BARTOLO
CICCARDINI - Commemorazione all'Istituto Sturzo - 1 ottobre 2014

interventi di: Gerardo Bianco,
Massimo Cortese, Maurizio Eufemi, Alessandro Forlani, Francesco Malgeri
tratti dal sito:
bartolociccardini.wordpress.com
INTERVENTO DI GERARDO BIANCO
Se dovessi immaginare una
raffigurazione di Bartolo Ciccardini, sintetica della sua personalità, non
riuscirei a trovare nessun’altra immagine che non sia quella di un vulcano in
continua eruzione, perché era tale la sua capacità creativa e inventiva, che
peraltro si traduceva in linee culturali e politiche molto precise ed erano così
innovative ed anche, in qualche maniera, spiazzanti le sue scelte, da apparire a
molti, un po’ schizzinosi del rigore della politica, perfino “poco politico”,
mentre invece Bartolo Ciccardini riusciva a guardare nel presente, avendo ben
chiaro quello che era il flusso culturale, politico e sociale che si innervava
nella nostra società.
La mia è un’amicizia antica, che
risale ai tempi della Cattolica e si è sempre intrecciata con la sua storia
personale.
Io so che molti vogliono dare
testimonianza di questo rapporto con Ciccardini e presentarne lati della sua
ricchissima personalità, quindi non posso che essere succinto e breve. Tanto più
succinto quanto più ampia è la storia personale di Ciccardini, perché attraversa
tutta la vicenda della Democrazia Cristiana, direi fino ai nostri giorni. È una
storia che comincia da lontano, comincia quasi agli albori della storia della
Democrazia Cristiana. Egli partecipa ed è testimone di quell’incontro, diventato
mitico, all’interno della nostra vicenda politica, che è l’incontro del
“porcellino”, quell’incontro straordinario fra Dossetti, Fanfani, Lazzati, la
Bianchini ed altri. Ciccardini ne è testimone, ed ha lasciato in questo libro,
dedicato a Franco Maria Malfatti, che abbiamo presentato qualche giorno fa a
Rieti, una testimonianza bellissima di questa sua esperienza.
Ciccardini, come ha detto benissimo
poco fa Francesco Malgeri, appartiene ad una generazione che ha segnato la
storia del nostro Paese in momenti fondamentali ed importanti. E’ la generazione
degli anni ’20, la generazione che prende in mano l’Italia, dopo la guida di De
Gasperi.
È una generazione interessantissima,
ha nomi prestigiosi, importanti, oggi non catalogati fra i grandi personaggi
della storia, perché altra è la storia che viene scritta nel nostro Paese. E
qui, se permettete, come un mantra, continuo a ripetere che la storia della
Democrazia Cristiana, caro Malgeri, non è stata scritta, o quella che è stata
scritta è una storia distorta, artefatta.
Peraltro, la cosa singolare è che
quando si parla di questi personaggi della Democrazia Cristiana, grandi
personaggi, e sono tanti, sono decine di migliaia di persone, paradossalmente
non si riesce a criticare la grandezza di questi personaggi e si usa sempre
dire, lo hanno fatto perfino con Martinazzoli, nostro grande punto di
riferimento, “democristiano anomalo”, quasi che questi personaggi, che hanno
scritto la storia, sono differenti da che cosa sia stata la Democrazia
Cristiana, che non è stata affatto capita, perché complessa è la sua natura.
Io voglio sottolineare che qui c’è
una testimonianza importante di che cosa abbia rappresentato Bartolo Ciccardini
nel contesto democratico: è la presenza di Pannella, che dimostra quanta
capacità lui aveva di colloquio con uno che rappresentava, dal punto di vista
della visione fondamentale dei valori della società, qualcosa di molto distante
rispetto alla cultura cristiana, però c’era questa grandezza in Ciccardini, la
capacità di colloquiare portando tesi, affrontando i temi con una presenza
culturale molto raffinata.
Bisogna leggere i suoi scritti,
bisogna anche scoprire quella sua venatura spirituale ed anche religiosa che
soprattutto ha alimentato gli ultimi bellissimi scritti di Camaldoli, l’ultimo
tentativo che insieme abbiamo sviluppato per mantenere viva la fiammella di una
cultura politica che rischia di essere completamente dimenticata, ignorata e che
sicuramente, sparendo dal panorama politico italiano, rischia di impoverire
complessivamente tutta la cultura e la società del nostro Paese.
Bartolo Ciccardini ha inventato
mille cose. Nei momenti di depressione del partito c’era Bartolo Ciccardini che
accendeva una fiammella.
Io voglio ricordare, qui c’è
Ferrarini, quello che lui fece, per esempio, in un momento di depressione della
Democrazia Cristiana, inventò le feste dell’amicizia e ci fu il grande incontro
di Palmanova che, come ricordate, fu la riscoperta che, in fondo, non tutto era
cenere nella Democrazia Cristiana, che c’era ancora fuoco all’interno della
Democrazia Cristiana e quel fuoco si riaccese intorno a Zaccagnini, intorno alla
Democrazia Cristiana, e si accesero nuove speranze, che poi sono andate, ahimè,
perdute, anche per nostra insipienza.
Era un personaggio che aveva
nell’animo quella che si chiama la curiositas, un termine latino che
dice molto più della nostra curiosità. Voleva dappertutto sapere, capire.
Io non voglio farla lunga, ma una
delle cose che mi ha più colpito era che, quando discuteva con me, amava parlare
del Mezzogiorno ed ero sorpreso perché conosceva episodi, fatti, vicende che a
me, che pure vivevo nel Mezzogiorno e che qualche libro l’avevo pure letto,
riuscivano praticamente ignote.
Mi dette una volta un manoscritto ed
io questo manoscritto ho voluto che fosse pubblicato. È nato questo libro “Viaggio
nel Mezzogiorno d’Italia”. E’ un libro di una scrittura, come lui sapeva
fare, vivace, ricca. Aveva indagato dappertutto, aveva letto libri di autori
dimenticati, scritti in un italiano desueto, ma erano ricchi di notizie che
diventavano una storia sorprendente, intensa era questa sua capacità di
indagare, per esempio, sulle Repubbliche marinare, e poi anche nella vita vera,
materiale delle comunità nella loro cultura popolare, perché per lui cultura
popolare era anche l’incontro con i cibi, descritti in vivaci squarci narrativi.
Voglio ricordare questo aspetto importante della sua attività. Egli infatti è
l’inventore della catena Ciao. Sapeva che la cultura popolare si manifestava in
tutte le espressioni della vita, non era solo pensiero, non era solo astrazione.
Non parlerò qui di quella che è stata poi la sua intuizione del modo di
affrontare la crisi italiana, c’è qui Zamberletti, c’è qui Mario Segni, ci sono
altri amici che tentarono allora di capire che forse bisognava dare una svolta,
che non passasse solo per la dialettica politica. Io appartenevo ad una corrente
che pensava che la soluzione della crisi italiana passasse per la dialettica fra
i partiti, e non invece per una capacità incisiva riformatrice dello stesso
partito democristiano che, cambiando alcune regole dell’organizzazione
istituzionale del Paese, fosse in grado di affrontare la crisi. Naturalmente
allora ci fu una grande offensiva mediatica contro, e quindi la demonizzazione
del movimento accusato di gollismo, come antidemocratico. Ciccardini fu invece
un anticipatore, un inventore di soluzioni democratiche che oggi sono diventate
pane quotidiano. Si pensi, per esempio, alle famose primarie, ma soprattutto
alla battaglia per l’elezione diretta del Sindaco, una battaglia che cominciò da
lontano e che riuscimmo con Segni a realizzare solo nel 1992.
La sua è una storia straordinaria e,
per scriverla, spero che prima o poi ci si metta insieme a elaborarla, perché
scrivendo la storia di personaggi come Bartolo Ciccardini si aiuta, a mio
avviso, a scrivere la storia non ancora scritta della Democrazia Cristiana,
quella ignorata eppure luminosa. Credo che Bianchi ricorderà, per esempio, le
sue ostinate battaglie per ricordare quello che è stato dimenticato, l’apporto
che i partigiani cristiani e 400 sacerdoti sacrificati durante la Resistenza,
hanno dato alla storia del Paese. Anche questa è una battaglia sulla quale si è
caratterizzato moltissimo l’impegno storiografico di Gabriele De Rosa, quasi che
la Resistenza non avesse visto la partecipazione attiva degli uomini che
appartenevano al filone culturale e politico cattolico-democratico.
Testimonianza del suo amore per la
storia e la libertà è questo libro, che è stato prefato, come è stato ricordato,
da Scoppola. Ma io voglio soprattutto richiamare il ricordo della sua
scorribanda storica lungo le strade del Mezzogiorno. Rosaria ricorderai quando
noi a Positano lo presentammo. Era felice e contento, così come credo che felice
sia finita la sua ultima giornata, ancora fortemente impegnato nella sua
battaglia ideale. Non si rassegnava alla fine della nostra storia e fino
all’ultimo ha tentato di mantenere vivo almeno il discorso culturale.
Per me il ricordo è insieme politico
e personale.
Se permettete, perché è una sintesi,
faccio un riferimento molto personale.
Forse non è elegante che io citi qui
la pagina che lui, quando io gli ho fatto pubblicare questo libro e inserita una
mia prefazione, mi ha dedicato, però lo faccio lo stesso.
“Caro Gerardo, da quando ci
siamo conosciuti, nel 1952, per un mio pellegrinaggio alla Cattolica, a causa di
Terza Generazione (è il momento di ripresa di un discorso nuovo) la mia strada
politica è segnata da pietre miliari, che si chiamano “lettere a Gerardo
Bianco”. Non c’è fase del nostro comune andare che non sia segnata da una
lettera a Gerardo Bianco. Questo libro, di cui sei stato osservatore ed
osservato, è in realtà una lettera a Gerardo Bianco, che vi appare come maestro
in verità, come Virgilio, nel mio viaggio.”
Questa è una delle pagine più care
che ho ricevuto fra i tanti amici. Volle regalarmi questa cravatta. Questa
cravatta, come vedete, porta la balena bianca, non la vediamo più all’orizzonte.
I balenotteri pare che siano scomparsi, ma prima o poi la politica, come la
natura, ricrea sorprese.
Mi dispiace soltanto che il postino
non busserà più per portarmi le lettere di Bartolo Ciccardini.
Gerardo Bianco
L’Azione ricorda
Bartolo Ciccardini -
Commemorato a
Roma l’onorevole cerretese Bartolo Ciccardini
di MASSIMO CORTESE (su
l’Azione del 16 Ottobre 2014)
Se mi avessero detto
che, alla Commemorazione dell’onorevole democristiano Bartolo Ciccardini,
sarebbe stata letta una commossa lettera dell’onorevole comunista Luciana
Castellina, che manifestava grande stima per Bartolo, conosciuto nei lontani
Anni Cinquanta, e che al coro degli elogi si sarebbe unito l’onorevole radicale
Marco Pannella che, non pago del suo bellissimo e interminabile intervento, come
solo lui sa fare, avrebbe sollecitato l’onorevole democristiano Arnaldo Forlani
a prendere la parola, avrei risposto, senza mezzi termini, che non poteva essere
vero. Invece è tutto vero, come è stato documentato da Radio Radicale, che ha
filmato l’evento, e dai miei due compagni di viaggio, il cerretese Alberto
Biondi, cugino di Bartolo e locale presidente dell’ANPI ed il professore Aldo
Crialesi, che per un trentennio è stato vicedirettore de L’Azione. Per questa
ragione, quando Michela Bellomaria mi ha chiesto di scrivere qualcosa per
L’Azione sulla Commemorazione del vostro Illustre Concittadino, ho pensato che
la mia riflessione fosse da considerarsi un obbligo, specialmente nell’attuale
momento storico in cui la vostra amatissima Cerreto d’Esi è Commissariata, segno
inconfutabile che la Politica cittadina vive un momento di difficoltà. Perché
Bartolo Ciccardini, oltre ad essere un giornalista, uno scrittore, uno che
pensava in grande, era essenzialmente un politico, ma non ha mai dimenticato i
suoi legami con i luoghi dove è venuto al mondo. Vi chiedo scusa se questa mia
riflessione richiederà qualche minuto del vostro tempo, cercherò di fare del mio
meglio: sarà un’impresa ardua, ma non impossibile: io andrei ad iniziare.
“è mercoledì 1°
ottobre 2014, sono le quindici e quaranta, sto per entrare a Palazzo Sturzo a
Roma per partecipare alla Commemorazione dell’onorevole Bartolo Ciccardini, che
aveva scritto la prefazione per il mio ultimo libro. Nessuno è arrivato, sono in
grande anticipo, vado a cercare la sala dell’incontro, sul tavolo posto
all’ingresso della sala trovo due lettere su carta intestata dell’Istituto
Sturzo, una scritta da Pino Ferrarini, un suo amico, mentre l’altra riporta il
ricordo di Luciana Castellina. Incuriosito, vado a leggere questa lettera
appassionata, perché racconta con nostalgia dei lontani Anni Cinquanta, al tempo
degli incontri e degli scontri tra i due opposti schieramenti dei giovani
comunisti e dei giovani democristiani, nel corso dei quali prese a stimare
Bartolo. I primi ad arrivare sono due operatori di Radio Radicale, con i quali
scambio alcune opinioni a proposito della trasmissione Radio Carcere, che va in
onda presso la storica emittente il martedì sera alle 21.00 e viene replicata il
giovedì sera. Nel frattempo la sala comincia a riempirsi, vedo arrivare molti
volti noti, tra i quali il ministro Zamberletti, Gerardo Bianco, Mario Segni,
Arturo Parisi, Calogero Mannino, Maria Pia Garavaglia e i marchigiani Francesco
Merloni e Adriano Ciaffi, oltre a un bel plotone di giornalisti, tra i quali
riconosco il sempre verde Gianni Bisiach, che per un amante della Storia come me
è una specie di mito. In una sala affollatissima la Commemorazione ha inizio
alle ore 17.15 con l’intervento di Giuseppe Sangiorgi, il Segretario Generale
dell’Istituto Sturzo che, nel fare gli onori di casa, prova ad immaginare una
vicenda curiosa che potrebbe avere accompagnato la scomparsa: “Quando Bartolo è
andato in Paradiso, e a San Pietro è stata presentata la lista dei nuovi venuti,
il santo, quando ha saputo che c’era Bartolo, è andato ad accoglierlo, data la
sua grande popolarità anche da Quelle Parti “. I posti a sedere sono tutti
occupati, a parte uno che, per ironia della sorte, è quello accanto al mio. In
quel momento vedo Pino Ferrarini che, visto il posto libero, fa: è arrivato
Marco Pannella, questo è libero? Certo, faccio io, onorato dall’insolita
situazione, ma dopo qualche secondo un signore occupa il posto. Sento dal fondo
della sala il vocione inconfondibile dell’onorevole Pannella, che ho spesso
sentito a Radio Radicale e alla TV: a quel punto, c’è una sola cosa da fare:
quando Ferrarini accompagnerà Pannella al posto che lui ritiene libero, il
sottoscritto si alzerà e gli cederà il posto. Ed è esattamente quanto è
accaduto: incredibile davvero! All’intervento introduttivo di Sangiorgi, segue
quello dello storico Francesco Malgeri, che cerca di riassumere brevemente
l’esperienza politica di Bartolo, nelle vesti di parlamentare, uomo di governo,
dirigente di partito, giornalista, scrittore, autore di slogan e manifesti
elettorali come il Famoso “La DC ha vent’anni” del 1963, direttore di giornale,
inventore delle Feste dell’Amicizia… È poi la volta di Gerardo Bianco, che
regala all’uditorio l’immagine più genuina dell’onorevole Ciccardini: un vulcano
in continua eruzione. L’ intervento di Gerardo Bianco è stato particolarmente
toccante: aveva idee innovative, nei momenti di difficoltà del Partito reagiva
con nuove iniziative. Poi, quando legge alcuni brani del libro di Bartolo
“Viaggio nel Mezzogiorno d’Italia”, specialmente quando parla delle lettere di
Ciccardini a Gerardo Bianco, si commuove, e noi con lui. Alla commozione di
Gerardo Bianco, segue quella di Giovanni Bianchi, che legge una poesia, che ha
anche il sapore di una preghiera, ritrovata nella Bibbia di Bartolo, in cui lui
chiede al Signore misericordia per quel “capretto storto”, come appunto lui si
definisce. Interviene poi l’onorevole Marco Pannella, chiamato a gran voce da
Sangiorgi a parlare, ad intervenire, a dare il proprio contributo, e lui non si
fa certo pregare. L’onorevole non mi fraintenda, ma la sua presenza, quella di
questo Gian Burrasca della Politica Italiana, che non ha mai avuto peli per la
lingua per nessuno, è fondamentale per comprendere come realmente Bartolo
Ciccardini fosse contro gli schemi, essendo un uomo che dialogava davvero con
tutti, a prescindere dalla militanza politica. Non a caso, molti sono rimasti
sbalorditi nel constatare che Marco Pannella ha fatto di tutto per lasciare
Londra ed essere presente alla Santa Messa organizzata al mattino in suo
suffragio dall’Associazione Ex Parlamentari. È poi seguito l’intervento di
Alessandro Forlani, che ha avuto il privilegio con pochi altri di essere
presente al ritrovo in pizzeria la sera della scomparsa, che ha messo in rilievo
la fede di Bartolo nelle esigenze concrete della sua attività politica. Suo
padre Arnaldo ha evidenziato come Ciccardini fosse rimasto giovane, al punto che
a parlare della sua persona era stato chiamato suo figlio. Flavia Nardelli ha
comunicato che alcune iniziative intraprese da Bartolo verranno portate avanti.
Il noto giornalista Gianni Bisiach ha ricordato Ciccardini quando, era ancora
vivo Pio XII, entrambi s’interessarono addirittura del parto indolore, che
all’epoca costituiva una novità. Perché Bartolo è noto soprattutto per le
innovazioni, per le invenzioni, per le intuizioni, molte delle quali si
sarebbero rivelate delle realtà: in una parola, era un Creativo. Per ultimo, in
ordine di interventi, parla il fabrianese professor Crialesi che, dopo aver
detto che avrebbe messo a disposizione di tutti molti libri d Ciccardini, si
sofferma sul fatto che Bartolo soffrisse per la latitanza del mondo cattolico”.
Cari Amici
dell’Azione, io avrei concluso questa mia riflessione sulla Commemorazione, ma
prima di congedarmi vorrei riportare una osservazione dell’onorevole scomparso,
tratta dall’articolo “Bartolo fuori dagli schemi” scritto da uno che lo
conosceva bene, l’amico Giovanni Bianchi. L’articolo è stato pubblicato sulla
rivista online Camaldoli del 6 ottobre 2014, di cui l’onorevole era Direttore:
ecco quanto diceva Bartolo: “ Io leggo moltissimi giornali, ma quello che mi
sembra fatto meglio è L’Azione, il settimanale di Fabriano-Matelica, che poi è
la terra dove sono nato. Quando mi arriva a Roma ci trovo dentro tutto: la
vicinanza al territorio, ai fatti concreti, anche piccoli, che vi accadono. Una
linea, cioè una angolatura precisa con cui interpretare gli avvenimenti,
proposti però senza chiusure, senza toni tetragoni. E anche una certa freschezza
e vivacità, cosa non troppo frequente per un organo di stampa cattolica”.
Non ci sono parole
migliori per dimostrare, qualora ve ne fosse ancora bisogno, quanto Bartolo
amasse la sua Terra.Non vi dovete commuovere, per favore: l’onorevole non lo
avrebbe mai permesso.
Massimo Cortese
La
commemorazione di Bartolo Ciccardini all’Istituto Sturzo di MAURIZIO EUFEMI
Quello che avrei voluto dire
nell’incontro presso l’Istituto Sturzo su Bartolo Ciccardini, mi è rimasto
dentro. Non ho potuto farlo perché il programma si era dispiegato oltre i tempi
previsti con interventi fuori programma, ma particolarmente graditi, come quelli
di Arnaldo Forlani e del suo amico avversario politico Marco Pannella. Tanti
hanno voluto essere presenti per partecipare al ricordo. Tra questi Francesco
Merloni, Mario Segni, Arturo, Parisi, Dario Antoniozzi, Favia Piccoli Nardelli,
Giuseppe Gargani, Angelo Sanza, Adriano Ciaffi, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe
Zamberletti, Pietro Giubilo e tanti altri ancora. Lo storico Francesco Malgeri
ha lumeggiato la figura politica di Bartolo ricordando le tappe della sua lunga
esperienza politica, di parlamentare, uomo di governo, dirigente di partito,
autore di slogan e manifesti elettorali come quello del 1963 “La DC ha vent’anni
“ direttore di giornale, inventore delle Feste dell’Amicizia, la sua vitalità
straordinaria e la curiosità ai mutamenti. Autore di significative riflessioni
religiose sulla presenza dell’uomo nel mondo. Poi le esperienze recenti di
direttore della rivista culturale on line Camaldoli.org, di animatore dei
partigiani cristiani, ribelle per amore. Per Gerardo Bianco che fa risalire il
primo incontro con Bartolo alla Cattolica di Milano nel 1952 Ciccardini era un
“vulcano in continua eruzione”. Era esponente di quella generazione degli anni
venti protagonista della storia della DC. La loro amicizia profonda ha trovato
espressione nel libro viaggio nel Mezzogiorno configurato come lettere a Gerardo
Bianco, ma ora quel postino che ha recapitato tante lettere di Bartolo ora non
suonerà più. Poi il vecchio leone politico Marco Pannella ha voluto essere
presente e parlare perché è certo che avrebbe fatto piacere a Bartolo. Ha
ricordato le sue battaglie con la sinistra liberale, la sua amicizia antica e il
suo impegno costante a ricercare la storia delle madri, dei padri e dei figli
senza distinzioni. Si è abbandonato a citazioni storiche rivendicando con
orgoglio e ricordando la vicenda Parri e quella verso De Gasperi. Alessandro
Forlani ha ricordato gli ultimi tragici momenti vissuti insieme a parlare di
politica con una grande preoccupazione per il Paese, ma con uno sguardo ancora
al futuro e ad iniziative rivolte alla città di Roma, che dovevano coinvolgere
il Vicariato e le parrocchie E’ stato maestro di più generazioni per un
approccio alla vita pubblica. Ha dato i rudimenti del mestiere a tanti giovani
con gli incontri a Sant’Ignazio e al Terminillo. Sapeva introdurre sempre
elementi innovativi. Giovani Bianchi ha voluto ricordare la battaglia condotta
con i partigiani cristiani e la grande amarezza che aveva avuto nel mancato
riconoscimento. Ciccardini apparteneva alla categoria degli anomali, degli
irregolari di genio, quelli che legavano i partiti con i territori, con i corpi
intermedi. Voleva sottrarre la Resistenza alla epopea e farla capire alle nuove
generazioni. Di qui le iniziative per i 400 sacerdoti uccisi, per Suor Teresina,
per la battaglia della Montagnola per Dossetti e la Resistenza, per il 70° del
Codice di Camaldoli. Per Arnaldo Forlani, Bartolo Ciccardini è morto con i
giovani. Per onorarlo sarebbe bene dare vita ad una casa editrice con una
collana editoriale che riprenda la esperienza delle 5 Lune. Non tutti erano
giovani come Bartolo che sapeva stare con i giovani. Luciana Castellina ha
voluto mandare un ricordo scritto per testimoniare il dialogo tra giovani DC e
giovani comunisti attraverso gli organismi universitari. Nei giorni della famosa
legge truffa litigarono lungo Corso Vittorio ma in realtà erano più d’accordo di
quanto apparisse. “Con lui – ricorda Luciana Castellina – se n’è andato un pezzo
della storia della mia generazione, oltreché un grande amico: il solo amico
democristiano!”Avrei voluto tratteggiare l’aspetto umano, quello della persona,
le telefonate, le mail, i commenti, i giudizi, i programmi, le idee, le
iniziative. Sapeva guardare ad orizzonti lontani. Il Ciccardini parlamentare,
uomo di vasta e profonda cultura. Quello che avrei voluto dire è che Ciccardini
non voleva essere protagonista. Sapeva essere discreto. Preferiva fare il
soggettista sceneggiatore, stare dietro le quinte, scrivere il copione. Non
voleva la ribalta. Altri dovevano essere i protagonisti. Per il 70° di Camaldoli
volle filmare l’evento nonostante un braccio ingessato. Rimase piacevolmente
sorpreso della straordinaria partecipazione ad un evento che si tenne nel pieno
di un torrido mese di luglio. Non si accontentava del sito, voleva una
diffusione larga anche per coloro che non poteva essere presenti nelle sale
della Camera. E la diretta streaming lo riempiva di gioia. E’ mancato pochi
giorni prima della commemorazione del 15° anniversario della scomparsa di Livio
Labor. Era l’occasione per fare il punto su un particolare momento storico
quello della scissione delle Acli agli inizi degli anni settanta che per lui
vecchio aclista fu una ferita non rimarginata. Voleva illuminare la storia con i
protagonisti degli eventi. Bartolo Ciccardini inizia il suo percorso
parlamentare con le elezioni del maggio 1968. Interviene alla Camera il 28
aprile 1970 sulla legge istitutiva del Referendum che marciava parallela alla
legge sul divorzio. Lì, in quell’intervento c’è tutto Bartolo. Quel discorso
racchiude e anticipa le indicazioni e le scelte degli anni successivi fino ad
oggi. Riteneva necessario rendere viva la Costituzione allo sviluppo storico del
Paese. Poneva la esigenza si una legge adeguandola allo spirito della
Costituzione. Riteneva il referendum come mezzo necessario per integrare il
Parlamento e come mezzo di allargamento della vita democratica. Si sofferma sul
ruolo dei partiti. Anticipa di venti anni la elezione diretta del sindaco e la
difesa delle autonomie locali non in una visione percentualistica delle forze
politiche. Con il proporzionale che era nato nel 1919 votiamo i numeri invece
che i nomi. Interviene sul bilancio interno della Camera, sollecitando il
Presidente Pertini, affinchè i pannelli che ornano l’Aula riportino i risultati
del referendum Istitutivo della Repubblica frutto della Resistenza. Era un
simbolo, ma che simbolo! Vedeva scarsa attenzione per Roma Capitale e il rischio
che Roma divenisse il gorgo in cui si perdono i deficit. Propone un asse
attrezzato lontano dal centro storico anziché la concentrazione della città
della politica. Non voleva il privilegio del permanente ferroviario, ma i mezzi
per il contatto con l’elettorato. Richiamò ben 25 anni fa perfino il ruolo
costituzionale del Cnl, che solo oggi viene cancellato. Vede i rischi del
procedimento legislativo con continue incomprensibili norme di rinvio che definì
un “Olimpo giuridico che il popolo non capisce”.Potrei dire e scrivere molto
altro. Mi fermo qui. Resta il ricordo di una persona che sapeva coinvolgerti
anche in progetti difficili. Niente riteneva insuperabile. Apparteneva appunto a
quella generazione degli anni venti formata nella Resistenza, nelle difficoltà
della guerra e del dopoguerra, nella faticosa ricostruzione, negli anni del
contestazione giovanile e poi nel terrorismo e vedeva la necessità di adeguare
il sistema istituzionale nel solco della Costituzione. Un ribelle per amore.
L’Istituto Sturzo gli ha dedicato il giusto tributo in quella che Bartolo
Ciccardini considerava la sua casa, il luogo del confronto delle idee senza
pregiudizi.
Maurizio Eufemi
INTERVENTO COMMEMORAZIONE CICCARDINI
di Alessandro Forlani
Penso di poter dire che Bartolo
abbia concluso la sua esistenza terrena in piena coerenza con quella che è stata
la sua storia personale, quella di un uomo che valorosamente, con energia
intellettuale e passione, si è battuto per il progresso sociale e per il bene
comune. Credo possa qualificarsi come un vero patriota, perché veramente ha
manifestato fino all’ultimo quel grande amore per il suo paese di cui la sua
lunga milizia politica era stato lo strumento, affiancata da un intenso impegno
pubblicistico e associativo. Anche nelle sue ultime parole emergeva prorompente
la preoccupazione per le sorti del Paese, delle giovani generazioni, della
nostra democrazia repubblicana, faticosamente conquistata e sempre a rischio di
derive demagogiche o fuorvianti, rispetto agli ideali e agli intenti delle
origini. A quelle origini, a quei valori e, in particolare, alle radici
dell’impegno sociale e politico dei cattolico-democratici nel nostro paese,
tendeva sempre a richiamarci, quando, da giovani, ci coinvolgeva nelle sue
iniziative formative e culturali. Ed è a questo aspetto della sua storia e della
sua personalità che vorrei oggi rendere testimonianza, mentre gli amici che mi
hanno preceduto hanno evidenziato altri passaggi e caratteri della sua
instancabile attività. Avremo modo poi in altre occasione di focalizzarne altri
ancora, perché l’impegno profuso da Bartolo ha investito diversi campi d’azione
ed è stato particolarmente intenso e sarebbe impossibile ricomprenderlo nella
trattazione di una sola giornata. Ma io, in questa occasione, vorrei soprattutto
testimoniare l’importanza del ruolo che ha svolto nella formazione politica e
culturale di più generazioni di giovani, di cui tanti rappresentanti vedo anche
ora tra i presenti. Con i suoi corsi di formazione, le sue conferenze, i suoi
stimoli ed insegnamenti concorreva sensibilmente alla maturazione delle nostre
consapevolezze sui doveri sociali, sul senso della nostra appartenenza alla
collettività, sulle potenzialità che gli strumenti della cultura e della
democrazia ci offrivano per migliorarla. Spontaneamente e, direi, per vocazione,
Bartolo si interessava ai giovani, voleva sapere quali tematiche e problemi
dovevamo affrontare nei parlamentini scolastici, nei tormentati Anni Settanta,
caratterizzati dagli “opposti estremismi”, da fenomeni di violenza e di
intolleranza, direi, nel mondo giovanile, da un “eccesso di politica”, mentre ai
nostri giorni sembra dominare l’antipolitica! In quegli anni della mia
adolescenza, inoltre, la nostra appartenenza democratico-cristiana era
continuamente sotto attacco, sembrava ci volessero ridurre alla marginalità,
relegandoci in un ghetto di oscurantismo clericale e di conservazione! Cercavano
sempre di metterci in mora, con semplificazioni mistificanti delle nostre
motivazioni e della nostra ispirazione, stimolando un continuo contraddittorio
in cui eravamo indotti a spiegare le nostre ragioni. E il contraddittorio
continuo richiede gli strumenti culturali, quelli di cui, grazie proprio a
persone attente alle istanze giovanili, come appunto l’on. Ciccardini e a
iniziative come quelle da lui organizzate, riuscivamo ad appropriarci per
contrastare quei continui attacchi alla nostra identità e alla nostra scelta di
campo.
Ci dicevano che loro erano laici e
noi confessionali, no, invece eravamo laici di ispirazione cristiana, né
liberisti, né libertari, ma interclassisti, con una visione sociale fondata sul
solidarismo e sulla centralità della persona. I suoi corsi e le sue riunioni
ci offrivano insomma le categorie, i concetti di fondo, le argomentazioni per le
fatiche dialettiche che ci attendevano nelle assemblee, nei “collettivi” e
successivamente per l’impegno sul territorio, nei quartieri ! Ricordo i corsi
presso l’Antica Farmacia, nella Rettoria di S. Ignazio, quelli in un rifugio di
montagna del Terminillo che si tenevano in settembre, i grandi convegni di
Fiuggi! E accanto ai protagonisti della politica nazionale che sovente si
incontravano in queste occasioni, partecipavano altre persone che con generosità
contribuivano alla nostra “educazione” alla vita pubblica, cui dobbiamo
riconoscenza, ricordo in particolare il prof. Ignazio Vitale, sui temi economici
e sindacali, l’ing. Vanni Cocco, sulla famiglia, Celso Destefanis sui problemi
dello Stato e altri temi legislativi e sociali, Anna Maria Cervone,
sull’integrazione europea. Persone sobrie e allo stesso tempo appassionate che
dedicarono – con Bartolo che coordinava – il loro tempo ai giovani della Dc.
Bartolo amava soprattutto ricordare gli albori della storia del Movimento
Cattolico in Italia, le realtà di base che operando nel tessuto sociale avevano
preparato la strada all’impegno politico vero e proprio, attraverso il
partito. L’Opera dei Congressi, le leghe bianche, le cooperative, la stampa
cattolica, le casse rurali, gli studi sociali, le esperienze municipali. E
devo ammettere che il passaggio dalla fase di formazione alla diretta esperienza
nella realtà di partito, così come si profilava a cavallo tra gli Anni Settanta
e gli Ottanta, si rivelò assai deludente, il contrasto con quelle aurore
gloriose evocate nei corsi di formazione appariva piuttosto stridente ! Ancora
la Dc era guidata, in ambito nazionale, da personaggi straordinari e
carismatici, ma sul piano locale la degenerazione e il declino erano purtroppo
evidenti. Cinismo, lotta spregiudicata per il potere, faziosità, arroganza e
tesseramenti gestiti come pacchetti azionari non creavano certo entusiasmo e
motivazione per coloro che iniziavano a cimentarsi nell’agone politico. Ci
illudemmo però di poter salvare quel partito, di rinnovarlo riscoprendo lo
spirito delle origini e consentirgli di recuperare credibilità e fiducia,
attraverso idee innovative, sul piano istituzionale e anche della
riorganizzazione, secondo schemi nuovi, della sua presenza nella società. Idee
che Bartolo elaborava con grande vivacità intellettuale e promuoveva con il suo
attivismo vulcanico. Ma la sincerità di intenti non fu sufficiente e quel
partito chiuse i battenti, per varie ragioni, sulle quali non si è mai
riflettuto abbastanza… e forse lo faremo, scegliendo tempi e modi. La Dc
concluse traumaticamente la sua esperienza e noi ci siamo divisi in tanti
rivoli, ritrovandoci poi, in tante occasioni, anche in questa sede dell’Istituto
Sturzo, a rimpiangere quella scelta e a stigmatizzare la sostanziale marginalità
in cui poi è stata indotta la nostra corrente di pensiero. La Dc finì, ma
restò per molti di noi il rapporto personale con Bartolo, la consuetudine del
confronto di idee, la sua disponibilità al consiglio affettuoso e all’analisi
acuta e illuminante di quanto maturava nella società italiana, lo stimolo
prezioso all’approfondimento delle evoluzioni in essere.
Si preoccupava soprattutto della
crisi sociale, delle prospettive e della demotivazione dei giovani,
dell’irrilevanza della presenza cattolica nella vita politica. Avvertiva, in
questi anni, la crisi di rappresentanza della democrazia italiana, la scarsa
capacità dei partiti di radicarsi nella società civile. A questa carenza si
collega la sua tenace insistenza per la promozione di liste civiche, di
movimenti che sorgessero dalla base della società per perseguire il bene comune!
Così come auspicava l’intensificazione dell’impegno dei gruppi parrocchiali sul
territorio, iniziative di solidarietà verso le persone bisognose sempre più
numerose e servizi alle famiglie. Dall’iniziativa civica di base occorreva –
secondo il suo pensiero – ripartire per restituire motivazione e tensione morale
all’azione sociale e politica e, in questo quadro, perseguiva con noi la
riorganizzazione di momenti formativi per i giovani, nei quartieri e nelle
parrocchie.
Proprio per affrontare questo tema,
in termini anche organizzativi, insieme ad altri amici, ci eravamo incontrati
quella sera in cui ci ha lasciati. E sempre emergeva, nelle sue proposte e
sollecitazioni, il fervido sentimento religioso, calato nella storia e nel
destino degli uomini, una religiosità direi “affettuosa”, verso il Supremo
Pastore, in un tutt’uno con le Sue pecore, proprio quel sentimento che si coglie
nella breve commovente poesia sul Giudizio Universale, quella del capretto, che
è stata prima ricordata.
E speriamo che da quelle altezze
Bartolo possa ancora ispirare la nostra azione e fare in modo che sia degna di
quella che è stata la lezione di vita di cui intendiamo oggi ringraziarlo.
Alessandro Forlani
Ricordo di
Bartolo Ciccardini di Francesco Malgeri
Ho accolto con grande piacere
l’invito di Giuseppe Sangiorgi a essere qui presente, stasera, per ricordare
Bartolo Ciccardini.
Chi vi parla, a differenza della
gran parte dei presenti, ha avuto modo di conoscere, collaborare con Bartolo
Ciccardini solo in anni più recenti, da quando prese a frequentare l’Istituto
Sturzo, riconoscendo in questa sede un luogo dove era possibile riflettere,
studiare e recuperare il senso più autentico e genuino della storia del
cattolicesimo politico.
Un luogo dove era ancora
possibile rievocare la storia italiana della seconda metà del Novecento alla
luce di ricerche serie e documentate, senza le demonizzazioni ricorrenti nei
mass media e nei talk show televisivi, ove sembra predominare una sorta di
cupio dissolvi di una storia che, pur con le sue inevitabili ombre,
costituisce uno dei periodi più felici e costruttivi che l’Italia ha conosciuto
negli oltre centocinquant’anni di unità nazionale.
Bartolo con la sua presenza,
discreta ma incisiva, ha arricchito l’attività dell’Istituto, che con lui ha
trovato, accanto agli archivi cartacei, una sorta di archivio vivente, capace di
illustrare, spiegare, animare momenti,convegni e tavole rotonde che affrontavano
vicende storiche di cui era stato protagonista o testimone per oltre mezzo
secolo.
E’ qui che, di volta in volta, ci
ha ricordato la sua esperienza politica, al fianco di uomini come Mattei,
Malfatti, Fanfani, Rumore molti altri, la sua presenza ininterrotta alla Camera
dei deputati dal 1968 al 1992, la sua attività di governo come sottosegretario
ai trasporti e poi, dal 1980 al 1986 alla Difesa, i ruoli fondamentali da lui
svolti in seno al partito, come direttore dell’organo del movimento giovanile
Per l’Azione, della rivista Terza Generazione e poi della
Discussione. Ci ha ricordato più volte il ruolo svolto in seno alla Spes, e
quell’idea del 1963, del manifesto su La Dc ha vent’anni, rivendicando,
al di là delle facili ironie che suscitò, la validità e il successo di quel
manifesto sul piano elettorale.
Insomma è qui che egli ha
discusso di molti problemi e aspetti politici e culturali legati alla presenza
dei cattolici nel dibattito politico del secondo dopoguerra. Lo ha fatto sempre
con garbo e discrezione, offrendoci contributi che riflettevano la sua lunga
esperienza, la sua conoscenza di molti risvolti sconosciuti, ignorati dagli
storici, la sua capacità di leggere i fatti della storia e della politica,
assieme alla sua profonda cultura che spaziava in campi diversi.
Ricordo una sua bellissima
lezione, nell’ottobre dello scorso anno, sulla figura, il pensiero e
l’itinerario politico culturale di Lucio Magri, assieme a Luciana Castellina e
Gerardo Bianco, ove affrontò il delicato tema del rapporto tra cattolici e
comunisti nella storia del nostro paese.
Ciò che sorprende, della sua
lunga esperienza politica e umana, è la straordinaria vitalità che mai lo ha
abbandonato, e soprattutto la curiosità di fronte ai mutamenti politici,
sociali, culturali, tecnologici. Non è un caso che già in età avanzata, si
cimentasse senza alcuna riserva o timore con le più moderne tecnologie, dando
vita e sostenendo il peso di una rivista on-line, Camaldoli, che nel
nome rievocava una pagina fondamentale nella storia dei cattolici democratici.
Fino al giorno della sua scomparsa egli ha alimentato e arricchito questa
rivista con articoli, riflessioni, proposte, tutte animate da una profonda
carica e da una lettura attenta dei fatti della politica, della Chiesa, della
società e del costume, senza pregiudizi e senza demonizzare la modernità. Non
mancano riflessioni di carattere religioso, che non erano mai fini a se stesse,
ma si confrontavano sempre con la presenza e con i problemi dell’uomo nel mondo.
A rileggerli, gli articoli
apparsi su Camaldoli, nei suoi cinque anni di vita, possiamo
ripercorrere la più recente storia del nostro paese, del quadro internazionale e
della Chiesa cattolica, da Berlusconi a Renzi, da Obama a Putin, da papa
Ratzinger a papa Francesco, alla luce del vaglio critico, a volte pungente, con
cui Ciccardini sapeva arricchire la sua prosa.
Non sarebbe forse una cattiva
idea rimetterli insieme e pubblicarli questi scritti su Camaldoli, come
una testimonianza viva e a volte sofferta di un laico cristiano di fronte ai
mutamenti politici e sociali conosciuti dal mondo negli ultimi anni.
Ma vorrei aggiungere un altro
elemento per ricordare la figura di Ciccardini. Si tratta del suo impegno,
proprio negli ultimi mesi di vita, per ricordare e celebrare degnamente il 70
anniversario della Resistenza.
Così volle spiegare il
significato delle sue iniziative per rievocare la Resistenza e la lotta di
liberazione del nostro paese: “Oggi nel momento in cui affrontiamo il vero
problema dell’identità nazionale, credo che vada riscritta la storia della
Resistenza, tenendo presente quel valore civile diffuso, che indicava una
direzione morale non attendista, non indifferente, ma basata su una scelta di
civiltà: l’appartenere ad una nazione che aveva dignità, che voleva riparare ai
suoi errori, che voleva darsi un avvenire pacifico. E a questo eroismo civile,
per cui i Partigiani cristiani si chiamarono “ribelli per amore”, bisogna
ispirarsi per dare una motivazione ideale alla nostra ultima generazione.
Ricostruire storiograficamente questi valori, significa anche ricordare che la
Resistenza non finì il 25 aprile del 1945, ma continuò nelle conquiste
democratiche della Costituente e del 18 aprile. In momenti difficili della
nostra storia, negli anni di piombo si tentò di mostrare che la Resistenza non
era finita, ma che anzi essa andava ripresa contro la Democrazia Cristiana e
contro le istituzioni democratiche. Il terrorismo insanguinò il nostro paese ed
il sacrificio di Aldo Moro non fu un atto conseguente alla Resistenza ma
piuttosto in una nuovo e terribile ritorno del fascismo. Ritornare al sentimento
civile e popolare della Resistenza è il modo giusto per intravedere uno sviluppo
ed una crescita della società italiana e delle istituzioni della nuova Europa”.
Scrivendomi in vista di una
riunione seminariale tenuta il 30 gennaio 1914 affermava: “Ci prefiggiamo un
lavoro di ricerca ed una mobilitazione di giovani per riscoprire il significato
ed il valore della Resistenza civile e della “Resistenza di coscienza”
(l’obbligazione morale dei “ribelli per amore”) rivedendo con attenzione
l’autogoverno delle zone non controllate dai tedeschi, la partecipazione delle
donne nel loro sacrificio quotidiano, il significato dei sacerdoti come capi
naturali della Resistenza civile”.
Come segretario dell’Associazione
nazionale partigiani cristiani si mise all’opera con grande fervore. Chiese
aiuto ad istituzioni appositamente preposte a fornire contributi per iniziative
celebrative della resistenza, ma, con suo grande disappunto,molte porte si
chiusero.
Non si scoraggiò, chiese a me e
ad altri amici, di aiutarlo per realizzare una serie di iniziative che lui
stesso aveva programmato. Prese contatto con il Vescovo emerito di Perugia,
Mons. Chiaretti, che è il nipote di Concezio Chiaretti, parroco di Leonessa,
cappellano degli Alpini, fucilato dai tedeschi, il 7 aprile 1943.
Ottenne anche il patrocinio
dell’amministrazione comunale di Leonessa. Una sua telefonata a pochi giorni
dalla sua scomparsa, mi comunicava la sua intenzione di realizzare a settembre,
a Leonessa, un convegno sulla resistenza nell’Italia centrale, con l’obiettivo
di mettere in luce una pagina di storia della resistenza civile del nostro
paese, rifiutando le tesi della zona grigia e della morte della patria, per
restituire ad un evento come la lotta di liberazione il suo grande significato
storico.
Lui stesso, del resto, con il
volume dedicato alla Resistenza di una comunità. La repubblica autonoma di
Cerreto d’Esi, aveva già affrontato l’argomento, ricostruendo la singolare
vicenda vissuta dal suo paese natale tra la primavera e l’estate 1944. Nella
bella introduzione a questo volume, Pietro Scoppola ebbe a scrivere: “L’immagine
della zona grigia è inaccettabile e Ciccardini non manca di dichiararlo
esplicitamente: la popolazione del suo piccolo paese (come la popolazione
italiana nel suo insieme) non fu inerte e indifferente di fronte ai mille drammi
umani provocati dall’8 settembre. […] Dobbiamo dire ormai con chiarezza che
prendere le armi non si può considerare l’unica forma di partecipazione e di
coinvolgimento. […] Il fenomeno della lotta armata che conserva tutto il suo
valore non può essere isolato dalle innumerevoli forme di “Resistenza civile”.
Anche per questo dobbiamo ricordare
e ringraziare Bartolo Ciccardini.
Francesco Malgeri |
FRANCO
SALVI: Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità dei fini
(3 articoli)
FRANCO SALVI NEL CENTENARIO DELLA
SUA NASCITA: VISSE COME UN SAMURAI, UNA VITA DEDICATA ALLA MORALITA’ DEI FINI.
(articolo di Tino Bino)
Franco Salvi moriva la sera del 28
ottobre 1994. La malattia fisica lo aveva aggredito da tempo. La malattia dello
spirito, il declino della energie morali, il morire, erano cominciati con
l’assassinio di Aldo Moro ed erano precipitati con l’uccisione di Bachelet
nell’atrio della Sapienza. Lo avevano trovato Franco, immediatamente accorso,
accasciato ad un angolo dell’università, perso nella disperazione. Bachelet era
l’amico intimo rimasto dopo la morte di Moro. Moro, era stato la ragione di vita
e di impegno di Franco. Quel leader e le idee che incarnava non erano solo
teorie, principi etici, ragioni politiche, progetti illuminati, ma prassi di una
gestione dello Stato che si andava inverando pur fra mille difficoltà e feroci
avversioni interne e internazionali. Era la comprova fattuale che l’anima delle
idee, e tale era il moroteismo, minoranza marginale delle politiche
democristiane, possono divenire egemoni, governare i processi di allargamento
della democrazia, quando contengono la forza non dei numeri, ma dei principi,
quando incarnano i bisogni di giustizia e libertà, quando interpretano
l’irrinunciabile aspirazione all’eguaglianza, destino irraggiungibile forse, ma
proprio per questo irrinunciabile di ogni azione politica e di ogni progetto di
democrazia.
Capiva Franco che, con la morte di
Moro l’Italia sarebbe entrata in una regressione di idee, in una confusione
progettuale, in un disorientamento politico da cui non sarebbe stato facile
uscire. Dopo molti decenni ancora oggi all’Italia non è riuscito di ritrovare il
percorso, una traiettoria di progresso morale, un sentiero di futuro. Perché il
Paese non ha avuto il coraggio di rivisitare i suoi anni settanta e di
sistemarne, ordinatamente, gli avvenimenti che li hanno attraversati. Nel male
ed anche nel bene. Si è chiusa la stagione dei partiti, perno della vita
democratica sancita dalla Carta Costituzionale. Si è archiviata, per colpe
proprie e dell’episcopato italiano, la storia dei cattolici impegnati in
politica. La sinistra, con la morte di Moro, e lo spaesamento di Berlinguer, si
è sciolta nel mare della proprie contraddizioni storiche. Vent’anni di egemonia
berlusconiana hanno sfarinato la democrazia partecipativa, dando vita al
populismo politico, all’individualismo di una società malata di solitudine,
curata adesso con il narcisismo social. Non estraneo alla deriva dei no vax che
impedisce la sconfitta definitiva del virus che ha stravolto la nostra vita
collettiva nell’ultimo biennio.
Franco Salvi fu fra gli ultimi cavalieri, uno degli ultimi sacerdoti della vita
democratica dei cattolici impegnati. Uso termini sacrali perché così lui pensava
la democrazia, un rito che esigeva costi personali, sacrifici individuali,
fedeltà non discutibili. Visse come un samurai, una vita dedicata alla moralità
dei fini. Morì come i soccombenti per eccesso di virtù. In letteratura sono
modelli, i don Chisciotte, i Cyrano di Bergerac. In politica sono i molti leader
sconfitti dal potere ma testimoni di una idea, di una utopia, di una aspirazione
più alta delle nostre mediocrità. È la storia del Risorgimento, della lotta di
liberazione, dei Costituenti per la democrazia in Italia e in ogni parte del
mondo.
Così fu la vita di Franco Salvi,
dalla militanza nella Resistenza, dal carcere nazista di Verona, dalla
leadership nelle fiamma verdi, da una saga familiare ancora tutta da scrivere.
Il suo carisma bresciano lo esercitava con incontri settimanali nella grande
sala della dismessa farmacia paterna nel quartiere popolare del Carmine. Una
sala rimasta sempre arredata dai grandi vasi medicinali della farmacia di Emilio
Salvi che per decenni ha servito i poveri della città e che, per tutto il
periodo della Resistenza, è stata la sede della clandestinità, dei comitati di
liberazione, degli incontri segreti, degli approdi rischiosi. Dentro, crebbe una
famiglia di leader sociali e politici e culturali.
Una palestra riconosciuta di
educazione all’esercizio esemplare della cittadinanza. Il fratello Roberto fu il
partigiano più coraggioso della Resistenza bresciana, il fratello Mario un
dirigente industriale di riconosciuta professionalità, la sorella Elvira una
intellettuale di prestigio, critica d’arte temuta e preparata. I Salvi, come i
Trebeschi, i Montini, i Bazoli, i Minelli sono la storia di Brescia e del suo
cattolicesimo sociale e liberale.
Sono non solo l’ossatura, la trama
della tenuta civile della città, ma l’identità culturale, la leadership politica
per lunghi anni, fino a quando la politica rimase portatrice del ruolo
essenziale della tenuta e della crescita sociali. Ma lo furono perché l’egemonia
del cattolicesimo che quelle famiglie interpretavano era universalmente
riconosciuta. Il loro era un impegno che si generava nei capisaldi della
responsabilità individuale, nell’universalismo cristiano, nel progetto capace di
coinvolgere l’intera società, non una parte di essa. Sono famiglie che hanno
pagato prezzi alti, fedeli ad un comportamento divenuto concezione di vita
emblematico di una storia del cattolicesimo democratico.
Dopo la guerra Franco Salvi si
impegnò immediatamente nella ricosruzione. Fu vice-presidente nazionale della
FUCI per volere di Montini, poi Paolo VI. E in breve, iscritto alla Dc, divenne
responsabile della Camilluccia, la scuola quadri del partito. Passò da lì
l’intera classe dirigente democristiana, metà del giornalismo italiano, tutta la
dirigenza dell’industria pubblica. Fu a lungo parlamentare, primo collaboratore
di Aldo Moro, responsabile dei morotei, fondatore del moroteismo, e dei
rapporti, per conto di Moro, con i leader della sinistra, e le figure d’oltre
Tevere, le teste pensanti del Vaticano. Incarnò in prima persona la linea
politica del cattolicesimo democratico. Gettò a lungo lo sguardo sui problemi
internazionali con collaborazioni dirette e indirette, promosse movimenti, fu
presidente di associazioni per l’Africa e per l’Est Europa. E alla fine accettò
ruoli secondari, incarichi di modeste identità.
Non chiese mai nulla per sé, la sua
carriera, il suo prestigio.
Ho incontrato due anni fa, poco
prima che morisse, Nicola Rana, l’intellettuale di Moro. Abbiamo parlato a lungo
di Franco. Mi ha confermato che Franco Salvi è stata una delle personalità più
rigorose e cristalline della Dc italiana e che non ebbe ciò che meritava. Molte
volte il suo nome figurava nella lista dei ministri da nominare, ma lo stesso
Moro ne chiedeva la rinuncia. Franco, diceva, doveva stare al partito, doveva
dirigere il gruppo, essere il riferimento delle mille controversie che nascevano
in ogni parte d’Italia. La fedeltà, il coraggio, la testimonianza, lo sguardo al
futuro, la passione per il rigore e la verità, l’assunzione del rischio
personale, sono tutte qualità che si trovano intatte nel discorso storico che
Franco pronuncia dalla tribuna del XIV congresso del febbraio 1980. Lo ricorda
in una bella pagina Corrado Belci nella biografia dedicata a Franco. Fu deriso,
insultato, fischiato dai dorotei e da quanti stavano aderendo ad una linea che
era un insulto alla memoria di Moro. Denunciò l’ipocrisia, il potere fine a sé
stesso, il trasformismo imperante, le congiure, il capovolgimento e il
tradimento della linea di Moro e Zaccagnini. Faticò a terminare l’intervento. Le
sue parole erano sommerse da urla e minacce. In tribuna stampa, dove io sedevo,
arrivavano solo echi e stralci del discorso. Ma Salvi, un piccolo punto grigio,
isolato e solitario sulla tribuna al centro di una assemblea babelica, non si
intimidì. “Amicus Plato, concluse, sed magis amica veritas. Per questo, amici,
ho parlato, ho creduto doveroso dire quello che vi ho detto”. Ed era come un
addio, un congedo limpido in una stagione che avrebbe cominciato il declino
finale di una lunga storia.
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FRANCO SALVI UN VERO MAESTRO DI
COERENZA E POLITICA
(Alfredo Bonomi)
Ci sono persone che diventano
determinanti per il percorso umano di una vita. Per me Franco Salvi è stata una
di queste. È datato negli ultimi mesi del 1969 il primo incontro che ho avuto
con lui e da quel colloquio sono uscito con la convinzione che era necessario,
per dar voce al mio desiderio di impegnarmi per la società della Valle Sabbia,
un coinvolgimento diretto nel vivo dell’amministrazione pubblica.
Da questa certezza venne l’idea di
dedicarmi al mio piccolo comune montano, denso di storia e di problemi, visto
come concreto campo d’azione per dar senso a idealità e progettualità maturate
dopo attente riflessioni.
Senza l’incontro con Franco Salvi,
con molta probabilità, non avrei intrapreso quel percorso amministrativo che mi
ha poi visto Sindaco per venticinque anni, attivo a livello della Comunità
Montana di Valle Sabbia e nella U.S.L. n.39. Tutti gli altri impegni nei vari
organismi scolastici e culturali della Valle, ed anche in un raggio più esteso,
sono state ‘piste operative’ saldamente ancorate ad una visione più vasta, non
limitata ad un singolo territorio. In questo ‘sguardo d’insieme’ Franco Salvi mi
ha insegnato che la cultura era fondamentale per dar più valore all’impegno.
Sulla rigorosità morale di Franco
Salvi è già stato detto tutto.
L’impegno politico per lui è
scaturito, come normale conseguenza, da un dovere etico profondo, attento alle
necessità delle persone, nel tentativo di costruire una società giusta e
generosa dove i problemi fossero considerati e affrontati indipendentemente
dalla loro apparente importanza.
Per un giovane la vicinanza di una
personalità così granitica nei valori e così misurata nel porsi, non poteva che
essere percepita come una ‘folgorazione’ per impegnarsi.
Così è stato per me. I moltissimi
incontri avuti con lui, non tanto i convegni ‘di grido’, ma nell’antica farmacia
di via Battaglie, trasformata in studio o, meglio, in un luogo di paziente e
generoso ascolto, erano un sicuro arricchimento umano, ma anche una sorta di
percorso spirituale, dove la politica non si immiseriva nel contendere del
potere, ma era vista come un convinto impegno quotidiano, lontano dalla fuga
dalle responsabilità, che non disdegnava la legittima forza dialettica per la
difesa di valori ritenuti portanti per una società più giusta.
Da questa visione veniva a noi
giovani, e naturalmente a me giovane amministratore, la molla per un impegno
fatto di atti concreti ed anche di decoro sul piano umano.
Non si trattava quindi di impoverire
il cammino intrapreso con una disinvolta pratica nel ‘superare gli ostacoli’, ma
di arricchirlo con la pazienza di rimuovere gli ostacoli di danno per una
visione della società ancorata ai grandi valori cristiani e a quelli portati
dalla Resistenza, tesa a creare uno Stato attento ai bisogni di tutti e
rispettoso delle peculiarità personali, in un quadro complessivo di vera
libertà.
Dal 1970 al 1990 i nostri incontri
sono stati fitti, poi si sono un po’ diradati anche per le sue condizioni di
salute.
Nella farmacia-studio di via
Battaglie portavo problematiche, richieste che riguardavano anche situazioni di
singole persone, che sembravano poca cosa ma che, in realtà, erano ‘grande cosa’
per chi aveva la necessità di essere considerato ed aiutato. Chiedevo pure molti
consigli. Naturalmente questa era la facciata più evidente di un rapporto
‘declinato’ nell’ottica di poter giovarsi di un parere autorevole per rispondere
alle molte esigenze che si presentano quotidianamente ad un amministratore.
A questo versante si affiancava però
una dimensione più profonda.
La coerenza morale di Franco Salvi,
la sua rigorosa adesione ai valori in cui credeva, il suo modo di vedere la
politica, strettamente legata ad una scala valoriale da rispettare, mai da
rinnegare, sono stati una ‘lezione politica’ profonda e motivante per molti
anche nei momenti difficili e drammatici che ha dovuto affrontare.
La mia convinta adesione al ‘Gruppo
Moroteo’ bresciano (un orientamento mai mutato durante tutto il mio ‘cammino
amministrativo’) è maturata e si è consolidata, sino a diventare una ‘dominante’
nel modo di concepire l’impegno pubblico, grazie ai ripetuti colloqui avuti con
Franco Salvi e al suo esempio moralmente luminoso e politicamente tutto dedito
allo spirito di servizio. La sua figura è stata un punto obbligato di
riferimento per un gruppo di valligiani, attivi a livello comunitario, che, pur
nelle difficoltà, hanno cercato di avere una visione d’insieme nell’agire
amministrativo, supportati anche da serie riflessioni culturali.
Ricordando Franco Salvi è però
d’obbligo soffermarsi sulle sue caratteristiche umane. Uomo di poche ma
sostanziali parole, di sguardi significativi più che di gesti teatrali, con una
grande delicatezza nel porsi e nell’esprimere i sentimenti, sapeva rapportarsi
all’interlocutore in maniera penetrante e coinvolgente. Quella che, ad una prima
impressione, poteva sembrare timidezza, era Franco Salvi, Presidente della Fuci
di Brescia e poi Vice Presidente nazionale invece una forma di rispetto per chi
aveva di fronte.
La non eccelsa retorica nel parlare
denotava lo sforzo continuo di trovare i vocaboli giusti e di ‘far parlare
l’animo’. Teneva in alta considerazione l’amicizia. La sua semplicità nel porsi
era dettata da una collaudata propensione a non voler ‘apparire’, ma a voler
‘essere’. Così era anche nei rapporti umani e nell’amicizia.
Il 21 ottobre del 1978 Franco Salvi
mi accompagnò all’altare della piccola e artistica chiesa parrocchiale di
Avenone per il mio matrimonio con Daniela. Io ero a quel tempo Sindaco di
Pertica Bassa e lei segretaria della Sezione D.C. di Vestone-Nozza. La giornata
era di quelle che mozzano il fiato tanto era bella. I picchi della Corna Blacca
sembravano di cristallo, protesi verso il cielo di un azzurro totale. La
tavolozza dei colori autunnali componeva una cartolina di bellezza
indimenticabile. Le sfumature del colore erano in armonia con la felicità dei
cuori.
Gli occhi di Franco Salvi brillavano
mentre mi accompagnava in chiesa. Si era portato in quel di Pertica Bassa per
essere vicino a due giovani in un momento fondamentale della loro vita. Non ho
mai dimenticato il suo volto e l’intensità del suo fugace sorriso che ha detto
molto in quella giornata.
Certo, pensando a Franco Salvi, alla
sua rigorosità morale, alla ‘palestra dei valori’ nella quale allenava il suo
animo, ai drammi che ha affrontato per essere fedele ad una vita coerente ed ad
azioni altrettanto coerenti, non si può scacciare un sottile filo di malinconia
che pervade la mente. Questo filo è alimentato dalla constatazione dei ‘disastri
politici’ che sono venuti dopo, dell’arroganza di ‘politicanti’ presenzialisti,
della nevrosi del dover apparire ad ogni costo, della ‘solitudine della
politica’, così come è stata costretta dall’attuale società, certo per ragioni
che andrebbero attentamente indagate, senza però far venir meno il senso della
speranza.
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LETTERA AGLI ELETTORI
(Brescia, 1992 Franco Salvi)
Ho chiuso la mia esperienza
parlamentare ed anche quella della politica attiva.
Devo ringraziare quanti mi hanno
permesso di stare in Parlamento per così lunghi anni e mi scuso per le
inadempienze, le deficienze e gli errori che hanno accompagnato questa mia vita.
La società o la politica sono
radicalmente cambiate da quando ho incominciato ad interessarmene; pensate che
già dal 25 luglio all'8 settembre del '43 in bicicletta con mio cugino Cesare
Trebeschi andavo in giro per le parrocchie a presentare ai parroci l'opportunità
della creazione della Dc ed è inutile dire quante diverse reazioni
incontrassimo.
Poi vi è stata la Resistenza, il 25
aprile e il risorgere della democrazia. un primo impegno coi giovani della Dc e
poi il Vescovo di allora mi chiese di scegliere tra l'attività politica e la
presidenza della Fuci di Brescia e io lasciai la politica (anche se nelle
elezioni davo il mio possibile contributo all'attività di via Tosio) fino a
quando dopo essere arrivato a Roma quale vice-presidente nazionale della Fuci
conobbi vari dirigenti della Dc e alla scadenza del mio mandato alla Fuci entrai
nell'attività di partito col gruppo di Id (Iniziativa democratica, ndr).
Scusate questa digressione, non
voglio fare ìa mia storia ma mi serviva per dirvi una delle questioni che più mi
hanno colpito ultimamente in questo cambiamento della società e della politica.
Senza essere stato affatto un eroe
ho però partecipato con un contributo modesto a quella che era chiamata lotta di
liberazione contro i tedeschi e i fascisti e io ricordo qui i nostri caduti
della Resistenza, i giovani che hanno disertato la chiamata alle armi della
Repubblica Sociale per passare nclle file della Resistenza e le migliaia di
prigionieri nei lager tcdeschi che hanno prelerito restare e soffrire e morire
in quei campi di concentramento piuttosto che aderire alla Repubblica Sociale.
Ero convinto che il risorgore della
democrazia in Italia fosse sì dovuto alla sconfitta dei tedeschi da parte di
americani, inglesi, francesi, russi, etc., ma che non fosse affatto
insignificante il contributo degli italiani nella liberazione del nostro Paese
con l'atteggiamento che in diverse forme e ìn diverse situazioni avevano dato
alla lolta contro il fascismo e il nazismo.
E avevo sempre saputo e creduto che
la Costituzione italiana nascesse proprio da questo impegno e dai sacriiici che
questo impegno aveva comportato.
Ora sento dire da storici di varia
matrice, e fra questi da Scoppola che pure è un amico e che ha falto battaglie
con noi in questi anni di vita democratica e da ultimo dal prof. Francesco
Cossiga, che quella è stata una guema civile.
Ma certo loro non hanno visto le
nostre città occupate dai tedeschi e dai fascisti! Permettetemi di dirvi, e mi
scuso coi giovani che non hanno vissuto quegli anni, che non riesco ad accettare
questa versione e che, se volete, oltre a tutti gli altri cambiamenti nella vita
politica e sociale che sono sotto gli occhi di tutti quelli che si sono
impegnati nella vita del partito e nelle altre organizzazioni che hanno
contribuito allo svilupparsi della vita politica e sociale di questi 47 anni e
oltre alle condizioni nelle quali stiamo vivendo oggi, questa è un po' la goccia
che fa traboccare il vaso e che mi induce a ritenermi ormai un superato e a
ritirarmi dalla vita politica attiva.
Nuove energie si presentano alla
ribalta e possono ridare slancio e vigore agli ideali che erano alla base della
nostra vita e che credo abbiano ancora una loro validità anche se l'impegno sarà
gravoso per chi continuerà o inizierà questa azione correggendo anche gli
errori, e sono tanti, che noi più anziani abbiamo commesso.
Di fronte al frantumarsi dei partiti
e della società credo ancora che la politica abbia la funzione di sintesi e di
guida degli interessi, delle spinte, delle richieste provenienti dalla società e
il compito di ricercare il bene comune e credo che anche di fronte al crollo del
comunismo resti valida l'opportunità di un impegno unitario dei cattolici; vi
sono valori che sono propri dei cattolici e che, I'esperienza ci insegna per la
presenza anche parlamentare di cattolici in altri partiti, non possono essere
affermati e difesi che nella unità, in questo contrastando Ie affermazioni del
prof. Cossiga.
Certo si tratta di trasformare e
rinnovare i partiti (io non vedo, a parte iI dettame della Costituzione, altri
strumenti diversi atti a garantire la vita democratica). Di fronte al
frantumarsi dei partiti e della società credo ancora che la politica abbia la
funzione di sintesi e di guida degli interessi, delle spinte, delle richieste
provenienti dalla società. Rendere veramente democratica la vita interna del
partito, renderla pulita, sottrarla agli intrecci con gli affari, rivitalizzare
gli ideali, ricollegarla con la società, dare giustizia ai più deboli, ridare
valori ai quali credere a tutti i cittadini ritengo siano compiti che
soprattutto la sinistra della Dc può e deve ancora svolgere.
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Gli articoli citati sono tratti dal
numero di dicembre 2021 del giornale Democratici Cristiani per l'Azione |
FRANCESCO COSSIGA: un ricordo firmato Scotti
di Vincenzo Scotti - Politica

Cossiga è stato protagonista di
uno snodo della vita sociale e politica europea e mondiale. A differenza del suo
maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione, che
va ricostruita soprattutto attraverso le sue azioni. Il ricordo di Vincenzo
Scotti, già ministro degli Esteri e dell’Interno, che sarà pubblicato in
un’opera a cura dell’Università di Sassari
L’Università di Sassari, che ha conosciuto Francesco Cossiga prima come
studente e poi come docente della Facoltà di Studi Giuridici, ha organizzato
in suo onore, con la presenza del Presidente della Repubblica, una giornata
di studi secondo la tradizione accademica.
Dall’insieme dei contributi
raccolti in queste pagine emerge, anche per chi non lo ha conosciuto e
frequentato, quanto sia complessa la personalità di Cossiga. Essa è stata
letta, pur nel rispetto della complessità delle diverse espressioni, alla
ricerca della sua unità: uno statista del tempo presente, della sua terra
sassarese, della sua nazionalità italiana ed europea e della sua
cittadinanza del mondo. Essendomi stato richiesto di partecipare a questa
lettura, in nome della nostra amicizia di una vita, non ho potuto che
scrivere qualche pagina di testimonianza sul modo con cui Cossiga visse i
grandi cambiamenti del contesto storico che cercò di capire andando sempre
oltre l’emergenza e guardando oltre la siepe che recingeva il cortile del
quotidiano. Nello scrivere questa piccola testimonianza mi sono ricordato un
ammonimento di Goethe: “non si va molto lontano quando non si sa dove si va.
Il guaio peggiore è quando non si sa dove si sta”.
Nel 1999, dovendo inaugurare il
primo anno accademico della Link Campus University (allora of Malta), con il
nostro grande amico comune, Guido De Marco – Presidente della Repubblica
di Malta – chiedemmo al Presidente emerito di dedicare la sua lectio
magistralis alle origini e agli sviluppi dei totalitarismi del secolo breve:
il nazismo, il fascismo e il comunismo. Nella sua analisi, Cossiga parlò ai
giovani studenti della fragilità delle democrazie e del loro rapporto vitale
con la libertà. Alla luce di questa analisi, era chiara la sua definizione
di cattolico liberale e l’indicazione dei suoi maestri Tommaso d’Aquino,
insieme ad alcuni pensatori cattolici moderni: il beato Antonio Rosmini, il
Cardinale oggi Santo, John Henry Newman, Papa Benedetto XVIe alcuni tra i
grandi teologi protestanti di quegli anni.
A completare la sua vasta
cultura interdisciplinare, vorrei ricordare gli studi di filosofia del
diritto e di diritto costituzionale che sviluppò sotto la guida del maestro
Giuseppe Capograssi.
Da queste prime righe il lettore
potrà constatare che questa mia non è altro che la testimonianza di un amico
conosciuto fin dagli anni Cinquanta, i tempi dell’Azione Cattolica, con cui
ha condiviso tanti momenti felici, pur sempre accompagnati da un percorso
politico quanto mai accidentato e, a volte, anche drammatico. Ma il fulcro
della mia testimonianza è negli anni finali del suo mandato di Presidente
della Repubblica.
Ritornando per un istante agli
interessi e alle curiosità culturali di Cossiga c’è un’area che avemmo in
comune come ministri dell’Interno: mi riferisco agli studi strategici
internazionali e a quelli sulla sicurezza e sull’intelligence nel tempo
presente. Su questi temi si sviluppò non solo una sintonia accademica ma
anche un’uniformità operativa quando mi trovai a rapportarmi da ministro
dell’Interno con Cossiga Presidente della Repubblica.
I momenti più difficili e tormentati
su cui continuo a riflettere e sui quali ancora mi interrogo, restano certamente
quelli del rapimento e della uccisione di Aldo Moro e quelli finali del suo
settennato. Ad oggi, nonostante siano trascorsi ben dieci anni dalla sua morte,
questi due periodi sono i meno sedimentati e poco oggetto di analisi storica
condivisa.
Mentre per quello che riguarda
il tempo delle 菟icconate�e
dellimpeachment
mi sento oggi di testimoniare, sulla questione Aldo Moro mi rimane difficile
perch�troppo complesso per limitarlo a poche righe. Seppure con lui non abbia
avuto mai alcun contrasto e mi sia sempre rivolto a lui con molta franchezza,
sulla questione Moro, il suo maestro, ho sperimentato quanto fosse per lui
doloroso parlarne. Nel 1992, in presenza di richieste da parte della Commissione
parlamentare sui documenti in possesso del ministero sul caso Moro, nominai una
ristretta commissione per verificarne l弾sistenza
negli archivi delle forze dell弛rdine
e del ministero. Dovetti consegnare i risultati ad un gruppo guidato dal vice
presidente Luigi Granelli, redigendo un apposito verbale. Pur riscontrando la
sua sofferenza, devo dire che questa non lasci�traccia nel nostro rapporto di
amicizia.
Passo ora alla testimonianza
su come Cossiga visse il cambiamento della fine del comunismo e come si
impegn�con grande coraggio a leggere gli avvenimenti che hanno smentito il
semplicismo di un giudizio di semplice vittoria del capitalismo liberista e, di
conseguenza, di una fine della storia. Cossiga fu uno dei pochi convinti che in
Italia, in Europa e nel mondo si richiedeva alle classi dirigenti di ambedue i
blocchi di affrontare i cambiamenti culturali, sociali e politici che avrebbero
investito l弾misfero
del capitalismo, proprio in conseguenza della caduta del muro di Berlino.
Dal mantenimento della pace, alla
competizione coi Paesi emergenti, al formarsi di nuovi equilibri geo-economici e
geopolitici, al disfarsi e riorganizzarsi degli Stati dell’ex Patto di Varsavia
e quindi alla revisione degli assetti delle istituzioni mondiali e di quelle
interne ai singoli Paesi comunisti. Una volta caduto il sistema del socialismo
reale, non solo come ideologia ma di potere, non c’era soltanto da espandere e
rendere globale e più radicale il capitalismo e da esportare la democrazia dei
Paesi industriali. Cossiga, nel silenzio della prima parte del suo settennato,
aveva riflettuto proprio sulla fine del comunismo e sulle difese economiche,
sociali e politiche costruite per garantire in Europa, e in particolare in
Italia – il Paese con il più grande partito comunista, equilibri di potere alle
forze di governo e di opposizione.
Vorrei fare qui una breve parentesi
che certamente è fuori dalle vulgate della storia della Dc: il partito politico
che ha avuto al proprio interno la maggiore insofferenza verso l’equilibrio
allora esistente è stata proprio la Dc che, a prima vista, avrebbe potuto trarre
la maggiore rendita di posizione. Il dibattito sull’andare oltre è stato sempre
presente nella vita del partito, da De Gasperi a Moro.
Cossiga intuì che a rendere più
urgenti e necessari i cambiamenti istituzionali e politici fosse l’avanzare
della rivoluzione digitale che avrebbe messo in crisi le forme di democrazia
rappresentativa, imponendo di sostenere la globalizzazione, il capitalismo
finanziario, il determinismo dell’algoritmo e dei modelli.
Cossiga era certo che la maggioranza
delle forze politiche pensava che bastasse cambiare subito nome e segni dei
partiti storici per poter mantenere, senza nulla mutare, gli assetti politici
esistenti. Contro questa area di continuità, Cossiga riteneva bisognasse alzare
la voce e usare il piccone per essere ascoltato e demolire l’esistente.
Gli avvenimenti precipitarono con il
crollo del muro di Berlino, dei regimi comunisti nei Paesi satelliti e del mondo
bipolare: al centro della comunicazione vi erano la caduta del muro di Berlino,
il 9 novembre del 1989, e l’immagine del presidente Gorbaciov e di sua moglie
che scendono dall’aereo che li riporta a Mosca, il 19 agosto 1991, dopo il
fallito colpo di stato.
Non posso non sottolineare che la
mia amicizia con Cossiga copre la gran parte della sua straordinaria vita. Nasce
agli inizi degli anni Cinquanta quando ero impegnato nella sede centrale della
Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), all’Ufficio Studenti. Sono gli
ultimi mesi di presidenza di Carlo Carretto e l’intero periodo di Mario Rossi,
il giovane medico del Polesine. Cossiga è un dirigente dell’Azione Cattolica
della diocesi di Sassari, impegnato poi nella Fuci e nei Laureati Cattolici e
nella vita politica, a partire delle elezioni del 1958. Nel contrasto tra Luigi
Gedda, Carretto e Rossi si era consolidato il rapporto tra la Giac, la Fuci e i
Laureati Cattolici. Gli storici dei movimenti cattolici si sono molto
interessati alla vicende della Fuci e del Laureati; di queste ultime erano
parte Giulio Andreotti, Aldo Moro e Giovanbattista Montini. La Gioventù
Cattolica era molto meno impegnata nella vita della DC, lo scontro con Gedda era
culturale e sociale. Quando, nel 1954, viene destituita tutta la dirigenza della
Giac, per intervento del Santo Uffizio, la notizia viene commentata solo da
alcuni grandi giornalisti. Eppure la Giac era una comunità che comprendeva
uomini di notevole spessore culturale, a partire da Pietro Phanner, Umberto
Eco, Emanuele Milano, Dino De Poli, Wladimiro Dorigo, Michele Lacalamita,
Luciano Tavazza, Antonio Graziani e don Arturo Paoli. L’unico rappresentante
politico era il vice presidente, Emilio Colombo. Erano straordinarie personalità
che hanno lasciato un segno nella storia culturale e civile del Paese. Sotto la
presidenza di Rossi, la GIAC cambiò la sua struttura con la nascita dei
movimenti degli studenti, dei lavoratori e dei coltivatori che divennero una
delle ragioni dell’allontanamento di tutta la dirigenza.
A me fu chiesto di collaborare ad
organizzare il movimento nelle scuole cattoliche e di impegnarmi a dar vita a
una Scuola nazionale del Movimento studenti, a cui contribuirono tutti i
dirigenti del movimento, compreso Vincenzo Saba, grande amico di Cossiga (tanto
da chiedergli di fare da padrino di battesimo a sua figlia Gavina) e un grande
vescovo, monsignor Emilio Guano, assistente dei Laureati Cattolici. La scuola
del movimento studenti, nel dicembre del 1953, fu l’occasione per conoscere e
stabilire un rapporto d’amicizia con Cossiga tramite proprio Vincenzo Saba.
Dopo qualche anno, quando ero
capo della segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno,
presieduto da Giulio Pastore, incontrai pi�volte Cossiga per discutere dell弾laborazione
del primo Piano di Rinascita della Sardegna. In quel momento, Paolo Dettori
era presidente della Regione e Pietrino Soddu era l誕ssessore
al Piano. Tutti e due erano di Sassari e in Sardegna era gi�scoppiato lo scontro
politico tra i cosiddetti giovani turchi,
organizzati da Cossiga, e i grandi
popolari, non solo di Sassari (per
tutti Antonio Segni) ma di Cagliari (Antonio Maxia, Efisio Corrias, Lucio
Abis) e di Olbia (Salvatore Mannironi).
I giovani turchi avevano una grande
vivacità culturale e coraggio politico tanto da porre ultimati ad Antonio Segni.
Celestino Segni, il primogenito di Antonio Segni, faceva parte dei giovani
turchi! Per Cossiga iniziavano gli anni della crescita di responsabilità
politiche e di governo: consigliere di Moro in questioni di estrema
riservatezza, sottosegretario, ministro e poi Presidente del Senato e, infine,
Presidente della Repubblica. Nessun politico italiano ha percorso una così
rapida crescita di responsabilità e di successi e, al tempo stesso, di
grandissime amarezze e dure lotte. Nella formazione del Governo di Mariano Rumor
del 1972, fu proposto, dai suoi amici della Base, come Ministro della Funzione
Pubblica, ma la sua nomina incontrò il veto di Eugenio Cefis per il sostegno
dato, insieme a Stefano Siglienti e a Beniamino Andreatta, rispettivamente
Presidente e Consigliere dell’Imi, al progetto del polo chimico di Porto Torres.
Il giorno dopo la formazione del
Governo, Cossiga mi chiamò a brindare coi giornalisti, alla bouvette della
Camera, per la mancata nomina a ministro. Si era chiusa una porta ma era
convinto che si sarebbe aperto un portone. Infatti si susseguirono: ruoli
politici crescenti nel governo Rumor, il sottosegretariato alla Difesa, ministro
della Funzione Pubblica e, infine, ministro dell’Interno, dove si trovò a
gestire la tragedia dell’uccisione di Moro e da cui si dimise appena scoperto il
cadavere. Queste dimissioni fecero pensare a un ritiro dalla politica. Ma non
passò molto tempo e Sandro Pertini gli diede l’incarico di formare, in sequenza,
due Governi.
Mi chiamò a far parte del suo
Governo come ministro e mi fece partecipare, a Palazzo Chigi, alle riunioni
della sua “squadra di sardi”, tra i quali il cugino Sergio Berlinguer e Luigi
Zanda. Fu un periodo molto intenso, sia sul versante interno che su quello
internazionale, in cui riuscì a stabilire una difficile intesa con i socialisti,
in specie con Bettino Craxi e Giuliano Amato, nonostante i crescenti contrasti
tra i due partiti. La decisione sulla installazione dei missili a corto raggio
nel nostro Paese fu presa con una liturgia attenta a tutti minimi particolari,
non ultima quella dell’isolamento dell’area di Palazzo Chigi durante la seduta
del Consiglio dei Ministri impegnata nella decisione, cosa usuale nei governi
dei Paesi anglosassoni.
La campagna elettorale del 1983
segnò il massimo della tensione tra De Mita e Craxie portò ad una perdita di
voti alla Dcdel 6%; cosa che spinse De Mita a proporre la disponibilità
immediata della Dc a indicare al Presidente della Repubblica il nome di Craxi
per la formazione del governo. Cossiga fu indicato dalla Dc come Presidente del
Senato, garantendo in questo modo al Governo Craxi una navigazione protetta.
Allo scadere del mandato di Pertini, De Mita, con la proposta di Cossiga, mostrò
non solo un’immagine di forza e di prestigio ma anche di affidabilità non solo
per i socialisti ma anche per i comunisti. Un’operazione che manifestò tutte le
capacità di “manovra politico-parlamentare” del segretario della Dc.
Nei primi quattro anni di
presidenza, Cossiga si attenne a una condotta strettamente istituzionale senza
molti interventi e comunque sempre rispettosi della prassi costituzionale. Era
succeduto a Pertini e il contrasto fu evidente, specie quando la situazione dei
Paesi del Patto di Varsavia cominciava a manifestare i segni della
disgregazione. La presenza a Roma del Papa polacco, Giovanni Paolo II, e le sue
visite in Polonia, alimentavano la convinzione dei cittadini dei Paesi comunisti
che i loro regimi non sarebbero stati in grado di reggere al vento della
libertà.
Nelle poche volte che lo incontrai
in quei giorni, Cossiga mi manifestò la sua opinione che l’Urss non avrebbe
potuto sostenere la spesa della competizione militare con gli Stati Uniti e con
la Nato. La decisione della installazione dei missili a corta gittata in Italia
e in Europa sarebbe stato un elemento di accelerazione del dissolvimento
dell’Urss. Non pochi in occidente e negli stessi circoli diplomatici della Santa
Sede avevano una convinzione opposta, ritenendo che il cammino fosse ancora
lungo e che si sarebbe dovuto continuare a convivere con il mondo comunista.
Molto interessante è rileggere le
cronache della visita di Gorbaciov a Roma dal 29 novembre al 1 dicembre 1989,
quando era già caduto il muro di Berlino. L’accoglienza a Gorbaciov veniva
espressa con esagerata enfasi per un personaggio in grande declino a Mosca.
Anche nei circoli di Governo venivano rilevate opinioni divergenti tra il
Presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e l’ambasciatore a Mosca,
Sergio Romano.
Queste diverse posizioni rendevano
evidente, a giudizio di Cossiga, non solo il ritardo con cui si percepiva la
crisi galoppante dell’Unione Sovietica ma anche la mancanza di idee su come
cambiare l’assetto istituzionale, dove la presenza del più grande partito
comunista fuori dall’Unione Sovietica aveva portato alla stesura del Titolo V
della Costituzione, che avrebbe reso sempre più difficile governare
nell’incombente era digitale e globale. Per Cossiga la Dc non aveva ancora preso
coscienza su cosa e su come cambiare per affrontare il tempo nuovo e, in questa
situazione, aveva pensato alla necessità di un gesto forte per indicare al Paese
che si era di fronte a un mutamento radicale, chiamando gli italiani a un voto
politico nell’immediato. La prima volta che me ne parlò fu subito dopo la visita
di Gorbaciov.
Nell’autunno del 1992, raccontai a
Cossiga, Presidente emerito, che in quei giorni, quando era già scoppiata la
vicenda “Mani pulite”, avevo invitato a casa mia, per un caffè, Mino
Martinazzoli, divenuto da pochi giorni Segretario della DC, insieme al Capo
della Polizia, Vincenzo Parisi, al Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri,
Domenico Pisani e al mio ex Capo di Gabinetto, Raffaele Lauro. Poiché
Martinazzoli mostrava indifferenza allo scenario che gli veniva disegnato, il
generale Pisani gli chiese se per caso avesse capito che di lì a un anno la Dc
non sarebbe più esistita. Non fu una mia interpretazione della realtà. Nel 2004,
Cossiga, nella prefazione ad un mio libro “Un irregolare nel Palazzo” scrisse
“Egli (Scotti) fu, grazie anche alla azione informativa e alla analisi compiuta
da Vincenzo Parisi e dai suoi uomini (è ormai venuto il momento di dirlo!) il
primo che comprese che stava per scatenarsi la bufera di ‘Mani Pulite’ e che vi
era il pericolo che si tentasse, come poi infatti accadde!, un vero e proprio
‘golpe istituzionale per via giudiziaria’ contro la prima Repubblica”.
Torniamo indietro: dopo il Congresso
della Dc del 1989, lasciai la vice segreteria del partito per candidarmi a
Presidente del gruppo parlamentare alla Camera, succedendo a Martinazzoli. La
situazione politica parlamentare era difficilissima: alla fine di ogni seduta
pomeridiana si ascoltavano le “catilinarie” dei radicali e di Oscar Luigi
Scalfaro contro le esternazioni di Cossiga. Era molto difficile la posizione del
Presidente del Gruppo democristiano, anche perché cresceva l’opposizione al
Presidente della Repubblica.
Dopo quella fase iniziale delle
esternazioni, la mia repentina nomina a ministro dell’Interno, dopo le
dimissioni di Antonio Gava colpito da un ictus, mi consentì di seguire molto
da vicino quella fase convulsa della politica e della vita di Cossiga.
Ricordo che la mattina del 15 ottobre del 1990 fui svegliato da una telefonata
del Presidente della Repubblica che mi informava che, nel pomeriggio, avrebbe
firmato il decreto per la mia nomina a ministro dell’Interno e che, l’indomani,
ci saremmo incontrati al Quirinale per il giuramento. Da quel momento ero tenuto
a riferire sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica, in alcuni
casi anche con la presenza dei capi delle tre forze di polizia. Per me erano
giornate di particolari tensioni, soprattutto per l’intrecciarsi delle stragi
mafiose con il pressante lavoro legislativo, necessario a offrire ai
responsabili delle Istituzioni, politici, magistrati, uomini della polizia, dei
carabinieri e della Guardia di Finanza, strumenti e organizzazioni (DIA e DNA)
adeguate alla guerra alla mafia. Lavoro che venne affrontato con i capi delle
forze dell’ordine e dell’allora servizio interno e con i giuristi del Viminale e
del Ministero di Grazia e Giustizia, sempre in sintonia con il ministro Claudio
Martelli e Giovanni Falcone.
Vorrei però aggiungere una
testimonianza sul mio rapporto con Cossiga in tema di legislazione antimafia e
della sua legittimità rispetto alla Costituzione. Non è un mistero che sia io
che Martelli eravamo attaccati su quasi tutti i numerosi provvedimenti e in modo
particolare su tre di questi: l’istituzione della Dia (Direzione Investigativa
Antimafia) e della Dna (Direzione Nazionale Antimafia), il decreto legge 8
giugno 1992, che fu giudicato incostituzionale in Commissione al Senato (prima
della uccisione di Paolo Borsellino) e i provvedimenti contro il
condizionamento mafioso delle amministrazioni locali. Come è prassi
costituzionale, il Governo può sentire il parere degli uffici del Quirinale su
questioni che poi saranno vagliate dal Presidente prima della presentazione al
Parlamento del disegno di legge, dopo l’approvazione e prima della
promulgazione. Cossiga fu sempre un lettore rigoroso e attento dei provvedimenti
e, in alcuni casi, ritenne di esprimere un suo parere con qualche esternazione.
Parlando del lavoro legislativo fatto, nella citata prefazione al mio libro,
Cossiga scrisse ” Avendo come consiglieri Giovanni Falcone e Vincenzo Parisi,
Scotti diede una svolta quasi ai limiti della “legalità formale”, sia sul piano
legislativo sia su quello organizzativo, alla lotta alla mafia. Sua l’idea di
istituire un centro interforze di “intelligence” e di coordinamento
investigativo antimafia”.
Con lui e con l’assenso del
Presidente del Consiglio Giulio Andreotti decidemmo di dar vita a una Conferenza
Nazionale Annuale sulla Legalità alla quale invitare tutte le Istituzioni dello
Stato a ciò deputate e i Rappresentanti più significativi del pluralismo sociale
e religioso, per valutare – tutti insieme – l’andamento e i risultati della
lotta alla mafia. Giovanni Paolo II ci concesse un’udienza in Vaticano per
esprimere il suo pensiero sulla lotta alla mafia e alla criminalità. La prima e
unica sessione fu aperta proprio dal Presidente della Repubblica attento, anche
per questo fenomeno, su quali sarebbero potuti essere gli impatti del nuovo
contesto internazionale economico e politico, conseguente alla fine dell’Unione
Sovietica, sulla corruzione e sulle reti criminali internazionali.
È ancora troppo presto per poter
affrontare la lettura della complessa esistenza di Cossiga. Manca da analizzare
ancora un folto materiale archivistico tra cui anche alcuni testi segretati e
relativi alle vicende ancora controverse. C’è tuttavia una valutazione che
comincia ad essere condivisa: che una caratteristica di Cossiga fosse quella di
saper cogliere a fondo le evoluzioni delle vicende politiche.
Come ho sottolineato, Cossiga è
stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica del contesto
europeo e mondiale nel quale le vicende italiane si sono svolte. A differenza
del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua
visione e delle sue idee, quasi una bussola per la classe dirigente. Era un uomo
politico il cui pensiero va ricostruito attraverso lo scritto ma soprattutto
attraverso le sue azioni e i suoi gesti concreti. Per questo vorrei riprendere
il filo del suo ragionamento sul declino e sulla sparizione del comunismo e
sulle conseguenze sulla vita sociale e politica del Europa e dell’Italia.
Abbiamo già ricordato la spiegazione del suo ricorso alle picconate. Non è una
novità che fosse un’impaziente e quindi reagisse immediatamente a una mancata
risposta. Cossiga intravide, nel caotico precipitare della fine del comunismo,
ciò che la classe dirigente avrebbe dovuto fare al cadere dei nodi di una
democrazia incompiuta e di un’economia frenata da una quantità di vincoli
amministrativi.
La globalizzazione e la società
digitale richiedevano una decisione politica rapida ed efficiente, necessaria a
sostenere un sistema produttivo e sociale in fase di trasformazione. Nella
competitività crescente della globalizzazione, l’efficacia veniva sempre più
misurata non solo dalla produttività di una singola unità ma dall’efficienza del
sistema complessivo. La stabilità e la rapidità delle decisioni di Governo
richiedevano il superamento di un sistema elettorale proporzionale puro e
l’attribuzione di un proprio spazio normativo dell’esecutivo, senza dover
“violentare” la Costituzione con un continuo ricorso a decreti di urgenza in
mancanza dei requisiti.
Di fronte a un sostanziale rifiuto
di cambiare la Costituzione, Cossiga mandò un suo Messaggio alle Camere. La
maggioranza dei Parlamentari erano stati presi di sorpresa dalla sparizione dei
vertici dell’Urss e erano contrari a cambiamenti costituzionali.
Cossiga divenne furibondo, non
capiva il perché i deputati non avessero almeno letto e risposto al suo
Messaggio. Tra essi, tra l’altro, si trovavano la maggioranza dei suoi vecchi
amici di partito che l’avevano eletto. Per Cossiga era troppo tardi: presto gli
sarebbero caduti sulla testa i sassi della casa in dissoluzione. I fatti si sono
preoccupati di dimostrare che, persa quell’occasione, non si sarebbe più
riuscito ad approvare una modifica costituzionale anche quando fosse stata
votata in Parlamento. Infatti, succederà che gli stessi Parlamentari che
approveranno la modifica, poi, nel voto referendario di conferma, concorreranno
a bocciarla.
Quando nella vita politica si perde
l’occasione temporale giusta, i percorsi diventano sempre più difficili da
portare a compimento, specie quando i disegni politici sono deboli o
inesistenti. Qualche anno dopo Cossiga concluderà così la prefazione a un mio
libro: <<mi si consenta una notazione personale, io debbo essere grato a
Vincenzo Scotti non solo per la sua amicizia e per il suo affetto personale ma
per aver compreso e plaudito al mio Messaggio Presidenziale al Parlamento sullo
stato delle istituzioni e sulle necessità di una loro riforma. A tutti sono
grato. Ma in modo particolare a Vincenzo Scotti che compì non solo un atto di
stima e di amicizia nei miei confronti ma un autentico atto di coraggio, dato
l’atteggiamento ostile delle gerarchie del suo partito”
Ma Cossiga non si fermò nella sua
battaglia, cercando disperatamente una via per mettere in moto un processo
effettivo di cambiamento. E rimase attento agli spazi che si potevano
presentare. Ci fu un momento importante, dopo la dissoluzione del comunismo,
quando – nell’aprile del 1990 – il Governo Andreotti entrò in crisi. Cossiga,
nelle more delle consultazioni al Quirinale, rese evidente la sua convinzione
che, sia pure con ritardo, quello fosse il momento di sciogliere le Camere e
andare alle elezioni. Un tardo pomeriggio di aprile mi convocò per chiedermi se
l’ufficio elettorale della Direzione competente diretto da Menna, figlio del
Sindaco di Salerno, fosse in grado di organizzare lo svolgimento delle elezioni
politiche prima della fine di luglio, nel caso il Ministro dell’Interno avesse
potuto garantire un governo per il brevissimo tempo necessario.
Erano presenti due testimoni: il
prefetto Parisi e il prefetto Lauro. Evidentemente avevo bisogno di 24 ore per
consultare gli uffici e dargli una precisa e documentata risposta. Mi chiese poi
di mantenere la estrema riservatezza e di tornare il più rapidamente possibile.
La verifica fu positiva: si potevano fare le elezioni nel mese di luglio.
Cossiga non capiva perché il Presidente del Consiglio e i due partiti PSI e Dc,
oltre al Pds, fossero nettamente contrari. Anche a me sembrava strano non
avviare subito, con un nuovo governo, una stagione di rapide riforme.
Cossiga insisteva sulla sua linea
anche quando ormai la situazione politica interna stava degenerando. La rendita
di posizione dei cosiddetti partiti democratici diventava non più accettabile.
La classe dirigente che pure aveva portato l’Italia a diventare la quinta
potenza economica del mondo, mostrava stranamente una visione corta. Solo se
nelle ore conseguenti alla caduta del muro di Berlino ci fosse stata la
decisione di una elezione anticipata e la proposta di una assemblea costituente
si sarebbe potuto governare il cambiamento.
Cresceva nel Paese l’insofferenza
per l’assenza di cambiamento politico che trovava nell’iniziativa referendaria
di Mario Segni e nella lotta giudiziaria di “Mani pulite” sempre più consenso
verso la distruzione dei partiti storici che avrebbe portato anche alla fine
della Prima repubblica. Di questo pericolo e dello scontro violento con la
mafia parlai alla Camera a Commissioni riunite Camera – Senato nell’inizio
primavera del 1992.
Nessuno può dire cosa sarebbe potuto
succedere se si fosse andato alle elezioni e se si fosse aperta una stagione di
riforme di cui parlava Cossiga.
Questo era Francesco Cossiga: era
presbite e vedeva lontano! |
Ricordando
GIULIO ANDREOTTI: la
politica a servizio della persona
articolo di Giulio Alfano pubblicato
il 2 aprile 2020 sul sito dell'Istituto Emmanuel Mounier -
www.istitutomounier.it

La politica ha valore se
ancorata a qualcosa di superiore;essa è anche prassi anche vita
quotidiana,risposta alle esigenze dell’immediato senza dubbio,ma
qualcosa di diverso per trasmetterlo soprattutto ai giovani,per far
si che ci siano dei punti di riferimento!”.
Con queste parole Il presidente Giulio Andreotti il 25 ottobre 2004
ricordava cosa fosse la politica e cosa soprattutto fosse stata per
lui,per i giovani degli anni della seconda guerra mondiale,aprendo
un convegno dal titolo “De Gasperi,ritratto di uno statista” in
occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dello
statista trentino,suo grande maestro che tanto fortemente aveva
influito sulla sua formazione e sulle sue scelte giovanili.
In quel periodo il mondo giovanile “tout court” viveva la grande
stagione della formazione sociale nella FUCI,la federazione
universitaria cattolici italiani fondata proprio a Roma nel 1894 da
don Romolo Murri(1870/1944),discusso animatore anche della prima
Democrazia Cristiana, fermata dalla enciclica “Graves de communi”
ndi Leone XIII b nel 1901,ma erano anche gli anni del fervore della
GIAC il ramo giovanile dell’Azione Cattolica rivitalizzato proprio
per formare i giovani da Pio XI e affidata alla guida del prof.Luigi
Gedda(1902/2000). Andreotti giovane della Roma storica delle antiche
strade del centro storico in quel decennio vive una formazione
culturale,religiosa e morale all’interno di quel vivace mondo
cattolico,che però faceva i conti con un regime politico sempre più
distante ed a volte avverso alla vita cattolica e quindi dobbiamo
collocare le sue scelte e le sue caratteristiche in quello specifico
periodo. In questo senso la formazione politica morale,ma direi
anche religiosa che Andreotti ha ricevuto non può essere disgiunta
dal clima storico vissuto dai giovani di quella ormai a noi lontana
generazione, che era caratterizzato da una pesante limitazione
dell’espressione personale,ma anche da un fervore irrorato da
rinnovati studi e direi da innovativi approcci alla dottrina
cattolica iniziando dagli anni trenta,segnati da radicalismo
ontologico sempre maggiore.
Certo dobbiamo ricordare che su quel mondo giovanile esercitava un
forte fascino e un profondo ascendente l’intensita editoriale e
filosofica francese,importata in Italia da mons.Giovanni Battista
Montini (!1896/1978),il personalismo di Jacques Maritain ma
soprattutto di Emmanuel Mounier,che offri a quella generazione un
apertura di vedute culturali senza precedenti. Per questo ho
concentrato il mio intervento non gia sull’apostolato politico della
lunga carriera dello statista Andreotti,ma sugli anni quarata,quando
matura proprio nella FUCI la sua coscienza civile di cattolico
impegnato nella da poco rinata Democrazia Cristiana della quale fu
uno dei maggiori esponenti per mezzo secolo.
Giulio Andreotti nasce a
Roma sotto il pontificato di Benedetto XV,il pontefice dell’”Appello
contro l’inutile strage” durante gli anni critici del primo
conflitto mondiale e da questo appello il presidente americano
Wilson avrebbe l’anno successivo pres spunto per la proposta dei
famosi “14 punti” per radicare meglio le democrazie una volta fosse
finita la guerra. Ecco, proprio nell’anno in cui nasce Andreotti il
mondo attolico si sveglia fortemente e viene fondato il Partito
Popolare di don Luigi Sturzo(1871/1959),,dopo appena 4 giorni dalla
sua venuta al mondo,nell’hotel S. Chiara non distante dalla
suaabitazione. La felice congiunzione degli eventi lo fa nascere da
famiglia di origine ciociara,di Segni,,ma in una via del centro
storico di Roma,via dei Prefetti,culmine del vecchio rione Parione
adiacente a Montecitorio,luogo che il futuro statista democristiano
avrebbe a lungo frequentato!
Quel rione pieno di tradizioni del cattolicesimo romano minuto e
devoto,sarebbe rimasto sempre nel suo cuore,tanto che per anni il
suo ufficio fu in piazza Montecitorio,di fianco quasi aalla via
della sua nascita. Papa Francesco che ha voluto dedicare un sinodo
proprio ai giovani,ai quali rivolge sovente la sua pastorale
attenzione,,che:” La gioia della verita esprime il desiderio
struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non
incontra,non abita e non condivide con tutti la luce di
DIO”(Veritatis Gaudium”,1)
Ecco allora che anche quei giovani di tanti anni fa,la gioia la
trovarono nella formazione cattolica di base,nelle parrocchie,nei
circoli giovanili,anche nelle stesse omelie che i parroci svolgevano
in quegli anni tanto difficili,dai loro pulpiti,per ricordare che
l’uomo è essenzialmente “creatura di Dio”,persona,quindi immagine
del Creatore. Vi era un forte bisogno di ermeneutica evangelica S
che fece loro capire gli inganni immani dei totalitarismi e li
aprisse alla vita,alla bellezza della fede vera autenticamente
vissuta e testimoniata,in un atmosfera spirituale di ricerca e di
certezza,per tornare alla ragione fondamentale del vero credere e la
filosofia personalista fece irruzione in quel tornante drammatico
degli anni trenta,nella formazione di una generazione destinata a
reggere per decenni i destini dell’Italia,protagonista della
rinascita europea!
U ltimo di tre figli,una sorella muore a soli 18 anni,la madre Rosa
Falasca,donna di solidi principi e di amorevole fermezza,scomparsa
nel 1976,vedova di Filippo,maestro elementare,morto quando il
piccolo Giulio aveva appena due anni,tornato gravemente malato dalla
grande guerra e come il presidente poi avrebbe spesso confidato,lui
e suo fratello Francesco,futuro comandante della polizia urbana
della capitale,avevano il terrore di morire a 33 anni perché a
quella età erano morti il padre e il nonno!
Negli anni del liceo,prima frequentato al Visconti poi al Tasso,
direi che egli sperimenta la liberta,una forma un po anomala di
liberta anzi una liberta di privilegio vedendo che i figli del Duce
alunni di quel liceo facevano un po come pareva loro data la
posizione dell’importante genitore!. Quindi ancora la parola magica
proibita in quel periodo “liberta”un tema quello della liberta che
lui frequenterà spesso nei suoi tantissimi discorsi,ma soprattutto
negli anni della militanza giovanile,tema che sara anche la chiave
divolta della sua definitiva scelta politica in favore di un partito
che nel simbolo aveva proprio la parola “libertas”. Confidera molti
anni dopo lo stesso Andreotti in un intervista:”.. Non ero affatto
bravo,ero pteparato aquato bastva per non essere bocciato,ma niente
di più e devo confessare che non mi piaceva affatto studiare!”.
Sembra un paradosso in un uomo non solo politico,ma fine
intellettuale,che avrebbe fatto della scrittura nei suoi tanti e
sempre arricchenti libri,lo strumento specifico del suo lavoro.
Voglio, a margine,ricordare che egli è stato l’uomo politico
italiano che ha lasciato in eredita la maggiore quantita di libri
articoli,saggi,con uno stile arguto e facondo,oltre ad un immenso
archivio assai minuzioso di oltre 3000 titoli affidati alle cure
dell’Istituto Sturzo. Ma quello studente cosi particolare che viveva
nella Roma dei vicoli,che quasi non aveva conosciuto il padre,si
impegnava comunque in una sempre piu profonda interiorita spirituale
che ne avrebbe fortificato il carattere e gli avrebbe fonferito uno
spirito religioso e uno spessore etico che lo avrebbero accompagnato
tutta la vita,soprattutto nei momenti piu delicati e
difficili,pubblici e privati.
Ecco questa era la vera liberta che il giovane Giulio andava
costruendo in se,la liberta interiore che rende veramente
uomini,attraverso un etica fondata su fortissimi principi morali e
sempre piu comprendendo che la fede religiosa è sì un dono,ma anche
qualcosa di più che ci arricchisce e ci completa,come ammonisce Jean
Racine nel suo capolavoro “Athale2, “Di un cuore che ti ama Dio mio
nessuno turba la pace!” e la pae interiore di Andreotti non sara
turbata neanche negli anni del lungo processo di cui fu vittima!.
Nel 1937 si iscrive all’universita,facolta di Giurisprudenza e si
impiega,esempio moderno di studente lavoratore ed anche quando
cambiera quartiere e casa le modeste entrate di mamma Rosa che da
pensionata reversibile doveva mantenere due giovanotti,non gli
permetteranno di essere esclusivamente uno studente;Si impiega
all’ufficio imposte,sezione tasse sui celibi,e nel 1941 consegue il
diploma di laurea. Sono gli anni cruciali della sua formazione e del
suo slancio in un apostolato che da associativo diverra ben presto
politico,sotto la guida di mons.Montini che educa i giovani della
FUCI,della quale Giulio diverra presidente succedendo ad Aldo Moro.
Con lo statista pugliese il rapporto è molto stretto pur nella
diversita del carattere :diversi ma complementari. In quel periodo
dovendo adempiere agli obblighi militari Andreotti era rimasto tre
giorni presso l’ospedale militare del Celio,dove lo avevano
riconosciuto inabile al servizio militare,prevedendogli addirittura
solo sei mesi di vita. Anni dopo confidera che una volta divenuto
ministro provo a rintracciare l’ufficiale medico che gli aveva fatto
una cosi drastica previsione,ma purtroppo seppe che era morto nel
dopoguerra.
Collabora e poi dirige il periodico “Azione Fucia”,organo della FUCI
e si forma anche giornalisticamente pur preferendo dedicarsi a
scrivere articoli di critica inematografica,quel cinema verso il
quale provera sempre grande interesse e per salvare il quale scrisse
nel dopoguerra la legge in favore delle produzioni italiane.
Proprio nel 1941 Pio XII istitui l’ufficio della segreteria
militare,col compito di mantenere i contatti coi giovani dispersi
sui vari fronti e Andreotti si occupo dei contatti coi giovani
militari della FUCI;
La laurea arriva appunto il 10 novembre 1941,mentre era reggente
della presidenza nazionale FUCI,essendo Moro richiamato militare La
tesi riguardava “Il fine delle pene ecclesiastiche e la personalita
del delinquente nel diritto della Chiesa”,con la votazione di 110
su110 e relatore il prof.Pio Ciprotti. Va ricordato che in quel
periodo tra ragazzi e ragazze nella FUCI ci si dava del leinon per
distanza ma per rispetto;in quelle occasioni di incontro si
formeranno grandi solidarieta e profonde amicizie,anche tra
esponenti che poi sarebbero stati su sponde politiche opposte,basti
pensare ai rapporti che Andreotti inizio a stringere con figure come
Franco Rodano e Adriano Ossicini,del mondo comunista.
Quei giovani ovunque politicamente collocati sembra anticipassero
quanto ci esorta oggi a fare papa Francesco:”Nella formazione di una
cultura cristianamente ispirata,si deve scoprire in tutta la
creazione l’impronta trinitaria che fa del cosmo in cui viviamo una
trama di relazioni in cui è proprio di ogni essere vivente tendere
ad una vera spiritualita della solidarieta globale che sgorga dal
mistero della trinita”(Veritatis Gaudium”,49)
Parole odierne che applichiamo all’origine di una formazione che con
determinazione giunse all’emergenza della creaturalita irripertibile
della persona umana,come poi quei giovani seppero dimostrare di
riconoscere nel partecipare alla redazione del testo della
Costituzione Repubblicana. Il valore della persona passa e della
politica al servizio della persona,passa attraverso l’apprendistato
che Andreotti vive dopo l’incontro con De Gasperi e nei primi omenti
dell’adesione al partito della Democrazia Cristiana.
Sotto la guida di Igino Righetti e del giovane assistente Montini in
quegli anni la FUCI svolge un intenso lavoro formativo e
culturale;lo scopo principale è proprio quello di sviluppare
all’interno del mondo cattolico una seria corrente intellettuale
capace di dare allo stesso una nuova incisività ed un nuovo slancio.
Per questo l’invito costante ai fucini da parte di Montini era di
approfiondire la “dottrina cattolica. Scrivera infatti in quegli
anni il futuro Paolo VI:”Noi dobbiamo cercare
libri,maestri,idee,metodi per rendere a noui accessibile e possibile
lo studio e l’affermazione di questa superiore
dottrina!”(G.B.Montini,”Logica di un attività”in “Azione
Fucina”4/XII/1932)
Negli anni del fascismo nelle associazioni cattoliche irrompe
infatti il pensiero personalista maritainiano che lascia traccia
quasi esclusivamente nei movimenti intellettuali giovanili in
particolar modo nella FUCI,mancando negli altri rami dell’Azione
Cattolica una riflessione in termini culturali sull’impegno di
testimoniare il cristianesimo a livello sociale con un progetto
politico.
Qui risiede secondo me,la palingenesi che il giovane Andreotti
subisce a cavallo tra l’inizio e la metà degli anni
quaranta,soprattutto perché nell’estate del 1943 la redazione di
quello che impropriamente o piu genericamente viene definito “Codice
di Camaldoli”,mentre la definizione del documento redatto dal
giovane e purtroppo assai prematuramente scomparso Sergio
Paronetto,si chiamava “Per una comunità cristiana”.sconvolge gli
orizzonti dei giovani cattolici impegnati nel mondo associativo.
Ecco il concetto di “comunità”è il centro della riflessione di quei
giovani chiamati a raccolta dal mondo cattolico a Camaldoli dal 18
al 24 luglio 1943.
Il Regime fascista già da tempo vacillante è sul punto di
crollare,ci si interroga,dopo vent’anni di dittatura cesariana,quale
stato sarebbero stati chiamati a realizzare i cattolici una volta
fosse finita la guerra. Quei giovani come Andreotti,La
Pira,Taviani,Colombo, neanche sapevano chi fosse Sturzo e tantomeno
De Gasperi ridotto all’anonimato nella Biblioteca vaticana.e
l’incontro col futuro statista trentino ebbe contorni quasi comici
perche recandosi in biblioteca vaticana e sentendosi chiedere perché
volesse fare una tesi sulla marina pontificia, Andreotti rispose
stizzito a quell’allampanato signore di mezza età ignorando che
quell’incontro casuale sarebbe stata come egli amava ripetere “una
scintilla” che gli avrebbe aperto un mondo nuovo,incontrandolo poco
tempo dopo in una riunione semiclandestina in casa di Giuseppe
Spataro in via Cola di Rienzo.
Ma cosa è una Comunità e in cosa differisce da una società? Lo
ribadirà molti anni dopo lo stesso Andreotti ricordando che “Ogni
momento della politica si deve aggiornare alle novità,ai contesti di
carattere interno ed esterno” (G.Andreotti,”De Gasperi,ritratto di
uno statista”,Rizzoli,Milano.1976,p.28) questo possiamo vederlo
nella rivoluzione che il messaggio personalista produce nel cuore e
nella cultura di quei giovani nella calda estate del ’43.
Essere “comunità”significa riconoscersi come uguali nell’alterità
mentre essere solo “societa” vuol dire essere semplicemente
“individui casuali”,che stanno assieme per un fine ma non
riconoscendosi reciprocamente,per questo il liberalismo politico è
una dottrina e la democrazia un ideale.
Cosa significa riconoscersi? Vedere nell’altro il volto di Cristo,la
creatura persona il soggetto vivente da rispettare ma anche fonte di
arricchimento perché vi è il supremo tribunale ontologico. Il
giovane Andreotti soprattutto nella maturazione acquisita durante la
permanenza in FUCi fino alla presidenza,comincia a disporre di una
griglia analitica che gli consente di rilevare le carenze del
processo di sviluppo che aveva condotto alla tragedia della guerra
ma comprende meglio anche come avessero potuto configurarsi le
grandi soluzioni politiche fino ad allora emerse,dall’individualismo
al socialismo liberale,alle soluzioni totalitarie,ma capisce ancher
che se l’operare esterno allora imperante si svolgeva secondo tali
costanti,esse originavano la struttura della convivenza civile,le
sue componenti strutturali che implicavano ambiti popolari ad esse
in qualche modo corrispondenti,quelle che uil Codice di Camaldoli
definisce “Democrazia della partecipazione”. La lezione montiniana
prima e l’incontro di Camaldoli poi gli fanno comprendere che in
quanto “persona”-ciascuno è dotato di capacità potenziali ad essere
autore del proprio agire e del proprio operare e il realizzare tali
capacità è per ciascuno una necessità un dovere,del proprio “essere
uomo”;in questo nasce il nucleo di quella “democrazia della
partecipazione”che sarà il centro del contributo che i cattolici
daranno alla stesura della carta costituzionale,perché essa è la
realizzazione di tali capacità da parte di ciascuno nell’insieme
delle persone,ovvero nella realtà popolare. La differenza era in
quei giovani cresciuti nell’epoca fascista si configurava anche in
alternativa al regime liberale precedente al fascismo stesso,che era
fondata sulla “democrazia del consenso”,finalizzata alla gestione
del potere politico nella libertà comune,mentre quella della
partecipazione è finalizzata alla gestione dell’autorità personale e
la prima è funzione della seconda ed entrambe sono funzionali al
processo di sviluppo e perfezionamento comune o storico di ciascuno
e di tutti insieme. Di fronte a quel crinale di fine dittatura vi
era l’eredità della rivoluzione francese i risultati carenti della
quale era da riferirsi al prevalere della democrazia diretta su
quella del consenso ,mentre vi erano anche quelli tragici della
rivoluzione russa,al prevalere improprio del partito come struttura
portante della democrazia del consenso su quella partecipativa. Non
è certo trasferendo dall’individuo ad una struttura pubblica il
compito di interpretrare la realtà e di guidare il divenire storico
che si possono superare le car3enze dell’individualismo ed il
fallimento dell’idealismo,non nascondendo le carenze
dell’interpretazione empirista.
Nel passaggio dalla militanza in FUCI all’esperienza politica si
matura in Andreotti l’idea che tutti gli uomini devono essere
chiamati a diventare protagonisti dello sviluppo storico alla
pienezza,da crearsi quotidianamente con impegno totale e
costante,realizzando una pienezza storica sistematica della
democrazia della partecipazione,come canale popolare che consente a
ciascuno di autogestire,in quanto persona umana,l’aspetto pubblico
della vita non solo quello familiare e personale,perché contribuendo
ciascuno a costruire lo sviluppo nella libertà comune,si
contribuisce a costruire la pace nel mondo in modo fattivo e questo
Andreotti lo terrà ben presente anche in momenti non facili nella
lunga responsabilità che ebbe come ministro degli esteri tanti anni
dopo. La verità è il modo corretto che ogni persona ha di
rapportarsi si con la realtà attraverso l’amore,mentre l’amore è il
modo corretto di ogni persona di rapportarsi con la realtà mediante
la volontà. In questo il passaggio dalla vita in FUCI a quella
politica nella D.C avviene non solo grazie all’incontro con De
Gasperi,certamente fondamentale,ma proprio attraverso la
partecipazione agli ideali innovativi del Codice camaldolese,perchè
elabora che la vita umana implica una pluralità di azioni ed
operazioni nell’universo cosmico,nell’unità familiare,nella
convivenza civile e nella comunione ecclesioale,necessitando di un
minimo di interventi e di un massimo di orizzonti. Quell’incontro di
Camaldoli e l’elaborazione del relativo Codice al quale Andreotti
partecipa evince che la dignità della persona umana nasce dal
rispetto dei valori valutati dalla ragione e dal sentimento con
l’espressione delle “virtu”,che hanno,come ricordava S.Tommaso
d’Aquinio al magistero del quale il codice spesso attinge, degli
attributi positivi e negativi:tra i primi vanno ricordati
l’INTELLIGENZA,che favorisce la libera conoscenza;la PERIZIA che
abilita l’uomo a distingueretra bene er male e la ARETE’ che rende
l’uomo immune da sentimenti deteriori che conducono alla corruzione
morale.
Ma sono i secondi attributi negativi che in politica concorrono alla
decadenza deller istituzioni e minano la libertà,ovveero la
FRETTA,che fa agire secondo emotività;la PASSIONE,che fa comportare
secondo desideri improvvisi e la VANITA’ che rende assoluti i
desideri egoistici e ipostatizza i comportamenti.
In quel passaggio alla vita politica Andreotti comprende che in
politica è la ragione che rende effiicace una progettualità e solida
una vera democrazia,altrimenti si scadrebbe nel moralismo e in
questo egli darà prova di vero statista! La volontarietà,che implica
sempre l’assenza dell’ignoranza,manifesta come non abbia fondamento
la cosiddetta “opzione fondamentale”,perché attribuisce valore
soltanto a cio che è deciso,mentre c’è già un implicito indirizzo al
bene morale attraverso la ragione pratica che conduce alle azioni
attraverso la volontà.
Il personalismo mounieriano che mons.Montini ora Santo,infonde nella
formazione di quella generazione di giovani dei quali Andreotti sarà
con Moro uno dei maggiori esponenti,scopre e valorizza l’uomo come
soggetto e attraverso questa intuizione egli figlio e fedele
dell’eredità della Roma antica e papalina,scopre la laicità del suo
impegno in politica,riscoprendo l’esperienza riattualizzata di
Giuseppe Toniolo,poi la lezione del giusnaturalismo e infine
giungendo alla scuiola di De Gasperi che gli insegna il “metodo
democratico”,per evitare di identificare il mezzo da usare,ovvero il
partito politico,con il fine da raggiungere,ossia la promozione
dell’uomo. Per questo quando l’influsso personalista arrivo alle
giovani generazioni che si accingevano a redigere le costituzioni
politiche degli stati europei nel secondo dopoguerra,fui chiaro
l’impegno di radicare il ruolo dei parlamenti in una tradizione
sociale che configurasse una “comunità politica”,perché lo stato
democratico non crea diritti ma li riconosce,giacche essi sono
espressione proprio di una comunità politica formata da persone;in
questo senso la democrazia nuova che emerge nel secondo dopoguerra a
cui Andreotti offre un contributo fondamentale e fondante,delinea
l’architettura di uno stato “limitato”,ovvero quello che in politica
si è soliti definire “abilitante”,che incoraggia ma soprattutto
promuove tutte quelle forme di azione sociale che producono effetti
pubblici attraverso la promozione e il radicamento di assetti
istituzionali che facilitano lo sviluppo dei corpi intermedi della
società,come poi infatti vennero definiti dall’articolo 2 della
Costituzione della Repubblica Italiana.
In questa fase del suo impegno Andreotti contribuisce con una
presenza che sara costante e continua,ad un attività legislativa per
recuperare saldare e superare la tradizione individualistica dei
diritti dell’uomo,senza cedere alle suggestioni di quella
collettivistica,evitando che ogni libertà fosse isolata dalle altre.
Quel progetto lo animerà sempre collegando intimamente ogni liberta
ma non limitandosi a riconoscerle bensi ad unirle all’insegna
dell’eminente dignità dell’uomo creatura di Dio. Soprattutto verso
la famiglia l’impegno dello statista romano sarà continuativo;nel
passsaggio di formazione daklla FUCI alla DC il volano era stato
proprio questo leitmotiv: Lo stato non crea la famiglia ma la
riconosce come società naturale ;non ha alcuna ideologia da
insegnare nella scuola,ma assicura con le sue strutture scolastiche
il diritto alla scuola e nel contempo la libertà di insegnamento;non
protegge alcuna religione di stato,ma riconosce libertà religiosa ed
organizzazione è pubblica di culto a tutte le religioni;riconosce
infine la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica
senza però che il proprietario o l’imprenditore siano sottratti
all’adempimento inderogabile dei doveri di solidarietà politica ed
economica. In definitiva l’influsso della formazione giovanile fara
comprendere ad Andreotti il superamento completo di
quell’individualismo posto al centro della societa politica dai
principi della rivoluzione francese. L’uomo non considerato
individuo,che per uscire dall’anarchia conferisce tutti i poteri
allo stato,salvo un generale controllo democratico parlamentare
perché l’uomo è persona ma anche individuo che costruisce la sua
personalita in rapporto alla solidarieta nella societa in cui vive
(la famiglia,la comunita di lavoro, la comunita economica,a comunita
religiosa). Tutte le società che preesistono allo stato e rispetto
alle quali esso è soltanto uno strumento di servizio. In questa
intuizione si configura l’apprendimento in quegli anni da parte di
Andreotti della dottrina dello stato democratico e si forma sempre
di piu il grande statista che abbiamo conosciuto nel lungo servizio
allo stato. Il passaggIO alla politica dalla FUCI alla DC significa
per Andreotti te cose essenzialmente:
1)Confermare i principi di liberta politica e civile contemperandoli
coi diritti dell’uomo persona;
2)superare l’identificazione del diritto con lo stato che aveva
condotto allo stato etico e che era stato identificato con
l’assoluto ma anche reagire ad un concetto di stato agnostico che
poteva portare alla formazione di maggioranze estranee ad ogni
regola morale;
3) costruire uno stato ne etico ne agnostico ma tuttavia portatore
di valori non astrattamente imposti da una ideologia,ma dalla
coscienza popolare espressa nella comunita in cui si articola la
vita della societa civile e che assume come propri fini il diritto
al lavoro,all’istruzione,alla salute.
Quella espressione “lo stato riconosce…” contenuta nell’articolo 2
della nostra Costituzione che in filosofia politica si definisce
“suiddita”,ovvero la centralita del soggetto persona,non piu lo
stato che accetta o che addirittura concede,ma uno stato che si
ferma di fronte al riconoscimento della consistenza ontologica
dell’uomo e lo spirito di mediazione che lo statista Andreotti
avrebbe dimostrato nei decenni successivi era erede di quel breve ma
intenso periodo degli anni quaranta,mettendo sempre al primo posto
non gli interessi personali o il trionfo elettorale,ma la promozione
dell’uomo:la politica come servizio!
Prof. Giulio ALFANO
(Pontificia Università Lateranense)
https://www.istitutomounier.it/ricordando-giulio-andreotti-la-politica-a-servizio-della-persona/
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