un’ispirazione cristiana
profonda e una totale discontinuità con il periodo fascista.
Nessuno di loro era stato fascista o simpatizzante del
ventennio. Mio padre di De Gasperi fu ministro dell’Agricoltura
di cui l’opera principale fu la riforma agraria sulla quale ebbe
anche divergenze spesso profonde anche con lo statista trentino.
È una storia complessa e travagliata, di due statisti che hanno
avuto sempre un rapporto solidissimo di stima reciproca.
Entrambi provenivano dal gruppo del PPI di don Luigi Sturzo.
Mio padre era
un grande estimatore di Sturzo e fu anche tra i militanti del
PPI negli anni ’20. Fu anche candidato alle elezioni politiche
del ’24 ma non passò, fu il primo dei non eletti in Sardegna.
Tra l’altro finita la guerra ebbe modo di frequentare
intensamente Sturzo quando tornò dall’esilio.
Come si arrivò alla designazione di suo padre come presidente
della Repubblica?
Fu molto
semplice. La Dc si mostrò quasi sempre compatta sul suo nome.
Moro era segretario del partito, fu uno degli artefici della sua
elezione. Fu eletto al nono scrutinio ma fu dall’inizio alla
fine il candidato del partito contrapposto a Saragat candidato
delle sinistre.
Cosa successe realmente nel 1964 con la crisi del I° governo
Moro?
Nell’ultima
parte del mio libro, ci sono alcune lettere di mio padre scritte
soprattutto a Moro e Rumor (segretario della Dc) e ad altri, in
cui appare chiarissimo qual è il motivo delle preoccupazioni,
delle ansietà che lo turbano come presidente della Repubblica.
Prima di tutto la crisi economica che precedeva di molto la
crisi di governo. Tanto è vero che era stata preceduta da due
eventi clamorosi: l’arrivo a Roma del vicepresidente della
Commissione Europea e la lettera di Colombo, ministro del
Tesoro, in cui denuncia disastrose le misure economiche del
governo.
L’altra preoccupazione era di carattere costituzionale. Lo
ripete varie volte nelle lettere a Moro, “io da presidente della
Repubblica non posso permettere che l’Italia cancelli il sistema
economico basato sulla libera impresa di mercato e sulla
proprietà privata, determinato e scelto dalla Costituzione e
metta in pericolo la partecipazione dell’Italia tra i paesi
europei”.
E Guido Carli, governatore della Banca d’Italia come reagì?
Carli era
schierato con ancora più forza a fianco di mio padre.
E la figura del generale De Lorenzo come la possiamo
interpretare?
Nella crisi
precedente, un anno prima, in cui si era formato il I° governo
Moro, mio padre aveva instaurato l’abitudine di convocare
ufficialmente al Quirinale durante la crisi anche personalità
esterne. Convocò in occasione della prima crisi, Gaetano Martino
sulla politica estera, Guido Carli governatore della Banca
d’Italia e Giovanni De Lorenzo come esperto di ordine pubblico.
Nessuno disse niente. In realtà la presenza di convocare
personaggi esterni era già avvenuta la volta precedente, non era
nemmeno una novità. Dopodiché dobbiamo dire che mio padre aveva
una grande fiducia personale nei confronti di De Lorenzo e nei
Carabinieri.
Come erano a livello politico e istituzionale i rapporti tra
Antonio Segni, capo dello Stato, Moro presidente del Consiglio e
Rumor segretario del partito?
Rapporti di
grande cordialità. Con Aldo Moro c’erano però differenza
politiche molto profonde. E la crisi del ’64 dimostra come le
posizioni sono diversissime. Aldo Moro vuole il mantenimento
della formula del centro-sinistra, mio padre invece vuole che la
formula almeno in quella fase vada cambiata. Nella crisi vincono
Moro e Nenni con la conferma del centro-sinistra. Poi la crisi
obbliga il governo a cancellare – per fortuna – quelle misure
che Segni e Carli non volevano. Vengono più cancellate per la
forza delle cose che per la spinta politica.
L’ultimo colloquio tra suo padre e Moro prima della malattia?
È un
colloquio dopo la crisi, molto emozionante. Alla fine mio padre
gli dice: “Credo che tu non abbia a lamentarti nulla di te”. E
Moro gli risponde: “Sì, è vero, ma io volevo essere certo del
tuo appoggio”. E Antonio Segni: “Io te lo confermo e garantisco
ma nei limiti della Costituzione”.
L’aneddoto riportato giornalisticamente da Jannuzzi della famosa
litigata al Quirinale con Saragat e Moro? Cosa può dirci a
riguardo?
Ritengo che
sia una delle tante invenzioni, bugie, balle inventate da
Jannuzzi. E ne sono sicuro per un piccolo motivo pratico. Io
conosco il Quirinale, mio padre ci ha vissuto due anni, nello
studio in cui si svolse l’incontro e il Salone dei Corazzieri ci
sono quattro, cinque stanze con porte massicce. Dopodiché la
smentita di Saragat è più precisa che mai: “Vergognose
speculazioni”.
Taviani era ministro dell’Interno con Moro.
Tra Taviani e
mio padre c’era una lunga amicizia, ma c’era da tempo una forte
divergenza di opinioni politiche. Taviani era già fortemente
attento all’apertura verso i comunisti e riteneva che fosse
scomparso il pericolo comunista dopo la sconfitta di Secchia al
congresso precedente.
L’incontro tra suo padre e De Gaulle?
De Gaulle era
un personaggio che non poteva non incutere un senso di
straordinaria autorevolezza. Ricordo una frase di Kissinger che
disse che quando arrivarono all’Eliseo sembrava che tutto il
palazzo ruotasse intorno a lui. Mio padre invece ricordo che mi
disse: “Sembra più un vescovo che un generale”. Sembrava
trasparire quasi un senso di superiorità religiosa.
La Sardegna ha dato i natali a figure politiche importantissime.
Quali erano i rapporti tra queste famiglie?
Erano tutte
famiglie sassaresi che si conoscevano da secoli. Con Cossiga mio
padre ebbe quasi un rapporto di affetto paterno, era quasi un
membro della nostra famiglia. Parliamo ovviamente di due
generazioni diverse. Erano tutte famiglie nate e residenti in
poche centinaia di metri di distanza, tutte appartenenti alla
stessa parrocchia. La parrocchia di San Giuseppe ebbe due
presidenti della Repubblica e il segretario del Partito
Comunista.
Mario Berlinguer, padre di Enrico, fece anche una piccola
apertura per votare suo padre presidente della Repubblica.
Mario fu
quasi coetaneo e deputato socialista, e sì, durante le elezioni
presidenziali, nonostante la candidatura di Saragat per le
sinistre fece apertamente campagna per Antonio Segni.
Qual era il rapporto tra suo padre e la vostra terra di origine?
Io non
dimenticherò mai una cosa che scrisse Montanelli. Il rapporto
tra Antonio Segni con la Sardegna è un rapporto di amore
carnale. Fu un rapporto di affetto profondissimo.
(articolo di Paolo Cilona tratto dal
giornale "La Sicilia/Agrigento e Provincia" del 18 Maggio 2021)
Oggi
ricorre il centenario della nascita a Porto Empedocle dell’onorevole
GiuseppeSinesio, uno dei quattro figli (Pasquale, Maria e Aldo) di una famiglia
piccolo borghese. Il padre, era un laborioso commerciante, proveniente dalla
vicina Cattolica Eraclea. Una famiglia assai conosciuta e ben voluta dalla
comunità empedoclina.
Il piccolo Giuseppe dopo avere frequentato la scuola d’obbligo fu mandato a
studiare ad Acireale
presso il Collegio Pennisi, retto dai padri gesuiti. Si diplomò all’età di 17
anni, anticipando di un anno il corso scolastico. Venne poi mandato a Milano,
dove si iscrisse alla Facoltà di Chimica. Tra i suoi docenti il prof. Giulio
Natta (inventore della plastica e Premio Nobel per la Chimica nel 1963).
Durante l’esperienza universitaria
partecipò in modo clandestino alla contestazione del regime fascista. Venne
scoperto ed espulso da tutte le università italiane, ma grazie all’intervento di
un amico studente che interessò la casa reale, fu riammesso a frequentare il
corso di laurea.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, il giovane Giuseppe venne chiamato alle
armi ed assegnato al Corpo di Spedizione Italiano in Russia. La campagna si
concluse amaramente per l’esercito italiano che riportò novantamila morti e
cinquantamila congelati su un contingente di quasi duecentocinquantamila
soldati. Di questa grave avventura bellica ne parlava spesso con i giovani,
ricordando quei momenti di dolore e di disperazione, con le suole bucate sulla
neve e con le numerose sofferenze subite durante la ritirata e che secondo lui
Cristo gli stava accanto
alimentando la speranza di poter riabbracciare la famiglia lontano.
Si laureò presso l’Ateneo palermitano ed iniziò ad insegnare presso il Liceo
“Empedocle” di Agrigento. Tra i suoi più cari amici il giovane Andrea Camilleri
che voleva apprendere da lui le tecniche dell’oratoria che costituiva la parte
indispensabile del bagaglio del personaggio politico.
Nel 1948 fu eletto vice sindaco. In tale veste cominciò a confrontarsi con i
reali problemi della città marinara.
Nel 1950 sposò la più giovane delle sorelle Sciangula, Carmela, appartenente ad
una famiglia
della imprenditoria empedoclina operante nel settore della pesca. Dal felice
matrimonio vennero al mondo Pippo e Ketty.
Fu chiamato a svolgere attività sindacale da Enzo Lauretta. Nel 1951 prese il
comando della Cisl, il più grande sindacato dei lavoratori cattolici. Come
sindacalista promosse tutte le battaglie per il riconoscimentodei diritti a
favore dei lavoratori incominciando dalle miniere di salgemma e di zolfo
presenti nel territorio agrigentino, per poi partecipare alle grandi lotte per
l’occupazione delle terre per l’attuazione della riforma agraria.
Molta attenzione riservò ai problemi dei pescatori e dei marittimi, con il
sindacato “Liberpesca”, con il compito di tutelare i lavoratori del mare.
Nel 1951, grazie ad una borsa di studio si recò a New York per partecipare ad
uno stage organizzato dalla Fondazione creata dal Senatore americano Fulbright.
Le borse di studio avevano il solo compito di agevolare gli scambi di idee e di
cultura tra gli Stati Uniti e gli altri
paesi del mondo tra cui l’Italia.
Un anno dopo dal suo ritorno dagli Stati Uniti sarà eletto sindaco di Porto
Empedocle. La sua sarà una lunga sindacatura quasi ventennale fino al 1969 per
poi proseguire dal mese di febbraio 1970 al mese di luglio dello stesso anno ed
infine dal 1985 al 1989.
Alle elezioni politiche del 1953 venne escluso dalle liste della Democrazia
Cristiana a seguito dell’intervento diretto di De Gasperi e di Scelba perché
«aveva idee troppo radicali e di sinistra». Idee che preoccupavano i dirigenti
nazionali di allora della Dc. Ma questa delusione non mino’ il suo entusiasmo e
la sua azione.
Dal 1958 e per otto legislature fino al 1992 fu deputato nazionale, ricoprendo
la carica di sottosegretario. Per il sottile gioco politico, pur avendo la
capacità e la statura, non fu mai ministro, ma fece parte della direzione
nazionale del suo partito. In verità Giuseppe Sinesio
venne nominato ministro della Funzione pubblica nel IV Governo Andreotti, ma non
andò a giurare, rinunciando all’incarico ministeriale perché era venuto meno
l’accordo tra Donat Cattin (suo capo corrente) e il duo Andreotti-Moro che
prevedeva per Sinesio il ministero dell’Industria. Rivestì la carica di
sottosegretario al Tesoro, ai Trasporti, all’industria nei governi presieduti da
Rumor, Colombo, Andreotti e Moro. Ricoprì inoltre, con autorevolezza ed impegno
la carica di presidente dell’Ueo (Unione Europa Occidentale).
Assieme a Giulio Pastore, Donat
Cattin, Vittorino Colombo, Guido Bodrato costituì la corrente di “Forze Nuove”.
Nel 1992 lasciò la politica attiva per dare spazio al figlio Pippo, il quale pur
avendo ottenuto un ottimo risultato elettorale non venne eletto deputato. Un
risultato amaro per Giuseppe Sinesio, dovuto principalmente alla perniciosa
conflittualità all’interno della sua famiglia dove il cognato Salvatore
Sciangula, potente assessore regionale ai lavori pubblici non aiutò sul piano
elettorale il nipote Pippo Sinesio. Sempre attivo sul piano parlamentare e negli
organi nazionali del partito. Persona di grande umanità e punto di riferimento
di tanti giovani impegnati nell’ambito della politica locale e regionale.
Fu Sinesio a scoprire e a sostenere sul piano politico tanti giovani come
Salvatore Sciangula e Calogero Mannino. Furono tante le battaglie da lui
condotte per dare al Comune di Porto Empedocle una prospettiva industriale.
Infatti, grazie al suo costante interessamento e ai rapporti
personali con la famiglia Pesenti sorsero gli stabilimenti della Montecatini,
dell’Italcementi, della
Vertem, creando un’area di sviluppo industriale. Nel 1963 dotava l’area del
porto di un piano regolatore con lo scopo di accrescere il movimento del
trasporto marittimo.
Nel 1994 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la più
alta onorificenza di
“Cavaliere di Gran Croce”.
Si deve al suo impegno culturalela realizzazione a Porto Empedocle del monumento
a Luigi Pirandello, in occasione del cinquantenario della morte del grande
scrittore agrigentino, premio Nobel per la letteratura. Si spense all’età di 81
anni il 15 febbraio del 2002.
Cossiga è stato protagonista di
uno snodo della vita sociale e politica europea e mondiale. A differenza del suo
maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione, che
va ricostruita soprattutto attraverso le sue azioni. Il ricordo di Vincenzo
Scotti, già ministro degli Esteri e dell’Interno, che sarà pubblicato in
un’opera a cura dell’Università di Sassari
L’Università di Sassari, che ha conosciuto Francesco Cossiga prima come
studente e poi come docente della Facoltà di Studi Giuridici, ha organizzato
in suo onore, con la presenza del Presidente della Repubblica, una giornata
di studi secondo la tradizione accademica.
Dall’insieme dei contributi
raccolti in queste pagine emerge, anche per chi non lo ha conosciuto e
frequentato, quanto sia complessa la personalità di Cossiga. Essa è stata
letta, pur nel rispetto della complessità delle diverse espressioni, alla
ricerca della sua unità: uno statista del tempo presente, della sua terra
sassarese, della sua nazionalità italiana ed europea e della sua
cittadinanza del mondo. Essendomi stato richiesto di partecipare a questa
lettura, in nome della nostra amicizia di una vita, non ho potuto che
scrivere qualche pagina di testimonianza sul modo con cui Cossiga visse i
grandi cambiamenti del contesto storico che cercò di capire andando sempre
oltre l’emergenza e guardando oltre la siepe che recingeva il cortile del
quotidiano. Nello scrivere questa piccola testimonianza mi sono ricordato un
ammonimento di Goethe: “non si va molto lontano quando non si sa dove si va.
Il guaio peggiore è quando non si sa dove si sta”.
Nel 1999, dovendo inaugurare il
primo anno accademico della Link Campus University (allora of Malta), con il
nostro grande amico comune, Guido De Marco – Presidente della Repubblica
di Malta – chiedemmo al Presidente emerito di dedicare la sua lectio
magistralis alle origini e agli sviluppi dei totalitarismi del secolo breve:
il nazismo, il fascismo e il comunismo. Nella sua analisi, Cossiga parlò ai
giovani studenti della fragilità delle democrazie e del loro rapporto vitale
con la libertà. Alla luce di questa analisi, era chiara la sua definizione
di cattolico liberale e l’indicazione dei suoi maestri Tommaso d’Aquino,
insieme ad alcuni pensatori cattolici moderni: il beato Antonio Rosmini, il
Cardinale oggi Santo, John Henry Newman, Papa Benedetto XVIe alcuni tra i
grandi teologi protestanti di quegli anni.
A completare la sua vasta
cultura interdisciplinare, vorrei ricordare gli studi di filosofia del
diritto e di diritto costituzionale che sviluppò sotto la guida del maestro
Giuseppe Capograssi.
Da queste prime righe il lettore
potrà constatare che questa mia non è altro che la testimonianza di un amico
conosciuto fin dagli anni Cinquanta, i tempi dell’Azione Cattolica, con cui
ha condiviso tanti momenti felici, pur sempre accompagnati da un percorso
politico quanto mai accidentato e, a volte, anche drammatico. Ma il fulcro
della mia testimonianza è negli anni finali del suo mandato di Presidente
della Repubblica.
Ritornando per un istante agli
interessi e alle curiosità culturali di Cossiga c’è un’area che avemmo in
comune come ministri dell’Interno: mi riferisco agli studi strategici
internazionali e a quelli sulla sicurezza e sull’intelligence nel tempo
presente. Su questi temi si sviluppò non solo una sintonia accademica ma
anche un’uniformità operativa quando mi trovai a rapportarmi da ministro
dell’Interno con Cossiga Presidente della Repubblica.
I momenti più difficili e tormentati
su cui continuo a riflettere e sui quali ancora mi interrogo, restano certamente
quelli del rapimento e della uccisione di Aldo Moro e quelli finali del suo
settennato. Ad oggi, nonostante siano trascorsi ben dieci anni dalla sua morte,
questi due periodi sono i meno sedimentati e poco oggetto di analisi storica
condivisa.
Mentre per quello che riguarda
il tempo delle 菟icconate�e
dellimpeachment
mi sento oggi di testimoniare, sulla questione Aldo Moro mi rimane difficile
perch�troppo complesso per limitarlo a poche righe. Seppure con lui non abbia
avuto mai alcun contrasto e mi sia sempre rivolto a lui con molta franchezza,
sulla questione Moro, il suo maestro, ho sperimentato quanto fosse per lui
doloroso parlarne. Nel 1992, in presenza di richieste da parte della Commissione
parlamentare sui documenti in possesso del ministero sul caso Moro, nominai una
ristretta commissione per verificarne l弾sistenza
negli archivi delle forze dell弛rdine
e del ministero. Dovetti consegnare i risultati ad un gruppo guidato dal vice
presidente Luigi Granelli, redigendo un apposito verbale. Pur riscontrando la
sua sofferenza, devo dire che questa non lasci�traccia nel nostro rapporto di
amicizia.
Passo ora alla testimonianza
su come Cossiga visse il cambiamento della fine del comunismo e come si
impegn�con grande coraggio a leggere gli avvenimenti che hanno smentito il
semplicismo di un giudizio di semplice vittoria del capitalismo liberista e, di
conseguenza, di una fine della storia. Cossiga fu uno dei pochi convinti che in
Italia, in Europa e nel mondo si richiedeva alle classi dirigenti di ambedue i
blocchi di affrontare i cambiamenti culturali, sociali e politici che avrebbero
investito l弾misfero
del capitalismo, proprio in conseguenza della caduta del muro di Berlino.
Dal mantenimento della pace, alla
competizione coi Paesi emergenti, al formarsi di nuovi equilibri geo-economici e
geopolitici, al disfarsi e riorganizzarsi degli Stati dell’ex Patto di Varsavia
e quindi alla revisione degli assetti delle istituzioni mondiali e di quelle
interne ai singoli Paesi comunisti. Una volta caduto il sistema del socialismo
reale, non solo come ideologia ma di potere, non c’era soltanto da espandere e
rendere globale e più radicale il capitalismo e da esportare la democrazia dei
Paesi industriali. Cossiga, nel silenzio della prima parte del suo settennato,
aveva riflettuto proprio sulla fine del comunismo e sulle difese economiche,
sociali e politiche costruite per garantire in Europa, e in particolare in
Italia – il Paese con il più grande partito comunista, equilibri di potere alle
forze di governo e di opposizione.
Vorrei fare qui una breve parentesi
che certamente è fuori dalle vulgate della storia della Dc: il partito politico
che ha avuto al proprio interno la maggiore insofferenza verso l’equilibrio
allora esistente è stata proprio la Dc che, a prima vista, avrebbe potuto trarre
la maggiore rendita di posizione. Il dibattito sull’andare oltre è stato sempre
presente nella vita del partito, da De Gasperi a Moro.
Cossiga intuì che a rendere più
urgenti e necessari i cambiamenti istituzionali e politici fosse l’avanzare
della rivoluzione digitale che avrebbe messo in crisi le forme di democrazia
rappresentativa, imponendo di sostenere la globalizzazione, il capitalismo
finanziario, il determinismo dell’algoritmo e dei modelli.
Cossiga era certo che la maggioranza
delle forze politiche pensava che bastasse cambiare subito nome e segni dei
partiti storici per poter mantenere, senza nulla mutare, gli assetti politici
esistenti. Contro questa area di continuità, Cossiga riteneva bisognasse alzare
la voce e usare il piccone per essere ascoltato e demolire l’esistente.
Gli avvenimenti precipitarono con il
crollo del muro di Berlino, dei regimi comunisti nei Paesi satelliti e del mondo
bipolare: al centro della comunicazione vi erano la caduta del muro di Berlino,
il 9 novembre del 1989, e l’immagine del presidente Gorbaciov e di sua moglie
che scendono dall’aereo che li riporta a Mosca, il 19 agosto 1991, dopo il
fallito colpo di stato.
Non posso non sottolineare che la
mia amicizia con Cossiga copre la gran parte della sua straordinaria vita. Nasce
agli inizi degli anni Cinquanta quando ero impegnato nella sede centrale della
Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), all’Ufficio Studenti. Sono gli
ultimi mesi di presidenza di Carlo Carretto e l’intero periodo di Mario Rossi,
il giovane medico del Polesine. Cossiga è un dirigente dell’Azione Cattolica
della diocesi di Sassari, impegnato poi nella Fuci e nei Laureati Cattolici e
nella vita politica, a partire delle elezioni del 1958. Nel contrasto tra Luigi
Gedda, Carretto e Rossi si era consolidato il rapporto tra la Giac, la Fuci e i
Laureati Cattolici. Gli storici dei movimenti cattolici si sono molto
interessati alla vicende della Fuci e del Laureati; di queste ultime erano
parte Giulio Andreotti, Aldo Moro e Giovanbattista Montini. La Gioventù
Cattolica era molto meno impegnata nella vita della DC, lo scontro con Gedda era
culturale e sociale. Quando, nel 1954, viene destituita tutta la dirigenza della
Giac, per intervento del Santo Uffizio, la notizia viene commentata solo da
alcuni grandi giornalisti. Eppure la Giac era una comunità che comprendeva
uomini di notevole spessore culturale, a partire da Pietro Phanner, Umberto
Eco, Emanuele Milano, Dino De Poli, Wladimiro Dorigo, Michele Lacalamita,
Luciano Tavazza, Antonio Graziani e don Arturo Paoli. L’unico rappresentante
politico era il vice presidente, Emilio Colombo. Erano straordinarie personalità
che hanno lasciato un segno nella storia culturale e civile del Paese. Sotto la
presidenza di Rossi, la GIAC cambiò la sua struttura con la nascita dei
movimenti degli studenti, dei lavoratori e dei coltivatori che divennero una
delle ragioni dell’allontanamento di tutta la dirigenza.
A me fu chiesto di collaborare ad
organizzare il movimento nelle scuole cattoliche e di impegnarmi a dar vita a
una Scuola nazionale del Movimento studenti, a cui contribuirono tutti i
dirigenti del movimento, compreso Vincenzo Saba, grande amico di Cossiga (tanto
da chiedergli di fare da padrino di battesimo a sua figlia Gavina) e un grande
vescovo, monsignor Emilio Guano, assistente dei Laureati Cattolici. La scuola
del movimento studenti, nel dicembre del 1953, fu l’occasione per conoscere e
stabilire un rapporto d’amicizia con Cossiga tramite proprio Vincenzo Saba.
Dopo qualche anno, quando ero
capo della segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno,
presieduto da Giulio Pastore, incontrai pi�volte Cossiga per discutere dell弾laborazione
del primo Piano di Rinascita della Sardegna. In quel momento, Paolo Dettori
era presidente della Regione e Pietrino Soddu era l誕ssessore
al Piano. Tutti e due erano di Sassari e in Sardegna era gi�scoppiato lo scontro
politico tra i cosiddetti giovani turchi,
organizzati da Cossiga, e i grandi
popolari, non solo di Sassari (per
tutti Antonio Segni) ma di Cagliari (Antonio Maxia, Efisio Corrias, Lucio
Abis) e di Olbia (Salvatore Mannironi).
I giovani turchi avevano una grande
vivacità culturale e coraggio politico tanto da porre ultimati ad Antonio Segni.
Celestino Segni, il primogenito di Antonio Segni, faceva parte dei giovani
turchi! Per Cossiga iniziavano gli anni della crescita di responsabilità
politiche e di governo: consigliere di Moro in questioni di estrema
riservatezza, sottosegretario, ministro e poi Presidente del Senato e, infine,
Presidente della Repubblica. Nessun politico italiano ha percorso una così
rapida crescita di responsabilità e di successi e, al tempo stesso, di
grandissime amarezze e dure lotte. Nella formazione del Governo di Mariano Rumor
del 1972, fu proposto, dai suoi amici della Base, come Ministro della Funzione
Pubblica, ma la sua nomina incontrò il veto di Eugenio Cefis per il sostegno
dato, insieme a Stefano Siglienti e a Beniamino Andreatta, rispettivamente
Presidente e Consigliere dell’Imi, al progetto del polo chimico di Porto Torres.
Il giorno dopo la formazione del
Governo, Cossiga mi chiamò a brindare coi giornalisti, alla bouvette della
Camera, per la mancata nomina a ministro. Si era chiusa una porta ma era
convinto che si sarebbe aperto un portone. Infatti si susseguirono: ruoli
politici crescenti nel governo Rumor, il sottosegretariato alla Difesa, ministro
della Funzione Pubblica e, infine, ministro dell’Interno, dove si trovò a
gestire la tragedia dell’uccisione di Moro e da cui si dimise appena scoperto il
cadavere. Queste dimissioni fecero pensare a un ritiro dalla politica. Ma non
passò molto tempo e Sandro Pertini gli diede l’incarico di formare, in sequenza,
due Governi.
Mi chiamò a far parte del suo
Governo come ministro e mi fece partecipare, a Palazzo Chigi, alle riunioni
della sua “squadra di sardi”, tra i quali il cugino Sergio Berlinguer e Luigi
Zanda. Fu un periodo molto intenso, sia sul versante interno che su quello
internazionale, in cui riuscì a stabilire una difficile intesa con i socialisti,
in specie con Bettino Craxi e Giuliano Amato, nonostante i crescenti contrasti
tra i due partiti. La decisione sulla installazione dei missili a corto raggio
nel nostro Paese fu presa con una liturgia attenta a tutti minimi particolari,
non ultima quella dell’isolamento dell’area di Palazzo Chigi durante la seduta
del Consiglio dei Ministri impegnata nella decisione, cosa usuale nei governi
dei Paesi anglosassoni.
La campagna elettorale del 1983
segnò il massimo della tensione tra De Mita e Craxie portò ad una perdita di
voti alla Dcdel 6%; cosa che spinse De Mita a proporre la disponibilità
immediata della Dc a indicare al Presidente della Repubblica il nome di Craxi
per la formazione del governo. Cossiga fu indicato dalla Dc come Presidente del
Senato, garantendo in questo modo al Governo Craxi una navigazione protetta.
Allo scadere del mandato di Pertini, De Mita, con la proposta di Cossiga, mostrò
non solo un’immagine di forza e di prestigio ma anche di affidabilità non solo
per i socialisti ma anche per i comunisti. Un’operazione che manifestò tutte le
capacità di “manovra politico-parlamentare” del segretario della Dc.
Nei primi quattro anni di
presidenza, Cossiga si attenne a una condotta strettamente istituzionale senza
molti interventi e comunque sempre rispettosi della prassi costituzionale. Era
succeduto a Pertini e il contrasto fu evidente, specie quando la situazione dei
Paesi del Patto di Varsavia cominciava a manifestare i segni della
disgregazione. La presenza a Roma del Papa polacco, Giovanni Paolo II, e le sue
visite in Polonia, alimentavano la convinzione dei cittadini dei Paesi comunisti
che i loro regimi non sarebbero stati in grado di reggere al vento della
libertà.
Nelle poche volte che lo incontrai
in quei giorni, Cossiga mi manifestò la sua opinione che l’Urss non avrebbe
potuto sostenere la spesa della competizione militare con gli Stati Uniti e con
la Nato. La decisione della installazione dei missili a corta gittata in Italia
e in Europa sarebbe stato un elemento di accelerazione del dissolvimento
dell’Urss. Non pochi in occidente e negli stessi circoli diplomatici della Santa
Sede avevano una convinzione opposta, ritenendo che il cammino fosse ancora
lungo e che si sarebbe dovuto continuare a convivere con il mondo comunista.
Molto interessante è rileggere le
cronache della visita di Gorbaciov a Roma dal 29 novembre al 1 dicembre 1989,
quando era già caduto il muro di Berlino. L’accoglienza a Gorbaciov veniva
espressa con esagerata enfasi per un personaggio in grande declino a Mosca.
Anche nei circoli di Governo venivano rilevate opinioni divergenti tra il
Presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e l’ambasciatore a Mosca,
Sergio Romano.
Queste diverse posizioni rendevano
evidente, a giudizio di Cossiga, non solo il ritardo con cui si percepiva la
crisi galoppante dell’Unione Sovietica ma anche la mancanza di idee su come
cambiare l’assetto istituzionale, dove la presenza del più grande partito
comunista fuori dall’Unione Sovietica aveva portato alla stesura del Titolo V
della Costituzione, che avrebbe reso sempre più difficile governare
nell’incombente era digitale e globale. Per Cossiga la Dc non aveva ancora preso
coscienza su cosa e su come cambiare per affrontare il tempo nuovo e, in questa
situazione, aveva pensato alla necessità di un gesto forte per indicare al Paese
che si era di fronte a un mutamento radicale, chiamando gli italiani a un voto
politico nell’immediato. La prima volta che me ne parlò fu subito dopo la visita
di Gorbaciov.
Nell’autunno del 1992, raccontai a
Cossiga, Presidente emerito, che in quei giorni, quando era già scoppiata la
vicenda “Mani pulite”, avevo invitato a casa mia, per un caffè, Mino
Martinazzoli, divenuto da pochi giorni Segretario della DC, insieme al Capo
della Polizia, Vincenzo Parisi, al Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri,
Domenico Pisani e al mio ex Capo di Gabinetto, Raffaele Lauro. Poiché
Martinazzoli mostrava indifferenza allo scenario che gli veniva disegnato, il
generale Pisani gli chiese se per caso avesse capito che di lì a un anno la Dc
non sarebbe più esistita. Non fu una mia interpretazione della realtà. Nel 2004,
Cossiga, nella prefazione ad un mio libro “Un irregolare nel Palazzo” scrisse
“Egli (Scotti) fu, grazie anche alla azione informativa e alla analisi compiuta
da Vincenzo Parisi e dai suoi uomini (è ormai venuto il momento di dirlo!) il
primo che comprese che stava per scatenarsi la bufera di ‘Mani Pulite’ e che vi
era il pericolo che si tentasse, come poi infatti accadde!, un vero e proprio
‘golpe istituzionale per via giudiziaria’ contro la prima Repubblica”.
Torniamo indietro: dopo il Congresso
della Dc del 1989, lasciai la vice segreteria del partito per candidarmi a
Presidente del gruppo parlamentare alla Camera, succedendo a Martinazzoli. La
situazione politica parlamentare era difficilissima: alla fine di ogni seduta
pomeridiana si ascoltavano le “catilinarie” dei radicali e di Oscar Luigi
Scalfaro contro le esternazioni di Cossiga. Era molto difficile la posizione del
Presidente del Gruppo democristiano, anche perché cresceva l’opposizione al
Presidente della Repubblica.
Dopo quella fase iniziale delle
esternazioni, la mia repentina nomina a ministro dell’Interno, dopo le
dimissioni di Antonio Gava colpito da un ictus, mi consentì di seguire molto
da vicino quella fase convulsa della politica e della vita di Cossiga.
Ricordo che la mattina del 15 ottobre del 1990 fui svegliato da una telefonata
del Presidente della Repubblica che mi informava che, nel pomeriggio, avrebbe
firmato il decreto per la mia nomina a ministro dell’Interno e che, l’indomani,
ci saremmo incontrati al Quirinale per il giuramento. Da quel momento ero tenuto
a riferire sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica, in alcuni
casi anche con la presenza dei capi delle tre forze di polizia. Per me erano
giornate di particolari tensioni, soprattutto per l’intrecciarsi delle stragi
mafiose con il pressante lavoro legislativo, necessario a offrire ai
responsabili delle Istituzioni, politici, magistrati, uomini della polizia, dei
carabinieri e della Guardia di Finanza, strumenti e organizzazioni (DIA e DNA)
adeguate alla guerra alla mafia. Lavoro che venne affrontato con i capi delle
forze dell’ordine e dell’allora servizio interno e con i giuristi del Viminale e
del Ministero di Grazia e Giustizia, sempre in sintonia con il ministro Claudio
Martelli e Giovanni Falcone.
Vorrei però aggiungere una
testimonianza sul mio rapporto con Cossiga in tema di legislazione antimafia e
della sua legittimità rispetto alla Costituzione. Non è un mistero che sia io
che Martelli eravamo attaccati su quasi tutti i numerosi provvedimenti e in modo
particolare su tre di questi: l’istituzione della Dia (Direzione Investigativa
Antimafia) e della Dna (Direzione Nazionale Antimafia), il decreto legge 8
giugno 1992, che fu giudicato incostituzionale in Commissione al Senato (prima
della uccisione di Paolo Borsellino) e i provvedimenti contro il
condizionamento mafioso delle amministrazioni locali. Come è prassi
costituzionale, il Governo può sentire il parere degli uffici del Quirinale su
questioni che poi saranno vagliate dal Presidente prima della presentazione al
Parlamento del disegno di legge, dopo l’approvazione e prima della
promulgazione. Cossiga fu sempre un lettore rigoroso e attento dei provvedimenti
e, in alcuni casi, ritenne di esprimere un suo parere con qualche esternazione.
Parlando del lavoro legislativo fatto, nella citata prefazione al mio libro,
Cossiga scrisse ” Avendo come consiglieri Giovanni Falcone e Vincenzo Parisi,
Scotti diede una svolta quasi ai limiti della “legalità formale”, sia sul piano
legislativo sia su quello organizzativo, alla lotta alla mafia. Sua l’idea di
istituire un centro interforze di “intelligence” e di coordinamento
investigativo antimafia”.
Con lui e con l’assenso del
Presidente del Consiglio Giulio Andreotti decidemmo di dar vita a una Conferenza
Nazionale Annuale sulla Legalità alla quale invitare tutte le Istituzioni dello
Stato a ciò deputate e i Rappresentanti più significativi del pluralismo sociale
e religioso, per valutare – tutti insieme – l’andamento e i risultati della
lotta alla mafia. Giovanni Paolo II ci concesse un’udienza in Vaticano per
esprimere il suo pensiero sulla lotta alla mafia e alla criminalità. La prima e
unica sessione fu aperta proprio dal Presidente della Repubblica attento, anche
per questo fenomeno, su quali sarebbero potuti essere gli impatti del nuovo
contesto internazionale economico e politico, conseguente alla fine dell’Unione
Sovietica, sulla corruzione e sulle reti criminali internazionali.
È ancora troppo presto per poter
affrontare la lettura della complessa esistenza di Cossiga. Manca da analizzare
ancora un folto materiale archivistico tra cui anche alcuni testi segretati e
relativi alle vicende ancora controverse. C’è tuttavia una valutazione che
comincia ad essere condivisa: che una caratteristica di Cossiga fosse quella di
saper cogliere a fondo le evoluzioni delle vicende politiche.
Come ho sottolineato, Cossiga è
stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica del contesto
europeo e mondiale nel quale le vicende italiane si sono svolte. A differenza
del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua
visione e delle sue idee, quasi una bussola per la classe dirigente. Era un uomo
politico il cui pensiero va ricostruito attraverso lo scritto ma soprattutto
attraverso le sue azioni e i suoi gesti concreti. Per questo vorrei riprendere
il filo del suo ragionamento sul declino e sulla sparizione del comunismo e
sulle conseguenze sulla vita sociale e politica del Europa e dell’Italia.
Abbiamo già ricordato la spiegazione del suo ricorso alle picconate. Non è una
novità che fosse un’impaziente e quindi reagisse immediatamente a una mancata
risposta. Cossiga intravide, nel caotico precipitare della fine del comunismo,
ciò che la classe dirigente avrebbe dovuto fare al cadere dei nodi di una
democrazia incompiuta e di un’economia frenata da una quantità di vincoli
amministrativi.
La globalizzazione e la società
digitale richiedevano una decisione politica rapida ed efficiente, necessaria a
sostenere un sistema produttivo e sociale in fase di trasformazione. Nella
competitività crescente della globalizzazione, l’efficacia veniva sempre più
misurata non solo dalla produttività di una singola unità ma dall’efficienza del
sistema complessivo. La stabilità e la rapidità delle decisioni di Governo
richiedevano il superamento di un sistema elettorale proporzionale puro e
l’attribuzione di un proprio spazio normativo dell’esecutivo, senza dover
“violentare” la Costituzione con un continuo ricorso a decreti di urgenza in
mancanza dei requisiti.
Di fronte a un sostanziale rifiuto
di cambiare la Costituzione, Cossiga mandò un suo Messaggio alle Camere. La
maggioranza dei Parlamentari erano stati presi di sorpresa dalla sparizione dei
vertici dell’Urss e erano contrari a cambiamenti costituzionali.
Cossiga divenne furibondo, non
capiva il perché i deputati non avessero almeno letto e risposto al suo
Messaggio. Tra essi, tra l’altro, si trovavano la maggioranza dei suoi vecchi
amici di partito che l’avevano eletto. Per Cossiga era troppo tardi: presto gli
sarebbero caduti sulla testa i sassi della casa in dissoluzione. I fatti si sono
preoccupati di dimostrare che, persa quell’occasione, non si sarebbe più
riuscito ad approvare una modifica costituzionale anche quando fosse stata
votata in Parlamento. Infatti, succederà che gli stessi Parlamentari che
approveranno la modifica, poi, nel voto referendario di conferma, concorreranno
a bocciarla.
Quando nella vita politica si perde
l’occasione temporale giusta, i percorsi diventano sempre più difficili da
portare a compimento, specie quando i disegni politici sono deboli o
inesistenti. Qualche anno dopo Cossiga concluderà così la prefazione a un mio
libro: <<mi si consenta una notazione personale, io debbo essere grato a
Vincenzo Scotti non solo per la sua amicizia e per il suo affetto personale ma
per aver compreso e plaudito al mio Messaggio Presidenziale al Parlamento sullo
stato delle istituzioni e sulle necessità di una loro riforma. A tutti sono
grato. Ma in modo particolare a Vincenzo Scotti che compì non solo un atto di
stima e di amicizia nei miei confronti ma un autentico atto di coraggio, dato
l’atteggiamento ostile delle gerarchie del suo partito”
Ma Cossiga non si fermò nella sua
battaglia, cercando disperatamente una via per mettere in moto un processo
effettivo di cambiamento. E rimase attento agli spazi che si potevano
presentare. Ci fu un momento importante, dopo la dissoluzione del comunismo,
quando – nell’aprile del 1990 – il Governo Andreotti entrò in crisi. Cossiga,
nelle more delle consultazioni al Quirinale, rese evidente la sua convinzione
che, sia pure con ritardo, quello fosse il momento di sciogliere le Camere e
andare alle elezioni. Un tardo pomeriggio di aprile mi convocò per chiedermi se
l’ufficio elettorale della Direzione competente diretto da Menna, figlio del
Sindaco di Salerno, fosse in grado di organizzare lo svolgimento delle elezioni
politiche prima della fine di luglio, nel caso il Ministro dell’Interno avesse
potuto garantire un governo per il brevissimo tempo necessario.
Erano presenti due testimoni: il
prefetto Parisi e il prefetto Lauro. Evidentemente avevo bisogno di 24 ore per
consultare gli uffici e dargli una precisa e documentata risposta. Mi chiese poi
di mantenere la estrema riservatezza e di tornare il più rapidamente possibile.
La verifica fu positiva: si potevano fare le elezioni nel mese di luglio.
Cossiga non capiva perché il Presidente del Consiglio e i due partiti PSI e Dc,
oltre al Pds, fossero nettamente contrari. Anche a me sembrava strano non
avviare subito, con un nuovo governo, una stagione di rapide riforme.
Cossiga insisteva sulla sua linea
anche quando ormai la situazione politica interna stava degenerando. La rendita
di posizione dei cosiddetti partiti democratici diventava non più accettabile.
La classe dirigente che pure aveva portato l’Italia a diventare la quinta
potenza economica del mondo, mostrava stranamente una visione corta. Solo se
nelle ore conseguenti alla caduta del muro di Berlino ci fosse stata la
decisione di una elezione anticipata e la proposta di una assemblea costituente
si sarebbe potuto governare il cambiamento.
Cresceva nel Paese l’insofferenza
per l’assenza di cambiamento politico che trovava nell’iniziativa referendaria
di Mario Segni e nella lotta giudiziaria di “Mani pulite” sempre più consenso
verso la distruzione dei partiti storici che avrebbe portato anche alla fine
della Prima repubblica. Di questo pericolo e dello scontro violento con la
mafia parlai alla Camera a Commissioni riunite Camera – Senato nell’inizio
primavera del 1992.
Nessuno può dire cosa sarebbe potuto
succedere se si fosse andato alle elezioni e se si fosse aperta una stagione di
riforme di cui parlava Cossiga.
Questo era Francesco Cossiga: era
presbite e vedeva lontano!
‘RAI Cultura’ è una struttura della RAI che presidia il settore “Cultura”, sia
attraverso la realizzazione dei programmi con l’utilizzo di risorse proprie, sia
attraverso l’acquisto di prodotti da altri soggetti.
In occasione del 70°
Anniversario dalla nascita della nostra Repubblica, nel 2016 RAI Cultura mandò
in onda una serie di puntate dal titolo esemplificativo “L’Italia della
Repubblica”. La quarta puntata, intitolata “La Rinascita”, aveva come ospite in
studio l’ingegnere Francesco Merloni: la scelta dell’industriale marchigiano è
la riprova, qualora ce ne fosse stato bisogno, dello spessore della persona.
Francesco Merloni nasce
nel 1925 a Fabriano, figlio di Aristide, la cui figura è fondamentale per
comprendere la vocazione industriale di una realtà periferica, quale era appunto
quella marchigiana. Il binomio Rinascita-Francesco Merloni rappresenta un pezzo
di storia di questo nostro Paese, grazie anche all’incontro fortunato con
personalità dell’epoca, prima fra tutte quella di Enrico Mattei. Quest’ultimo,
con la sua vita avventurosa, con le sue scelte in campo economico anche
controcorrente, è notoriamente considerato l’artefice principale dello sviluppo
di questo Paese. Nel corso di un intervento sulla figura del fondatore dell’ENI,
Francesco Merloni ebbe a fare una confidenza, che a prima vista potrebbe
evidenziare una propria debolezza, ma nella realtà nasconde una profonda
ammirazione: “In vita mia, Mattei è stata l’unica persona che mi ha dato
soggezione”. La stima per il mitico capitano d’industria scomparso
tragicamente a Bascapè nell’ottobre 1962 non poteva essere meglio sintetizzata,
se si tiene conto del rispetto misto a timore che un personaggio del genere
sapeva suscitare, in particolare tra i giovani nati nel Ventennio e desiderosi
di farsi strada nel Secondo Dopoguerra. Per comprendere Francesco Merloni è
doveroso fare un passo indietro, accennando alla storia del nostro Paese.
L’Ingegnere marchigiano è sempre andato fiero di un episodio della sua vita: mi
riferisco alla condanna a morte comminatagli dalle Autorità della Repubblica
Sociale Italiana, in seguito alla renitenza alla leva militare. Il giovane
Francesco ha vagato, fuggiasco, per le colline intorno a Cerreto d’Esi, ultimo
Comune della Provincia di Ancona prima del confine con quella di Macerata,
avendo eletto a rifugio la casa del parroco di Poggeto di Matelica, don Pacifico
Veschi. Come ho avuto modo di ascoltare dalla sua viva voce il 28 maggio 2016,
al teatro Casanova di Cerreto d’Esi, ad un Convegno commemorativo sull’amico
Bartolo Ciccardini, nei momenti più duri, quando le Autorità andavano a
cercarlo, Francesco si nascondeva con Dalmato Seneghini nel campanile della
chiesa di Poggeto. I due passavano giornate intere a parlare tra loro, per
passare il tempo potevano fare solamente questo. Proprio questi dialoghi, tra un
giovane ed un anziano, hanno contribuito in modo significativo a porre le basi
per il ritorno alla democrazia.
“Tante volte sono
venuti a casa nostra a cercarmi e non mi hanno mai trovato, una volta hanno
arrestato mia madre, che è stata in carcere per oltre quaranta giorni a
Fabriano, dove ha passato lì anche il Natale e il Capodanno del 1943/44. “
Quei momenti tragici
appartengono a quella generazione di italiani che, probabilmente proprio a
seguito delle privazioni e delle sofferenze della loro esistenza, hanno dato
prova, una volta ritrovata la libertà, di una grande voglia di vivere, di fare e
di operare, oggi inimmaginabili.
Nonostante
l’interessante invito di Enrico Mattei ad andare a lavorare con lui dopo il
conseguimento della Laurea in Ingegneria, Francesco Merloni preferì rimanere a
Fabriano nell’impresa di famiglia. La sua scelta si è rivelata giusta, anche
grazie al consiglio paterno di assumere persone con maggiori conoscenze delle
proprie, in modo da poter meglio raggiungere i propri obiettivi aziendali. “Circondati
di persone più competenti di te”: in fondo, questo piccolo insegnamento, se
accettato e praticato, nasce dall’umiltà propria di persone che hanno raggiunto
il successo a prezzo di tanto lavoro e sacrificio: una tale scelta si è rivelata
decisiva, sebbene vada collocata agli antipodi di quel tutto e subito,
fruttodella mentalità corrente, spesso all’origine di tanti fallimenti
societari di aziende ritenute solidissime.
Nel 1972 ha inizio per
Francesco Merloni, che fino a quel momento era stato consigliere comunale e
provinciale nel partito della Democrazia Cristiana, la presenza quasi
trentennale al Parlamento della Repubblica. Deputato nella 7°, 8°, 9°, 10° e 13°
Legislatura, ha rivestito l’ufficio di Senatore nella 6° e 11° Legislatura. In
questo periodo Francesco Merloni viene chiamato a fare il Ministro dei Lavori
Pubblici nel Governo guidato da Giuliano Amato, dal 28 giugno 1992 al 27 aprile
1993, e rimarrà tale anche nel Governo Ciampi, dal 28 aprile 1993 al 9 maggio
1994. Importantissima sarà la legge quadro in materia di lavori pubblici,
conosciuta appunto come la legge Merloni dell’11 febbraio 1994 n. 109, emanata
in un periodo di grandi difficoltà per le nostre Istituzioni repubblicane, rese
fragili dal pesante condizionamento del fenomeno noto come Tangentopoli.
In quella fase di transizione, probabilmente la più critica dai tempi
della riconquistata democrazia, Francesco Merloni viene considerato l’uomo che
sa ridare impulso e credibilità ad un settore delicatissimo, quale quello dei
lavori pubblici segnato dagli scandali. Si diffonde la convinzione che la sua
figura di industriale proveniente da una regione operosa sarebbe stata un
esempio di buon governo. Ecco, io penso che la scelta di Merloni, che trova
compimento nell’importante legge che porta il suo nome, rappresenti il migliore
riconoscimento alla sua autorevole personalità e alla realtà industriale di
provenienza. Lo stesso rapporto di amicizia fra l’industriale marchigiano ed
Enrico Mattei era cementato dalla passione per il Bene Comune, al centro dei
loro interessi e della loro azione.
Altri tempi,
lontanissimi dagli attuali, ma se non ci fossero stati, lo sviluppo economico
italiano probabilmente non sarebbe mai decollato.
Il mandato parlamentare
di Francesco Merloni ha avuto inizio nel 1972, anno nel quale si è verificato il
primo scioglimento anticipato delle Camere, con la Democrazia Cristiana uscita
vincitrice dalle elezioni politiche. Il mandato, dopo una partecipazione
ministeriale di alto prestigio, è terminato nel 2001, quando l’allora partito di
maggioranza relativa ha cessato di esistere, come è testimoniato dall’iscrizione
nel gruppo parlamentare dei Popolari e Democratici l’Ulivo. Residente a Roma,
Merloni non manca di operare a favore del territorio dove è nato, come quando
nel 2006 diventa Presidente del Comitato scientifico che organizza, presso il
quattrocentesco Spedale di Santa Maria del Buon Gesù, la Mostra “Gentile da
Fabriano e l’altro Rinascimento”, dedicata al celebre pittore nato a Fabriano.
Merloni si rese conto che l’iniziativa della mostra – che fra l’altro prevedeva
un percorso presso la locale chiesa di san Domenico – incontrava difficoltà di
carattere economico, nonostante il successo in Italia e all’estero
dell’iniziativa. In particolare, evidenziò l’assenza di agevolazioni fiscali per
quanti avessero voluto organizzare una mostra sull’Arte del nostro glorioso
Passato. L’autorevole presenza politica lascia un segno anche in tempi recenti,
grazie soprattutto alle interviste nel corso delle quali non manca di fare acute
osservazioni sui tempestosi terremoti politici che caratterizzano la Democrazia
Italiana, come quando fece notare che a Fabriano solamente gli esponenti del
Movimento Cinque Stelle si erano scomodati ad andare nelle case a far
conoscere la propria vicinanza ai cittadini, i quali li avevano ripagati con un
importante successo elettorale.
Un parere ascoltato,
quello di Francesco Merloni, non solo per essere ancora oggi una delle persone
alle quali dobbiamo il Miracolo Italiano, per il quale avvertiamo una profonda
nostalgia, ma anche per la partecipazione diretta alla vita delle nostre
Istituzioni, alle quali ha sempre garantito quello spirito di servizio tipico
della sua generazione e di coloro che lo hanno preceduto.
Massimo Cortese
ALDO MORO
TERZIARIO DOMENICANO E COSTRUTTORE DELLA POLITICA: un esempio da seguire
oggi
articolo di Giulio Alfano pubblicato
il 17 novembre 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier -
www.istitutomounier.it
Capita,a volte, di riflettere su
avvenimenti che appartengono ormai alla storia e che,nonostante tutto,fanno
parte anche della nostra vita privata. E’ più o meno quanto succede a chi
scrive queste brevi note ripercorrendo l’impegno politico di un protagonista
sempre attuale della nostra storia politica: Aldo Moro. Ho
avuto,giovanissimo, la possibilità di incontrarlo, conoscerlo condividere
con lui riflessioni e giudizi e fu lui a guidarmi nei primi passi
all’interno della Democrazia Cristiana. Ringrazio la casualità di questo
incontro che avvenne per motivi familiari a Bruxelles, che mi ha fornito a
me ragazzo la ricchezza del suo insegnamento politico,culturale e
soprattutto umano,fondato essenzialmente sull’esempio e ancor oggi la sua
elevata statura morale lo rende non sempre facilmente collocabile in un
ambito storico tanto diverso da quell’epoca eppure altrettanto bisognoso di
Maestri e di esempi.
Complessivamente la sua
leadership all’interno del variegato mondo democristiano è durata
vent’anni,dal 1959 al momento della sua tragica fine:si trattava tuttavia di
un rilievo “etico” di uno spessore “morale” che nulla aveva in comune con il
posizionismo della politica tradizionale e conservatrice perchè esprimeva un
costruttivo e responsabile impegno per una concezione della politica legata
alla “potestas” che egli offriva,interpretando il vissuto della società
civile. Era in sostanza, un intellettuale della politica,nel quale
l’epifania della parola diveniva elemento di purificazione della stessa
politica,da reinterpretare alla luce delle non facili esigenze di una
società in costante e rapida trasformazione.
Artefice di una concezione della
politica fondata sul confronto,ricercava sempre una feconda solitudine
propria del mastro di pensiero che operava per raggiungere una visione
comune tra forze politiche anche alternative tra loro per concezione e
retaggio storico. Ne nasceva un progetto che si alimentava della sua
profonda cultura meridionale,attraverso un ermetica concezione del
linguaggio che esprimeva un ascetismo sociale proprio della sua formazione
per una duplicità di ragioni. Da un lato vi era l’uomo di fede che,alla
vigilia della seconda guerra mondiale nel1939 e prossimo ad assumere la
carica di Presidente della FUCI,avverte il bisogno spiritual di entrare nel
Terz’Ordine Domenicano assumendo il nome religioso di Frà Gregorio,in onore
di Padre Gregorio Inzitari,Direttore della Fraternita di S. Nicola di Bari.
Dall’altro vi era l’acuto intellettuale onusto di studi giudici e filosofici
improntati alla cultura di S. Tommaso d’Aquino che,osservando la realtà
sociale avverte la necessità di un nuovo modo di vivere la ritrovata e
sofferta democrazia rappresentativa nel secondo dopoguerra ed in questo
l’insegnamento della filosofia politica dell’Aquinate gli sarà fondamentale
ed indelebile:Soprattutto resterà il “metodo” politico che Moro mutua da S.
Tommaso:esattamente come il Dottore Angelico avvertiva nel medioevo di
svolgere un attenta “mediazione”tra i ceti dell’epoca per pervenire alla
promozione dell’uomo “gloria Dei”, così Moro trasforma quel “medium” in una
attenta mediazione tra i partiti politici del secondo ‘900 portatori in
democrazia di interessi sociali,culturali diversi ma non opposti:conquistare
alla democrazia tutti attraverso il dialogo! Questo è l’insegnamento
domenicano che resta vivo in Aldo Moro per tutta la sua attività politica ed
accademica!
In un saggio pubblicato dalla
rivista “Studium” di cui fu direttore,nel maggio 1945 a poche settimane e
giorni dalla fine della guerra,egli sosteneva l’esigenza della “purezza”
come libertà interiore e come indipendenza morale da condizionamenti esterni
ed estranei alla coscienza,sottolineando come l’intelligenza non dovesse
consumarsi in se stessa perchè era “doveroso” riconoscersi in quanto
cristiani oltre e al di là delle divisioni ideologiche,”tutti puri e
liberi,disposti solo all’ossequio della verità che è
tutto!”(“Studium,n.2,1945):altro fondamentale inegnamento della Scuola del
S.Padre Domenico!
Tuttavia già allora era nitido
nella sua coscienza un itinerario fondato sulla costante ricerca
dell’accordo come presupposto della visione democratica oltre che
cristiana,della politica,che comunque non doveva rinunciare alla difesa ed
alla proposta delle proprie legittime posizioni. Lo strumento verbale perciò
diventa in Moro accorta mediazione fndata sul potere orfico della
parola,come capacità di svelarsi dell’uomo,segnato dalla potenzialità
creaturale del “dirsi”,del dialogo chè è l’essenza della socialità. Ciò lo
rendeva praticamente unico all’interno anche del suo partito al quale si
iscrive con notevole sofferenza sostenuto dal mons.Marcello Mimmi,futuro
Cardinale Arcivescovo di Napoli,perchè i vecchi popolari antifascisti
pugliesi lo vedevano con sospetto giacchè era stato Presidente della
FUCI,organizzazione tollerata dal regime fascista.Ma la sua estraneità ad
ogni forma di dottrinarismo,persuaso che la coscienza religiosa dovesse
vivere nella politica,lo rese capace di unire in breve tempo anche nel suo
territorio le forze del lavoro,nel pieno vigore della missione del cristiano
nel mondo. In questo senso egli apparteneva alla cultura della mediazione
politica,dell’intesa su tutto ciò che non rappresentasse un cedimento alla
stanchezza della gestione ordinaria degli eventi e la lunga e sofferta
vicenda dell’allargamento delle basi democratiche del nostro paese,ne è
l’esempio forse piu’ nitido,per recuperare la società civile al metodo della
democrazia ,non solo procedurale ma partecipata ,condizione indispensabile
per tutelare e conservare la libertà. In lui proprio in virtù della
formazione domenicana risaltò la lettura che del tomismo aveva dato a
partire dagli anni ’30 il filosofo francese Emmanuel Mounier(1905/1950)del
quale ricordava la lezione della libertà nella condizione “totale”della
persona,perchè,dice Mounier:” La libertà è sorgente viva dell’essere e un
atto non è propriamente umano se non trasfigura anche i dati più ribelli
nella magia di questa spontaneità e la libertà dell’uomo è la libertà della
persona che tuttavia è vincolata e limitata dalla nostra situazione concreta
e storica”(“Il Personalismo”,ed.AVE 1964,p.97). Ecco nel personalismo di
Mounier Moro trova l’humus per la sua proposta e l’attualizzazione del suo
retaggio culturale. Per questo motivo agì sempre con gradualità ed
attenzione,come fece sin dall’esordio del centrosinistra nella seconda e
terza legislatura e quando assunse la carica di Segretario Politico della
D.C.nel 1959 mentre le relazioni del partito con gli altri partners politici
centristi erano in una situazione di grave deterioramento tanto che non si
era riusciti a dar vita stabilmente ad una compagine governativa.
e dopo le dimissioni del governo
Fanfani ci fu una breve esperienza del governo Segni,molto precario e
sostenuto dall’esterno dal Partito Liberale. Erano anni intensi;sullo
scenario internazionale l’avvento alla presidenza USA di Kennedy e al soglio
pontificio di S.Giovanni XXIII sembrava rendere possibile il superamento di
obsoleti blocchi ideologici oltre la guerra fredda e l’antico blocco delle
sinistre era attraversato da non poche tensioni dopo i fatti di Ungheria del
1956. Si trattava di mettere il partito socialista nelle condizioni di
cogliere nei rapporti con la D.C. un elemento di quella autonomia socialista
che il leader PSI cercava ormai da tempo e l’approdo poteva essere un
organica collaborazione di governo assai temuta dai poteri economici forti
anche internazionali. L’operazione di superamento dei governi centristi fu
piuttosto lunga e durò diversi anni,con un accorta mediazione che esprimeva
uno sforzo intelligente di conoscenza dello sviluppo oggettivo della
situazione,senza esporre la giovane democrazia italiana ad alcun pericolo
salvaguardando il ruolo guida della D.C. come partito ma soprattutto come
cultura politica in grado di esprimere maturità e senso dello stato,eredità
faticosamente conquistata dall’opera politica di Alcide De Gasperi.,per un
mondo cattolico maturo al senso dello stato.
Uno dei motivi per i quali Moro
non risukta di particolare attualità è probabilmente la sua estraneità ad
ogni forma di alternativa,soprattutto ideologica e tale estraneità era in
relazione al timore che essa avrebbe potuto spezzare e frantumare lo
schieramento politico del sistema proporzionale,costringendo la d.C. a
scegliere un versante o l’altro,mentre per lui doveva restare sempre al
centro non del potere ma della strategia politica e in ciò si invera il
profondo umanesimo popolare moroteo.. Egli riteneva che la D.C. dovesse
restare elemento di riferimento di quei processi che avrebbero dovuto
aiutare il nostro paese a non temere per il mantenimento della
democrazia,allargando a tutte le forze politiche il consenso allo stato e
alla costituzione repubblicana.
Aldo Moro ha vissuto e prodotto
strategie politiche in un momento storico in cui la democrazia doveva ancora
compiersi e a come far procedere la politica nel momento in cui si trovava.
Gli anni ’70 con tutto ciò che hanno rappresentato nel nostro vivere civile
indicavano scenari politici nuovi che egli interpretò con duttile linguaggio
ma mai indeterminato,formulando una proposta articolata di rinnovamento
delle relazioni democratiche.Si muoveva nella prospettiva di una distinzione
tra stato e società,non dimenticando però di differenziare la società
politica da quella civile,comprendendo in essa sia le istituzioni statali
che i partiti politici,considerati strumenti indispensabili di mediazione
proprio tra lo stato e la società.
Alla metà degli anni ’70 il
pluralismo sociale assume nella prospettiva morotea una maggiore autonomia
rispetto al politico perchè si enuclea uno spazio sempre maggiore rendendo
più difficile la relazionalità unitaria con la struttura politica;rivaluta
in quegli anni l’identità cattolica dell’azione politica,secondo un ottica
etica portandosi su un terreno di sostanziale alterità con buona parte degli
esponenti del suo stesso partito. Voleva una D.C. non rappresentante egemone
di tutta la società,ma attenta all’ascolto alla riflessione sollecitando una
concezione di partito “sociale” e non elemento di puro raccordo
elettorale,rispettoso viceversa delle diverse esperienze maturale nella
società che dovevano essere coordinate e guidate e questo era il ruolo che
egli voleva assumesse la D.C.al di la e oltre ogni scontro ideologico. Il
clima di quegli anni con una sempre più forte conflittualità aveva reso la
D.C. partito primario nell’insediamento all’interno delle istituzioni e
bloccato ogni forma di rinnovamento come invece vi era stata negli anni ’40
e ’50,portando ad una concezione “familiare”della cosa pubblica contro la
quale proprio la D.C. delle origini aveva fortemente lottato. Lasocietà
stava cambiando e la consolidata gestione del potere si doveva superare di
fronte all’emergenza delle nuove sfide mentre il potere politico rischiava
di schiacciare lo stato di diritto e le nuove identità che inevitabilmente
sarebbero emerse di li a poco tempo.
Questo timore per la tenuta
della democrazia,resa debole da fattori concomitanti lo espresse
compiutamente nel suo ultimo discorso il 28 febbraio 1978 ai gruppi
parlamentari del suo partito dicendo tra l’altro:”..la nostra flessibilità
ha salvato più che il nostro potere,la democrazia italiana”(Scritti e
Discorsi,vol.VI,ed.5Lune p.370).La situazione d’emergenza doveva comunque
essere superata e ciò che Moro pensava di fare si riferiva alla qualità del
realismo politico proprio della sua cultura oltre che della sua personalità.
Fu certamente anche uomo di partito,esponente della cultura democratico
cristiana che lo portò a difendere l’amico Luigi Gui ingiustamente
trascinato nel vortice dello scandalo Lockeed nel 1977,ammonendo da vero
maestro una gremita ed attenta aula di Montecitorio:”…Non ci lasceremo
processare sulle piazze,non accetteremo che la nostra esperienza politica
complessiva sia bollata col marchio di infamia!” Tornava nel suo linguaggio
politico il primato della D.C. e anche l’incontro col PCI nella sua visione
doveva restare transitorio teso a solidificare le istituzioni democratiche e
non un cedimento ideologico,per ripristinare i fondamenti essenziali,quindi
costituzionali del sistema politico,richiamando anche i comunisti alle loro
responsabilità avendo anche essi contribuito e fortemente alla stesura e
all’approvazione della Costituzione Repubblicana(si veda l’art.
A:MORO,”Gestiamo il presente,guardiamo al futuro”,in “Il Giorno”
10/12/1976).
Aldo Moro non fu un profeta ma
un interprete realista di una fase appunto,la terza,come disse in un celebre
discorso a Benevento,della politica italiana,della quale non era ovviamente
in grado di indicare la durata,ma che sicuramente restava
emergenziale.L’eredità politica e culturale di Aldo Moro è ancora oggi
enorme soprattutto nei suoi insegnamenti etici;il suo sacrificio ha segnato
la disfatta del terrorismo,della violenza,ma ha contribuito a consolidare le
istituzioni democratiche con un fortissimo richiamo ai valori cristiani del
vivere civile .
Resta l’insegnamento di come la
ragione e il dialogo debbano sempre prevalere sull’odio e sull’egoismo e nel
cuore di chi lo ha conosciuto ed amato rimane indelebile la testimonianza di
una profondissima fede in Dio arricchita dalla cultura dell’Ordine
Domenicano al quale restò sempre legato fino alla fine frequentando insieme
al suo amico ing.Galati la fraternita romana di S.Maria sopra
Minerva,vivificando quei valori che rendo sempre l’uomo gloria di Dio!
Prof. Giulio ALFANO – Presidente
Istituto E.Mounier
Ricordo di EMILIO COLOMBO:
la politica come impegno sociale.
articolo di Giulio Alfano pubblicato
il 11 aprile 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier -
www.istitutomounier.it
“Vorrei
dare a ciascuno di voi i miei occhi per farvi vedere cosa eravamo e cosa siamo
oggi: solo così potete essere responsabili del vostro presente ed immaginare un
futuro sempre migliore…”
Con queste parole il presidente Emilio Colombo del
quale ricorre il centenario della nascita,ricordava gli inizi della sua attività
politica,in quel crinale storico tra la fine della seconda guerra mondiale e
l’inizio della ricostruzione in Italia,uscendo dal terribile periodo fratricida
della guerra e non meno cruento della lotta antifascista. Ricordare il
presidente,col quale ho avuto amicizia lunga e feconda è per me motivo di
commozione e di onore:egli è stato un vero e grande statista,tra i pochi che
l’Italia abbia veramente avuto e parte di quella generazione di uomini politici
che hanno costruito la democrazia,realizzato la Costituzione
repubblicana,promosso il miglioramento etico e sociale del nostro paese.
Emilio Colombo nacque a Potenza l’11 aprile 1920 e la
sua carriera politica inizia ufficialmente nel 1946 con l’elezione all’Assemblea
Costituente grazie a oltre 21 mila voti,ma il suo retroterra e la sua formazione
sociale sono piu remoti. Sin da giovanissimo partecipa alle vicende del mondo
cattolico,addirittura adolescente,negli anni non facili successivi alla
Conciliazione. Il mondo cattolico aveva raggiunto con il Concordato del 1929 una
“tregua” con lo stato ormai stabilmente dominato dal fascismo,ma non una vera e
propria armonia regnava tra questi due mondi:il fascismo voleva il pieno
controllo soprattutto della formazione dei giovani,per imporre loro un
totalitarismo di fatto pagano al quale la Chiesa non poteva offrire il suo
assenso. E’ in questo clima che si forma la coscienza civile del giovane
Colombo,una coscienza che sarà sempre irrorata dai principi della Dottrina
sociale della Chiesa. Il Partito Popolare era un ricordo lontano e il suo
fondatore don Luigi Sturzo ormai da anni in esili all’estero pressochè
sconosciuto ai giovani anche delle associazioni cattoliche. Vi era solo uno
strumento,un canale attraverso il quale poter far sentire la voce dei cattolici
non allineati col fascismo.l’Azione Cattolica che proprio grazie al Concordato
del ’29 aveva diciamo una certa autonomia,pur non potendo svolgere alcuna azione
di sensibilizzazione politica anche se non mancarono gli attriti al punto che
S.S. Pio XI appena due anni dopo nel 1931 si vide costretto a pubblicare una
lettera documento,”Non abbiamo bisogno”,con la quale avvertiva il fascismo e in
particolare Mussolini che la Chiesa non avrebbe consentito silente
l’indottrinamento pagano dei giovani alle liturgie del regime. In quegli anni
Colombo giovanissimo conosce la figura di Paolo Pericoli,detto dalle
iniziali,Papà Pericoli,una figura mitica in quel periodo il primo vero formatore
di giovani in anni così difficili. Ma l’incontro fondamentale nell’adolescenza
lo compie proprio in Azione Cattolica,nella quale aveva iniziato a
militare;durante un incontro di formazione,intorno agli anni 1935/36 incontra il
Presidente della GIAC,il prof.Luigi Gedda(1902/2000)che si accorgerà ben presto
del talento di quel giovane longilineo,studioso e riservato,ma con tanta
passione e dai valori etico-sociali assai profondi. Negli anni
quaranta,precisamente nel 1942 Gedda fonda la Società Operaia per
l’evangelizzazione dei laici intorno al culto del Getsemani e Colombo sarà
interessato da questo primo sodalizio religioso di soli laici. Ma arrivano gli
anni della guerra e l’assolvimento degli obblighi militari,ma anche il
conseguimento della brillante laurea in giurisprudenza.Proprio sul finire della
guerra,già trasferitosi a Roma,viene nominato insieme ad Agostino
Maltarello,segretario della GIAC,carica che Gedda crea appositamente per loro e
che non c’era fino ad allora negli statuti dell’organizzazione e il legame tra
Colombo e il mondo associativo cattolico sarà fortissimo per tutta la vita.Ma
l’incontro diciamo del “risveglio”politico era avvenuto qualche anno
prima:nell’estate del 1943 in quell’anno cosi drammatico,a Camaldoli giovani
cattolici e dirigenti del mondo delle associazioni si era riunito dal 18 al 24
luglio in quella località del Casentino per discutere che cosa sarebbe stata
l’Italia e il mondo una volta fosse finita la guerra.L’incontro a cavallo tra il
primo bombrdamento di Roma e il crollo del fascismo,fu sollecitato da
mons.Giovanni Battista Montini,oggi S.Paolo VI e dal domenicano padre Mariano
Cordovani nominato nel 1942 da Pio XII Teologo della Segreteria di stato. Ne
scaturì il cosiddetto “Codice di Camaldoli” detto allora “Per una comunità
cristiana”.Un documento formidabilmente moderno il quale insieme alla scelta che
l’anno dopo PioXII avrebbe compiuto col Radiomessaggio natalizio intitolato “Il
problema della democrazia” e con il messaggio natalizio dell’anno prima contro i
totalitarismi,spianò la strada al consenso delle gerarchie per un rinnovato
impegno dei cattolici in politica.Nei tanti colloqui avuti negli anni con
Colombo,egli mi ripeteva spesso che proprio il codice di Camaldoli,le intuizioni
in esso contenute avevano colpito lui e gli altri giovani anche presenti
all’incontro stesso.Il documento “Per una comunita cristiana”venne redatto dal
giovane prof.Sergio Paronetto,che purtroppo scomparve appena 34enne nel 1945,ma
l’impatto fu dirompente.Nel Codice di Camaldoli prendeva forma il concetto di
“comunità politica”,già espresso da S. Tommaso e soprattutto approfondito da
Emmanuel Mounier.
Comunità politica non è la semplice società tra
eguali,ma uno contesto non casuale di soggetti sociali che si riconoscono nella
promozione della “persona”.Questo sara il leit motiv che animerà la redazione
della Costituzione Repubblicana,alla quale Emilio Colombo darà il suo
fondamentale contributo nella discussione soprattutto dei principi basilari:il
concetto di “persona” espresso nell’articolo 2(“…lo stato riconosce..”)prima
l’uomo coi suoi diritti poi lo stato espressione della tutela di essi. Un
capovolgimento a 360 gradi della visione neoidealistica che aveva reso possibile
persino il fascismo nell’architettura costituzionale dello Statuto Albertino,nel
quale non si parlava MAI di cittadini ma di sudditi! Inevitabile quindi
l’incontro con la Democrazia Cristiana che De Gasperi aveva fondato nel ’42
riuscendo a realizzare un capolavoro di mediazione politica tra le varie
componenti sociali politiche e culturali del mondo cattolico.
In un bel volume pubblicato poco tempo prima della
scomparsa,C”Per l’Italia e per l’Europa”,Colombo ripercorrendola a mo’di
conversazione con l’amico Arrigo Levi,ricordava la sua vita
politica,soffermandosi su alcuni aspetti importanti collegati fra oro dal
concetto di “sintesi” che deve animare sempre la vita politica e soprattutto il
progetto politico e proprio questo progetto lo troverà nella proposta politica
di Alcide De Gasperi,al quale come spesso ricordava..”…Ho dato sempre del
Lei,come anche a Togliatti”.La figura e il prestigio di De Gasperi son l’altro
versante che contribuisce a delineare la statura politica del giovane
Colombo:l’dea delle coalizioni,la politica come mediazione,l’incontro e lo
scambio con le altre esperienze politiche e soprattutto l’idea dell’Europa!
Il legame con la sua terra resterà sempre fortissimo,la
sua Basilicata che egli ha restituito all’Italia e ne ha condotto lo spessore
delle tradizioni e della cultura anche in Europa e nel mondo.La carriera lunga e
illustre di questo Padre della Patria non può certo essere raccolta in poche
righe di questo modesto anche se sincero ed affettuoso ricordo. Mi limiterò a
ricordarne alcune parti,per me molto significative.L’inizio degli anni ’50,il
coraggio che la Democrazia Cristiana e le coalizioni centriste dei governi De
Gasperi mostrarono nel varare la Riforma Agraria,si sente anche in
Basilicata.Togliatti aveva scritto un articolo molto duro su “L’Unità”
intitolato “Matera,vergogna d’Italia”evidenziandone l’arretratezza e le
condizioni precarie di vita.Proprio a seguito di una visita che De Gasperi compì
in quella terra,Colombo giovane sottosegretario al ministero
dell’agricoltura,promosse la cosiddetta “legge dei sassi”,che erano antichi
monasteri pressochè caverne dove la povera popolazione materana viveva da
decenni.Grazie a quella legge,ben 14.000 persone ebbero per la prima volta una
casa e questo fu merito di Emilio Colombo.La sua illustre carriera di ministro
dalla metà degli anni ’50 si caratterizza per la permanenza al ministero
dell’industria,delle finanze,ma soprattutto lungamente del tesoro, dove
egli,giurista,seppe individuare attraverso figure di alto prestigio quali
Ferdinando Ventriglia e Guido Carli una politica accorta di stabilizzazione
economica,dimostrata anche dalla famosa lettera all’allora presidente del
consiglio Moro nell’estate 1964 sul pericolo di sforamento della spesa
pubblica.Presidente del consiglio dal 1970 al ’72,biennio difficile tra
tentativo di golpe borghese e rivolte in Calabria,volle promuovere la nascita
dell’università della Calabria e Lucania,non trascurando mai la sua vocazione
europeista riportando dietro la Francia dalla cosiddetta politica della sedia
vuota,e diventando sul finire degli anni ’70 Presidente del Parlamento
Europeo.Non va neanche trascurata la sua significativa presenza al ministero
degli esteri in due periodi delicati inizio anni ’80 e inizio dei ’90,varando
gli accordi Colombo/Genscher,con i quali si pacificò e riorganizzò la situazione
mediorientale.Lo spessore politico di Emilio Colombo fu anche uno spessore
culturale,non nel nome di una unità di classe o di lotta ma di
solidarietà,giustizia e libertà per tutti perchè al centro vi è sempre il valore
irrinunciabilmente ontologico della persona.
Quale insegnamento ricavare dall’esperienza e dal
ricordo di Colombo che ci ha lasciato ritornando alla casa del Padre il 24
giugno 2013:credo l’impegno oggi a superare relativismo e individualismo,oltre
ogni contrattualismo perchè l’ordine della politica non va costruito
sull’affermazione dell’individuo e sul prevalere dell’economia nei rapporti
umani o sul potere del più forte nella sfera del diritto;ma credo che ricordare
uno statista di questo calibro che venne insignito,tra i pochissimi ad
esserlo,del premio Carlo Magno e del premio Monnet,oltre a ricevere il
laticlavio a vita negli ultimi anni,e reggere la presidenza dell Istituto
Giuseppe Toniolo per molti anni,significhi adoperarci affinchè una migliore
articolazione delle società intermedie consenta una piena convivenza democratica
e al superamento di ogni divisione di sesso,razza,religione per una società non
fondata su sovranismi,populismi e ideologie,ma sul dialogo e la sintesi che sono
alla base di un vero ed efficace pensiero politico.
prof.Giulio Alfano – Cattedra Filosofia Politica
Pontificia Università Lateranense e Presidente Istituto Emmanuel Mounier
Ricordando
GIULIO ANDREOTTI: la
politica a servizio della persona
articolo di Giulio Alfano pubblicato
il 2 aprile 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier -
www.istitutomounier.it
La politica ha valore se
ancorata a qualcosa di superiore;essa è anche prassi anche vita
quotidiana,risposta alle esigenze dell’immediato senza dubbio,ma
qualcosa di diverso per trasmetterlo soprattutto ai giovani,per far
si che ci siano dei punti di riferimento!”.
Con queste parole Il presidente Giulio Andreotti il 25 ottobre 2004
ricordava cosa fosse la politica e cosa soprattutto fosse stata per
lui,per i giovani degli anni della seconda guerra mondiale,aprendo
un convegno dal titolo “De Gasperi,ritratto di uno statista” in
occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dello
statista trentino,suo grande maestro che tanto fortemente aveva
influito sulla sua formazione e sulle sue scelte giovanili.
In quel periodo il mondo giovanile “tout court” viveva la grande
stagione della formazione sociale nella FUCI,la federazione
universitaria cattolici italiani fondata proprio a Roma nel 1894 da
don Romolo Murri(1870/1944),discusso animatore anche della prima
Democrazia Cristiana, fermata dalla enciclica “Graves de communi”
ndi Leone XIII b nel 1901,ma erano anche gli anni del fervore della
GIAC il ramo giovanile dell’Azione Cattolica rivitalizzato proprio
per formare i giovani da Pio XI e affidata alla guida del prof.Luigi
Gedda(1902/2000). Andreotti giovane della Roma storica delle antiche
strade del centro storico in quel decennio vive una formazione
culturale,religiosa e morale all’interno di quel vivace mondo
cattolico,che però faceva i conti con un regime politico sempre più
distante ed a volte avverso alla vita cattolica e quindi dobbiamo
collocare le sue scelte e le sue caratteristiche in quello specifico
periodo. In questo senso la formazione politica morale,ma direi
anche religiosa che Andreotti ha ricevuto non può essere disgiunta
dal clima storico vissuto dai giovani di quella ormai a noi lontana
generazione, che era caratterizzato da una pesante limitazione
dell’espressione personale,ma anche da un fervore irrorato da
rinnovati studi e direi da innovativi approcci alla dottrina
cattolica iniziando dagli anni trenta,segnati da radicalismo
ontologico sempre maggiore.
Certo dobbiamo ricordare che su quel mondo giovanile esercitava un
forte fascino e un profondo ascendente l’intensita editoriale e
filosofica francese,importata in Italia da mons.Giovanni Battista
Montini (!1896/1978),il personalismo di Jacques Maritain ma
soprattutto di Emmanuel Mounier,che offri a quella generazione un
apertura di vedute culturali senza precedenti. Per questo ho
concentrato il mio intervento non gia sull’apostolato politico della
lunga carriera dello statista Andreotti,ma sugli anni quarata,quando
matura proprio nella FUCI la sua coscienza civile di cattolico
impegnato nella da poco rinata Democrazia Cristiana della quale fu
uno dei maggiori esponenti per mezzo secolo.
Giulio Andreotti nasce a
Roma sotto il pontificato di Benedetto XV,il pontefice dell’”Appello
contro l’inutile strage” durante gli anni critici del primo
conflitto mondiale e da questo appello il presidente americano
Wilson avrebbe l’anno successivo pres spunto per la proposta dei
famosi “14 punti” per radicare meglio le democrazie una volta fosse
finita la guerra. Ecco, proprio nell’anno in cui nasce Andreotti il
mondo attolico si sveglia fortemente e viene fondato il Partito
Popolare di don Luigi Sturzo(1871/1959),,dopo appena 4 giorni dalla
sua venuta al mondo,nell’hotel S. Chiara non distante dalla
suaabitazione. La felice congiunzione degli eventi lo fa nascere da
famiglia di origine ciociara,di Segni,,ma in una via del centro
storico di Roma,via dei Prefetti,culmine del vecchio rione Parione
adiacente a Montecitorio,luogo che il futuro statista democristiano
avrebbe a lungo frequentato!
Quel rione pieno di tradizioni del cattolicesimo romano minuto e
devoto,sarebbe rimasto sempre nel suo cuore,tanto che per anni il
suo ufficio fu in piazza Montecitorio,di fianco quasi aalla via
della sua nascita. Papa Francesco che ha voluto dedicare un sinodo
proprio ai giovani,ai quali rivolge sovente la sua pastorale
attenzione,,che:” La gioia della verita esprime il desiderio
struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non
incontra,non abita e non condivide con tutti la luce di
DIO”(Veritatis Gaudium”,1)
Ecco allora che anche quei giovani di tanti anni fa,la gioia la
trovarono nella formazione cattolica di base,nelle parrocchie,nei
circoli giovanili,anche nelle stesse omelie che i parroci svolgevano
in quegli anni tanto difficili,dai loro pulpiti,per ricordare che
l’uomo è essenzialmente “creatura di Dio”,persona,quindi immagine
del Creatore. Vi era un forte bisogno di ermeneutica evangelica S
che fece loro capire gli inganni immani dei totalitarismi e li
aprisse alla vita,alla bellezza della fede vera autenticamente
vissuta e testimoniata,in un atmosfera spirituale di ricerca e di
certezza,per tornare alla ragione fondamentale del vero credere e la
filosofia personalista fece irruzione in quel tornante drammatico
degli anni trenta,nella formazione di una generazione destinata a
reggere per decenni i destini dell’Italia,protagonista della
rinascita europea!
U ltimo di tre figli,una sorella muore a soli 18 anni,la madre Rosa
Falasca,donna di solidi principi e di amorevole fermezza,scomparsa
nel 1976,vedova di Filippo,maestro elementare,morto quando il
piccolo Giulio aveva appena due anni,tornato gravemente malato dalla
grande guerra e come il presidente poi avrebbe spesso confidato,lui
e suo fratello Francesco,futuro comandante della polizia urbana
della capitale,avevano il terrore di morire a 33 anni perché a
quella età erano morti il padre e il nonno!
Negli anni del liceo,prima frequentato al Visconti poi al Tasso,
direi che egli sperimenta la liberta,una forma un po anomala di
liberta anzi una liberta di privilegio vedendo che i figli del Duce
alunni di quel liceo facevano un po come pareva loro data la
posizione dell’importante genitore!. Quindi ancora la parola magica
proibita in quel periodo “liberta”un tema quello della liberta che
lui frequenterà spesso nei suoi tantissimi discorsi,ma soprattutto
negli anni della militanza giovanile,tema che sara anche la chiave
divolta della sua definitiva scelta politica in favore di un partito
che nel simbolo aveva proprio la parola “libertas”. Confidera molti
anni dopo lo stesso Andreotti in un intervista:”.. Non ero affatto
bravo,ero pteparato aquato bastva per non essere bocciato,ma niente
di più e devo confessare che non mi piaceva affatto studiare!”.
Sembra un paradosso in un uomo non solo politico,ma fine
intellettuale,che avrebbe fatto della scrittura nei suoi tanti e
sempre arricchenti libri,lo strumento specifico del suo lavoro.
Voglio, a margine,ricordare che egli è stato l’uomo politico
italiano che ha lasciato in eredita la maggiore quantita di libri
articoli,saggi,con uno stile arguto e facondo,oltre ad un immenso
archivio assai minuzioso di oltre 3000 titoli affidati alle cure
dell’Istituto Sturzo. Ma quello studente cosi particolare che viveva
nella Roma dei vicoli,che quasi non aveva conosciuto il padre,si
impegnava comunque in una sempre piu profonda interiorita spirituale
che ne avrebbe fortificato il carattere e gli avrebbe fonferito uno
spirito religioso e uno spessore etico che lo avrebbero accompagnato
tutta la vita,soprattutto nei momenti piu delicati e
difficili,pubblici e privati.
Ecco questa era la vera liberta che il giovane Giulio andava
costruendo in se,la liberta interiore che rende veramente
uomini,attraverso un etica fondata su fortissimi principi morali e
sempre piu comprendendo che la fede religiosa è sì un dono,ma anche
qualcosa di più che ci arricchisce e ci completa,come ammonisce Jean
Racine nel suo capolavoro “Athale2, “Di un cuore che ti ama Dio mio
nessuno turba la pace!” e la pae interiore di Andreotti non sara
turbata neanche negli anni del lungo processo di cui fu vittima!.
Nel 1937 si iscrive all’universita,facolta di Giurisprudenza e si
impiega,esempio moderno di studente lavoratore ed anche quando
cambiera quartiere e casa le modeste entrate di mamma Rosa che da
pensionata reversibile doveva mantenere due giovanotti,non gli
permetteranno di essere esclusivamente uno studente;Si impiega
all’ufficio imposte,sezione tasse sui celibi,e nel 1941 consegue il
diploma di laurea. Sono gli anni cruciali della sua formazione e del
suo slancio in un apostolato che da associativo diverra ben presto
politico,sotto la guida di mons.Montini che educa i giovani della
FUCI,della quale Giulio diverra presidente succedendo ad Aldo Moro.
Con lo statista pugliese il rapporto è molto stretto pur nella
diversita del carattere :diversi ma complementari. In quel periodo
dovendo adempiere agli obblighi militari Andreotti era rimasto tre
giorni presso l’ospedale militare del Celio,dove lo avevano
riconosciuto inabile al servizio militare,prevedendogli addirittura
solo sei mesi di vita. Anni dopo confidera che una volta divenuto
ministro provo a rintracciare l’ufficiale medico che gli aveva fatto
una cosi drastica previsione,ma purtroppo seppe che era morto nel
dopoguerra.
Collabora e poi dirige il periodico “Azione Fucia”,organo della FUCI
e si forma anche giornalisticamente pur preferendo dedicarsi a
scrivere articoli di critica inematografica,quel cinema verso il
quale provera sempre grande interesse e per salvare il quale scrisse
nel dopoguerra la legge in favore delle produzioni italiane.
Proprio nel 1941 Pio XII istitui l’ufficio della segreteria
militare,col compito di mantenere i contatti coi giovani dispersi
sui vari fronti e Andreotti si occupo dei contatti coi giovani
militari della FUCI;
La laurea arriva appunto il 10 novembre 1941,mentre era reggente
della presidenza nazionale FUCI,essendo Moro richiamato militare La
tesi riguardava “Il fine delle pene ecclesiastiche e la personalita
del delinquente nel diritto della Chiesa”,con la votazione di 110
su110 e relatore il prof.Pio Ciprotti. Va ricordato che in quel
periodo tra ragazzi e ragazze nella FUCI ci si dava del leinon per
distanza ma per rispetto;in quelle occasioni di incontro si
formeranno grandi solidarieta e profonde amicizie,anche tra
esponenti che poi sarebbero stati su sponde politiche opposte,basti
pensare ai rapporti che Andreotti inizio a stringere con figure come
Franco Rodano e Adriano Ossicini,del mondo comunista.
Quei giovani ovunque politicamente collocati sembra anticipassero
quanto ci esorta oggi a fare papa Francesco:”Nella formazione di una
cultura cristianamente ispirata,si deve scoprire in tutta la
creazione l’impronta trinitaria che fa del cosmo in cui viviamo una
trama di relazioni in cui è proprio di ogni essere vivente tendere
ad una vera spiritualita della solidarieta globale che sgorga dal
mistero della trinita”(Veritatis Gaudium”,49)
Parole odierne che applichiamo all’origine di una formazione che con
determinazione giunse all’emergenza della creaturalita irripertibile
della persona umana,come poi quei giovani seppero dimostrare di
riconoscere nel partecipare alla redazione del testo della
Costituzione Repubblicana. Il valore della persona passa e della
politica al servizio della persona,passa attraverso l’apprendistato
che Andreotti vive dopo l’incontro con De Gasperi e nei primi omenti
dell’adesione al partito della Democrazia Cristiana.
Sotto la guida di Igino Righetti e del giovane assistente Montini in
quegli anni la FUCI svolge un intenso lavoro formativo e
culturale;lo scopo principale è proprio quello di sviluppare
all’interno del mondo cattolico una seria corrente intellettuale
capace di dare allo stesso una nuova incisività ed un nuovo slancio.
Per questo l’invito costante ai fucini da parte di Montini era di
approfiondire la “dottrina cattolica. Scrivera infatti in quegli
anni il futuro Paolo VI:”Noi dobbiamo cercare
libri,maestri,idee,metodi per rendere a noui accessibile e possibile
lo studio e l’affermazione di questa superiore
dottrina!”(G.B.Montini,”Logica di un attività”in “Azione
Fucina”4/XII/1932)
Negli anni del fascismo nelle associazioni cattoliche irrompe
infatti il pensiero personalista maritainiano che lascia traccia
quasi esclusivamente nei movimenti intellettuali giovanili in
particolar modo nella FUCI,mancando negli altri rami dell’Azione
Cattolica una riflessione in termini culturali sull’impegno di
testimoniare il cristianesimo a livello sociale con un progetto
politico.
Qui risiede secondo me,la palingenesi che il giovane Andreotti
subisce a cavallo tra l’inizio e la metà degli anni
quaranta,soprattutto perché nell’estate del 1943 la redazione di
quello che impropriamente o piu genericamente viene definito “Codice
di Camaldoli”,mentre la definizione del documento redatto dal
giovane e purtroppo assai prematuramente scomparso Sergio
Paronetto,si chiamava “Per una comunità cristiana”.sconvolge gli
orizzonti dei giovani cattolici impegnati nel mondo associativo.
Ecco il concetto di “comunità”è il centro della riflessione di quei
giovani chiamati a raccolta dal mondo cattolico a Camaldoli dal 18
al 24 luglio 1943.
Il Regime fascista già da tempo vacillante è sul punto di
crollare,ci si interroga,dopo vent’anni di dittatura cesariana,quale
stato sarebbero stati chiamati a realizzare i cattolici una volta
fosse finita la guerra. Quei giovani come Andreotti,La
Pira,Taviani,Colombo, neanche sapevano chi fosse Sturzo e tantomeno
De Gasperi ridotto all’anonimato nella Biblioteca vaticana.e
l’incontro col futuro statista trentino ebbe contorni quasi comici
perche recandosi in biblioteca vaticana e sentendosi chiedere perché
volesse fare una tesi sulla marina pontificia, Andreotti rispose
stizzito a quell’allampanato signore di mezza età ignorando che
quell’incontro casuale sarebbe stata come egli amava ripetere “una
scintilla” che gli avrebbe aperto un mondo nuovo,incontrandolo poco
tempo dopo in una riunione semiclandestina in casa di Giuseppe
Spataro in via Cola di Rienzo.
Ma cosa è una Comunità e in cosa differisce da una società? Lo
ribadirà molti anni dopo lo stesso Andreotti ricordando che “Ogni
momento della politica si deve aggiornare alle novità,ai contesti di
carattere interno ed esterno” (G.Andreotti,”De Gasperi,ritratto di
uno statista”,Rizzoli,Milano.1976,p.28) questo possiamo vederlo
nella rivoluzione che il messaggio personalista produce nel cuore e
nella cultura di quei giovani nella calda estate del ’43.
Essere “comunità”significa riconoscersi come uguali nell’alterità
mentre essere solo “societa” vuol dire essere semplicemente
“individui casuali”,che stanno assieme per un fine ma non
riconoscendosi reciprocamente,per questo il liberalismo politico è
una dottrina e la democrazia un ideale.
Cosa significa riconoscersi? Vedere nell’altro il volto di Cristo,la
creatura persona il soggetto vivente da rispettare ma anche fonte di
arricchimento perché vi è il supremo tribunale ontologico. Il
giovane Andreotti soprattutto nella maturazione acquisita durante la
permanenza in FUCi fino alla presidenza,comincia a disporre di una
griglia analitica che gli consente di rilevare le carenze del
processo di sviluppo che aveva condotto alla tragedia della guerra
ma comprende meglio anche come avessero potuto configurarsi le
grandi soluzioni politiche fino ad allora emerse,dall’individualismo
al socialismo liberale,alle soluzioni totalitarie,ma capisce ancher
che se l’operare esterno allora imperante si svolgeva secondo tali
costanti,esse originavano la struttura della convivenza civile,le
sue componenti strutturali che implicavano ambiti popolari ad esse
in qualche modo corrispondenti,quelle che uil Codice di Camaldoli
definisce “Democrazia della partecipazione”. La lezione montiniana
prima e l’incontro di Camaldoli poi gli fanno comprendere che in
quanto “persona”-ciascuno è dotato di capacità potenziali ad essere
autore del proprio agire e del proprio operare e il realizzare tali
capacità è per ciascuno una necessità un dovere,del proprio “essere
uomo”;in questo nasce il nucleo di quella “democrazia della
partecipazione”che sarà il centro del contributo che i cattolici
daranno alla stesura della carta costituzionale,perché essa è la
realizzazione di tali capacità da parte di ciascuno nell’insieme
delle persone,ovvero nella realtà popolare. La differenza era in
quei giovani cresciuti nell’epoca fascista si configurava anche in
alternativa al regime liberale precedente al fascismo stesso,che era
fondata sulla “democrazia del consenso”,finalizzata alla gestione
del potere politico nella libertà comune,mentre quella della
partecipazione è finalizzata alla gestione dell’autorità personale e
la prima è funzione della seconda ed entrambe sono funzionali al
processo di sviluppo e perfezionamento comune o storico di ciascuno
e di tutti insieme. Di fronte a quel crinale di fine dittatura vi
era l’eredità della rivoluzione francese i risultati carenti della
quale era da riferirsi al prevalere della democrazia diretta su
quella del consenso ,mentre vi erano anche quelli tragici della
rivoluzione russa,al prevalere improprio del partito come struttura
portante della democrazia del consenso su quella partecipativa. Non
è certo trasferendo dall’individuo ad una struttura pubblica il
compito di interpretrare la realtà e di guidare il divenire storico
che si possono superare le car3enze dell’individualismo ed il
fallimento dell’idealismo,non nascondendo le carenze
dell’interpretazione empirista.
Nel passaggio dalla militanza in FUCI all’esperienza politica si
matura in Andreotti l’idea che tutti gli uomini devono essere
chiamati a diventare protagonisti dello sviluppo storico alla
pienezza,da crearsi quotidianamente con impegno totale e
costante,realizzando una pienezza storica sistematica della
democrazia della partecipazione,come canale popolare che consente a
ciascuno di autogestire,in quanto persona umana,l’aspetto pubblico
della vita non solo quello familiare e personale,perché contribuendo
ciascuno a costruire lo sviluppo nella libertà comune,si
contribuisce a costruire la pace nel mondo in modo fattivo e questo
Andreotti lo terrà ben presente anche in momenti non facili nella
lunga responsabilità che ebbe come ministro degli esteri tanti anni
dopo. La verità è il modo corretto che ogni persona ha di
rapportarsi si con la realtà attraverso l’amore,mentre l’amore è il
modo corretto di ogni persona di rapportarsi con la realtà mediante
la volontà. In questo il passaggio dalla vita in FUCI a quella
politica nella D.C avviene non solo grazie all’incontro con De
Gasperi,certamente fondamentale,ma proprio attraverso la
partecipazione agli ideali innovativi del Codice camaldolese,perchè
elabora che la vita umana implica una pluralità di azioni ed
operazioni nell’universo cosmico,nell’unità familiare,nella
convivenza civile e nella comunione ecclesioale,necessitando di un
minimo di interventi e di un massimo di orizzonti. Quell’incontro di
Camaldoli e l’elaborazione del relativo Codice al quale Andreotti
partecipa evince che la dignità della persona umana nasce dal
rispetto dei valori valutati dalla ragione e dal sentimento con
l’espressione delle “virtu”,che hanno,come ricordava S.Tommaso
d’Aquinio al magistero del quale il codice spesso attinge, degli
attributi positivi e negativi:tra i primi vanno ricordati
l’INTELLIGENZA,che favorisce la libera conoscenza;la PERIZIA che
abilita l’uomo a distingueretra bene er male e la ARETE’ che rende
l’uomo immune da sentimenti deteriori che conducono alla corruzione
morale.
Ma sono i secondi attributi negativi che in politica concorrono alla
decadenza deller istituzioni e minano la libertà,ovveero la
FRETTA,che fa agire secondo emotività;la PASSIONE,che fa comportare
secondo desideri improvvisi e la VANITA’ che rende assoluti i
desideri egoistici e ipostatizza i comportamenti.
In quel passaggio alla vita politica Andreotti comprende che in
politica è la ragione che rende effiicace una progettualità e solida
una vera democrazia,altrimenti si scadrebbe nel moralismo e in
questo egli darà prova di vero statista! La volontarietà,che implica
sempre l’assenza dell’ignoranza,manifesta come non abbia fondamento
la cosiddetta “opzione fondamentale”,perché attribuisce valore
soltanto a cio che è deciso,mentre c’è già un implicito indirizzo al
bene morale attraverso la ragione pratica che conduce alle azioni
attraverso la volontà.
Il personalismo mounieriano che mons.Montini ora Santo,infonde nella
formazione di quella generazione di giovani dei quali Andreotti sarà
con Moro uno dei maggiori esponenti,scopre e valorizza l’uomo come
soggetto e attraverso questa intuizione egli figlio e fedele
dell’eredità della Roma antica e papalina,scopre la laicità del suo
impegno in politica,riscoprendo l’esperienza riattualizzata di
Giuseppe Toniolo,poi la lezione del giusnaturalismo e infine
giungendo alla scuiola di De Gasperi che gli insegna il “metodo
democratico”,per evitare di identificare il mezzo da usare,ovvero il
partito politico,con il fine da raggiungere,ossia la promozione
dell’uomo. Per questo quando l’influsso personalista arrivo alle
giovani generazioni che si accingevano a redigere le costituzioni
politiche degli stati europei nel secondo dopoguerra,fui chiaro
l’impegno di radicare il ruolo dei parlamenti in una tradizione
sociale che configurasse una “comunità politica”,perché lo stato
democratico non crea diritti ma li riconosce,giacche essi sono
espressione proprio di una comunità politica formata da persone;in
questo senso la democrazia nuova che emerge nel secondo dopoguerra a
cui Andreotti offre un contributo fondamentale e fondante,delinea
l’architettura di uno stato “limitato”,ovvero quello che in politica
si è soliti definire “abilitante”,che incoraggia ma soprattutto
promuove tutte quelle forme di azione sociale che producono effetti
pubblici attraverso la promozione e il radicamento di assetti
istituzionali che facilitano lo sviluppo dei corpi intermedi della
società,come poi infatti vennero definiti dall’articolo 2 della
Costituzione della Repubblica Italiana.
In questa fase del suo impegno Andreotti contribuisce con una
presenza che sara costante e continua,ad un attività legislativa per
recuperare saldare e superare la tradizione individualistica dei
diritti dell’uomo,senza cedere alle suggestioni di quella
collettivistica,evitando che ogni libertà fosse isolata dalle altre.
Quel progetto lo animerà sempre collegando intimamente ogni liberta
ma non limitandosi a riconoscerle bensi ad unirle all’insegna
dell’eminente dignità dell’uomo creatura di Dio. Soprattutto verso
la famiglia l’impegno dello statista romano sarà continuativo;nel
passsaggio di formazione daklla FUCI alla DC il volano era stato
proprio questo leitmotiv: Lo stato non crea la famiglia ma la
riconosce come società naturale ;non ha alcuna ideologia da
insegnare nella scuola,ma assicura con le sue strutture scolastiche
il diritto alla scuola e nel contempo la libertà di insegnamento;non
protegge alcuna religione di stato,ma riconosce libertà religiosa ed
organizzazione è pubblica di culto a tutte le religioni;riconosce
infine la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica
senza però che il proprietario o l’imprenditore siano sottratti
all’adempimento inderogabile dei doveri di solidarietà politica ed
economica. In definitiva l’influsso della formazione giovanile fara
comprendere ad Andreotti il superamento completo di
quell’individualismo posto al centro della societa politica dai
principi della rivoluzione francese. L’uomo non considerato
individuo,che per uscire dall’anarchia conferisce tutti i poteri
allo stato,salvo un generale controllo democratico parlamentare
perché l’uomo è persona ma anche individuo che costruisce la sua
personalita in rapporto alla solidarieta nella societa in cui vive
(la famiglia,la comunita di lavoro, la comunita economica,a comunita
religiosa). Tutte le società che preesistono allo stato e rispetto
alle quali esso è soltanto uno strumento di servizio. In questa
intuizione si configura l’apprendimento in quegli anni da parte di
Andreotti della dottrina dello stato democratico e si forma sempre
di piu il grande statista che abbiamo conosciuto nel lungo servizio
allo stato. Il passaggIO alla politica dalla FUCI alla DC significa
per Andreotti te cose essenzialmente:
1)Confermare i principi di liberta politica e civile contemperandoli
coi diritti dell’uomo persona;
2)superare l’identificazione del diritto con lo stato che aveva
condotto allo stato etico e che era stato identificato con
l’assoluto ma anche reagire ad un concetto di stato agnostico che
poteva portare alla formazione di maggioranze estranee ad ogni
regola morale;
3) costruire uno stato ne etico ne agnostico ma tuttavia portatore
di valori non astrattamente imposti da una ideologia,ma dalla
coscienza popolare espressa nella comunita in cui si articola la
vita della societa civile e che assume come propri fini il diritto
al lavoro,all’istruzione,alla salute.
Quella espressione “lo stato riconosce…” contenuta nell’articolo 2
della nostra Costituzione che in filosofia politica si definisce
“suiddita”,ovvero la centralita del soggetto persona,non piu lo
stato che accetta o che addirittura concede,ma uno stato che si
ferma di fronte al riconoscimento della consistenza ontologica
dell’uomo e lo spirito di mediazione che lo statista Andreotti
avrebbe dimostrato nei decenni successivi era erede di quel breve ma
intenso periodo degli anni quaranta,mettendo sempre al primo posto
non gli interessi personali o il trionfo elettorale,ma la promozione
dell’uomo:la politica come servizio!
Prof. Giulio ALFANO
(Pontificia Università Lateranense)