...verso il

Partito Popolare Europeo

MAURIZIO EUFEMI

è stato eletto al Senato  nella XIV^ e XV^ legislatura

già Segretario della Presidenza del Senato

nella XVa Legislatura

ARTICOLI E comunicati 2022

Giorgio Postal, prezioso testimone della costruzione del “pacchetto” per l’Alto Adige

intervista di Maurizio Eufemi tratta dal giornale online "beemagazine" - 7 giugno 2022

 

"Se si pensa alla vicenda attuale della Ucraina, il pacchetto De Gasperi – Gruber, che derivava dagli accordi di Pace di Parigi, fu una grande intuizione". Il Mattarellum fu fatale alla Dc (diventata Ppi). L’assassinio di Moro, poi la P2, il caso Donat Cattin, gli attacchi a Cossiga, tante tappe di un assedio alla Dc per disarticolare il Sistema. Quella lettera di Piccoli a Moro nella crisi di febbraio del 1978 e mai consegnata al presidente della Dc.

 

Prima di dare il via all’intervista con Giorgio Postal, trentino, diamo alcuni sommari ma importanti dettagli sulla sua attività politica , parlamentare e ministeriale.Deputato e senatore dal 1972 al 1994. Sottosegretario alla Ricerca Scientifica e all’ambiente nei governi Andreotti, Craxi e Fanfani.

Dal 1961 al 1964 fece parte della Commissione dei 19 per i problemi dell’Alto Adige. Testimone diretto del tempo di un lavoro certosino di mediazione culturale che fu una risposta intelligente alla escalation di attentati, soprattutto tralicci elettrici e ferroviari, compresa la “notte dei fuochi” che ne registrò ben 37.

Dopo duecento riunioni, nell’aprile 1964, la Commissione elaborò una relazione finale che fu la base di successivi interventi legislativi che ne recepirono i contenuti.

*****

Come e quando sei entrato in politica, nella Dc di De Gasperi e di Flaminio Piccoli?

È stato abbastanza casuale. Ho incontrato alcuni amici da giovanissimo, ero ancora studente universitario, che mi hanno proposto di frequentare il mondo giovanile Dc di allora. Questo nel 1960. Nel 1961 sono venuto a Roma alla segreteria di Piccoli, fui pregato di rimanere in alcuni momenti particolarmente importanti per il Trentino e per l’Alto Adige perché nella fase del terrorismo altoatesino venne istituita la commissione dei 19, che ebbe il compito di costruire il pacchetto, la prima stesura di accordo politico con proposte risolutive.

 

Tu che compito avesti?

A me affidarono il compito di tenere il contatto con i componenti Dc della commissione dei 19 di Trento e di Bolzano. Anni di lavoro piuttosto intensi (Commissione presieduta da Paolo Rossi, composta da 12 commissari di lingua italiana e 7 di lingua tedesca. Lavorò tre  anni e risolse 110 questioni di cui 40 definite alla unanimità e 70 a maggioranza. Aldo Moro fu protagonista di quelle fasi sia come Segretario politico sia come presidente del Consiglio ndr).

 

Chi ricordi di quella fase?

Piccoli, Alcide Berloffa, il Presidente della Regione.

Se pensi alla vicenda attuale della Ucraina, il pacchetto De Gasperi – Gruber che derivava dagli accordi di Pace di Parigi fu una grande intuizione.  Ha trovato soluzione nel pieno rispetto della integrità territoriale e nella sovranità dello Stato nella attuazione del principio di autonomia in coerenza con lo spirito della Costituzione e con le risoluzioni delle Nazioni Unite ?

Quella vicenda che ho seguito per la parte italiana oltre Paolo Rossi, Presidente, Roberto Lucifredi, Sen. Alcide Berloffa, rappresentante italiano di Bolzano, De Tassis de Unterrichter, Luigi Dalvit, poi tutta la classe dirigente della SVP con Silvius Magnago, Karl Mitterdorfer , Roland Ritz, Ebner Von Walter, infine il ladino Brugger. Poi scriverò un libro di 500 pagine sul pacchetto e sulla seconda autonomia del Trentino Alto Adige.

 

Una bella prima esperienza. Hai partecipato al movimento giovanile Dc?

No al nazionale, ma solo a livello locale.

Poco dopo, finita questa esperienza torno a Trento nel 1963, vengo nominato delegato provinciale del movimento giovanile e facciamo grande operazione di cambiamento delle classi dirigenti periferiche e due anni dopo nel ‘66 divento segretario provinciale della Dc .

 

Poi ti sei candidato alla Camera nel 1972?

Sì,  entro in parlamento nel 1972.

 

Quindi in coincidenza con Piccoli che viene eletto capogruppo alla Camera?

Sì.

 

Il 68, come movimento studentesco , come l’avete vissuto?

Abbiamo avuto uno sconquasso.

Avevamo sociologia a Trento ( dove studiava Renato Curcio, l’ideologo delle prime Br NdR) che era il punto di aggregazione delle posizioni più estreme della contestazione; spinto dal ‘66- ‘67 esplode nel ‘68 – ‘70.

Sono anni molto complicati. Trento era una città tranquilla da tanti punti di vista.

Nel ‘63 nasce l’istituto superiore di scienze sociali poi diventa facoltà di sociologia.

Diventa momento aggregante della contestazione.

Non solo occupazione, ma già nel ‘70, anche guerriglia urbana, violenze . Tempi duri, tempi difficili.

 

Poi il Parlamento. Come lo vedevi?

Ero molto legato a Flaminio Piccoli che era capogruppo.

Da molti punti di vista avevo un campo di osservazione elevato.

La prima esperienza è in commissione Finanze, poi mi eleggono presidente del comitato pareri della finanze e tesoro nella prima legislatura.

 

Era una bella commissione ? Con bei personaggi?

Bella e interessante perché poi stava prendendo il via la grande riforma fiscale sia dell’Irpef sia dell’IVA.

Poi, nella legislatura successiva, mi nominano sottosegretario alla Ricerca scientifica. Resto fino alla fine della legislatura che si chiude nel 1979. C’è di mezzo tutta la vicenda del ‘78 –‘79, gli anni di piombo, la vicenda Moro, il compromesso storico, il governo della solidarietà nazionale, lo SME, un periodo turbolento e a tratti drammatico.

Dal 1967 al 1994 faccio parte del Consiglio nazionale della Dc.

 

Quindi un ruolo politico?

Più locale che nazionale, salvo gli ultimissimi anni che mi nominarono in Direzione centrale.

 

Però eri quello più politico tra i colleghi di Trento, perché gli altri come Pisoni, Monti Maurizio, erano più impegnati nei problemi delle categorie, come la cooperazione e il comparto agricolo. E Bruno Kessler ?

Con Kessler i rapporti sono stati variegati; fino al 1974 ottimi. Poi nel ‘74 ci furono vicende locali, che crearono un conflitto interno soprattutto tra Piccoli e Kessler. Anche io all’interno di questi discorsi mi ritrovai in una posizione abbastanza chiara e precisa. Dal ‘74 fino al 1979, i rapporti furono difficili, poi si appianarono.

Kessler è andato al Ministero dell’Interno come sottosegretario. All’inizio della legislatura del 1979 Piccoli mi chiese di rinunciare alla mia aspirazione a sottosegretario per lasciare spazio a Kessler che, pur essendo moroteo, venne inserito nella lista dei sottosegretari come doroteo.  Ci fu la disponibilità di Piccoli.  Ma ciò suscitò un mare di polemiche.

Poi i rapporti tra Piccoli e Kessler si appianarono.

 

Per gli incroci della vita ho conosciuto il figlio di Bruno Kessler come parlamentare nella Commissione di inchiesta su Telekom Serbia, l’ ho trovato un po’ di diverso dal padre, così socievole!

Sì. è molto, molto diverso.

 

E della Assemblea degli Esterni del 1981 che si svolse per iniziativa di Piccoli che era segretario del Partito cosa ricordi?

Fu un grande tentativo straordinario sia di mobilitazione sia di allargamento. Infatti fu data una quota di rappresentanza agli Esterni rispetto agli iscritti.

 

Piccoli nel 1982 favorisce la segreteria di De Mita, come valuti quella operazione politica? Da cosa derivò ?

Voleva creare le condizioni interne della unità e del massimo del consenso.

 

Non voleva fratture?

Non solo, voleva  creare il massimo della concordia interna. C’era stata la P2, l’ultimo Forlani,  poi arriva il governo Spadolini,  immediatamente dopo il governo Craxi. Dopo il congresso del 1980 c’è il preambolo di Donat Cattin. Fa la scelta sul Partito socialista anziché sul PCI come interlocutore privilegiato, mentre la sinistra interna, De Mita, avrebbe preferito un altro tipo di scelta; succede che negli anni tra il 1980 e 1981 -che sono anni complicati e difficili – si arriva a fare scelte con il massino di unità. Piccoli si ritira, ma cooperando alla costruzione della segreteria De Mita.

 

Quella scelta fu utile? oppure …

In quel momento non solo era scelta utile, ma era una scelta accorta. Devi contestualizzare la situazione.

Dovevi affrontare la competizione con il Psi con il massimo di unità.

 

Hai ricordato la vicenda della P2, ma letta oggi non è stato il primo grande attacco alla Dc?

La gravità della vicenda era chiarissima, però la esasperazione aveva la logica di puntare direttamente contro la Dc. Resta grave la esasperazione.

 

L’intervista di Lino Iannuzzi a Sciascia su “Lotta Continua” nel 1980 pone interrogativi? Dopo l’uccisione di Moro, l’attacco a Donat Cattin, la messa in stato di accusa di Cossiga … in sostanza se viene meno la Dc che cosa sarà di questo Paese?

A dirti il vero, il mio giudizio su Sciascia è diversificato: quando scrive è un grande scrittore, quando si occupa di politica te lo raccomando.

 

Qui però fa una lettura degli avvenimenti!

Se pensi alla lettura della vicenda Moro! Ho un giudizio diversificato a seconda del terreno.

 

Poi gli attacchi alla Dc proseguono. Dopo la P2 la questione morale, sollevata da Enrico Berlinguer, poi nei primi Novanta mafiopoli, poi Tangentopoli, non c’è stato un eccesso per disarticolare il Sistema? È tutto normale quello che è successo ? Con gli occhi di oggi?

No, non è normale. Assolutamente.

Se metti insieme le vicende giudiziarie di Andreotti che sono più gravi di Tangentopoli da molti punti di vista, quello sì è l’attacco al cuore, gli interessi interni e internazionali, la stessa Chiesa , il Vaticano: ci sono tutta una serie di forze convergenti che pensavano chissà che cosa poteva succedere dopo il sol dell’avvenire …. o cose di questo genere. La decadenza e la chiusura della esperienza della Dc è una vicenda che dovrà essere approfondita fra un secolo. !

 

Hai condiviso lo scioglimento della Dc?

Noi non condividevamo molto il Mattarellum.

Con il Mattarellum nelle elezioni immediatamente successive – quelle del 1994 – il partito Popolare e la Lega in termini nazionali raggiunsero sostanzialmente lo stesso numero di voti.

 

Solo che la Lega stava in una alleanza?

Solo che noi, il PPI, prendemmo 25 deputati e la Lega 105 ! Per effetto del Mattarellum!

 

Portammo al Partito una simulazione elaborata dal Professor Ornello Vitali, statistico della facoltà di Scienze Politiche, spiegando il meccanismo del Mattarellum secondo il quale non avremmo preso un collegio elettorale, nella quota del maggioritario. Così fu!

Ero d’accordo sulla nascita del PPI, però la contestualità della approvazione della nuova legge elettorale metteva in gravissimo dubbio la possibilità di proseguire l’ esperienza.

Poi nel ‘93 e ‘94 ho avuto grossi problemi di salute. La parte finale l’ho vissuta in maniera marginale.

 

Quando fu data l’autorizzazione a procedere contro Andreotti eri in Senato ?

Non solo in Senato. Mi chiesero di fare il capogruppo in Giunta delle immunità. Contestualmente avvennero le mie vicende di salute. Mi chiamò Martinazzoli; Mancino mi accompagnò a piazza del Gesù da Martinazzoli per convincermi a fare il capogruppo per la giunta. Resistetti perché non avevo una formazione giuridica vera e propria. Tornai a Trento. Poi scoprii gravi problemi di salute e mi dimisi perché impossibilitato. Era venuta meno l’energia vitale di prima, quella che eravamo abituati a esprimere nel periodo parlamentare.

 

Dopo la fine dell’attività parlamentare ?

Poi mi sono dedicato alla storia; ho scritto molti libri di storia locale. Attualmente sono presidente della Fondazione Museo storico del Trentino. Sono in piena attività.

 

Come è il Trentino oggi rispetto a quando sei entrato in politica?

Come se fossero passate ere geologiche ! Fino alle ultime elezioni. La Margherita è stata inventata a Trento. Gli epigoni di una certa parte della Dc hanno retto fino alle ultime elezioni quando abbiamo avuto la destra. Adesso abbiamo  una giunta provinciale di destra.

 

Questo cambiamento che ha prodotto? Ci sono stati benefici?

Negli anni Sessanta il Trentino era marginale. Il sistema autonomistico sia regionale sia provinciale ha consentito un salto straordinario economico e sociale. Adesso siamo in una fase di stallo, legata al contesto generale: prima la pandemia, poi adesso la guerra. La fase risente delle condizioni generali del Paese.

 

Le opere infrastrutturali? I problemi sono risolti oppure no?

Il Brennero lo fanno; quello è un progetto internazionale, europeo . Sta andando avanti. Su Trento città sta arrivando l’impatto perché è prevista la galleria lunghissima di transito per la ferrovia e le merci con l’interramento della ferrovia attuale. Siamo in una fase particolarmente interessante per la costruzione di un sistema futuro.

 

Dammi un giudizio su Flaminio Piccoli. Che cosa ti è rimasto del leader trentino, due volte segretario nazionale Dc? Flaminio è stato un grande personaggio ?

Nemo propheta in patria! Siamo in una fase nella quale  un ragionamento storicamente fondato su Flaminio Piccoli non è ancora cominciato. A Trento c’è qualche cosa, ma poca roba.

 

Caro Giorgio Postal concludiamo con una riflessione su un libro su Flaminio Piccoli pubblicato recentemente dalla Camera dei Deputati.

La novità editoriale ha avuto il pregio di unire i discorsi parlamentari con i discorsi politici oltre la bella introduzione dello storico Francesco Malgeri. L’ho letto con grande curiosità. Ho anche trovato alcune imperfezioni (che solo chi ha vissuto quei momenti può cogliere NdR) come la citazione di Sergio Bindi capo della segreteria anziché capo ufficio stampa come in effetti era.

Da questo libro emerge anche una importante circostanza  in relazione alla vicenda della crisi di governo del febbraio 1978,  per una lettera del capogruppo Piccoli scritta a Moro “con la mente e con il cuore”. Nella missiva Piccoli invitava Moro a “non fare passi superiori alla possibilità di comprensione e di accettazione della classe dirigente Dc perché finirai e finiremo per perdere il collegamento coi migliori e con i più preparati, limpidi e sicuri parlamentari e dirigenti”.

La lettera non fu consegnata su consiglio di Bindi, con la notazione “tienila per la storia”. Nella prefazione ho notato un maggiore attenzione posta alla Assemblea dell’Augustinianum del 17 aprile 1982 nell’imminenza del Congresso Nazionale piuttosto che a quella di tre giorni del palazzo dei congressi del 25-29 novembre del 1981.

Poi ho trovato disdicevole, anzi una offesa alla storia parlamentare la “assenza” istituzionale della prefazione del Presidente della Camera, quasi un rifiuto a rendere omaggio a un Politico protagonista di una storia parlamentare lunga 37 anni, rinunciando al suo compito per delegarlo al vicepresidente Ettore Rosato. Ma lo stile, come diceva don Abbondio parlando del coraggio, uno non se lo può dare.

Come se il tempo per i Cinque Stelle fosse cominciato quando sono arrivati loro…!, commenta amaramente Giorgio Postal.

Carpenedo, “ho sempre considerato la politica un dovere e una missione, sempre un gradino al di sopra della stessa professione”.

intervista di Maurizio Eufemi - tratta dal giornale online "Il domani d'Italia" - 4 giugno 2022

 

Vorrei ricostruire con te alcune vicende della DC del Friuli Venezia Giulia. Com’è stato l’inizio del tuo impegno politico?

Sono nato nel 1935. Appena finita la guerra ho cominciato il mio apprendistato politico con i rapporti che mi sembravano più ovvi e naturali venendo da una famiglia legata all’ambiente cattolico. Posso dire di aver attaccato parecchi manifesti in occasione del 18 aprile del 1948 a Paluzza, il paese dove sono nato, al confine con l ‘Austria. Paluzza oggi ha 2000 abitanti, a fine guerra ne aveva il doppio. Si trova lungo la strada di Monte Croce Carnico, costruita al tempo di Augusto, quando il Norico diventa una  provincia dell’impero. Augusto, da grande organizzatore qual era, si preoccupa di collegare a nord Aquileia, avamposto di Roma, fondata 200 anni prima di Cristo, una grande città, importante come Milano. Augusto lega il porto dell’alto Adriatico con il Norico costruendo due vie: quella che passa da Tarvisio e appunto quella che passa per M.Croce e per il Brennero e diretta al centro dell’Europa.

 

E dopo il 1948?

Ho fatto il liceo a Udine e l‘università a Padova. Dopo il servizio militare mi sono dedicato alla professione di ingegnere libero professionista Trasferita a Udine la residenza, il segretario della Dc di Paluzza scrisse a mia insaputa a quello di Udine: “Guardate che vi abbiamo mandato un giovane che vi potrebbe tornare utile”.

 

Chi c’era come riferimento politico a Udine?

Siamo all’inizio degli anni sessanta, i personaggi importanti, i capi, sono due: Mario Toros, leader di Forze nuove, e Antonio Comelli, moroteo, che non ha mai voluto far poltica a Roma.

 

Un grande Presidente di Regione. Quello della ricostruzione post terremoto…

A partire dal 1970 faccio per cinque anni l’assessore alla provincia di Udine. Subisco la protesta di mia moglie perché, invece di un tranquillo ingegnere, scopre di aver sposato un uomo che per la politica trascura gli affetti familiari. Comunque, alle elezioni politiche Comelli mi propone la candidatura al Senato nel collegio dell’alto Friuli. Sono costretto a dire di no per non mettere in discussione il mio matrimonio. Mi capisci?! Nel 1975 resto in politica soltanto come consigliere del mio comune e mi dedico alla professione, in particolare ai problemi della ricostruzione. Nel 1978 divento consigliere regionale eletto nel collegio del terremoto, per una decisione che appare a molti scontata. 

 

Se non ricordo male, hai seguito tutta la ricostruzione del terremoto del 1976?

Sì, dal 1976 al 1978 partecipando alla scrittura dei documenti tecnici innovativi utilizzati nella nostra ricostruzione. Dal 1978 al 1991 partecipando alla scrittura delle 69 leggi  regionali che si sono occupate di ogni aspetto della ricostruzione.

Alla commemorazione dei 40 anni del terremoto e della ricostruzione, tenutasi alla Camera (Sala della Regina) ho partecipato, con Laura Boldrini, la Serracchiani e Zamberletti, in qualità di relatore.

 Giuseppe Zamberletti ha ricordato le vicende della emergenza, io quelle della ricostruzione.

In quegli anni ho accumulato molta esperienza, tant’è che nel 1980, in occasione del terremoto dell’Irpinia, sono stato più volte utilizzato come consulente. Comelli, alle richieste di aiuto, mandava sempre me per conto della Regione,  per la conoscenza che avevo sia  degli aspetti tecnici che di quelli politici della ricostruzione.

 

 Torniamo alla ricostruzione del Friuli. Le novità? 

Nel 1976 lo Stato concesse alla Regione Friuli Venezia Giulia una delega amplissima per la ricostruzione, che non aveva precedenti e non fu più ripetuta. Fu una scelta di Moro, allora Presidente del Consiglio, il quale aveva presente l’esempio non proprio felice del Belice. Dopo otto anni dal sisma, da quelle parti non avevano battuto un chiodo, sempre alle prese con i piani generali urbanistici, i piani comprensoriali, i piani comunali…C’era un clima pesante, per questo Moro voleva intraprendere un’altra strada. Ancora: Moro aveva un rapporto privilegiato con il Friuli Venezia Giulia. La nostra era la Regione più morotea d’Italia, a giudicare dai risultati dei congressi della DC. Moro veniva volentieri da noi. A margine di una riunione a Palazzo Chigi, il 10 maggio 1976, in preparazione del decreto legge 227, chiese a Comelli se “la Regione se la sentiva di assumersi l’incarico della Ricostruzione”. Era una scelta coraggiosa e Comelli vi aderì con entusiasmo. L’idea della delega si trasformò nell’articolo 1 e 2 del decreto legge.

Moro mostrava di fidarsi della Regione: dare una delega piena era una opportunità, ma anche un rischio. Trieste era ammalata, al contrario di Udine, che stava in grandissima salute: Udine conosceva a quel tempo la sua rivoluzione industriale. Tuttavia, Trieste era collocata sulla cortina di ferro, bisognava assolutamente tenerne conto. E i triestini avevano insistito con Moro per finanziare i piani di sviluppo nel quadro delle norme sulla “specialità” del Friuli-Venezia Giulia. Per altro, da segretario politico della Dc Moro aveva seguito la nascita della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 che riconosceva la suddetta “specialità”.

Moro aveva pensato, in definitiva, che essendo ricostruzione e sviluppo inseparabili, attraverso la delega si potesse provvedere ai problemi della ricostruzione del Friuli e a quelli di Trieste contemporaneamente. E noi potevamo utilizzare quella benedetta delega per rovesciare l’impianto che si era dimostrato negativo per il Belice e che prevedeva l’abbandono dei vecchi centri urbani e la ricostruzione in nuovi siti.

 

Quindi, un’idea geniale di Moro. Ma torniamo alle tue vicende personali, ovvero al tuo diretto impegno politico.

 Arrivato in regione, dovevo occuparmi solo di ricostruzione, pensavo come consigliere regionale e finii per fare l’assessore, alla istruzione e attività culturali perché Toros, capo di Forze Nuove, impose Adriano Biasutti come assessore alla ricostruzione. Per gli equilibri interni della Dc non potevano esserci due morotei uno presidente della giunta e l’altro con l’assessorato più importante..

Io, non ero un fanatico delle correnti; del resto, ero abbonato a Terza Fase. Le “cronache di bordo” le leggevo con piacere. Il fratello di Carlo Donat Cattin era direttore della scuola di formazione professionale di Trieste e quindi mio dipendente. Ebbi con lui qualche discussione di troppo. Mi chiamò da Roma il dott. Milazzo per trovare una soluzione. Comelli commentò: “Ti ha telefonato la persona più importante di Roma!”.

 

E i rapporti con Sergio Coloni?

L’ho avuto con me in Regione. È stato un grandissimo personaggio a Trieste. Corrado Belci lo era sul lato intellettuale, Coloni sul piano operativo: un leader indiscusso. Teneva i rapporti con gli sloveni, che erano comunisti ma parlavano solo con la Dc. Mi portava sempre con sé. “Ho bisogno di un Furlan”, diceva. Poi l’ho ritrovato a Roma. Diventò parlamentare una legislatura prima di me.

 

E la legge speciale per Trieste?

Non ha funzionato. Per Trieste la vera legge è stata quella della caduta del Muro di Berlino! Da quel momento ha ripreso a crescere in modo incontenibile.

 

E Giorgio Santuz? Che ruolo aveva?

Il capo era Toros, poi venivano Santuz, Biasutti e Turello, presidente della Provincia,

Udine era la capitale politica, Trieste lo era solo nominalmente. Quando la Dc, partito con maggiore radicamento nei centri minori, ha perso consensi, fatalmente ne ha risentito la forza della città. La prima sintesi si faceva a casa dei morotei friulani e triestini, e una volta trovato l’accordo tra Udine e Trieste si allargava il confronto a Forze Nuove.

 

Hai partecipato al Movimento giovanile?

No, nella Dc c’erano quelli che venivano dal Movimento giovanile e quelli che venivano dalla società civile. Io appartenevo alla schiera di quest’ultimi.

 

La ricostruzione post terremoto non è stata una grande sfida, per dimostrare efficienza e laboriosità nella gestione di problemi immani?

Sì, è stata davvero una grande sfida. Abbiamo ricostruito il Friuli terremotato in dieci anni e lo abbiamo fatto innovando, dando vita al “modello Friuli”. Un modello straordinario.

 

Ho seguito la commissione di inchiesta sull’Irpinia con Carrus e Gottardo, ex sindaco di Padova, ed emerse che sul terremoto dell’Irpinia vi fu un eccessivo ampliamento dell’area del cratere, ai fini della ricostruzione, e più in generale si palesarono problemi sul versante dei controlli. Torniamo alle vicende di partito. Come era organizzata la Dc in Friuli?

Si lavorava molto. Ho fatto parte della direzione regionale e provinciale. La Dc era organizzata bene, si presentava come un partito robusto, aveva molti iscritti e…noi eravamo fuori ogni sera Il conflitto con mia moglie era inevitabile! “Cosa mi interessa delle tue assemblee”, mi diceva, “stai a casa: abbiamo due figli”. Con la famiglia, coloro che facevano politica, finivano per avere debiti immensi.

 

È un problema di tutta la politica, almeno della politica di allora…

È vero. Comunque il partito era vivo. Sentiti gli iscritti, in realtà avevi realizzato un vero sondaggio alla stregua di quanto oggi ti propinano le società specializzate. Intendo dire che avevi sondato le radici della società, capendo cosa si muoveva in tutte le categorie e in tutte le articolazioni sociali.

 

E a Roma, in Parlamento, quando sei arrivato?

Nel 1992. Mi hanno messo subito a lavorare. Ho fatto il relatore sul bilancio, d’altronde lo avevo fatto anche in Regione. Al primo mandato sono stato Presidente della commissione bicamerale per il Belice. Ti ricordi di Vittorino Colombo? Fu incaricato di mettere d’accordo i siciliani per la scelta del presidente della bicamerale che spettava alla Dc. Ad un certo punto si arrabbiò. Battè il pugno sulla tavola gridando: “Basta! Il presidente lo fa Carpenedo: almeno sa che cosa è un terremoto!”. Ho saputo della scena da quelli che sono venuti a cercarmi per vedere che faccia avevo: insomma, nessuno mi conosceva.

Considero la legge sulla montagna, la legge 97/1994, il risultato più importante della mia attività di senatore. Della stessa sono stato relatore con l’incarico di predisporre il testo base. La legge è figlia del Senato. La Camera ci ha messo solo il timbro, di necessità. L’ho tirata fuori per i capelli perché si stava chiudendo la legislatura. Ci sono riuscito per il rotto della cuffia andando a implorare i deputati di approvarla a tutti i costi.

 

Ricordo, in effetti, che fondammo l’associazione “Amici della Montagna” con Coloni, con Roberto De Martin che era presidente del CAI…

Prova a chiedere al prof. Barberis se si ricorda di Carpenedo!  Io mi ricordo di lui per gli ottimi suggerimenti che mi diede e per la generosità con cui mi giudicò quando ebbe a dire che senza la mia caparbietà la legge non sarebbe stata mai approvata!

 

In quella legislatura ci furono i provvedimenti sulle privatizzazioni, le manovre di risanamento…

Ricordo che fu un periodo complesso, molto impegnativo. Ho fatto il relatore anche per la manovra da 93 mila miliardi del governo Amato, per salvare il Paese dal fallimento. Direi che fu un periodo tragico per tutto quello che accadde. Ci furono cose inammissibili. Quello che ho provato per Scalfaro, per aver chiuso una legislatura che pure aveva una maggioranza…ecco, non voglio toccare questo argomento…Almeno avesse accettato la richiesta di Martinazzoli di abbinare le elezioni politiche con le europee. Si sarebbero guadagnati sei mesi, dando respiro a tutti noi. Scalfaro invece preferì operare una brutta forzatura costituzionale. Sciogliere un Parlamento non può essere una passeggiata! Lo fece a fin di bene perché era crollata la fiducia del popolo italiano nel Parlamento? Ma allora si sarebbe dovuto dimettere anche lui perché da quel Parlamento aveva ricevuto l’investitura!

Anche da “pensionato” non sono riuscito a superare un certo disappunto per quello che è accaduto. E aggiungo, pur con rispetto, che da Scalfaro mi aspettavo molto di più.

Amaramente sostengo oggi che non aveva speciali titoli speciale per diventare Presidente della Repubblica. Certo, portava i voti del Pci, ma per il semplice fatto che Napolitano, in cambio, avrebbe ottenuto la Presidenza della Camera.

 

Torniamo alla tua terra. Come è il Friuli oggi, si vede la mancanza di un partito come la Dc?

Altroché! Basta osservare la realtà. Udine nel periodo della Dc era forte, su tante cose era viva. Adesso è diventata un capoluogo di provincia qualsiasi, non è più un nodo nella rete delle città virtuose alla avanguardia nella ricerca.

Qualcuno imputa il rilassamento alle conseguenze della ricostruzione. In ogni caso dopo quasi 50 anni sarebbe ora di rimettersi in moto. Trieste e Udine sono due vasi comunicanti. Quando sale Udine, cala Trieste, e viceversa.

 

Sono come il dollaro con l’oro…

Sì, la storia ha questo andamento ciclico. Adesso per Udine è arrivata l’ora di svegliarsi un’altra volta, almeno lo spero. È una bella città, ben tenuta…ma non basta.

 

Dunque…il Friuli del dopoguerra e quello di oggi: che cosa emerge dal confronto?

Non ci sono dati significativamente diversi dal triveneto. Forse c’è più benessere diffuso, ma è crollata la natalità.

 

Ma non  è più terra di emigrazione…

No, non lo è più da molto tempo. La piaga dell’emigrazione è stata presente fino all’inizio degli anni ‘70, poi il fenomeno si è interrotto. Era decollata la rivoluzione industriale, in ritardo nel nord-est rispetto a Milano Torino e Genova, i grandi poli dello sviluppo nell’immediato dopoguerra.

Cosa manca al Friuli dei nostri giorni?

Per le infrastrutture manca qualcosa, ma soprattutto manca il dinamismo. Udine, grazie all’università, dovrebbe essere all’avanguardia nel settore della ricerca. Stiamo vivendo la rivoluzione digitale e la città l’osserva quasi passivamente.

 

Ma a Trieste ho visitato importanti centri di ricerca…

A Trieste…ma non a Udine, che ha perso il suo ruolo trainante. Non è l’attore principale. Se osservi alcune vicende del comparto industriale concludi che è diventata più importante Pordenone. Michelangelo Agrusti è presidente dinamicissimo dell’Associazione industriali: ha realizzato un accordo tra Pordenone, Trieste e settore Giuliano, mentre Udine se ne sta per suo conto. Con quel ruolo Pordenone è cresciuta diventando la bandiera del dinamismo friulano. Pensa, dal punto di vista culturale, a Pordenonelegge.

 

Forse hanno inciso ragioni geografiche?

Cinquant’anni la geografia non era diversa e Udine aveva un ruolo.

 

Callegaro e Fioret non erano di Pordenone?

Si, dici bene. Mario Fioret, anche se molto avanti negli anni, dovresti coinvolgerlo nel racconto della storia della Dc del Friuli fino alla nascita della Regione.

 

Adesso cosa fai?

Finita l’esperienza politica sono stato Presidente dell’ordine degli ingegneri della provincia di Udine. Adesso cerco di tenermi in movimento. Le occasioni non mancano.

 

Abbiamo citato Zamberletti. Era molto amato, ma a tuo giudizio è stato ricordato adeguatamente?

Zamberletti ha letteralmente inventato la protezione civile. Lo hanno commemorato in tanti posti del Friuli, come era giusto. In qualità di commissario straordinario per l’emergenza lo trovavi dappertutto; aveva grandi capacità organizzative, infondeva fiducia e coraggio. La sua nomina a commissario vien fatta a Parlamento sciolto. Avrebbe potuto dire a Moro che doveva curare la sua campagna elettorale a Varese. Invece rimane in Friuli, lontano dal collegio, ma gli elettori varesini lo premiano con una valanga di voti. Dopo il terremoto di settembre viene richiamato a furor di popolo. Il Friuli gli rimane grato. I friulani considerano Giuseppe Zamberletti un loro grande amico. 

 

Che cosa ricordi di più della esperienza politica? Che cosa ti ha affascinato maggiormente?

Ho sempre considerato la politica un gradino al di sopra della professione. Ho fatto l’ingegnere per il piacere di farlo, non per costrizione: mio padre era farmacista. Ho partecipato a progetti importanti, in campo professionale, ma riconosco alla politica un ruolo superiore. Quando ti senti investito di responsabilità, prima in Regione e poi in Parlamento, avverti il peso di un dovere morale, di una missione…

Aggiungo al discorso serio un pettegolezzo. Mi colpisce il fatto che specie i colleghi del Mezzogiorno, dopo l’esperienza parlamentare, sentano il bisogno di tornare spesso a Roma. Al nord questa esigenza è meno sentita, ma mantengo un ottimo ricordo degli anni trascorsi nella capitale.

 

Ti pesava venire a Roma?

Beh…ho dovuto lavorare molto, non ero in vacanza. No, non mi pesava, almeno non più di tanto. I trasporti erano buoni, dal treno all’aereo, anche se qualche volta i piloti facevano sciopero girando sulla città…

Un personaggio, tante storie. Publio Fiori, il ritratto di un politico il quadro di un’epoca

 

Prosegue la serie delle interviste di Maurizio Eufemi, in cui nei ritratti di personaggi politici scorrono le immagini di un cinquantennio di storia italiana

 

articolo comparso sul giornale online "beemagazine.it" del 21 Maggio 2022

 

Publio Fiori, classe 1938, è stato consigliere e assessore a Roma, consigliere e capogruppo in Regione, deputato, sottosegretario, ministro dei Trasporti, Vice Presidente della Camera. Subì un grave attentato da parte delle Br nel 1977. Chiamato in causa a proposito della P2 fece causa alla “Repubblica” e fu risarcito.

Lo abbiamo intervistato.

Nel racconto di una vita, molta storia della Dc, le  battaglie di giustizia sociale per i pensionati; d’annata, la lotta alla speculazione edilizia, i giochi interni delle correnti democristiane, l’uscita dal partito in dissenso da Martinazzoli. Un simbolo e una meta: La tunica del candidato, ai tempi dell’antica Roma: la dovevano restituire pulita come gliela avevano consegnata.

 

Ciao, come stai?

Siamo vecchi, ma combattiamo.

 

Parliamo di politica?

Non mi va, per il momento non mi va!

 

Voglio parlare di cose lontane, del tuo avvicinamento alla politica dagli anni CinquantaQuando hai cominciato ?

Appena nato…

 

Che significa, la famiglia ?

Ho cominciato con l’Azione Cattolica nella parrocchia di Cristo Re di Viale Mazzini, sui problemi sociali. Sono nato a via Oslavia.

 

Chi c’era con te?

L’assistente spirituale era padre Caporale. Quello che mi ha spinto fu la famosa marcia dei baschi verdi nel 1948.

Fu organizzata dai comitati civici, una marcia famosa guidata da Luigi Gedda; decine di migliaia di giovani marciò attraversando Roma e arrivò a piazza San Pietro dove ci fu la benedizione del Papa Pio XII.

Ci fu questa grande mobilitazione che fu fatta nel 1948 (il 12 settembre del 1948 in occasione dell’80 anniversario della Gioventù italiana azione cattolica (Giac); furono 100.000 i partecipanti con ogni mezzo che giunsero a Roma. L’azione politica dei Cattolici di quegli anni si svolgeva prevalentemente nelle parrocchie.

 

Era il luogo di formazione della classe dirigenti…

Poi c’erano i comitati civici che rappresentavano il ponte tra la chiesa e la politica. Presidente era Luigi Gedda, presidente romano era Salvatori. Aveva una sede in via del Gesù dove mi cooptò ed entrai a far parte del comitato civico romano.

 

Hai studiato in Prati?

Ho fatto tutta la mia vita scolastica al “Mamiani”,  il percorso scolastico dalla prima media al terza liceo classico di Via delle Milizie.

Al comitato civico ci fu qualcuno che mi presentò il Dott Tognon, che era il segretario della sezione Dc di via Brofferio, vicino a Piazza Mazzini dove andai ad iscrivermi.  Avevo 16 anni.

Mi iscrissi alla sezione. Quando si stava in campagna elettorale o comunque per qualunque motivo uscivo di scuola dal “Mamiani” e passavo in sezione; mi davano un secchio di colla e i manifesti ad attaccare con un amico i manifesti elettorali della Dc nel quartiere.

 

La Dc di quel periodo come la ricordi ? Chi erano i riferimenti?

In sezione entrai in contatto con Paolo Cabras, delegato del movimento giovanile a Roma, il quale mi cooptò e mi fece entrare nel comitato direttivo del comitato romano. Facevamo degli incontri con Fanfani, soprattutto, perché in quel tempo Cabras era fanfaniano. Alla prime elezioni politiche si presentò insieme a Clelio Darida, erano entrambi fanfaniani, poi Paolo Cabras andò più a sinistra mentre Darida rimase fanfaniano.

 

Oltre questi ?

Giorgio Pasetto di cui sono stato amico. Si andava in vacanza a Anzio, nella sua città, poi diventammo amici e cominciammo a lavorare insieme politicamente anche se all’epoca era limitato su Anzio dove fu sindaco. Diventai amico di Giorgio perché lo conobbi da Bartolo Ciccardini.

 

Che rapporti avevi con Bartolo?

Dopo “Terza generazione”  Ciccardini fece “Europa 70” insieme a Zamberletti e realizzò nella sede di via 4 novembre un movimento giovanile molto bello, molto grande. Lì c’era Giorgio Pasetto. Poi Giorgio fu sedotto da Galloni e andò con la “Base”.

 

Negli anni sessanta hai fatto la scelta professionale. Sei andato all’avvocatura dello Stato?

Nel ‘64 ho vinto il concorso. Avevo 26 anni.

Ero avvocato. Mio padre aveva uno studio dal 1930 . Mio nonno, Publio, era cancelliere capo della corte di Appello di Roma. Inizio a fare l’avvocato nello studio di papà. Poi ad un certo punto andai a dirigere lo studio a Milano del professor Delli Santi, uno studioso di urbanistica, il primo a studiare il diritto in questa materia,  allora poco conosciuta.

Mentre ero a Milano, mi arrivò la notizia che avevo vinto il concorso all’avvocatura dello Stato per procuratore dello Stato con sede a via dei Portoghesi. Poi dopo tre anni feci l’esame di avvocato dello Stato e fui trasferito a Napoli.

Nel frattempo a Milano avevo conosciuto un gruppo di professionisti, di imprenditori che avevano fondato una associazione: il CIPS (centro italiano politiche sociali.

 

Chi c’era?

Di uomini politici nessuno.

Il capo era l’avvocato Bellini e un altro personaggio importante era l’ingegnere Ancarani, i quali si opponevano al ’68, a tutto quello che stava succedendo; c’era l’occupazione delle scuole e delle università, i primi scontri forti, violenti, San Babila!

Loro mi dissero “perché non apri a Roma un centro CIPS”?

Lo aprii a Roma in viale Carso. D’accordo con Bartolo aprimmo un centro a Roma di cui ero responsabile.

 

Quindi avevi un rapporto stretto con Bartolo?

Strettissimo. Lì conosco e comincio a frequentare Celso De Stefanis.

 

Il grande protagonista del congresso di Firenze del 1959?

Quello che su ordine di Fanfani attaccò Segni e Fanfani lo ripudiò! Di fatto entrai a far parte di un gruppo politico Dc moderato perché c’era Bartolo che era stato presidente delle Acli  e poi fu eletto alla Camera nel 1968 e presentò una proposta di legge per il presidenzialismo.

 

Una linea di modernizzazione dello Stato?

Un’ attenuazione dell’intervento dello Stato nell’economia,  una riduzione delle partecipazioni,  avevo seguito molto gli articoli di Sturzo sul quotidiano Il Giornale d’Italia dove attaccava le partecipazioni statali e sosteneva la moralizzazione della vita pubblica.

 

Le prime esperienze amministrative locali quali sono state?

Mi preparo per presentarmi alle elezioni comunali di Roma del ‘67 e sembra tutto a posto. L’ultima notte della presentazione Signorello mi toglie dalla lista.

 

Perché Signorello ti cancella dalla lista?

La verità è che la Dc romana non gradiva che io, ipotetico rappresentante di un certo mondo milanese,  fossi eletto a Roma, poi perché avevamo fatto un bellissimo lavoro e c’era il rischio che potessi essere eletto.

La scusa fu che avevo fatto l’ intervista al Giornale d’Italia. Andai a pranzo con il direttore  Alberto Giovannini in un ristorante sull’Appia dove stava la tipografia e li organizzai una campagna contro il decentramento amministrativo voluto e gestito da Bubbico : lo  accusavo di non essere un vero decentramento democratico, ma solo e semplicemente amministrativo.

I partiti sceglievano i consiglieri circoscrizionali che erano gli uomini di serie B rispetto al partito e poi continuavano a governare i partiti; c’era distribuzione del potere di gestione, ma non la gestione democratica. Questo fu il pretesto. Ma la realtà fu quella.

Non mi presentai, ma continuai a fare politica. Mi organizzai in sezione. Cominciai a cercare iscritti. Mi presentai al congresso romano. Presi parecchi voti. Da solo, con Bartolo, ci affermammo, niente di che, ma con una presenza viva.

 

Un gruppo di qualità?

C’era Ettore Massaccesi. Era una cosa di livello.

Cominciammo a fare tesserati in tutta Roma . Ci trovammo con un gruppo che a livello di partito aveva un significato.

Ci fu una crisi comunale e ci furono poi le elezioni anticipate. Frequentando il comitato romano entrai in rapporti con Amerigo Petrucci. Mi chiamò e mi disse: “Se ti presenti così ti rifanno fuori. Perché non hai un capo! Io non ti posso ospitare, però siccome c’è Taviani che sta tentando di fare un gruppo, posso chiedere a lui di presentarti come tavianeo”. Così successe. Taviani mi presentò a Gaspari e a Pennacchini che era sottosegretario alla Giustizia e divenni il candidato ufficiale dei tavianei a Roma. Il colpo che mi consentì di avere un ottimo successo elettorale, un colpo di fortuna, fu che Pennacchini organizza una cena. C’era anche Del Prete, il segretario di Gaspari. Eravamo una ventina, c’era anche il notaio Cavallaro, consigliere comunale uscente ed ex assessore. Mi disse:  “Sono amareggiato. Sono un moderato della destra cattolica che ha preso tanti voti; ho tantissimi clienti poi sono reduce dalla Libia. Questa volta Cabras ha imposto la mia cancellazione dalla lista. Ti voglio fare un regalo, Ti regalo i miei voti. Avevo preparato 50 mila buste da mandare ai miei amici. Quelle buste sono pronte. Invece di votare Cavallaro, scriverò votate Publio Fiori come se votaste me!” Il problema erano i tempi. Mancavano tre giorni alle elezioni. ! Bisognava stampare il biglietto, imbustare 50 mila biglietti e affrancare 50 mila buste e poi allora non c’erano i cap.

Bisognava trovare i cosiddetti ripartitori dipendenti delle poste che facevano tanti mucchi a seconda dei centri conoscendo a memoria gli indirizzi in modo che la posta arrivasse a destinazione in tempo utile.

 

E come si procedette?

Mia moglie organizzò nello studio di Cavallaro una catena di montaggio dove cinquanta ragazzi volontari prepararono il materiale, lo imbustarono e il mio amico delle poste Infantino mi portò sei ripartitori che cominciarono a fare i pacchi per le zone di distribuzione dove avrebbero consegnato la posta in giornata.

 

Rimaneva il problema dei francobolli.

Infatti. Il notaio mi aveva detto: “Ti do il materiale ma non i soldi della spedizione, tròvati i soldi!”, C’era il problema dei francobolli. A chi li chiedo!

Bartolo mi dette 50 mila lire. Dissi tra me e me “Per risolvere il problema vado al partito, a Piazza del Gesù dal segretario amministrativo nazionale, Filippo Micheli”.

Andai e dissi: “Sono Publio Fiori, vorrei parlare con Micheli”. Il segretario amministrativo c’ha da fa’! Fu la risposta dell’usciere. Per scoraggiarmi mi dissero che era impegnato  – erano le 10 – e che sarebbe uscito la sera tardi!

Mi metto pazientemente in attesa , seduto ad aspettarlo. L’usciere dopo tre ore capì che non me ne sarei andato e mi fece entrare.

“A Fiori, ma che vuoi? ” mi apostrofò Micheli. Raccontai la storia:

“Ho bisogno di 500 mila lire perché sono candidato,  non posso perdere questa occasione e chiedo al partito di finanziarmi”. Micheli si commosse. Mi fece l’assegno con la ricevuta per il contributo elettorale. Era tutto nei tempi.

 

Come andò a finire?

Presi 18 mila voti a Roma nel 1971.

Presi più voti di tutti gli assessori. Mi trovai con Darida sindaco, ma non si riusciva a fare la giunta. Darida fu costretto a fare il monocolore. Mi dettero l’Onmi (Opera Nazionale Maternità e Infanzia di Roma in Via del Laterano) e mi fece assessore al provveditorato. Incominciai così. Mi diedero l’Onmi perché avevano arrestato Petrucci. Per prima cosa feci un servizio di controllo su tutti gli istituti dove stavano i ragazzini. Ogni gruppo era costituito da un pediatra, un assistente sociale, un neuropsichiatra infantile e un medico generico.

Questi cominciarono a fare ispezioni, ma trovarono situazioni disastrose anche perché non pagavamo. In teoria il Comune avrebbe dovuto dare a questi istituti di suore 100- 200 lire  a bambino, ma manco glieli davamo. Cominciai a girare gli istituti e mi resi conto che non potevano campare così. Chiesi medici psichiatri e fondi.

Il sindaco mi disse “Guarda, non ti posso dare niente”. Allora feci una conferenza stampa e mi dimisi perché non c’era controllo. Non c’era volontà di controllo.

Non c’erano i mezzi per fare le politiche. Il sindaco si irritò. Alla fine mi diede dieci medici scolastici, io aggiunsi dieci assistenti sociali che avevo all’Onmi. Accroccammo una struttura. Cominciammo a fare le ispezioni, ma mancavano i soldi per pagare gli arretrati, aumentare le rette e pagare.

Puoi controllare, mandare gli specialisti che vuoi, se però metti in condizione gli istituti di vivere!

Allora usai lo stesso sistema che avevo usato per i soldi in campagna elettorale. Chiamai il ministro del Tesoro Emilio Colombo. Mi rispose,  ci vedemmo immediatamente. Illustrai il problema. “Mi deve aiutare”. Portai la documentazione. Mi disse “Quanto ti serve?”. “Con 300 milioni pago tutti i debiti, trattano bene i bambini, mangiano,  le suore sono contente, e cosi le ispezioni le posso fare a ragion veduta”.

Colombo chiamò il banchiere del Banco di Napoli Ferdinando Ventriglia. Gli disse: “Questa è la situazione, fai una apertura di credito all’Onmi di 300 milioni”. “Fanno l’apertura ma chi li ripaga – dissi – chi li ridà i soldi”. Rispose “Non ti preoccupare”.

Sì, mi dai i soldi, ma le garanzie? Questo il mio interrogativo.

Cominciammo ad operare. Un bel successo.

 

E nel frattempo, a livello politico che succede?

Nel frattempo Taviani scioglie la sua corrente e aderisce ai dorotei e io da tavianeo mi ritrovo doroteo. A Roma mi ritrovo con Petrucci che era capo dei Dorotei. Cambiano i rapporti. Questo nel 1973.

 

Però Petrucci ti aveva dato la soluzione elettorale con Taviani

Visto il successo che avevo avuto con l’Onmi a Roma, Petrucci mi dice “Guarda,  si fa una giunta, un monocolore, è provvisoria, perché non si riesce con il Psi, tu fai l’assessore ai lavori pubblici”. Era il 1974. Cominciano le grandi battaglie per il risanamento delle borgate.

 

Una tua grande battaglia la distinzione tra edilizia di necessità e speculazione!

Facemmo l’aerofotogrammetria delle borgate. Chi sta nella fotografia viene sanato e fornito con gli allacci alle utenze di acqua gas luce telefono, chi costruisce al di fuori viene demolito e bloccammo così la espansione irrazionale.

Nel frattempo mi capita la grana Armellini. Il sindaco mi manda una ordinanza di demolizione per due palazzi di 8 piani costruiti da Armellini dietro Piazza dei Navigatori. (Via Mantegna ndr)

Se noi vogliamo essere coerenti come partito,  da una parte aiutiamo gli abusi di necessità, ma dall’altra dobbiamo dare un segnale che colpiamo la speculazione. Diedi ordine di demolire i palazzi: succede Il finimondo. Giunte contro giunte. Intervennero tutti e di tutti i tipi. Cominciarono a demolire, ma facevano finta, le imprese romane … andai a vedere sul terrazzo, si procedeva con il piccone piano piano, ma così non si può fare.! Chiamai il direttore, una brava persona . Al mio “Voglio demolire” mi disse “c’è un solo sistema: la palla d’acciaio. Ce n’è una sola, sta a Genova”.  Dissi: “Stanotte la faccia venire a Roma!”

Il giorno dopo alle sei la palla d’acciaio cominciò a demolire e demolimmo un fabbricato di otto piani. Per dirti…

 

Quando si vogliono fare le cose, si fanno!

Non c’è dubbio. Questo diede uno stop alla speculazione pesante. La gente cominciò a capire che era cambiata la musica.

 

Intanto maturano le condizioni per le elezioni regionali del 1975.

Petrucci e Vittorio Sbardella mi volevano far fare l’esperienza degli ospedali riuniti. Risposi: Ragazzi non ho l’esperienza, sono giovane, ho trenta anni!

Allora mi dissero: Ti candidiamo alla Regione: capolista Maria Muu e io numero 14 in lista. Maria Muu si lamentò con Petrucci, ma nei miei confronti fu correttissima. Risulto primo. Vengo eletto con 72 mila voti di preferenza a Roma e provincia. C’era Rolando Rocchi con il suo gemello di sinistra di Velletri, Gallenzi.

Mi fanno capogruppo alla Regione. Comincio a lavorare, ma mi rendo conto che non si faceva nulla.

 

Ma le regioni erano agli albori

Il Presidente era Palleschi, socialista. Non se ne usciva. Parlai con tutti. Nel 1975 io avevo vinto, ma la Dc aveva perso; c’era stato il successo delle giunte rosse. A Roma alla regionali vinse il Pci. Così non va bene. Cambia la società, c’era stato il ‘68, i giovani non ci seguono più. Noi siamo impelagati in cose di altro genere, nel potere.

Ebbi uno scontro con Petrucci. Mi disse “Sei un fenomeno elettorale, ma ancora non capisci la politica”.

Ruppi con Petrucci. Presentai al congresso regionale di partito una mia lista che passò e prese il quorum, entrai in direzione cominciai a fare politica da semplice consigliere regionale e fare battaglie politiche.

D’accordo anche con Rolando Rocchi e con altri cercammo di mettere insieme un gruppo anche perché nel mio discorso alla Regione spiegai le ragioni del dissenso e accusai formalmente i socialisti di non essere all’altezza della loro storia; si andò alla giunta di sinistra. Con il mio discorso di rottura portai la Dc alla opposizione perché ero convinto che la Dc alla opposizione forse avrebbe ritrovato i valori di riferimento e si sarebbe forse allontanata dai progetti di potere. Si sarebbe rigenerata.

Così cominciai a lavorare politicamente, solo che nel ‘77 vengo aggredito dalle Brigate Rosse.

 

Mi ricordo!

Il 1977 era il periodo più tragico di attentati, bombe, paura diffusa. A marzo ‘78 durante la strage di via Fani e rapimento di Moro ero ancora a letto!

Fui colpito da 10 colpi di mitra.

Ero armato, tirai fuori la pistola e risposi, ma c’era dietro uno nascosto con la skorpion che non avevo visto e che mi ha sparato una raffica alle gambe e al bacino.

Poi si va al ‘79 dove mi presento alle elezioni politiche, dove comincia un’altra storia.

 

In quel periodo di violenze di terrorismo sanguinario, perché diventi obiettivo? Che giudizio dai?

Il vero obiettivo eravamo noi, la classe intermedia della Dc perché capii che si erano resi conto che dovevano cancellare la Dc; volevano terrorizzare i quadri. Quando mi spararono avevano fatto la scelta; decisero di non sparare ai vertici ma ai quadri intermedi per allontanare la gente dal partito.

 

Quell’evento ti ha segnato?

Sono stato fortunato perché nessun proiettile ha colpito organi vitali anche se ho due proiettili ancora dentro che è più pericoloso toglierli che lasciarli.

 

Poi sei entrato in Parlamento nel 1979. Che cosa ricordi di più della Commissione Finanze? Hai fatto sempre grandi battaglie di giustizia sociale sulle pensioni d’annata.

Mi battevo perché ai pensionati fosse riconosciuto il diritto dell’adeguamento della pensione.

Il lavoratore finché è in servizio percepisce gli aumenti sia di salari sia di stipendi sia nazionali sia aziendali. Questi adeguamenti rappresentano il 2 – 3 per cento annuo, il pensionato non li percepiva e non li percepisce. Dopo 10 anni si ritrovava il 10 – 20 per cento in meno.

Cominciai a battere il terreno  con una interpellanza chiedendo l’adeguamento delle pensioni a quelli in servizio.

Vennero dietro parecchi deputati e presentai un emendamento che prevedeva l’adeguamento. Venne da me il ministro del Tesoro Siniscalco e mi disse “Guarda, questo non possiamo farlo se passa questo emendamento salta la finanziaria” . Io risposi che secondo i miei calcoli le cose non stavano in quel modo. Venne anche Fini, mi disse: “Pensaci bene” . Non rinunciai all’emendamento. Spiegai l’emendamento nei 2 – 3 minuti concessi da Casini. Feci un appello spiegando ai deputati della maggioranza le ragioni di giustizia. Fu bocciato per 27 voti. Anche qualcuno della opposizione votò contro. Era voto segreto. Ci fu grande polemica sui franchi tiratori. De Michelis in una intervista fece esegesi dei franchi tiratori riferito a Publio Fiori! Ma Io non ero franco tiratore. Io parlavo liberamente e invitavo a farlo. Non volevamo essere franchi tiratori.

 

La battaglia sulle pensioni d’annata l’hai fatta anche negli anni Ottanta!

Con il governo Andreotti, quando Cirino Pomicino era ministro alla Funzione Pubblica nel 1988 riuscimmo a far approvare uno stanziamento di 4000 miliardi per dare un contributo per gli adeguamenti ai pensionati. Fu una grande vittoria.

 

Fu una bella battaglia parlamentare! Hai fatto anche azione molto forte contro le lobby? Sollevasti il problema dei registratori di cassa.

C’era un problema, il ministro delle Finanze Bruno Visentini era stato presidente del gruppo CIR (Olivetti). Mi opposi perché ritenni che fosse un regalo ai gruppi imprenditoriali che avrebbe aggravato il problema del commercio senza risolvere quello della evasione.

Fu un’altra battaglia, forse la più importante, che era quella di far approvare in commissione Finanze un decreto che esentava dalle tasse il provvedimento della fusione di Enimont. Mi opposi; venne da me il mio amico collega Mario Usellini che era responsabile fiscale. Disse: il partito mi dice di chiederti di cambiare posizione perché se non c’è l’esenzione fiscale questa cosa salta ed è un dramma per molti motivi. Risposi “Se il segretario politico Forlani mi chiama e me lo chiede io obbedisco “, ma Forlani non ha mai chiamato.

Allora parlai con Formica, ministro delle Finanze. Sono contrario – dissi – e voto contro anche contro il parere del mio partito. “Se voti contro, voto contro anch’io; che pensi, che il Psi va a destra della Dc?” rispose.

E così Il decreto saltò tutto. Poi scoppiò il casino generale.

In commissione capirono che era una cosa sbagliata copriva altre vicende. Formica chiamò i capigruppo e il decreto non venne approvato dalla Commissione.

 

Furono dei bei momenti di battaglie parlamentari!

Anche sulla vicenda Mediobanca con la privatizzazione ci fu un odg votato per dare un indirizzo ai parlamentari. Ho fatto tanti anni di vita parlamentare sempre in battaglia.

 

Eravate una bella squadra in commissione finanze con molte competenze e specializzazioni.

Il lavoro era molto eccitante. C’era gente che capiva i problemi della finanza.

 

Chi ricordi con più simpatia della squadra Dc in commissione?

Renzo Patria, Mario Usellini e Luigi Rossi di Montelera.

 

Nei giorni scorsi ho letto un articolo – intervista di Lino Jannuzzi su Lotta Continua con Leonardo Sciascia intorno al caso Donat- Cattin dopo la tragedia Moro, è drammatica nelle previsioni di Sciascia in cui paventa i pericoli per il sistema con la caduta della Dc.

Tutte le vicende che si sono sviluppate testimoniano che chi voleva mettere l’Italia in difficoltà era convinto che doveva colpire la Dc. Perché la Dc? Tutti sostenevano e sostengono che con la Dc c’era stata una grande instabilità di governo, ed è vero, ma nessuno dice che in realtà c’era una grande stabilità politica, perché cambiavano i presidenti del Consiglio, cambiavano i governi, ma restavano le alleanze, soprattutto le linee strategiche di politica internazionale, di politica finanziaria, di politica economica, di politica industriale. Il periodo della Dc ha garantito la stabilità politica e la stabilità economica.

 

I due grandi attacchi fatti alla Dc: il terrorismo e la vicenda P2

Una mattina mi sveglio e un giornale riporta il mio nome tra gli iscritti alla P2. Io mai iscritto alla P2. Nel 1979 avevo incontrato Gelli che mi fece invitare ad una colazione. Parlammo. Mi spiegò. Non potevo aderire per tanti motivi ma soprattutto non volli aderire perché c’era la scomunica per gli iscritti da parte della chiesa, essendo io cattolico. Mi disse che l’episcopato tedesco stava elaborando il nuovo codice canonico e aveva eliminato la scomunica.

L’ha eliminata,  ma il nuovo codice non è stato ancora approvato. È una proposta.

L’anno successivo eliminò la scomunica della massoneria.

Lo pregai di non insistere.

Mi inviò una lettera in cui scrisse che era dispiaciuto, teneva alla mia amicizia, prendeva atto e rispettava la mia decisione.

Questa lettera portava una data che era posteriore alla data di iscrizione come risultava nell’elenco. Per cui era chiaramente falsa la iscrizione nell’elenco! Chiamai il direttore di “Repubblica” che insisteva e gli dissi “Smettetela perché altrimenti sono costretto a citarvi in giudizio”.

Il giorno dopo pubblicarono la notizia “tra i piduisti eccellenti Publio Fiori”.

Allora citai “la Repubblica”, il redattore e la redattrice, una donna. Loro si costituirono con un gruppo di avvocati famosi, uno studio che difendeva sempre “Repubblica.

Il tribunale dichiarò che non ho appartenuto alla P2 e condannò  “Repubblica” a risarcirmi di 90 milioni di lire e alla pubblicazione dell’estratto della sentenza sulla stessa “Repubblica”. Il giornale non ha appellato questa sentenza per come era chiara, per non correre il rischio di una nuova sconfitta. Mi ha versato i 90 milioni più i 10 di spese dell’avvocato. Ha pubblicato l’estratto.

Ha smesso di rompere e ho avuto giustizia. Dopo quattro anni!

Poi l’hanno smessa. Qualcuno ci ha ancora provato, gli ho mandato la sentenza dicendo: “Smettila altrimenti sono costretto a farti una citazione”. Allora si sono fermati!

 

Sei un deputato di Roma centro, hai avuto la fortuna di svolgere le funzioni in Campidoglio alla Regione a Montecitorio ai Ministeri e non fare i trasferimenti dal collegio lontano e il pendolarismo. La famiglia l’hai meno penalizzata di altri?

Ho penalizzato la famiglia! Specialmente adesso dopo tanti anni che posso riflettere sul passato con serenità ho questo senso di colpa di avere trascurato la famiglia e i figli. Finisci per non goderla. L’ho trascurata; sempre in giro, sempre in campagna elettorale, c’erano le preferenze, c’erano i problemi, c’erano le riunioni di corrente. Mi porto questo senso di colpa di avere trascurato moglie e figli.

 

Hai trovato una famiglia comprensiva?

Una moglie non solo comprensiva, ma che mi ha in parte sostituito ed è stata presente – Lei molto, – con i figli. Mi ha sostituito in molte cose.

 

Se torniamo indietro, arriviamo a luglio del 1993 quando segretario era Martinazzoli il quale lavorava per accordo con il Pci. Non si capiva il tipo di accordo.

Non era la linea morotea, che voleva creare un’ alternativa per evitare la degenerazione di un partito troppo al potere. Lui voleva fare qualcosa di diverso che non ho ben capito. Anziché il Congresso fece una Assemblea all’Eur a luglio 1993 dove nasce la stella Rosy Bindi con l’alto patrocinio di Padre Sorge. Li fu chiarissimo di un rapporto di tipo diverso con il Pci. Cosa talmente chiara che subito io Casini e Mastella lasciammo la Dc.

 

Hai visto le vicenda di Mannino durata 30 anni e Darida ex Guardasigilli a San Vittore, poi prosciolto e risarcito? Sono state tragedie umane! Già da allora c’era il problema del rapporto tra Pm e Gip. E poi Mafiopoli e Tangentopoli ? Dopo trenta anni emerge la verità ?

La Dc è stata attaccata  su tutti i fronti e da tutti punti di vista. Con la P2,  per la prima volta nella storia della Repubblica il capo del governo non è stato un Dc, ma venne Spadolini. Fu un attacco chiaro alla Dc, ai suoi uomini più rappresentativi.

La cosa a cui tengo molto: dopo 50 anni di vita politica, nove legislature, comprese Comune e Regione, due volte sottosegretario, una volta ministro e una volta vicepresidente della Camera, il mio certificato penale è pulito come quando ho iniziato a fare politica!

 

In cinquanta anni di vita politica ci sono molti rischi?

Non ho condanne, non ho avuto procedimenti penali, non ho carichi pendenti. Quindi, come dicevano gli antichi  romani, quelli che si presentavano li chiamavano candidati perché consegnavano loro una tunica bianca, candida,  da restituire alla fine del mandato, pulita come gliela avevano data.

 

È bella questa rappresentazioneE la Dc romana che ricordi ti ha lasciato?

Non mi ha lasciato un cattivo ricordo. Perché la dc romana era in una grande città, con grandi interessi. Ognuno aveva il suo spazio politico i suoi punti di riferimento, il suo elettorato, le categorie, gli ordini professionali.

 

C’era un pluralismo di azione?

La Dc si era organizzata molto bene, però poi aveva prevalso il tesseramento. Il limite, il punto di crisi del partito; quando tu concentri tutto sul tesseramento è chiaro che va a scapito dei programmi, dei valori e dei rapporti con la gente perché ti preoccupi solo di tessere di segretari, di maggioranze. ecc..

È stato il limite morale, non della Dc romana, ma di tutte la Dc. Quando ci incontravamo con i colleghi delle altre regioni nei congressi nazionali, nei sotterranei del palazzo dei congressi o del Palasport si facevano i conteggi delle tessere e ti accorgevi che tutti avevano questo problema; ognuno doveva portare al capocorrente un certo numero di tessere. Quindi si apriva la caccia alle tessere, ai padroni delle tessere, a chi riusciva a mettere centinaia di tessere. La selezione della classe dirigente ad un certo punto non fu più fatta per una meritocrazia politica e morale, ma per una capacità di aggregare tessere.

 

Maurizio Eufemi

Democristiani d’antan, Anna Nenna D’Antonio la fascinatrice d’Abruzzo

 

Con Remo Gaspari, esponente di spicco della Dc abruzzese. Laureata in lettere, 50 anni di vita politica, tre legislature in Regione, tre legislature in Parlamento. Prima donna eletta presidente di Regione. Il suo ritratto è a Montecitorio in una sala dedicata alle donne della Repubblica. Alla veneranda età di 95 anni giudica con lucido realismo persone e cose della politica passata e presente. Un appello alle donne: non mollate mai, non fatevi rubare il futuro.

 

articolo di Maurizio Eufemi tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 12 Maggio 2022

 

Ad Anna Nenna D’Antonio sono state riconosciute da più parti indubbie qualità di amministratore e parlamentare che le hanno permesso di essere sempre al fianco degli abruzzesi ovunque, anche nei momenti più difficili.

 

Parliamo mentre c’è un brutto tempo anche in Abruzzo. Come è stato il tuo avvicinamento alla politica?

È antico. Ho sempre partecipato alla azione Cattolica di Chieti.

 

I personaggi ?

Remo Gaspari soprattutto poi Il sindaco di Chieti, come Nicola Buracchio e il sindaco di Lanciano del tempo. Gasparri è stato un esempio di lavoro in continuo colloquio, costante con la terra.

 

Che ha fatto Gaspari?

Si è dedicato sull’Abruzzo in maniera totale.

 

Sei stata la prima donna presidente di Regione!

Sì, la mia foto è stata messa a Montecitorio Camera in uno spazio che nel 2016 Laura Boldrini ha appositamente voluto sull’esempio del Parlamento svedese insieme alle foto delle ventuno costituenti, della prima ministra Tina Anselmi, della prima presidente della Camera Nilde Iotti, della prima presidente di Regione Nenna D’Antonio. Ci sarà quindi, tra le costituenti, anche la pescarese Filomena Delli Castelli. Ma ci saranno anche tre specchi. Sì, tre specchi relativi alle caselle mancanti. Ma ora saranno due per le prime donne che saranno presidente del Consiglio, della Repubblica.

 

Da dove partiamo? Dalla Regione.

Alla  Regione sono stata dalla prima elezione regionale del 1970 come consigliere poi assessore poi presidente di Regione. Il mio impegno politico era iniziato come assessore presso il Comune di San Vito, 
Successivamente divento consigliere provinciale di Chieti e poi assessore regionale, prima all’industria e poi alla sanità. Il comune non mi ha appassionato.

 

Sei riuscita a conciliare la politica con la famiglia?

No, non mi ha mai pesato. Ho fatto prima la docente. Mi muovevo molto. Avevo la fortuna che mi dicevano che parlavo bene. Ero richiesta in tutto l’Abruzzo. Mi chiedevano i comizi.

 

Mi ricordo un tuo comizio ad Avezzano in una freddissima serata di giugno alle elezioni regionali dell’ 80! 

Secondo loro affascinavo la gente;  perciò ero richiesta per i comizi. Ho portato avanti tante iniziative come regione. È stato fatto molto.

 

E nella Sanità abruzzese? 

Ho rivoluzionato il mondo nel suo funzionamento!

L’Abruzzo è gente laboriosa sono stati un fenomeno sociale i famosi operai-contadini e anche pendolari che preferivano mantenere il legame con la propria terra piuttosto che sradicarsi? Molte iniziative sono partite durante la mia presidenza in Regione. Molte fabbriche sono state insediate in Abruzzo. Molte zone industriali, molti distretti come quello delle telecomunicazioni ed elettronica all’Aquila, il tessile-abbigliamento nel teramano, meccanica e elettronica nel chietino, agroindustriale nella Marsica, il vetro nel vastese, i servizi tecnologici e formativi nel pescarese. Hanno portato un grande sviluppo. Ciò è stato possibile dalla manodopera laboriosa e specializzata, dalla presenza di infrastrutture viarie e ferroviarie, dalla logistica. Venne anche il Presidente Pertini, nel marzo 1985 a visitare alcuni siti produttivi dell’Iri.

 

In occasione del suo novantesimo compleanno le sono state riconosciute le sue battaglie per trasformare l’Abruzzo, una regione in passato a prevalenza agricola, in un “grande esempio di conquiste sociali, industriali ed economiche” e come infrastrutture e nuclei industriali ancora oggi operanti sul territorio siano frutto del lavoro dei grandi politici degli anni passati. Poi sei stata vicepresidente del Gruppo con tre Presidente dal 1990 al 1994 con Gava, Scotti e Bianco. Scotti mi voleva un gran bene. Che ricordi hai delle donne Dc?

Donne tutte sempre molto preparate.

 

Con più affetto?

Tina Anselmi e Maria Pia Garavaglia. La Falcucci meno. Anselmi era capace; si muoveva, lavorava, era simpatica. Nel suo modo di avvicinarsi alla gente era più abile. La Ombretta Fumagalli era una altra storia.

 

Come linea politica eri per la Dc che guarda a sinistra, come diceva De Gasperi?

Sì. Questo era; la linea dei pontieri di Taviani e Gaspari.

 

E la Dc in Abruzzo cos’era?

La Dc era decisiva su tutto! Senza la Dc non avveniva niente!

 

E la politica di oggi ?

Non mi piace!

 

Perché?

Non perché non mi piacciono le persone. Letta mi piace.

 

Il segretario del PD, allievo di Andreatta, Letta che viene dall’Arel ?

Lo so, però è un uomo che sa quello che dice e quello che fa!

 

E Draghi ti piace ?

Nel suo ruolo – che è un ruolo difficile- dà sicurezza al Paese! È sicuro nella azione politica.

 

Tu sei entrata in Parlamento con Sergio Mattarella nel 1983. Che ricordi hai, che giudizio offri?

È sempre stato un uomo saggio; poche parole, ma fatti; ovunque ha portato saggezza, sempre, anche quando era in Parlamento era un uomo prudente!

 

E dei tuoi colleghi parlamentari di allora: Alberto Aiardi , Vitale Artese, Romeo Ricciuti, Antonio Del Duca, Giuseppe Quieti, Antonio Tancredi hai mantenuti i rapporti?

Li ho mantenuti finché li ho visti, fino a quando sono stati in vita.

 

Eravate una bella squadra?

Ognuno nella sua corrente; ognuno nella sua terra, lotta al tempo delle elezioni ci stava sempre, poi tutti uniti per l’Abruzzo.

 

Che differenze vedi tra l’Abruzzo degli anni Cinquanta e quello di adesso.

Un Abruzzo completamente e tutto diverso.

 

Dalle macerie della guerra siamo passati allo sviluppo?

È iniziato lo sviluppo con la Dc! La Cassa del Mezzogiorno è stata determinante per lo sviluppo!

 

E la riforma agraria ha portato benefici?

Insomma. Non tanto,  anche perché l’Abruzzo è prevalentemente montagne e terreno collinare che ha portato al successo di viticoltura e al lattiero caseario.

 

Anna Nenna D’Antonio, una donna tenace. Cosa direbbe ai giovani che sono in politica?

Chiedo a tutti, specialmente ai giovani, di ritrovare sé stessi, perché vedo una società distratta. Si sono persi i valori della vita, come la fratellanza. C’è in giro disinteresse verso questi valori. La sfida non parte più da noi, ma dall’Italia verso noi. Ed io in questa sera vi dico: “Non mollate mai, perché la vita è troppo preziosa per essere svenduta. Non fatevi rubare il futuro”. Queste le sue parole alla “sfida della donne” a Fossacesia!

 

Mi congeda con un giudizio autocritico sul colloquio: “Forse sono stata un po’ lacunosa”.

Niente affatto rispondo. Non mi è sembrato, anzi ferma e tenace dall’alto dei suoi 95 anni come sono gli abruzzesi e come è stato nella sua lunga storia politica e parlamentare. Possiamo affermarlo senza alcuna remora!

 

Maurizio Eufemi

Da Bergamo a Roma, con il cuore all’America latina:

Il percorso politico di Bonalumi nella Dc dei grandi leader.

 

articolo di Maurizio Eufemi, tratto dal giornale online ildomaniditalia.it del maggio 11, 2022

 

 

Intervista a Gilberto Bonalumi, classe 1941, leader dei giovani Dc dal 1967 al 1971, poi Parlamentare sia alla Camera che al Senato, dal 1972 al 1992, sottosegretario agli Esteri nei governi Goria e De Mita, poi presidente dell’Ipalmo, promotore di Rial e Ial, associazioni per lo sviluppo delle relazioni con l’America Latina.

 

Caro Gilberto, gettiamo anzitutto uno sguardo sugli esordi. Quale ricordo conservi dell’approccio alla politica?

 

Ho iniziato quando i partiti erano importanti e i gruppi giovanili altrettanto. Sono stato delegato dei giovani democristiani del mio comune, poi delegato provinciale di Bergamo, infine delegato nazionale dal 1967-1971. Ho percorso tutte le tappe ed è stata un’esperienza molto formativa.

 

Quindi sei arrivato al vertice del Movimento giovanile nella fase calda del ‘68, in piena contestazione?

 

Esattamente. Ricordo bene la grande protesta universitaria, a Valle Giulia, con gli scontri violenti tra manifestanti e polizia. Moro era Presidente del Consiglio e chiamò i dirigenti delle organizzazioni giovanili dei maggiori partiti. Ci trovammo allo stesso tavolo io, in rappresentanza del Mgdc, e Claudio Petruccioli, all’epoca segretario della Fgci.

 

 Che fece in quella circostanza Moro?

 

Ci interrogò. Voleva capire da noi cosa stesse accadendo. Non gli sfuggiva la novità e, insieme, la complessità degli eventi. Fu l’occasione, diretta o indiretta, per mettere a fuoco una iniziativa del partito. Ciò si tradusse in una grande manifestazione, al Palazzo dello Sport di Bologna, in apertura della campagna elettorale del 1968. Riuscimmo a coinvolgere 30.000 ragazzi provenienti da tutta l’Italia, raccogliemmo l’entusiasmo che trasondava dal mondo studentesco, mettemmo i paletti giusti tra contestazione e mobilitazione violenta. Noi proponevamo il mito della Nuova Frontiera e guardavamo a Robert Kennedy e George McGovern, quindi all’ala progressista e pacifista – pesava la guerra del Vietnam – all’interno del Partito democratico americano. Comunque stava finendo un ciclo, anche in seno alla Dc: Moro si apprestava a lasciare la Presidenza del Consiglio e si profilava all’orizzonte l’arrivo del segretario Rumor, l’uomo più rappresentativo del gruppone doroteo, destinato dopo le elezioni a traslocare da Piazza del Gesù a Palazzo Chigi.

 

Cosa avvenne subito dopo? Intendo dire, quale sviluppo ebbe l’iniziativa di Bologna?

 

Ecco, Moro mi chiamò per ringraziarmi e venne fuori tutto un discorso…Si capiva che dentro di sé maturava il pensiero di una inevitabile modifica del quadro politico, con il rischio di uno smarrimento della Dc. A un certo punto del colloquio si lasciò sfuggire una frase: “…dobbiamo prepararci a lasciare la mano…”. Avvertiva la spinta di un sommovimento che si ripercuoteva sul governo, mettendo in crisi la sua stessa leadership.

 

Nella geografia democristiana non appartenevi alla corrente di Moro, eppure avevi un rapporto di vicinanza con lui.

 

Una cosa che non è mai apparsa in nessun libro o in nessuna intervista accadde in occasione della riunione del 28 febbraio 1978 ai gruppi parlamentari con il discorso di Moro per varare il governo della solidarietà nazionale. Pochi sanno che se la proposta contenuta in quel discorso fosse stata messa in votazione secondo me, probabilmente, sarebbe stato bocciata. Perché passò? Perché l’on. Franco Salvi, che era il vero “confessore”, il vero amico del cuore di Moro – quando si parla degli amici di Moro si parla di tutti, meno che di Franco Salvi! – quando Moro iniziò a parlare mi disse: “Qui sento aria brutta, intanto che Moro parla, tu raccogli le firme”.

Sto cercando il documento tra le mie carte d’archivio. Diedi a Zaccagnini, che presiedeva la riunione, le 286 firme raccolte. Quando Moro finì di parlare, Zaccagnini disse: “Il collega Bonalumi ha consegnato 286 firme, quindi ritengo la proposta di Moro approvata”. E chiuse la riunione.

Chi più si agitò fu Donat Cattin, che voleva invece discuterne in ragione dei suoi timori a riguardo di un’ulteriore apertura al Pci. Non era scontato l’appoggio della maggioranza dei Gruppi parlamentari. Senza l’operazione suggerita da Franco Salvi, avremmo corso dei rischi altissimi. Se si fosse aperta la discussione, potevamo benissimo finire sotto.

 

Ero presente in quella riunione notturna, ne respiravo la tensione. Della raccolta di firme che Salvi ti chiese di organizzare non conservo memoria. Seguivo passo passo il discorso di Moro, la profondità dei suoi ragionamenti, l’esigenza dell’unità di partito. A un certo punto l’apertura fece un’apertura a Scalfaro:  evidentemente intendeva tranquillizzare la destra della Dc.

 

Sono frammenti di una storia che gli eventi hanno travolto. Pochi giorni dopo, infatti, ci fu il rapimento di Moro. Votammo in tutta fretta la fiducia al governo Andreotti nel clima di allarme e sconcerto determinato dall’eccedio di Via Fani. Il Paese era sotto assedio.

 

 Torniamo alle tue vicende. Prima di diventare segretario nazionale dei giovani democristiani già frequentavi l’ambiente di partito?

 

Sì, mi sono lasciato prendere dalla politica molto presto. Non ancora maggiorenne, frequentando l’oratorio del mio paese, ho iniziato a capire, a contatto con gli altri, che i nostri ideali giovanili avevano bisogno di strumenti. Sicuramente il partito rappresentava il veicolo più efficace per mettere in pratica le aspirazioni che guidavano la nostra ansia d’impegno.

 

I tuoi riferimenti chi erano, sia locali che nazionali?

 

L’ambiente giovanile bergamasco era formato da leader naturali, destinati ad esercitare ruoli importanti nel partito e nelle istituzioni. Granelli, ad esempio, ben presto si trasferì da Bergamo a Milano, trovandosi sotto l’ala protettiva di Marcora. Altri invece entrarono nel Pci e tra questi, successivamente, alcuni fecero la scelta del Manifesto. Mi riferisco a Giuseppe Chiarante, che non viene associato normalmente alla realtà giovanile della Dc bergamasca; così come pure Lucio Magri, cugino in seconda di Luigi Magri, oggi direttore dell’ISPI, la cui parabola politica coincise con l’animazione delle battaglie a sinistra del Pci, lungo l’asse della critica al burocratismo di un apparato vecchio, anche ideologicamente, e prigioniero del suo rapporto con Mosca.

Andrebbero anche menzionati quei personaggi che non ebbero la ventura di “sfondare” sul piano nazionale: per tutti Gian Pietro Galizzi, figlio del più grande grande latinista, divenuto negli anni ‘90 sindaco di San Pellegrino.

Nella direzione nazionale del Movimento giovanile Dc trovai Gianfranco Astori, responsabile del settore scuola, poi Pierluigi Castagnetti, Mario Tassone, Elio Fontana di Brescia, Renato Grassi di Messina, Michelangelo Agrusti di Pordenone, Adriano Paglietti e Paolo Cabras di Roma, Rodolfo Brancoli, poi corrispondente Rai.

 

Qual era tua collocazione all’interno della Dc?

 

Per le ragioni che ti ho detto, sono sempre stato nella sinistra di Base. Qual era l’impianto teorico di questa corrente? La Base si definiva una sinistra “laica”, volendo con ciò significare che prediligeva l’esame dei problemi politici al di fuori di qualsiasi approccio di tipo integralistico. Bisognava rompere le gabbie ideologiche per aprirsi alla modernizzazione del Paese. Ecco, basterebbe che “Gingio” Rognoni recuperasse gli unici due numeri de “Il Ribelle e il Conformista”, un periodico a forte impianto culturale che il nucleo bergamasco, valorizzato intelligentemente da Albertino Marcora, immaginava come sua carta d’identità politica. Aveva spunti di grande interesse. In ogni caso, non si avvertiva l’angustia del provincialismo. I contatti con altre realtà in giro per l’Italia davano slancio alla nostra azione: non eravamo isolati. Uno scambio costante avveniva con i nostri amici di Milano, Avellino, Novara, Firenze…Qui Nicola Pistelli aveva fondato la rivista “Politica”. Lo abbiamo perso ancora giovane, per un incidente stradale, ma ha lasciato un segno indelebile nella esperienza della sinistra dc. Mi piace ricordare che a Bergamo il mio circolo era intitolato proprio a lui, Nicola Pistelli.

 

Anche Vincenzo Gagliardi di Venezia faceva parte di questa rete?

 

Sì, anche lui. Era tutto un filone di personalità emergenti nei vari contesti locali. A Venezia c’era anche Wladimiro Dorigo – una mente eclettica – con la sua rivista “Questitalia”: si leggeva con enorme interesse, per quanto era fatta bene. E visto che mi solleciti, mi permetto di accennare alla presenza femminile all’interno della nostra area politica. Come non parlare, dunque, di Lidia Brisca Menapace? Anche lei, dopo tante battaglie nella Dc, finì per approdare nei ranghi della sinistra…più a sinistra del Pci.

 

Tu scrivevi su “Per l’Azione”, il periodico dei giovani dc?

 

Chi seguiva da tempo il settore stampa a livello nazionale era Francesco Mattioli, finito poi a Bruxelles come corrispondente della Rai. Dalle ceneri di “Per l’Azione” nacque poi, come organo ufficiale del Movimento giovanile, “Italia Cronache”. Io sono arrivato dopo questa stagione.

 

Allora è meglio andare nuovamente alle vicende di Bergamo. Con Filippo Maria Pandolfi come erano i tuoi e vostri rapporti? Lui non era un dossettiano?

 

Discreti. Quella radice, il dossettismo, non aveva più la valenza di una volta. Erano intervenuti cambiamenti di un certo rilievo nella struttura del partito. La Dc a Bergamo aveva tre gruppi fondamentali: i dorotei, i fanfaniani e i basisti. Pandolfi, uomo d’intelligenza notevole, rappresentava il filone che potremmo definire “doroteo-moroteo”. Invece i fanfaniani erano guidati da Enzo Berlanda, parlamentare di lungo corso e poi Presidente della Consob.

 

Ho ben presente Berlanda: fece la riforma dell’Autorità sul risparmio e intervenne sull’ordinamento della Borsa con l’obiettivo di potenziarla, modernizzarla e adeguarla ai tempi nuovi…

 

Insieme a Pandolfi, a capo dei “moro-dorotei” operava Giovanni Battista Scaglia. Di noi, ovvero della sinistra di Base, ti ho già detto abbastanza. Questi erano, appunto, i tre gruppi più forti. In Lombardia, in particolare a Bergamo e Milano, contava meno la sinistra sociale di Carlo Donat-Cattin. Non aveva il peso che in altre regioni la rendevano più incisiva. Nulla a confronto della nostra ramificazione estesa e robusta: a Como Lecco e Varese operava corposamente quella sinistra di Base che annoverava, oltre il fondatore Aristide Marchetti, figure di grande spessore come Cesare Golfari e Giuseppe Guzzetti. E a Brescia avevamo Mino Martinazzoli, espressione colta del mondo cattolico e democristiano locale. Questa fioritura di classe dirigente, molto apprezzata anche all’esterno della Dc, la si deve per molti aspetti a Marcora, il cui prestigio rimontava alla periodo della Resistenza, quando operò nella brigata dei partigiani cristiani guidata da Alfredo Di Dio.

 

Hai toccato il tasto della Resistenza e mi vengono in mente le polemiche esplose in occasione dell’ultimo 25 aprile. Ora, ti chiedo, come vedi la vicenda del pacifismo?

 

L’uomo che su questi temi mise più in difficoltà De Gasperi fu certamente Giovanni Gronchi, futuro Presidente della Repubblica. Come sai, proprio sulla scelta atlantica si manifestarono opinioni contrarie nella Dc (non solo da parte dei dossettiani). Gronchi non era estraneo alle iniziative, nascoste o palesi, che miravano a infrenare la politica euro-atlantica di De Gasperi. Con il senno di poi, dobbiamo riconoscere che se fosse nata la Comunità Europea di Difesa (CED), cruccio dello statista trentino fino alle ultime ore della sua esistenza terrena, molte preoccupazioni sarebbero rientrate, dando una curvatura diversa al confronto politico dei decenni successivi.

Noi giovani, comunque, non ci tirammo indietro. Anche a costo di censura dei vertici di partito, alzammo la voce sulla guerra del Vietnam. Clamoroso fu l’episodio che segnò – dietro le quinte – il grande convegno di Milano, da me organizzato nel 1969 come Delegato nazionale, dal titolo emblematico: “Per fare la pace cambiare la NATO”. Mariano Rumor, allora segretario del partito, inviò in missione il brillante sottosegretario alla Difesa, Francesco Cossiga, con l’incarico di visionare il discorso che avrei pronunciato a chiusura del convegno

 

Ti volevano controllare?!

 

Beh… certo!

 

Che volevate? Qual era il significato dell’iniziativa?

 

Uscì un libro della Dc di Firenze, devo dire un libro che fece molto scalpore. La tesi fondamentale era questa: certamente la NATO poteva rimanere in piedi, come struttura militare, ma era necessario recuperare il disegno europeista della CED. Ecco, noi giovani eravamo su questa linea.

 

Ma il dissenso interno alla Dc sul patto Atlantico – peraltro riassorbito da De Gasperi con il metodo democratico – era anche di ordine economico per non far mancare risorse alla economia, alla ricostruzione e allo sviluppo. Forse una preoccupazione eccessiva alla luce del successivo miracolo economico…

 

Anche adesso la battaglia sul 2 per cento del Pil è ridicola. Se avessimo davvero la forza di riattualizzare la CED, non ci sarebbe spazio per queste preoccupazioni di ordine economico. Con l’esercito unico europeo si può anche risparmiare. Il nocciolo del problema è tutto qui.

 

Alle volte si ha l’impressione che le forze politiche che conosciamo oggi non siano in grado di gestire processi così impegnativi. Perché l’europeismo non va avanti? Perché le posizioni sono così differenziate?

 

La tua non è un’impressione fuori luogo. Ci dovrebbe essere più determinazione e lungimiranza, invece ci si perde in polemiche anguste. Per questo siamo in panne. La questione la si può risolvere se interviene una scelta analoga a quella immaginata per la CED e soprattutto se la Francia, con Macron appena reinsediato all’Eliseo, avesse il coraggio di rinunciare al seggio permanente dell’Onu a favore dell’Europa. Tanta incertezza su questo, aggravata per altro dalla sciagurata operazione della Brexit, non fa che appesantire e talvolta vanificare l’iniziativa della Ue.

 

In effetti è così! Vado ancora avanti. M’incuriosisce il percorso che hai seguito una volta uscito dal circuito politico in senso stretto. Ad esempio, finito l’impegno parlamentare, ti sei dedicato all’Ipalmo. Immagino che le relazioni internazionali accumulate nel tempo ti siano tornate particolarmente utili.

 

Lo confermo. All’Ipalmo ho potuto dare seguito a tante idee  che la conoscenza di uomini e situazioni legavano a una prospettiva di sviluppo concreto. Ma mi sono dedicato anche ad altro. Ho lavorato allo sviluppo di una struttura chiamata Rial, fondata da Fanfani nel 1954, che vedeva in origine la presenza della Camera di commercio di Milano, dello stesso Comune Milano, della Regione Lombardia e del Ministero degli Esteri. Il lavoro sull’America Latina, in particolare, ha determinato due grandi risultati: il primo si riferisce all’istituzione a quella conferenza biennale che oramai, tramite un’apposita legge, è stabilmente organizzata dal Ministero degli Esteri; l’altro, a seguire,  indica il fatto che Milano, senza questo lavoro, l’Expo del 2015 non l’avrebbe vinta. La Merkel, infatti, aveva dirottato i voti su Smirme e questa, tra i paesi dell’Unione Europea, in effetti prese più voti. Noi ribaltammo l’esito grazie al rapporto da noi lungamente coltivato con l’America Latina. Abbiamo potuto accertare che l’ago della bilancia a favore di Milano fu spostato grazie ai voti di 29 Paesi su 30 dell’area latinoamericana.

 

Un tuo grande successo personale, non c’è dubbio. Ti sei avvalso della preparazione che negli anni avevi maturato nella vita politica e nelle stituzioni. Parlamentare, sottosegretario, dirigente di partito… insomma, un curriculum invidiabile. Ecco, lasciami fare allora una domanda a chiusura di questa nostra conversazione, forse dettata da una affinità di pensiero e quindi di sensibilità, per cui azzerderei una tua battuta finanche prevedibile: cosa pensi della classe politica attuale?

 

Magari ti deludo, ma avendo fatto tutto quello che hai voluto amabilmente ricordare, mi picco di non dare nessun giudizio. Penso tuttavia che sia più avanti la società civile che i partiti. Ai nostri tempi, al contrario, erano i partiti che guidavano i processi e stavano più avanti.

Riforma agraria, quel modello di sviluppo che cambiò l’Italia

La riforma, frutto della linea De Gasperi–Segni, che cambiò il volto all’agricoltura italiana rivista in un libro e in un cortometraggio d’epoca partendo da due Comuni dell’Alto Lazio, Pescia Romana e Montalto di Castro

 

articolo comparso sul giornale online beemagazine.it del 10 Maggio 2022

 

Fu una riforma storica, che creò, in una Italia uscita dalla guerra e in un clima internazionale da guerra fredda,  scontri politici e visioni contrapposte di modelli di sviluppo dell’agricoltura italiana. Portata avanti tenacemente dalla Dc, suscitò fiere opposizioni da parte della sinistra unita che aveva perso le elezioni politiche del 1948.

Quella riforma è stata ricordata durante un pomeriggio di cultura  nel Teatro “Lea Padovani” attraverso immagini del libro di Daniele Mattei, in collaborazione con Emanuele Eutizi e Carlo Alberto Falzetti, e un cortometraggio d’epoca. Tante storie e testimonianze che hanno restituito l’atmosfera e lo spirito dei quegli anni della Ricostruzione del secondo Dopoguerra.

La  riforma agraria prese l’avvio dalle devastazioni della guerra, trasformò il paesaggio, l’economia, lo sviluppo e la politica del Comune – ha scritto il sindaco Sergio Caci – ma anche di vaste zone d’Italia:  800 mila ettari di cui 220 mila in Maremma.

È stata una sfida vinta, fatta di sacrifici, di determinazione, di quanti hanno creduto nello sviluppo della agricoltura. Oggi con le specializzazioni produttive se ne avverte ancora di più il significato.

In un tempo in cui si tende con facilità  a rimuovere il passato, rinverdire la memoria di ciò che il Paese è stato e ha vissuto, non è retorica, perché senza la preistoria non si costruisce la storia.

Negli scatti, nelle inquadrature, nei “colpi di obiettivo” si colgono i momenti più significativi della Storia, i criteri di priorità nelle assegnazioni, i sorteggi, come le firme, le consegne di contratti ai neo assegnatari, i futuri proprietari di terra e podere, gli animali, le radio, le biciclette, e sull’onda del successo di Mike Bongiorno, i quiz dell’assegnatario, la vita di comunità civile e religiosa. Naturalmente non può essere sottaciuto anche il clima di scontento strumentalizzato e amplificato dalla sinistra.

Nel borgo di servizi di Pescia Romana comprendente scuola, chiesa, circolo ricreativo, spacci (la prima pietra fu posta il 15 maggio 1958 dai ministri Andreotti e Colombo ndr) tutto era in linea con quanto veniva realizzato analogamente a Borgo Carige e a quanto sosteneva Giorgio La Pira che l’aveva fortemente voluto nella vicina Grosseto a Rispescia e a Castiglione della Pescaia: una comunità viva nella libertà. I pionieri, come nella Conquista del West, erano ancora senza acqua ed energia; verranno, poi, i pozzi, poi le riforme a corredo, con le bonifiche, gli acquedotti, le scuole, le strade e la elettrificazione, le infrastrutture civili con cantine, oleifici, caseifici, centrali ortofrutticole, officine macchine agricole.

 

Sulla riforma c’era una contrapposizione culturale tra democristiani e socialcomunisti.                                                            

I primi volevano una classe di proprietari coltivatori diretti e futuri imprenditori, la sinistra voleva realizzare il modello sovietico dei kolchoz espressione della proprietà agricola collettiva. Da una parte la persona e le sue libertà, dall’altro lo Stato e la sua invadente oppressione. La diversità emergeva a livello locale nella competizione elettorale con la lista “Vanga e Stella” contrapposta a quella “polli e poderi” .

Nella impostazione della Riforma vinse la linea De Gasperi- Segni. Li, in dieci anni dal 1951 al 1961 la popolazione quasi raddoppiò!

Un poderoso indicatore di sviluppo economico. Certo non tutto ha potuto trovare spazio nel libro, soprattutto il contesto nazionale. E qui subentrano le valutazioni dell’ osservatore.

Per esempio la corrispondenza tra il Ministro della Agricoltura Segni e De Gasperi è utile per comprendere i criteri della riforma, per evitare errori, così come i richiami alla migrazione interna per superare i divari i divari demografici, anche nelle competenze professionali, e alle scorte di grano e olio!

Così come non si può non evidenziare il quadro delle distruzioni della guerra che avevano portato in agricoltura ad un – 60 per cento sul prebellico. Questi erano i dati drammatici del nostro Paese:

  • 135 milioni tra viti olivi e frutteti

  • 67 milioni di pascoli

  • 800 mila macchine agricole

  • 600 mila bovini

  • 389 mila suini

  • 142 mila equini

  • Un milione ovino caprini

 Cosi come non può non essere ricordato il peso rilevante del Piano Marshall (erp) che gli autori hanno richiamato ma non evidenziato come sperato, perché gli Aiuti vengono prima della Riforma e della sua compiuta realizzazione.

Si perfezionarono infatti accordi con gli Usa per indirizzare il comparto verso una agricoltura più redditizia con utilizzo di fosfati e nitrati, agevolazioni ai combustibili, abolizione di soprattasse sui fertilizzanti, i crediti agricoli, gli aumenti delle superfici e l’ Expo verso la Germania occupata e la formazione professionale. Furono fornite 2000 tons di grano ibrido per la semina e per aumentare la resa per ettaro.

Su 38 milioni di ettari coltivabili solo 21 erano in pianura, mentre 37 erano in montagna e 42 in collina.

Erano 10 milioni di ettari da bonificare in tutto il Paese.

  1. McClelland, capo divisione agricoltura del piano Erp, monitorava lo stato di avanzamento del programma e constatò come c’erano “Contadini che strappano la sussistenza sui terreni rocciosi e chilometri senza contadini”. Questo era lo scenario che aveva di fronte.

Un quarto degli aiuti Erp andó alla agricoltura. Fondamentale fu poi il ruolo dei consorzi agrari nella gestione dei fertilizzanti per determinare riduzioni di prezzo così come nella meccanizzazione attraverso la diffusione dei trattori.

Nel 1956, quando la riforma era ormai a regime si registrarono 102 mila assegnatari non lontano dall’ obiettivo di 140 mila in sostituzione di 3 mila proprietari ex latifondisti agrari! Questa è la risposta a chi sostiene che vi furono cedimenti nella Riforma!

Interventi aggiuntivi si ebbero con lo strumento della Cassa per la piccola proprietà contadina. Ulteriore passi furono fatti con la creazione degli enti di sviluppo con la sapiente azione di Tommaso Morlino come capo del legislativo del Ministro dell’agricoltura Colombo.

I risultati furono visibili. La resa per ettaro passava da 14,8 al 19,6; nel 1955 i trattori si erano triplicati.

Quando scorrevano le immagini qualcuno si è ritrovato con nostalgia. Quando apparivano quelle di De Gasperi, Segni, Medici, Fanfani una signora ha energicamente interrotto il conduttore per ricordare con forza, orgoglio e apprezzamento che Fanfani veniva spesso a Pescia a vedere le realizzazioni!

Il migliore riconoscimento di una testimone del tempo.

Non è stato un Amarcord felliniano, ma un immergersi nel neorealismo alla De Sica, dove tante storie raccontate con i fotogrammi fanno una grande storia del progresso e delle conquiste del Paese.

 

Maurizio Eufemi

“Romanzo di formazione” politica di un “siciliano anglicizzato”, Calogero Pumilia

 

Moro su Donat Cattin aveva poteri da fachiro: lo sedava. Oggi in politica prevale il leaderismo: si cambia la linea senza cambiare leader. Con tutti i suoi difetti, la Dc aveva una grande virtù: era contendibile. La prova? di volta in volta persero il potere De Gasperi, Fanfani, Moro, De Mita.

 

Intervista tratta dal giornale onlibe "beemagazine" 4 Maggio 2022

 

Calogero Pumilia è stato presidente dell’Organismo Universitario Palermitano, dirigente nazionale dei giovani della Democrazia Cristiana. Giornalista pubblicista, poi redattore del periodico Sicilia Domani e direttore del periodico Sicilia Oggi. 

Dal 1972 è stato eletto alla Camera dei Deputati nella Democrazia Cristiana, per cinque legislature dal 1972 al 1992. Poi sottosegretario nei governi Andreotti IV e V e Cossiga I e II.

Sindaco di Caltabellotta in più mandati sia negli anni Settanta sia nella prima decade del 2000. Attualmente è presidente della Fondazione Orestiadi Istituto di Alta Cultura, di Gibellina. 

È autore di numerose pubblicazioni:

Attraversando la politica, Palermo, Centro Sturzo, 1997.

La Sicilia al tempo della Democrazia Cristiana, Rubbettino, 1998.

Ti la scordi la Merica!, Sciacca, Aulino Editore, 2016, Partecipazione e cambiamento. Un'(auto) biografia politica della Sicilia, in Sintesi e proposte, vol. 73, Lussografica, 2018.

 

Come è stato il tuo l’avvicinamento alla Dc negli anni Cinquanta?

Era il  1956. Nella direzione  nazionale eravamo Salvatore Saetta e io, tutti e due componenti della direzione. Era una cosa abbastanza insolita con due agrigentini su undici.

 

La scintilla che ti ha fatto entrare nella Dc; chi è stato il  tuo mentore?

Ho percorso la via normale, prima nell’ Azione Cattolica come dirigente diocesano per la diffusione della dottrina sociale della Chiesa. Il vescovo della  mia diocesi di Agrigento dopo la licenza liceale mi nominò dirigente  diocesano dei giovani di Azione Cattolica e della dottrina sociale. Cominciai una attività in cui si facevano tre conferenzine serali sui temi economici, sociali  e politici. Era una zona di confine con la politica, negli  anni di dura contrapposizione tra mondo cattolico e il Pci.

 

In quegli anni ho visto che c’erano  polemiche forti con il Pci, con Rinascita; e ancora prima ho visto quella tra Malfatti  e Zangrandi  sul periodico “per l’azione”! 

Sì, poi da lì passai al movimento giovanile della Dc nel momento in cui Fanfani costruiva il partito nuovo, lo radicava nel territorio molto strutturato, organizzato, lo rendeva simile al partito “leninista” con l’idea di competere con il mondo comunista, organizzarsi per prendere autonomia rispetto ai  comitati civici e alle gerarchie ecclesiastiche. Si costruiva il partito laico.

 

Venivi ogni settimana a Roma? 

Entrai in direzione nazionale con il congresso di Perugia nel 1962. Facevano riunioni costanti, ci occupavano ciascuno di un particolare settore.

 

Chi c’era con te che poi hai ritrovato in Parlamento? 

C’erano Pisanu, Gargani, Angelo Sanza, Franco Mazzola  di Cuneo, poi dopo Luciano Benadusi e Ettore Attolini, arrivò Bonalumi. L’attività  ci impegnava spesso nei fine settimana in convegni. Ricordo quelli con Tina Anselmi a Piacenza, con Moro a Bari, con Taviani a Genova. E tanti altri promossi da noi anche senza questi personaggi.

 

A livello siciliano chi ti orientava? 

Ero redattore di una rivista che ebbe un ruolo importante si chiamava Sicilia domani  che sostenne  il primo governo di centro sinistra. Ed ebbe in Giuseppe D’Angelo che fu presidente della Regione un grande ispiratore; fu quello che chiese la costituzione della commissione nazionale antimafia al Parlamento italiano con una scelta che era basata sul fatto che la mafia non poteva essere considerata una questione isolata, ma dovesse essere affrontata in sede nazionale con gli strumenti e poteri che l’istituzione nazionale aveva. Fu presieduta prima da Donato Pafundi  e poi da Francesco Cattanei. Fu anche una grande delusione. Feci molte polemiche sulla commissione sostenendo che non andava a fondo nei rapporti  tra mafia e politica, mafia e affari. Tanto è che fui  convocato dalla commissione di inchiesta nel 1970. C’è  una storia della mafia scritta da un magistrato comunista pubblicato da Editori Riuniti  che dice che l’unico siciliano a dare un contributo concreto sono stato fui io!

 

Hai scritto sull’organo dei giovani Dc per l’Azione? 

Sì, sui temi economici e sulla cultura.

 

Poi sei entrato in Parlamento  nel 1972 e sei stato rieletto fino al 1992. Come nasce la candidatura nel 1972? 

Creai una piccola corrente seguendo Fiorentino Sullo e Vito Scalia  che era segretario generale aggiunto della Cisl; si chiamava “nuova sinistra” ed ebbe un buon successo. Poi nella fase in cui stavamo confluendo in Forze Nuove di Donat Cattin nel 1972 ci fu il primo scioglimento anticipato della legislatura perché dopo la elezione di Leone con i voti determinanti dei missini alla Presidenza della Repubblica si determinò la rottura dei rapporti con i socialisti. Improvvisamente mi trovai di fronte alla scelta.

 

In quella fase ci fu una forte crescita della destra? 

Nel 1971 il MSI fu il primo partito a Catania. In sede regionale ci fu una forte  avanzata della destra. La Dc perse 7, 8 punti per la ventata a destra per due fattori: la legge Cipolla – De Marzi che stabiliva un diverso riparto dei prodotti agricoli e venne interpretata come attacco alla proprietà  contadina anche da parte di alcuni settori Dc e dalla Coldiretti che contribuì a creare questo clima e la ipotesi – che rimase tale –  di Fiorentino Sullo  di intervenire sulla proprietà dei suoli che avrebbe stroncato parte della speculazione. Non si fece nulla, ma creò questo clima.

Quando mi candidai fui accompagnato da questa scelta. C’era l’on. Volpe di Caltanissetta – che hai conosciuto -; per tentare di sminuire quando gli chiedevano di me diceva: “Ma niputi, picciotto intelligente, peccato che è comunista”. Ho avuto grosse difficoltà; qualcuno non ha voluto  neppure aprire sezioni di partito. Non smentii mai le mie posizioni perché ero consapevole che avrei perduto dignità e voti.

Nonostante questo fui ampiamente eletto, dimostrando  che nel partito – nonostante il potere degli uscenti  c’erano spazi di manovra con le preferenze multiple. Il capo elettore del mio paese aveva il riferimento in un deputato uscente però aveva sentito parlare me, mi aveva incontrato, e “tirava” una delle preferenze.

 

C’erano organizzazioni che ti sostenevano come le Acli, la Cisl la Coldiretti o le Confcooperative? 

La Cisl a Trapani e in parte a Palermo. La Cisl sosteneva candidati vicini al sociale.

 

Della esperienza parlamentare cosa ricordi? Ricordo la tua battaglia parlamentare sulla riconversione industriale che poi divenne la 675 del 1977? Già Moro anticipò il problema di una ristrutturazione industriale dopo lo shock petrolifero del 1973. Che ricordi hai di quella fase,  di quelle scelte rispetto al drenaggio di risorse da parte del Nord? 

All’inizio della seconda legislatura diventai  vicepresidente del gruppo Dc con la responsabilità delle commissioni economiche con Piccoli  capogruppo. Donat Cattin era ministro dell’Industria e anche il mio capo corrente. Queste battaglie le facevo, in parte, in accordo con lui.

 

Che ricordi hai di Donat Cattin? 

Donat Cattin era un uomo di straordinaria intelligenza, di grande forza, umanamente difficile, il rapporto con lui era molto complicato. Però valorizzava tanto  i deputati? Era un capo scuola come Marcora. Entrambi li possiamo considerare capiscuola.

 

Sono quelli che più valorizzavano i giovani? 

Sì, più di Marcora.

 

Partecipavi alle riunioni  di corrente del mercoledì sera di via Colonna Antonina? 

Sì, ci riunivamo nel salone riunioni,  Donat Cattin introduceva  in un tempo in cui i parlamentari non avevano grandi ruoli  e all’inizio della loro esperienza non è che conoscessero molte più cose di quelle che leggevano i giornali.

 

Non era come adesso con i potenti uffici  studi che sfornano documenti ricerca? 

Tu arrivavi in Parlamento e non avevi neppure un tavolo né una sedia! Donat Cattin dava a noi un tavolo, una sedia, non il telefono che te lo dovevi procurare da solo, e ti creava la opportunità di lavorare e di stare in comunità, una comunità politica! Faceva una relazione. Non amava molto essere contraddetto. Se dicevo cose in dissenso – aveva  un rapporto curioso con me – mi diceva che ero un siciliano anglicizzato: con i difetti dei siciliani e la freddezza degli inglesi. Mi piace ricordare che molto spesso annunciava  rotture, battaglie e poi la settimana successiva veniva con una posizione diversa, perché aveva incontrato Moro e Moro nei suoi confronti esercitava un potere da fachiro indiano, lo sedava; lo riconduceva ad una logica meno irruenta, più tranquilla.

 

Ho letto una intervista recente di Vito Riggio. Venendo dalle Acli lui aderì all’Acpol di Labor. Come andò la vicenda degli aclisti siciliani? 

Marini non aderì; Carniti era quello più spinto. Donat Cattin  rimase sempre Dc; non segui la strada della scissione. Immediatamente dopo le elezioni del 1972, dopo l’insuccesso elettorale eclatante del MPL, diventai deputato; cominciai a chiamare alle mie riunioni Riggio, Cocilovo  e D’Antoni. Tanto è che qualcuno  dei miei amici mi diceva che perdevo tempo con questi che non erano Dc, ma io capivo che  erano  dei ragazzi molto intelligenti.

 

Volevi fare una azione di recupero? 

Poco alla volta poi riuscimmo, insieme con  Nicoletti a fare intervenire Macario, segretario nazionale Cisl, sulla struttura di Palermo, che era molto fatiscente, molto compromessa, e fare nominare D’Antoni commissario della fib Cisl  e poi commissariare la Cisl, quindi entrarono nella Dc attraverso la Cisl.

 

Dopo questa esperienza sei andato al governo Che rimane di quella esperienza? 

Rimane quella del Ministero del Lavoro che è durata di più e dove ho avuto spazio notevole dal ministro Enzo Scotti nel seguire vertenze importanti, con visibilità notevole. Poi una bella esperienza all’Agricoltura  con la delega alla Comunità Europea, con Marcora, un ottimo Ministro!

 

Non mi hai dato un giudizio della 675? 

Come tutte le leggi che si facevano e dovevano  confrontarsi con la realtà economica che tirava verso il nord. Era difficile. La ristrutturazione andava laddove le imprese c’erano. Una legge che giocò  molto a privilegiare  l’esistente.

 

Non dove  andava creato il nuovo anche con industrializzazione forzata?

Appunto.

 

Poi hai fatto il sindaco a Caltabellotta prima e dopo. Che rimane di quella esperienza amministrativa? 

La considero l’esperienza politica più coinvolgente; è quella che ti mette a contatto con i problemi reali e con la gente vera. Mentre nell’ attività parlamentare non vedi risultati nella attività amministrativa ogni tua  scelta lo provoca, lo vedi. Se promuovi la raccolta della spazzatura o scegli le imposte in un certo modo, hai risultati diretti. A me come sindaco si attribuiva un potere che andava al di là! Non c’ è limite di legge che possa impedire o bloccare. Una bellissima attività.

 

È stata  facilitata dalla esperienza  parlamentare? 

Svolgevo un ruolo di coordinamento tra i sindaci. Voglio ricordare anche la bella esperienza  seppure breve nel Cda di poste.

 

Nella  fase della ristrutturazione e privatizzazione di Poste quando cominciavano a svolgere servizi finanziari e diventavano banca ? 

Le Poste finirono di essere una struttura dello Stato finanziata sul bilancio dello Stato, diventarono  una Spa; dovevano trovare sul mercato le risorse  per vivere; cominciarono a fare attività para bancarie e assicurative. Fu una fase di passaggio durissima. Immagina il tipico postale che era abituato da una vita a timbrare i francobolli che si è trovato improvvisamente  di fronte ad un computer!

 

C’è stato un salto tecnologico ! 

Una bella esperienza. Poi ho cominciato a organizzare  cultura, a fare il presidente di  una fondazione tra le più importanti nell’ambito dell’arte contemporanea  e del teatro. Abbiamo due Musei con molte iniziative.

 

Come è la Sicilia oggi? Quanto assistenzialismo c’è? 

Il livello della classe dirigente ovunque è  quello che è. Manca la selezione. La mia storia politica è come quella di tutta la mia generazione sia Dc sia Pci e Psi; facevamo la scuola, l’apprendistato e la gavetta. Oggi si diventa classe dirigente  per un like e  per cooptazione; manca poi un riferimento culturale e ideologico. La Sicilia è sempre più una terra che non trova in sé lo possibilità di un suo sviluppo autonomo, proprio, una terra di consumo; continua ad essere terra di emigrazione e di assistenzialismo.

 

Però in passato c’erano state scelte positive con i poli industriali. Ricordo Peppino Sinesio per Porto Empedocle. 

Sicuramente la Sicilia è cambiata come il resto d’Italia, con tentativi importanti. Purtroppo non  sempre hanno avuto seguito,  spesso sono state isolate. Non hanno diffuso cultura imprenditoriale. C’ è stata anche una brutta  devastazione del territorio. Oggi c’è una maggiore attenzione. La prospettiva del turismo – che non è risolutiva per lo sviluppo – tuttavia aiuta.

 

Però l’agricoltura ha fatto passi avanti notevoli, ci sono prodotti siciliani affermati nel mondo, c’è stata una specializzazione produttiva? 

Ci sono stati risultati importanti nel vitivinicolo, nell’ortofrutta, nella agricoltura.

 

Hai scritto un bel saggio sulla rivista Intrasformazione su mafiopoli  e tangentopoli, titolato “Dc e mafia: dalla ‘svolta di Agrigento’ allo stragismo”, che cosa emerge dopo 30 anni dopo queste drammatiche vicende giudiziarie? 

Il dato di fondo è quello che ho cercato di scrivere, che la penetrazione della mafia era assolutamente evidente, storicamente consolidata, ma non si capì il cambiamento che era intervenuto  a metà degli anni Settanta, con una mafia  che diventava sempre più potente, pericolosa, autonoma e sempre più protesa a controllare settori della politica, piuttosto che ad essere al servizio come lo era stata storicamente. Ci dovette essere lo sforzo enorme della magistratura, di personaggi straordinari – se leggi ciò che ho scritto – assecondati dalla politica in quegli anni.  Il tema ha finito per essere spesso uno strumento di lotta politica. Quella unità che si trovò per combattere il terrorismo, qui non si trovò mai,  anche se era più difficile e perché le metastasi erano diffuse. Però ci fu il tentativo del Pci di strumentalizzare un fenomeno esistente.

 

Però è stata criminalizzata la Dc e il suo elettorato!

Non c’è dubbio. È un disegno politico: insieme a tangentopoli doveva  esserci mafiopoli. Non era inventata come non erano inventate le tangenti.  Il problema non erano le tangenti, ma la strumentalizzazione; ad un certo punto si pensò che incriminando  Andreotti e Mannino, il gioco di buttare  dalla torre la Dc diventava più facile. C’è molta obiettività in quello che ho scritto.

 

Che manca al Paese, oggi, in cui ha prevalso il vaffa di Grillo, con i limiti dei cinque stelle? Come può riprendere questo Paese? 

Manca una destra europea, manca una posizione moderata; nel Paese se la destra è quella di oggi, hai voglia di creare un sistema bene equilibrato;  e manca una sinistra che riscopra il linguaggio e la vocazione della sinistra che non è solo  quella della Ztl o delle élite, ma riaccenda un rapporto con la gente e le esigenze reali. E soprattutto mancano i luoghi di incontro della politica e delle persone. Manca una cultura democratica. Prevale il leaderismo. Oggi cambiano linea senza cambiare leader! Noi – tu lo sai bene – veniamo dalla esperienza di una grande tradizione democratica. Quando un leader sbagliava si apriva il confronto interno. Una delle caratteristiche, insieme a tanti difettacci, era che la Dc era contendibile. È avvenuto con De Gasperi che perde nel 1953 e viene messo fuori, avviene con Fanfani nel 1959 quando è presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario del Partito  e perde tutto, con Moro nel 1968 quando finisce il primo centro sinistra e  con De Mita che nel 1989 viene messo da parte. Se il partito è personale ed è tuo chi te lo può contendere!

 

Come  può essere Salvini prima trumpiano o poi forse diventare popolare europeo? 

Non puoi cambiare la felpa ogni volta.

 

Emerge in Sicilia qualche personaggio in grado di affrontare i tempi nuovi o dobbiamo rassegnarci? 

Francamente non ne vedo. Basta vedere le vicende delle elezioni di Palermo. Per fortuna il Pd è riuscito a  tirare fuori un candidato credibile e fare una alleanza con i 5 stelle seppure nella loro friabilità assoluta, non si capisce cosa porteranno, ma a destra ci sono quattro candidati sindaci. Dunque una lotta di potere con il coltello tra i denti.

Quindi una polverizzazione  del voto senza un coagulo positivo…

 

Maurizio Eufemi

https://beemagazine.it/romanzo-di-formazione-politica-di-un-siciliano-anglicizzato-calogero-pumilia/

La storia non può essere distorta o ignorata.

Ricordare La Torre vuol dire anche riconoscere l’impegno della Dc contro la mafia.


Non è accettabile questa tendenza a cancellare il contributo determinante del mondo democristiano alla definizione di strumenti legislativi idonei a combattere i fenomeni di stampo mafioso. I fatti stanno a dimostrare che la Dc ebbe idee chiare e apprezzabile coraggio.

 Maurizio Eufemi

 

Leggevo ieri sulla rassegna stampa un articolo di Giancarlo Caselli, commemorativo del compianto Pio La Torre, che merita qualche puntualizzazione.

 

È veramente curioso assistere a uno stravolgimento della storia. Mi limiterò ad alcune osservazioni elementari. Cominciamo dal titolo della legge, che Caselli assegna a La Torre; riscontriamo perfino la rimozione di Virginio Rognoni, Ministro dell’Interno, promotore della iniziativa governativa sottoscritta anche da Clelio Darida e Rino Forrmica, rispettivamente Ministri della Giustizia e delle Finanze.

 

Anche uno studente delle medie sa che senza l’avallo del governo quella legge non avrebbe fatto passi avanti. Al contrario, c’era la ferma volontà della Dc di portare rapidamente all’approvazione quel provvedimento in materia di legislazione antimafia. È sufficiente leggere gli atti parlamentari. La legge Rognoni-La Torre fu approvata in sede legislativa, quindi in commissione, sia alla Camera che al Senato.

 

Anche un bambino sa che basta il diniego di un gruppo parlamentare per non concedere la sede legislativa, determinando di conseguenza il passaggio “normale” in Aula (con allungamento dei tempi e incertezza sull’esito). Il gruppo Dc fu in prima fila e con tutto il suo peso parlamentare, avendo presentato una mozione di indirizzo firmata da tutto il Direttivo, con un ruolo determinante di Calogero Mannino nella stesura, al fine di sostenere e strutturare una strategia di lotta alla mafia dopo l’uccisione di Piersanti Mattarella.

 

Per capire il contesto è sufficiente leggere la relazione  Rognoni che accompagna il testo dell’articolato, compresi gli interventi nel processo penalistico. I relatori Dc furono Giovannino Fiori alla Camera e Learco Saporito e Mario Valiante al Senato. Nicola Mancino motivò la dichiarazione di voto Dc in Senato. Per la Dc intervennero nel dibattito La Penta, Agrimi, Coco, Vitalone, Calarco, La Russa e alla Camera Raffaele Russo, Zolla, Carlo Casini, De Cinque, Gitti, oltre ai Ministri anche i sottosegretari Giuseppe Gargani e Angelo Sanza.

 

Nelle commissioni riunite l’esame del testo inizia il 3 marzo 1982. Il 5 agosto viene esaminato in sede legislativa, poi subentra l’interruzione per la pausa estiva. A settembre sarà approvata. Dunque, molte congetture e scarsa adesione alla realtà: dobbiamo invece rendere omaggio all’impegno dei parlamentari Dc facendo ricorso correttamente, a dispetto di quanto detto o non detto da Caselli, a un atto di verità e di giustizia.

 

Semmai verrebbe da chiedersi, in questo frangente, dove sono gli amici di Virginio Rognoni. Perché non sentono il dovere di difendere la storia, prima ancora dell’ex Ministro? Per ora mi fermo più. Aggiungo solo che molti di questi avvenimenti li ho illustrati al Tribunale di Palermo sotto giuramento in un giorno particolarmente triste per me, il giorno successivo ai funerali di mio padre. E poi sono argomenti e rilievi che direttamente proposi, con precisione, al dott Caselli in un pubblico dibattito a Venaria Reale di fronte a centinaia di studenti. Troppo spesso, non potendo riconoscere i meriti della Dc, si tende a ignorare la storia.

 

Maurizio Eufemi

sul giornale online "Il domani d'Italia" del 2 maggio 2022

Luigi Gui e la formazione di una generazione di leaders cattolici democratici.

L’intervento di Renato Moro al convegno della Lumsa.

di Renato Moro - aprile 29, 2022


Un disguido, senza colpa di nessuno, ha portato alla pubblicazione non corretta del testo del prof. Renato Moro. La relazione che egli ha tenuto l’altro giorno (mercoledì 27 aprile) presso la Lumsa, è stata presentata in forma ridotta, con l’estrapolazione della sua prima parte. Ora, ritenendo questa soluzione non adatta alla lettura sul web, il prof. Moro ha chiesto di superare l’inconveniente attraverso la semplice sostituzione del testo: dunque, al posto dello stralcio viene qui riprodotta, sotto la responsabilità dell’autore, un’ampia sintesi della relazione. Si è altresì convenuto, in conclusione e comprensibilemte, di togliere dal sito la versione integrale della relazione.

 

Quello della formazione della generazione cattolica che entrò nella Dc al termine della seconda guerra mondiale e che sarebbe stata destinata a un ruolo di primo piano nella storia del paese rappresenta un problema affascinante al quale ho dedicato buona parte della mia attività di studioso.

In effetti, dopo il 1943, accanto agli ex-popolari, emerse, e fu decisiva (prima, nella fase costituente, poi all’interno del partito di governo e in una vasta serie d’istituzioni e associazioni), anche una élite realmente nuova. Luigi Gui fu uno di quei «giovani». Quello che sappiamo della sua formazione giovanile – lo vedremo immediatamente – corrisponde profondamente, direi quasi perfettamente, all’itinerario complessivo.

 

Quali sono i caratteri di questa generazione?

Come tanti dei suoi giovani coetanei, Gui si forma essenzialmente all’interno del mondo cattolico, nelle sue associazioni e istituzioni, nella Gioventù Cattolica e nella FUCI, la Federazione universitaria cattolica. L’associazionismo giovanile cattolico degli anni del fascismo, dati gli spazi ristretti concessi dal regime, puntò necessariamente sulla formazione individuale dei giovani, sulla dimensione spirituale, sulla pratica caritativa. Parlare dunque dell’associazionismo cattolico degli anni trenta come di una realtà antifascista sarebbe assurdo. 

Certo, c’è nell’esperienza familiare di alcuni di questi giovani qualcosa che li riconnette al passato pre-fascista e introduce qualche riserva verso il regime. Per Gui conta molto il ricordo della «reazione psicologica familiare» – sono sue parole – per l’assalto quadrista alla tipografia dove lavorava suo padre, ex-popolare: «una mattina, – racconta Gui -, andando a scuola insieme con lui all’angolo di Via Dietro Duomo, vidi tutto il materiale della tipografia rovesciato dagli squadristi sul selciato». Molti di questi giovani (e anche Gui, come Moro) faranno la «dura» esperienza – così si esprime ancora Gui – dell’aggressività fascista verso l’Azione Cattolica nel corso della crisi del 1931. Tuttavia, per loro, ormai, è l’orizzonte fascista l’unico orizzonte conosciuto, tanto che sembra pressoché impensabile che si possa prescindere da esso. 

Un amico fraterno di Gui come Giuseppe Dossetti, un amico che, per ammissione di Gui stesso, avrà un’influenza politica su di lui e che ha posizioni profondamente critiche verso il fascismo, ha raccontato di aver, un volta, fatto «i baffi» a un ritratto di Don Sturzo trovato sulla copertina di un libro. Gui, nelle sue memorie, usa un tono più misurato ma riconosce anche lui che, ancora alla fine del 1944, non aveva letto Sturzo. I giovani, insomma, non riuscivano a comprendere come si potesse restare ancorati a quelle che sembravano, al più, generose illusioni di un passato seppellito e destinato a non ritornare. 

Detto tutto ciò, però, la questione di una qualche «incompatibilità di carattere» tra Azione Cattolica e fascismo, come la chiamò il conte Dalla Torre, direttore dell’«Osservatore Romano», rimane. È vero: la formazione che si riceveva in essa era, quasi esclusivamente, religiosa. Tuttavia, è evidente che questa formazione, tutta spirituale, poteva giocare anche come una diaframma differenziante dal regime totalitario. 

 

Se le cose stanno in questo modo, quali sono, allora, i momenti decisivi e i contenuti determinanti per il passaggio di questi giovani dall’appartenenza religiosa all’impegno politico? 

La nuova generazione era stata abituata a filtrare l’attualità politica e sociale attraverso la propria mentalità religiosa. L’unico elemento stabile della loro cultura, immutato dal 1936 al 1943, fu l’anti-nazismo. Anche Gui racconta di essere progressivamente divenuto «specialmente antinazista». Emblematicamente, questo elemento fondamentale non era frutto di una precisa cultura politica, ma era eminentemente pre-politico, nasceva cioè dall’applicazione immediata di una sensibilità religiosa che vedeva nei nazisti i protagonisti di un rigurgito neo-pagano e anti-cristiano. 

Fu dunque la guerra, la guerra di un’Italia alleata del nazismo, a mettere in discussione l’autosufficienza della formazione religiosa. Quando nel 1939 Gui partecipò ai Littoriali, lo fece «per sostenere che l’Italia non doveva entrare nella guerra già iniziata dalla Germania di Hitler». Contrari all’intervento (anche Moro scrisse in quella fase parole eloquenti per la pace e contro la guerra), questi giovani, una volta che il paese entrò nel conflitto, sentirono che la nuova drammatica realtà imponeva una presa di coscienza e una qualche assunzione di responsabilità. Molti di loro parteciparono personalmente alla guerra, e lo fecero con patriottismo. Fecero però anche diretta esperienza dell’impreparazione, della vuota retorica, del militarismo fascista. Ho lavorato intensamente negli ultimi anni nell’archivio personale di Aldo Moro. Esso conserva migliaia di lettere degli anni di guerra di questo giovani. 

Ebbene, il fascismo, Mussolini, il regime non vi hanno alcun posto. Anche coloro che sono in procinto di partire per il fronte e che si dichiarano pronti a sacrificarsi per i compagni e per la patria, chiedono semplicemente vicinanza umana e preghiera, esigono al posto del “cameratismo” attenzione personale e affetto, non parlano di vittoria, esprimono, invece che il mussoliniano «odio al nemico», condivisione per le sofferenze di tutti i popoli, e addirittura simpatia per tutti i ragazzi che combattono come loro anche dall’altra parte della barricata, si augurano una pace prossima. Questi ragazzi non fanno e non farebbero mai azione clandestina antifascista; riaffermano però la lontananza dei loro ideali (quelli di un mondo futuro più giusto e più libero) da quelli, come dicono per sfuggire alla censura, «della massa». È un po’ come se, tra il fascismo e l’anti-fascismo politico, questa generazione fosse “altrove”, portatrice di un rifiuto morale ed esistenziale, e, in un certo senso, proprio per questo, ancora più abissale, della prassi e dei valori fascisti.

Gui fu ufficiale degli Alpini, fu destinato tra fine ’42 e inizio ’43 sul fronte russo. Racconterà di aver sentito quale odio i contadini russi nutrissero insieme per i tedeschi invasori della loro terra e per il tirannico regime comunista. La guerra dell’Asse non aveva dunque alcun significato. Quando, la sera del 25 luglio 1943, i suoi alpini andarono da Gui «a gridare esultanti sotto le finestre: “Sior tenente, i gà butà zo ganassa!», lo fecero sapendo che la loro felicità era pienamente condivisa. 

Il patriottismo, l’antinazismo, la rottura con i valori del fascismo, ma (almeno in questa prima fase) l’assenza di un orientamento politico preciso, sono dunque caratteri largamente ricorrenti nella esperienza non solo di Gui ma di tutti gli esponenti della futura seconda generazione democristiana. Il ruolo della guerra nel favorire il passaggio verso l’impegno politico fu infatti essenzialmente negativo. Essa costruì una nuova sensibilità, ma solo in senso pre-politico. Gui partecipò, anche se sporadicamente, tra il 1942 e il 1943, all’iniziativa di riflessione che si tenne a Milano, a casa di uno dei suoi professori, Umberto Padovani, nella quale erano presenti i suoi amici Dossetti, Lazzati e La Pira. L’obiettivo era quello di riflettere sulla situazione italiana e «ristudiare il pensiero cattolico alla luce della dottrina tomista», senza però entrare direttamente in politica: si trattava solo di fornire un «servizio culturale per i cattolici italiani». 

Dopo l’8 settembre, la scelta della Resistenza si collocherà essenzialmente sulla scia di queste premesse. All’inizio, la maggioranza di questi giovani (da Dossetti, a Moro, a La Pira, a Fanfani) avrebbe voluto continuare a dedicarsi all’impegno religioso e agli studi. Gui stesso ricorda «allora era fortemente attratto da un serio impegno spirituale nell’Azione Cattolica». Si convinsero poi all’impegno politico, con l’argomento della necessità di una testimonianza dei cattolici nell’opposizione al nazifascismo, dell’«esigenza pressante» – come ricorda Gui –  che l’Italia potesse risorgere «dai disastri di Mussolini e Hitler». Difficoltà con la politica di partito, insomma, permanevano, ma fu proprio il contesto resistenziale a fungere da acceleratore e a spingere definitivamente verso la politica e verso la DC, pur con una autonomia nettissima. 

 

Gui entrò dunque nella Resistenza. L’opuscolo che scrisse nel dicembre 1944, La politica del buon senso, costituisce una vera piattaforma delle posizioni della giovane generazione cattolica.

Cominciava programmaticamente con una riaffermazione del valore dello stato. Gui rifiutava nettamente la visione fascista di uno stato che si faceva «tutto» o rivendicava a sé l’individuazione della legge morale, ma ribadiva che lo stato era «indispensabile per il bene dell’individuo». Secondo punto era la riflessione sul «regime democratico-liberale», considerato, senza messi termini, «benefico», ma allo stesso tempo, caratterizzato da imperfezioni profonde, sia sul piano della mancanza di eguaglianza reale sia sul piano dell’autorità di governo minacciata dal prepotere dei partiti. Gui esaminava quindi le grandi alternative ideologico-politiche sul tappeto, riconosceva i loro valori innegabili, ma metteva in evidenza i loro precisi limiti: il liberalismo aveva sganciato la libertà dalla giustizia «trasformandola in licenza sfrenata» e aveva reso lo stato «superfluo e indifferente di fronte ai problemi che agitano la società»; la democrazia cercava l’uguaglianza ma mancava di dare al popolo una vera coscienza dei suoi doveri; il socialismo voleva la giustizia ma finiva per trasformare il cittadino in «uno schiavo, un numero, una semplice rotella dell’immensa macchina». 

Il fascismo si era proposto di «rafforzare l’autorità dello Stato e la solidità del governo» ma aveva finito per sopprimere e opprimere la libertà e negare i principi di uguaglianza. Non si poteva però tornare semplicemente indietro. L’esigenza posta malamente dalle dittature autoritarie di rafforzare lo stato era giusta: occorreva dunque rafforzare il potere esecutivo, assicurandogli una sufficiente indipendenza dal potere legislativo e dai partiti, come avveniva nella democrazia presidenziale americana. Gui suggeriva quindi – e la cosa non stupirà, se si è compresa la prospettiva di questa generazione – di guardare agli unici due partiti “nuovi” emersi sulla scena: la Democrazia Cristiana e il Partito d’Azione.

Partendo dallo scritto di Gui è facile comprendere perché una vera e propria querelle generazionale divise «giovani» e «anziani» (come li chiamava lo stesso Programma della Democrazia cristiana del 1943). Gli ex-popolari pensavano al cattolicesimo politico come ad un quid unitario, mentre i giovani sentivano come naturale la pluralità delle opzioni politiche. I primi pensavano al primato della politica, mentre i secondi preferivano il lavoro culturale e avevano una concezione della democrazia stessa in cui si insisteva sulla sua natura educatrice più che sulle regole del gioco ed il pluralismo (e proprio Gui, assieme ad Aldo Moro, sarà tra i più convinti e impegnati sostenitori della funzione centrale della scuola in questo senso). 

I primi proponevano come un dovere l’agitazione antifascista, mentre i secondi sentivano ancora un vincolo patriottico che impediva loro di sottrarsi al destino comune del paese. I primi guardavano al fascismo come a una parentesi, mentre i secondi ritenevano che il fascismo avesse dato risposte sbagliate a problemi nuovi e veri, ragion per cui non si poteva semplicemente «tornare indietro». I primi avevano come bussola la libertà politica, mentre i secondi insistevano sulla necessità di evitare il modello liberale in favore di una libertà “ordinata”. I primi volevano un sostanziale ritorno alla democrazia parlamentate, mentre i secondi consideravano quest’ultima responsabile della stessa vittoria dei fascismi, criticavano la «democrazia della scheda» e dei partiti, e preferivano forme nuove, «organiche», «economiche» di democrazia basate sulla rappresentanza professionale o tecnica, dai contorni – bisogna dirlo – piuttosto confusi. I primi insistevano sulla necessità di riportare lo stato super partes, i secondi insistevano sul grande valore di promozione, di mediazione, di iniziativa, di potenziamento e di completamento delle possibilità individuali fornito da uno «Stato nuovo» che risolvesse il problema cardine della politica del Novecento, quello del rapporto con le masse, trascurato dagli ex-popolari. I primi rivendicavano il primato dell’antifascismo nel suo complesso, mentre i secondi, pur non essendo nati antifascisti ma essendolo divenuti con la guerra e la Resistenza, insistevano sulla natura antifascista del partito cattolico, e sulla necessità di una dichiarazione antifascista di principio nella costituzione. I primi avevano un programma di restaurazione democratica, mentre i secondi aspiravano a dare un carattere “rivoluzionario” alla loro visione, anche con venature anticapitalistiche, e insistevano su un’idea della DC come partito “programmatico”. I primi si confrontavano con le sinistre nei termini politici dello scontro, del confronto o dell’alleanza, mentre i secondi provavano un’ansia di assimilazione dei valori del socialcomunismo e sentivano che la vera lotta non era sul terreno della repressione ma era essenzialmente battaglia sociale in mezzo alla classe lavoratrice. 

 

I «giovani» si collocarono non a caso pressoché tutti, come Gui, a sinistra nell’articolazione del panorama democristiano. Guido Formigoni, delineando il quadro politico dell’Italia della Guerra Fredda, ha delineato due grandi tendenze: il “partito dell’immobilismo”, che intendeva innanzitutto garantire lo status quo, e il “partito dell’evoluzione”, che pensava che, pur nelle condizioni difficili del paese, fosse possibile una strategia di riforme che allargassero gli spazi della democrazia. Luigi Gui, con il suo amico Aldo Moro, è stato certamente uno dei protagonisti di questo “partito dell’evoluzione”. Credo che questo non piccolo significato storico gli vada pienamente riconosciuto.

 

Renato Moro sul giornale online "il domani d'Italia" del 29 aprile 2022

Funzionerà il nuovo Parlamento ”amputato”?: Di Muccio, Eufemi, Gasparri, Pittella

Articolo di Mario Nanni tratto dal giornale online "beemagazine.it" del 20 aprile 2022

Intanto urge la riforma dei Regolamenti parlamentari. E poi sarà necessario modificare la Costituzione per eliminare il fenomeno delle Camere fotocopia. Ma non ci sarà riforma che valga se rimarrà la prassi "mostruosa" dei maxiemendamenti che strozza il dibattito parlamentare e svilisce il Parlamento. Bisogna tornare a Montesquieu.

Sono possibili “correttivi” del bicameralismo perfetto in termini di snellimento delle procedure, di una maggiore funzionalità delle Camere?

Certo, ma le procedure e i regolamenti non sono tutto, nel senso che non sono di per sé risolutivi. La funzionalità è anche, se non soprattutto, il prodotto di condizioni politiche, e di un effettivo rispetto della divisione dei poteri, senza l’abuso governativo del ricorso alle deleghe e dei decreti – legge, dei voti di fiducia e dei ripetuti casi “monstre” dei cosiddetti maxi emendamenti, che stremano e sviliscono al tempo stesso l’agibilità del lavoro parlamentare e gli stessi deputati e senatori.  E poi, sarà necessario porre mano alla riforma della Costituzione.

Fatta questa premessa, per chiarimento preliminare, e per evitare equivoci e sospetti di voler semplificare materie complesse, registriamo  dopo quelle pubblicate in un precedente sondaggio, altre risposte alle cinque domande poste da BeeMagazine.

 

Oggi rispondono: 

Pietro Di Muccio de Quattro, Direttore emerito del Senato e Ph. D. dottrine e istituzioni politiche, deputato nella XII legislatura;

Maurizio Eufemi, senatore nella XIV e nella XV legislatura;

Maurizio Gasparri, già deputato, oggi senatore di Forza Italia, già  capogruppo, ministro e vicepresidente del Senato;

Gianni Pittella, senatore del Pd, e già presidente del Gruppo socialista europeo e del Parlamento europeo;

 

1. Giorni fa si è vista questa scena (non nuova peraltro). Draghi la mattina è andato alla Camera per riferire sull’imminente Consiglio europeo e nel pomeriggio al Senato. Con il prossimo Parlamento ridotto, non si potrà evitare il doppione tenendo una seduta comune del Parlamento, tantopiù che i posti a sedere ci sono, quelli dell’attuale Camera (630)?

Di Muccio: Sono responsabile di aver coniato l’espressione “Parlamento amputato” per definire il Parlamento uscito dal referendum che ne ha ridotto a 600 il numero dei componenti. La definizione ha avuto un certo successo perché efficace nel linguaggio comune. Pertanto rispondo che, parlando in generale, le sedute comuni delle Camere amputate sono viepiù sconsigliabili perché mi appaiono prodromiche alla soppressione di una delle due. Sono un sostenitore del bicameralismo ed ho avversato l’amputazione del Parlamento anche perché sono certo che a breve (un decennio?) porterà (comporterà?) al monocameralismo.

Eufemi: Le comunicazioni del governo in quel caso prima del Consiglio Europeo sono disciplinate dalla legge relativamente alla fase ascendente e discendente sui rapporti con l’Unione Europea. Il problema è il voto dei documenti sotto forma di odg o risoluzioni, e le due Camere, pur con identiche procedure hanno rapporti di forza diversi nella composizione elettorale. Certamente alcune procedure potrebbero essere unificate. Analoga ripetizione si svolge per la fiducia al governo. Si pone il problema del monocameralismo che ha vantaggi ma richiederebbe la modifica costituzionale della forma di governo con il passaggio al presidenzialismo o semi presidenzialismo.

Gasparri: Il prossimo Parlamento dovrà rivedere molte cose, nelle sue regole, nei suoi riti. Certamente il taglio dei parlamentari produrrà effetti nefasti. Cittadini e categorie avranno meno interlocutori a disposizione. Il Paese capirà solo nel tempo di aver fatto un errore molto grave, che ridurrà la rappresentanza nei territori, prevarranno le grandi città, molte zone di provincia saranno senza voce, senza parlamentari. Molte categorie non sapranno con chi confrontarsi, e i pochi dovranno fare troppe cose. Il taglio dei parlamentari.

Pittella : Come noto, il bicameralismo perfetto o eguale fu immaginato dai padri costituenti dopo il fascismo per fugare scorciatoie decisioniste. Oggi tuttavia non trova paragoni nel mondo e non ha alcun senso. I cittadini hanno avuto prima la possibilità di esprimersi per la sua abolizione ma l’antirenzismo ebbe la meglio e poi viceversa hanno puntato su una riduzione del numero dei parlamentari senza modifiche delle  funzioni delle Camere. Una scelta totalmente irrazionale che aggrava semmai, di certo non risolve i problemi.

 

2. Per quali altre occasioni si potrebbe ricorrere, a parte quelle già costituzionalmente previste, a sedute comuni della Camera e del Senato?

Di Muccio : Nessun’altra.

Eufemi: Altre occasioni di unificare le competenze senza ricorrere a modifiche costituzionali sono le votazioni per i membri di autorità indipendenti, oggi votate separatamente. Faccio notare, incidentalmente, che il numero dei 630 deputati c’è dal 1963. Nelle precedenti legislature erano di meno. E cioè nel 1958 erano 596; nel 1953 erano 590; nel 1948 erano 574.

Gasparri: Le sedute comuni si potranno fare per tanti argomenti, non c’è dubbio. Però bisogna poi mettere mano alla Costituzione. Il che dimostra, e si evince dalle domande, che aver fatto il taglio dei parlamentari senza una riforma complessiva della Costituzione è stato un atto di idiozia vendicativa contro la rappresentanza parlamentare, e in definitiva contro la democrazia stessa. Il taglio dei parlamentari, lo ribadisco, è stato un idiozia, lo dico senza alcun interesse personale, dato che sto in Parlamento da varie legislature

Pittella: Certo oggi, col Parlamento a ranghi ridotti si potrebbero aumentare i casi di ‘sedute comuni’ per rendere il sistema più fluido ed efficace. Per cui rispondo positivamente ai temi che pone.

 

3. Anche per le audizioni di singoli ministri, che spesso vanno a riferire prima a una Camera poi all’altra, non si potrebbe ricorrere alle Camere riunite o a commissioni riunite del Parlamento.

Di Muccio: Per quanto detto sopra: commissioni riunite sì; Camere riunite no.

Eufemi: Le audizioni dei ministri già avvengono congiuntamente come avviene per la sessione di bilancio. Si potrebbe fare anche per la sessione comunitaria.

Gasparri: Già oggi avvengono audizioni nelle Commissioni Difesa ed Esteri in seduta congiunta dei ministri della Difesa ed Esteri. E’ una prassi già in voga e si può tranquillamente estendere.

Pittella: Penso che le audizioni del presidente del Consiglio e dei ministri ad esempio si potrebbero tenere ‘congiuntamente’. Così si potrebbe valutare se i regolamenti parlamentari possano prevedere anche dei limiti alla cosiddetta ‘navetta’ parlamentare.

 

4. Quali modifiche regolamentari Le vengono in mente per rendere più funzionale il lavoro parlamentare e più celere il meccanismo di decisione?

Di Muccio: Miglioramenti delle procedure parlamentari sono, ovviamente, sempre possibili, se sottoposti alla terapia dell’esperienza.  Tuttavia, l’idea che la funzionalità di un Parlamento sia l’altra faccia della celerità dei lavori parlamentari è sbagliata in sé, incoerente con l’essenza dell’istituzione, pericolosa negli effetti. Il “taylorismo normativo”, come lo battezzai trent’anni fa, appartiene alla degenerazione del “governo rappresentativo”. Il Parlamento è stato trascinato a fare cose che non dovrebbe fare, cioè “iperlegiferare”. Leggi copiose e migliori in minor tempo sono la contraddizione e l’illusione dei benintenzionati.

Purtroppo la disfunzionalità del Parlamento trova la causa ultima nel fatto di essersi trasformato in un “Grande Amministratore”, quale lo considerai già alla fine degli anni ’70 per effetto della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Da allora, alla luce dell’involuzione parlamentare, il mio giudizio è pure peggiorato, essendo il Parlamento assimilabile oggi ad una “Camera corporativa” in senso etimologico (senza allusioni!). Comunque, per dare un po’ di respiro all’elaborazione delle vere leggi e ai dibatti cruciali per la politica nazionale auspicherei che la procedura di discussione e approvazione del bilancio pubblico (certamente cruciale però insuscettibile di proficua discussione parlamentare per troppo evidenti motivi) fosse concentrata in un solo giorno di lavori parlamentari in ciascuna Camera: comunicazioni del governo, interventi politici, votazione nominale.

Così, prendere o lasciare. Governo viene da gubernator, cioè timoniere della nave. Il bilancio pubblico “pilotato” collettivamente da ministri e parlamentari ha una navigazione difficile, segue una rotta insicura, mette a repentaglio i naviganti, disperde il carico. Per forza di cose, come ognuno può vedere. A prescindere da eccezionali eventi.

Eufemi: Utilizzo più forte della sede redigente. Così da portare in Aula solo la fase deliberativa sugli articoli, lasciando al lavoro della commissione il compiuto esame istruttorio. Limitare il potere emendativo dei singoli, elevando il numero delle firme per potere presentare emendamenti oppure la firma del rappresentante del gruppo. Snellire la procedura della fase d’aula.

Gasparri: Bisognava cambiare prima la Costituzione e non fare questo taglio  lesivodei parlamentari per correre poi ai ripari. In successione, si è fatta prima la vendetta e poi si dovrà pensare alla strategia. Andava invece fatta una revisione strategica della Costituzione per rendere più funzionale ed efficiente la democrazia. Adesso si metteranno delle pecette, che saranno peggiori del danno fatto.

Pittella: Non sono particolarmente un esperto di regolamenti parlamentari. Però sento di dover dire due cose:la prima è che già oggi il bicameralismo viene di fatto parzialmente e surrettiziamente superato dal fatto che i principali provvedimenti arrivano a una sola delle due Camere e poi all’altra con testo blindato. La seconda è che per superarlo davvero tutte le strade regolamentari o di prassi sono vicolo senza uscita se non si cambia davvero la Costituzione.

 

5. Basterà cambiare i regolamenti o bisognerà modificare la Costituzione?

Di Muccio: La domanda è vasta e complessa. Rispondo sui Regolamenti parlamentari. Questi devono essere cambiati. Adattarli alle nuove Camere è indispensabile non solo affinché la composizione degli organi interni sia proporzionata, ma anche per le conseguenze che il proporzionamento determinerà sul loro funzionamento.

Eufemi: Entrambe le due cose. La riforma dei regolamenti è urgente e indispensabile per garantire la funzionalità delle Camere dopo la riduzione del numero dei parlamentari. Occorrerà ridurre il numero delle commissioni accorpandole per materia, altrimenti non saranno in condizione di operare. Per la costituzione è necessaria una assemblea costituente o in alternativa una grande convergenza delle forze politiche su punti essenziali della riforma costituzionale.

Gasparri: Ho già risposto alle domande precedenti. Ormai il danno è fatto. Vedremo che cosa si potrà fare. Ma forse è il Paese che ha fatto una scelta sbagliata, e deve prima assaggiare le conseguenze dell’errore fatto. Poi capiranno

Pittella: Non tutto si può fare cambiando solo i Regolamenti, che pure vanno aggiornati e adattati alla nuova fisionomia, anzitutto numerica, del Parlamento che verrà. Come ho detto, per incidere, bisognerà fare modifiche alla Costituzione. Spero che il prossimo Parlamento ci provi davvero poiché credo che ormai la coscienza pubblica è piuttosto matura ormai.

Mario Nanni – Direttore editoriale

L’impegno parlamentare? Vissuto con passione. Politicamente devo tutto a Fanfani”. Hubert Corsi conclude il suo racconto.

 

di Maurizio Eufemi - tratto  dal giornale online "Il domani d'Italia" (www.ildomaniditalia.it) -

 

Tra ricordi e considerazioni attuali, il dialogo con Hubert Corsi permette di tracciare il substrato dell’esperienza democristiana. Quel che viene rappresentato va oltre il dato locale: si rifrange in altre esperienze, diverse nelle forme e affini nei contenuti, che descrivono il “panorama” del partito cardine del secondo Novecento italiano. Di seguito riportiamo la seconda parte dell’intervista.

 

Che cosa ha fatto Fanfani per il collegio? 

Era il capolista del collegio. Ha fatto tanto per la riforma agraria come Ministro dell’Agricoltura. Era molto attaccato alla provincia di Grosseto. 

Quando aveva le “sue” pause in politica – nel 1959 voleva lasciare tutto! – era nel suo ambiente e territorio che trovava le motivazioni più forti per rimettersi in cammino. Sì, quando sentiva l’urgenza di un impegno rinnovato, partiva sempre dalla provincia di Grosseto dove sapeva che aveva tanti amici. E dunque era da qui che ripartiva galvanizzato. Aveva come riferimento Enea Piccinelli, parlamentare, un grande e bel personaggio della vita politica locale, sempre molto lucido, sempre pronto a muoversi in azione. Quando ha lasciato il parlamento nel 1983 è ritornato alle origini, all’impegno nella Azione Cattolica e nel sociale, alla famiglia. Adesso, per molti mesi all’anno, vive a  Piancastagnaio sull’Amiata tra la sua gente.  

 

Anche Malfatti  veniva spesso? 

Sì, veniva perché si era sposato con la marchesa Spinola che aveva una tenuta Orbetello. 

 

Veniamo a te. Quando sei entrato in Parlamento? Come la ricordi la esperienza? 

Vi entrai nel 1983 perché non si presentó più Enea Piccinelli, con il quale avevo molto e a lungo collaborato, sicché fu proprio lui ad aiutarmi lasciandomi il testimone. 

 

Sei stato relatore di diversi provvedimenti…

Ero in commissione Industria e nell’ambito della Dc avevo competenza sul comparto energetico-minerario. Tutti i relativi provvedimenti toccavano a me: l’Enea, la geotermia, l’energia, ecc… 

 

Nei giorni scorsi con la crisi energetica si è parlato in tv di geotermia del Monte Amiata come fonte di energia. Si potrebbe sfruttare di più o vi sono troppi vincoli? 

Si dovrebbe sfruttare di più sia la parte ad alta entalpia, che produce energia elettrica, come pure la bassa entalpia, con cascata di vapore per alcune industrie come le serre, gli allevamenti di pesce…Sono tanti gli impieghi da poter mettere in cantiere. Invece, è la parte che non è stata assistita abbastanza, neppure dall’Enel che su questa attività, nelle provincie di Siena Arezzo Grosseto e Pisa, aveva storicamente il monopolio. In particolare, nasce a Larderello l’esperienza più grande e significativa: da qui, addirittura a partire dal ‘700, si avvia lo sfruttamento finalizzato allo sviluppo del territorio. Ecco, invece di concentrarsi solo nell’alta entalpia, con una monocoltura che altro non dava, si dovevano sviluppare esperienze diverse, come quelle legate alle piccole imprese di teleriscaldamento. Dunque, la scelta di fornire energia gratis non doveva precludere la possibilità di incentivare e sostenere le piccole attività manifatturiere. 

 

Come un distretto? 

Non lo abbiamo realizzato ed è stato un errore gravissimo. 

 

Che si dovrebbe fare per rimuovere questi freni? 

Occorre un aggiornamento della legge del 1986, di cui per altro sono stato relatore. Le competenze in materia sono passate alle Regioni. Soprattutto in Toscana, in Alto Lazio  e in Campania sono diverse le zone dove si dovrebbe pensare ad usi diversi dalla (sola) produzione di elettricità. Non è facile, me ne rendo conto. Si tratta di far crescere una piccola imprenditorialità che al momento risulta poco diffusa o comunque non adeguatamente strutturata.  

 

Sono osservazioni molto puntuali, segno di studio e dedizione politica. Il compito del legiferatore non sempre è conosciuto ed apprezzato. A tale riguardo, quale è il sentimento più vivo della tua esperienza parlamentare?

Teniamo presente che nel 1983 la Dc aveva perso molti voti. Tra gli eletti serpeggiava un qualche avvilimento, ma nell’occcasione entrò una covata di giovani deputati ai quali fu data la possibilità di mettere in evidenza il valore della loro formazione. Si tratta di ex colleghi – non mi avventuro nelle singole citazioni – di cui ricordo bene lo slancio e la preparazione. 

 

Gli anni ottanta sono stati anni di sviluppo importanti per la crescita. Furono operate scelte importanti sia in politica estera che in politica economica. Adesso, con la guerra in Ucraina, riemerge il price cap. Rammento che tu ponesti questo problema nel 1992 nella famosa risoluzione parlamentare sulle privatizzazioni…

Quell’intervento ci costò parecchie nottate passate a discutere, a confrontarci sui vari passaggi, a limare le singole proposizioni. Fu svolto un lavoro di analisi e di sintesi particolarmente accurato. Se la risoluzione fosse stata rispettata, come d’altronde era nei nostri auspici, oggi avremmo molti meno problemi. 

 

Si riuscì comunque a difendere i settori strategici dello Stato.

Sì, parliamo delle telecomunicazioni, delle banche, delle autostrade: si convenne che l’interesse della comunità nazionale, e quindi dello Stato, dovesse pesare in questi ambiti oltremodo delicati. In effetti, la risoluzione fu anticipatrice delle esperienze che in seguito hanno avuto il loro corso. 

 

Non puoi lamentarti, hai collaborato alla definizione di una giusta e opportuna strategia di tutela a proposito di alcuni fondamentali “beni” del Paese. Lavorare in questo modo   rende tutti più soddisfatti, sia dal lato degli eletti che da quello degli elettori. Tuttavia, una volta conclusa l’esperienza parlamentare, a cosa ti sei dedicato?

Beh..non sono rimasto con le mani in mano. Ho avuto anche la fortuna di fare il sindaco di Monte Argentario. Guidare un comune vuol dire imparare a misurarsi con i problemi, stando quotidianamente a contatto con la gente. È fare politica, ancora una volta, ma con il fiato sempre sul collo. Un’esperienza unica, spesso complicata, che riserva amarezze non attese ma anche gratificazioni impensate.   Poi, finito il mandato amministrativo di Sindaco, dal 1995 mi sono dedicato totalmente alla Croce Rossa di Grosseto.

 

Mi pare di poter dire, conoscendo il lavoro da voi svolto come Croce Rossa, che siete all’avanguardia per quanto riguarda l’attività di sostegno al territorio. 

Devo dire che il nostro comitato e con esso i vari comitati territoriali – una decina in tutto – lavorano molto bene garantendo alle popolazioni un livello più che rispettabile di tutela e assistenza. 

 

Un fiore all’occhiello anche durante l’emergenza del Covid…

Direi proprio di sì. Abbiamo apprezzato la grande capacità dei volontari di vincere la paura. La grande paura di aiutare gli altri, nei modi possibili, come portare la spesa, le medicine, ecc…alle persone anziane o prestare soccorso agli ammalati di Covid, assistendoli nel passaggio da reparto a reparto. Sono stati eroici. In provincia di Grosseto abbiamo 5000 volontari. 

 

E i giovani ci sono? 

In effetti, nel periodo più duro del Covid si sono avvicinati molti giovani. L’accesso alla Croce Rossa non è facile. Non paghi una quota come per altre associazioni, ma devi fare  un corso e superare un esame. È una procedura complessa che non ha riscontro in campi analoghi. Altrove è tutto più semplice. 

 

Prendete figure particolari? 

Sono tutte figure specializzate. I soccorritori devono gestire le cosidddette manovre salvavita, per questo sono formati alla conoscenza e alla pratica delle specifiche procedure di sicurezza. Se li metti in condizione d’indossare una divisa, importante e rispettata, spetta ad essi dimostrare fin da subito di essere all’altezza della funzione assegnata. 

 

Siete andati in Ucraina? 

Alcuni di noi sono andati, ognuno con elevata capacità professionale. La CRI nazionale ha scelto una strada ben precisa: chiede fondi, non oggetti. In altri termini, preferisce evitare di “caricarsi” di donazioni che di per sé sono belle, ma nell’insieme possono dar luogo a combinazioni antieconomiche. Serve ottenere un corretto margine di efficienza. Non bisogna spendere più di quello che hai trasportato lungo un viaggio di oltre 2000 chilometri. Per questo anche la logistica è fondamentale: tende, medicinali, viveri, vanno organizzati e gestiti con la massima oculatezza. Allora, come dicevo, la professionalità non è un optional.

 

Bene. Permettimi di riprendere, andando alla conclusione, il filo della politica. Che cosa ti rimane di Fanfani? 

Devo tutto a Fanfani, è stato uno dei miei maestri. 

 

Raccontami un aneddoto…

Una sera, a chi tra di noi si lamentava perché dovevamo incidere di più sulla vita politica, anche del nostro partito, volle spiegare quanto aveva inciso la provincia di Grosseto nella storia della Dc. 

Il gruppo di amici che poi avrebbe dato vita alla “comunità del Porcellino” si era riunito a Bologna. Oltre a Lazzati, La Pira, Fanfani e Dossetti, ce n’era un altro che ho dimenticato: la memoria, purtroppo, non mi soccorre. Quella riunione, svolta nel periodo della clandestinità, doveva sciogliere la riserva circa la convenienza e correttezza dell’assegnazione alla Dc dell’aggettivo “cristiana”. Per loro era troppo impegnativa. Volevano un altro nome. Allora incaricarono Dossetti di andare a rappresentare questa posizione a De Gasperi. Dossetti parte con la macchina verso Roma e sceglie di prendere la strada per Firenze passando per Siena e Grosseto. Ebbe però un incidente a Civitella Marittima: la strada bianca e dissestata, quella tra Siena e Grosseto, era delle peggiori che si potesse immaginare. Non poté ripartire per Roma e neppure poté, di conseguenza, partecipare all’incontro di partito dove avrebbe dovuto informare De Gasperi del loro “verdetto”.

 

È un episodio conosciuto…

È vero, ma non sai quello che aggiunse Fanfani. “Attraverso le vostre strade così disastrate – disse – siete stati determinanti nella storia della Dc. Avete determinato un indirizzo che ha segnato nel profondo la nostra storia”. Immagina il suo sorriso sornione! Poi sarebbero arrivati  i finanziamenti per migliorarle. Civitella Marittima se lo meritava: per i camionisti passare di li, con quei tornanti pericolosi, era una maledizione. 

Fanfani ce lo raccontò a cena dopo un comizio. Così come ricordò la vicenda del rogito di Capalbio, quell’atto lunghissimo di venti pagine che aveva dovuto copiare da bambino. C’è un collegamento ideale. Da Pieve Santo Stefano, il suo paese d’origine, partivano le greggi transumanti verso la Maremma. Anche quel percorso doveva essere un incubo, forse per le greggi ma sicuramente per gli uomini.

 

Per leggere la prima parte dell’intervista (14 aprile 2022), clicca qui

A proposito di gas

Dopo il primo shock petrolifero del 1973, si pose il problema di garantire maggiori riserve di gas per soddisfare la più forte domanda invernale rispetto ai mesi estivi.

Il Ministro dell'industria Ciriaco De Mita presentó un disegno di legge (ac 2705) che fu approvato in due sedute in sede legislativa sia alla Camera che al Senato diventando la legge 36 aprile 1974 n. 170. Relatori furono Enzo Erminero alla Camera e Francesco Merloni al Senato.

L'Italia, in quel tempo, produceva 14 miliardi di metri cubi di gas, il 13 per cento dei consumi, diversificando gli ulteriori approvvigionamenti tra Olanda URSS Libia e Algeria. La Libia forniva 3 miliardi di metri cubi e L'Algeria ne avrebbe fornito 22 miliardi entro il 1978.

Lo stoccaggio fu individuato nei siti di gas naturale dismessi. Una soluzione intelligente e economicamente conveniente.

La prima repubblica sapeva dare risposte concrete senza clamori.

Dialogo di Maurizio Eufemi con Giacinto Urso, “Grande democristiano” con modestia

Ricordi di De Gasperi, Moro, dei protagonisti della Repubblica, del lavoro parlamentare, della politica vissuta "come servizio per il prossimo". "La politica è anche scienza. Va imparata con umiltà e serietà". La lezione morale di don Tonino Bello.

 

Caro Giacinto, ti sento in forma e con una voce squillante!

Caro Maurizio, mi difendo come posso. Sono in forma come i gelati, che però, facilmente si squagliano.

 

Tu che fai in Piemonte?

No, Presidente, non sono piemontese, ma sono stato eletto senatore nel collegio senatoriale di Chivasso, Chieri, Settimo Torinese, comprendente 44 comuni e 240 mila elettori con un sistema economico avanzato e plurisettoriale. Il mio collegio di deputato della circoscrizione elettorale delle Province di Lecce, Brindisi, Taranto contava, tra Comuni e frazioni, 160 centri abitati!

 

Nei giorni scorsi abbiamo celebrato De Gasperi a Viterbo, lo hai conosciuto?

Sì. Venne a Lecce per un comizio nel dopoguerra. Precisamente il 22 febbraio 1948 in vista delle elezioni del 18 aprile. Tornò nel giugno del 1951. Visitò anche Taranto, dove pose la prima pietra per l’utilizzazione irrigua del fiume Tara, che rese coltivabili 4000 ettari!

 

Come lo ricordi?

Pronunciò a Lecce un bellissimo discorso. Concetti chiari e pensieri lunghi di grande Statista. All’inizio il suo dire sembrava stentato per poi esplodere in una oratoria densa di concretezza e di lungimiranza.

 

Come è stato il tuo avvicinamento alla politica?

Attraverso una intensa, ricca militanza nell’Azione Cattolica, che in quei tempi lontani concedeva appropriata formazione a vasto raggio e che faceva assaporare le bellezze dei sistemi democratici. Decisivo fu un corso formativo, tenuto nell’Arcidiocesi di Otranto, che ebbe illuminato relatore il giovanissimo Aldo Moro, docente universitario in quel di Bari.

I suoi pensieri – si era nel 1945 del secolo scorso – aprivano la mente verso conquiste democratiche e strumenti di comunanza politica, illuminati dal richiamo ai principi sociali e cristiani. In seguito, il mio impegno trovò consolidamento, seguendo gli insegnamenti di due grandi spiriti eletti: il giurista Giuseppe Codacci-Pisanelli e il docente di scienze naturali Beniamino De Maria.

 

Moro, che era nato a Maglie, che rapporti aveva con il Salento? I salentini lo consideravano ormai “barese”?

Anche se nella designazione dei candidati per l’Assemblea Costituente non si volle Moro candidato a Lecce, la radice magliese l’ha tenuta, la culla di Maglie non l’ha mai dimenticata, anche se ormai insegnava a Bari e li svolgeva la sua attività prevalente.

 

Cosa pensi della statua che Maglie ha dedicato Moro in figura intera con il quotidiano “L’Unità” sotto il braccio?

Lo scultore è stato ardito. Non c’era un fine politico; lo scultore non aveva una doppiezza politica. Era solo per ricordare la fase della solidarietà nazionale senza secondi fini.

 

Dopo l’Azione Cattolica che hai fatto?

Ho militato da dirigente nella Democrazia Cristiana nella mia natale Nociglia. Poi nella Segreteria provinciale di Lecce, che nel 1957, mi ebbe sua guida per passare nel 1963 a Deputato della Repubblica e a consigliere nazionale del Partito, facendo tutto, passo dopo passo.

 

Che ricordi hai della esperienza parlamentare?

Soprattutto ebbi la consolazione, io minuscolo giovane di periferia, di essere accanto a personalità di livello nazionale e internazionale. Si chiamavano, ne cito alcuni, Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giovanni Leone, Berlinguer, La Malfa, Pacciardi, Saragat, Pertini, Malagodi, Almirante, e tanti altri di alto sentire e di grande tradizione democratica.

 

Chi era il tuo punto di riferimento?

In testa, Aldo Moro, nato a Maglie, cioè nella stessa provincia. In seguito, anche Paolo Emilio Taviani. Mi preme aggiungere che nelle collocazioni parlamentari seppi mantenermi un po’ al di fuori di radicali posizioni correntizie spesso esasperate e dispersive. Lo spirito unitario mi fu legge suprema e rispetto di tutti regola costante.

 

Che cosa seguivi in Parlamento?

Potrei dire tutto. Con diligente presenza e con misura del mio essere, mai disposto a strafare. Espressi specifico interesse per la sanità, per gli atavici problemi del Mezzogiorno, dimenticato, per gli Enti Locali, base della democrazia popolare, per i bilanci e i regolamenti interni della Camera, e spiccatamente per l’artigianato, forza propulsiva spesso dimenticata.

Nelle mie cinque legislature, ho preferito sempre far parte della Commissione Igiene e Sanità della Camera dei Deputati, che ho presieduto per sette anni e che mi ha concesso di contribuire al varo della grande legge 833 del dicembre 1978, che istituì l’attuale Servizio Sanitario Nazionale, una riforma epocale, compromessa in seguito, nella gestione pratica, affidata alle Regioni, che l’insigne Saverio Nitti, presidente del Consiglio, prima del nefasto ventennio fascista, considerava in sede di Costituente “funghi della confusione”. Colgo l’occasione per ricordare chi sostenne il mio lavoro con generosità: Tina Anselmi, Maria Eletta Martini e Danilo Morini.

 

Al termine dell’esperienza parlamentare quali altri incarichi hai ricoperto?

Mi piace precisare che – assolte cinque legislature – pur essendo in buona salute politica, rinunciai a rendermi nuovamente candidato, ritenendo che è doveroso il ricambio per agevolare, a buon diritto, altri meritevoli.

In più, ho sempre creduto, aspetto non facile, che conviene scendere da cavallo quando si è forte in sella e prima di incorrere in qualche ruzzolone obbligato. Terminato il periodo parlamentare, sono stato chiamato a Presidente della Provincia di Lecce, poi a Presidente della Società provinciale dei Trasporti e in seguito, per undici anni, a Difensore Civico della Provincia. Mi fu assegnata dal presidente della Repubblica, Oscar Scalfaro, la nomina “motu proprio” di Cavaliere di Gran Croce, massima onorificenza della Repubblica Italiana.

Anche io ho conosciuto a Treviglio un saggio, preparato efficientissimo difensore civico, che faceva tanto bene. Purtroppo, dopo una breve sperimentazione, la difesa civica, così necessaria sul piano del controllo è stata posta da parte, pur essendo valido scudo per i diritti dei cittadini e per il controllo del pubblico potere amministrativo.

 

Nei vari incarichi hai lasciato il testimone a qualcuno dei tuoi discepoli?

Non mi sono sentito mai un maestro. Ho avuto, però, molti preziosi collaboratori, che si sono fatti avanti per i loro valori e forse pure per quel poco che sono riuscito a fare e a concedere loro. La politica non può ammettere regie successioni.

 

Giacinto, chi fa politica deve sacrificare la famiglia. A te ha pesato?

Senza dubbio. Per 21 anni di attività parlamentare potrei dire che ho lasciato quasi “vedova” mia moglie Rosaria, ora nei cieli assieme all’unico figlio, Vito. È stato duro il sacrificio. Ogni settimana: due notti in treno. Ho usato poco l’aereo. Quattro giorni a Roma e tre giorni a Lecce e Nociglia. Porta di casa sempre aperta. Code di cittadini da ascoltare, che arricchivano la conoscenza dei problemi. Al Sud così si usa. Non si trattava di clientele, ma di utili raccordi popolari, fecondi per chi fa politica.

Ho accennato ai sacrifici, ma tante sono state le soddisfazioni. Servire, attraverso la politica, il prossimo. Si sparge carità, cioè amore. Lo ricordava don Tonino Bello, mio comprovinciale, di recente proclamato Venerabile.

 

Che giudizi dai di questa classe politica dell’oggi?

Senza atteggiarmi a giudice, non li condanno del tutto. Confiscati i partiti, sbiaditi i sindacati, quasi chiusi gli oratori, resa cioè esule la politica, si è spenta la formazione, agevolando la improvvisazione e l’avventura. La politica è anche scienza. Va imparata con umiltà e serietà. Non solo,  mai si deve scordare che una democrazia, che abolisce quello che chiede l’articolo 49 della nostra Costituzione è una democrazia stentata, che – tra l’altro – non può essere rimpiazzata dalla lebbra delle liste civiche o dell’attuale “civismo” ultima manifestazione dei voltagabbana di turno, impastata di cinismo.

 

Mi viene a mente De Gasperi che nella sua umiltà andava a casa di Sergio Paronetto in Via Arno ad apprendere lezioni di economia! Senza dubbio l’umiltà è il sale della buona politica.

 

Che ricordi ancora della Azione Cattolica?

Profonda nostalgia dei Gedda, dei Caretto, dei Bachelet, Veronese. Del servizio reso all’Italia e alla democrazia italiana, facendo amare la Chiesa, il Papa, ma anche le libertà civili. Al momento, con tristezza, vedo troppe noncuranze in proposito.

 

In finale, che ti piace ricordare?

Tanto e molto. Con un particolare. La grande amicizia con te, Maurizio, che salvavi tanti bisogni e tante mancanze di noi parlamentari, quando ti spendevi negli uffici dei gruppi della Democrazia Cristiana a Montecitorio. Eri un “salvagente” che accomuno all’On. Elisabetta Conci, deputata a sorvegliare le nostre presenze in Aula e nelle Commissioni.

Bei tempi. Straordinari davvero.

 

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Questo è Giacinto Urso, un quasi centenario che ha pubblicato Storia e Storie il suo costante dialogo con i cittadini attraverso il Nuovo Quotidiano di Puglia. Ricorda sempre i pensieri di don Tonino Bello, già arcivescovo di Molfetta, che veniva considerato un antipolitico mentre aveva il culto della politica.

In una lettera personale a Giacinto Urso scriveva: ” … continua ad alimentare le speranze della povera gente in un mondo più pulito e più libero e più giusto. Chi è incontaminato può farlo. Quindi tu lo puoi. ! Coraggio”.

Di don Tonino Bello voglio citare due massime:

“Dobbiamo vivere il presente come uomini venuti dall’avvenire”;

“Noi nasciamo vecchi, bisogna cercare di morire giovani”.

La nostra battaglia, per contrastare i comunisti, metteva in campo ragione e passione politica”. Intervista a Hubert Corsi.

 Cosa significava essere cattolici e democristiani in un territorio dominato dai “rossi”? Qual era il messaggio che la Dc portava tra la gente? Come è cresciuta una generazione di quadri militanti e dirigenti? Hubert Corsi, più volte deputato e sindaco del Comune dell’Argentario, ripercorre le tappe della sua esperienza pubblica fin dalle prime battute nel Movimento giovanile dc.

Di seguito pubblichiamo la prima parte dell’intervista.

 

Partiamo in questo viaggio retrospettivo, caro Hubert, da cose lontane nel tempo.

 

Oggi ho 84 anni, sono della generazione del 1938.

 

Ecco, parliamo degli inizi, grosso modo collocando la vicenda che ti riguarda attorno agli anni cinquanta: come nasce il primo impegno politico?

 

Mi sono iscritto  alla Dc perché ero molto interessato alla politica. Vivendo in un piccolo comune, quello di  Montepescali (Gr), venivano molti personaggi che facevano comizi: la gente si portava le sedie in piazza perché era anche un piccolo spettacolo.

Il primo episodio è del 1953. Venne Luciano Blanciardi  e Carlo Cassols. Il primo era direttore della biblioteca di Grosseto e il secondo era stato anche mio professore al liceo. Avevano aderito a Unità popolare, quella formazione che risultò decisiva nel 1953 per la sconfitta di De Gasperi e della sua “legge truffa”. Io in verità continuo a chiamarla legge maggioritaria: il tempo delle  truffe viene dopo.

Quella legge, infatti, assicurava stabilità poiché conferiva il premio a chi raggiungeva la maggioranza assoluta. Dopo si è passati all’attribuzione del premio a chi prendeva molto meno, tanto che la logica adottata assomiglia a un rovesciamento di quadro evocativa, intrinsecamente, di uno scenario da colpo di stato.

 

Mi raccontavi che De Gasperi venne dalle tue parti attorno 1951 e 1952. Quale fu la circostanza.

 

Era il tempo del centrismo, oggi rivalutato per il portato innovativo delle scelte compiute dalla classe dirigente raccolta attorno a De Gasperi. Pensiamo, ad esempio, alla riforma agraria. Grazie ad essa, ricaddero sulla Maremma investimenti dello Stato che non avevano riscontri nella storia. De Gasperi venne ed illustrò la riforma che incideva complessivamente su 742 mila ettari, di cui ben 178 mila riguardavano la Maremma (quasi il 18 per cento delle superfici coltivabili). I proprietari erano grandissimi latifondisti con 14 mila e 7 mila ettari.

Fanfani ci ricordò che uno dei primi atti che fece da piccolo – aveva 12 anni – su richiesta del babbo notaio, fu quello di copiare un atto notarile di ben 20 pagine, tanto era estesa la proprietà in oggetto. Quel rogito rimase impresso nella mente di lui adolescente. La fatica della trascrizione, avente per oggetto una tenuta di Capalbio colpita dalla riforma agraria, determinò la scoperta della maremma.

 

Quanto ha inciso la bonifica sull’Italia del dopoguerra?

 

Fu un fatto notevole, per quel che ci riguarda. Sorse l’acquedotto del Fiora, furono realizzati chilometri e chilometri di strade, si avanzò a grandi passi sulla via dell’elettrificazione. Non mancarono le tensioni tra maggioranza e opposizione. Lo scontro rivelò tutta la distanza esistente tra democristiani e comunisti. La Dc puntava sulla famiglia diretto-coltivatrice, e quindi su una classe media che poi sarebbe diventata imprenditrice di se stessa. Il Pci, invece, rifiutava l’assegnazione diretta delle terre alle famiglie preferendo il ricorso a cooperative immaginate alla stregua di Kolkhoz, ovvero delle proprietà collettive sul modello sovietico.

 

Diciamo…una visione culturale diversa.

 

Direi proprio di sì. Comunque la storia ci ha dato ragione, visti gli sviluppi e i riscontri successivi. L’aiuto dello Stato, specialmente attraverso i nuovi strumenti messi a disposizione della riforma agraria, fece crescere una nuova generazione di coltivatori diretti. Gli Enti di sviluppo, cui si dedicò sapientemente Tommaso Morlino, fornirono agli assegnatari quel supporto che mai prima di allora era stato dato. Nacquero diverse cooperative di produzione, servizi e  commercializzazione.

Se vieni in provincia di Grosseto trovi il caseificio di Manciano, trovi la cantina del Morellino di Scansano, la cantina di Pitigliano. Trovi, in sostanza, i modelli che risalgono a quella intuizione.

Il Presidente della cantina di Scansano che fattura milioni e milioni di euro di un vino che è ormai famoso in tutto il mondo è figlio di un coltivatore diretto.

 

Hanno saputo adeguarsi ai tempi nuovi e diventare impresa agricola?

 

Esattamente!

 

Era la visione, appunto, di La Pira e di Fanfani…

 

Sì, quella che tu chiami visione entrava poi nel “concretismo” della politica. La Pira puntava al lavoro come esperienza che non doveva tradursi in concezione ed immagine di dannazione, ma come il principale fattore per esplicitare la dignità dell’uomo. Dunque, a conferma di tale impostazione, nascono i villaggi di assegnatari dove c’era la chiesa, l’officina, il bar, i vari punti di servizi…Le persone potevano riunirsi e fare vita sociale.

 

 

Diventavano comunità.

 

Se vai al centro del villaggio Rispescia, ex riforma agraria, al centro trovi una fontana che reca una scultura in bronzo di un cinghiale. È la riproduzione del cinghialino di Pietro Tacca che sta a Firenze. La portò La Pira come Sindaco di Firenze quando venne inaugurato il villaggio nel 1953 alla presenza dello stesso Fanfani.

 

E tornando agli aspetti più direttamente politici?

 

La battaglia tra noi e i comunisti era serrata. Teniamo conto che dovevamo misurarci con una presenza robusta dei nostri antagonisti. Noi, in realtà, le percentuali più alte le prendevamo in provincia di Arezzo.

Ricordo che nel 1951 De Gasperi venne a “metterci la faccia”, come si direbbe oggi, in piena campagna elettorale. La Dc aveva rinunciato ad alcuni collegi provinciali a favore delle liste di centro collegate. Era la dimostrazione che da parte nostra gli alleati ricevevano attenzione e rispetto.

L’intervento di De Gasperi confermò l’impegno che avevamo delineato, dando slancio e fiducia ai nostri militanti.

Di questo fummo orgogliosi.

 

E la tua specifica esperienza?

 

Io venivo da una famiglia cattolica e ho studiato dai salesiani. L’appartenenza a questo ambiente familiare e culturale accentuava le difficoltà: la strada era impervia, più difficile, perché significava essere minoranza che per emergere doveva lottare molto.

Sicuramente più di altri.

Partecipavo al Movimento giovanile e con altri, al villaggio La Vela a Castiglione della Pescaia, voluto e organizzato dal “solito” La Pira, prendevo parte ai corsi di formazione.

Dalla formazione alle piazze il passo non doveva essere lungo.

Il primo impegno pubblico verrà nel 1970 con l’elezione al consiglio comunale di Grosseto.

(1. Continua)

“Il 2020 l’anno più lungo”, piccole luci nella notte del covid

 

È il libro curato dai volontari del   comitato   di Grosseto della Croce Rossa Italiana per ricordare l’impatto del virus Covid 19, poi trasformato in Sars-Cov-2 che con il salto di specie aveva cambiato cavallo aggredendo la specie umana con una spaventosa capacità di replicarsi, di diffondersi e uccidere con conseguenze catastrofiche. 

Ai rischi mortali si univa la paura per il futuro, per gli effetti della crisi economica e sociale, per l’inadeguatezza dei sistemi sanitari ad affrontare le insidie del “nemico” invisibile. 

Il libro offre uno spaccato di cronaca lunga un anno con fatti, storie di generosità, itinerari di soccorsi di emergenza, l’incontro con le solitudini, i bisogni, le sofferenze, i lutti, i dolori. 

È un cammino di solidarietà di tante persone comuni che trovano il tempo nei ritmi del quotidiano per dedicarsi agli altri, al prossimo, vincendo la paura. 

“Nulla è più stupefacente della mano sconosciuta e inattesa che ti aiuta a rialzarti, della parola e del sorriso che non ti fa sentire solo” scrive nella prefazione Hubert Corsi, presidente provinciale della CRI di Grosseto, che, dopo aver servito le Istituzioni, prima come consigliere comunale di Grosseto, poi come sindaco di Monte Argentario, poi come deputato per tre legislature, dal 1995 guida la Croce Rossa portando con generosità nel volontariato tutta la sua esperienza. 

Il libro è arricchito di tanti racconti – vincendo le resistenze dei volontari a scrivere le loro esperienze – che hanno accompagnato i momenti della attività del comitato nell’anno “più lungo”. 

Una organizzazione di volontariato all’avanguardia con una articolazione territoriale in sedi decentrate affinché gli obiettivi possano essere raggiunti con la massima efficienza per utilizzare al meglio i doni di umanità. 

Le aree di intervento specialistiche sono la salute e la vita, la promozione dell’inclusione sociale, la preparazione delle comunità e le risposte a emergenze e disastri, la diffusione del diritto internazionale umanitario e la cooperazione con altri movimenti internazionali, la promozione dello sviluppo dei giovani e una cultura di cittadinanza attiva, la prevenzione delle vulnerabilità delle comunità. 

Una grande rete che merita di essere ricordata con la parole di Madre Teresa di Calcutta, ora Santa, pronunciate a Porto Santo Stefano nel maggio del 1989: “il frutto dell’amore è la solidarietà, il frutto della solidarietà è la pace”. 

 

Maurizio Eufemi

Articolo tratto dalla rivista online "beemagazine"  dell'8 aprile 2022 (https://beemagazine.it/il-2020-lanno-piu-lungo-piccole-luci-nella-notte-del-covid/)

La riforma dell'Onu è ormai ineludibile.


L'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa, con un effetto ritardato del "dopo URSS", ha posto in evidenza la crisi dell'Onu come organizzazione internazionale in grado di fermare e risolvere i conflitti che vedano protagoniste le superpotenze.

I voti dell'Assemblea Generale rappresentano solo ammonimenti privi di efficacia con sanzioni morali di valore mediatico e nulla più.

L'Onu oggi riesce a esercitare un ruolo efficace solo nei conflitti locali o regionali con poteri di controllo e di comando laddove le superpotenze sono disinteressate ai giochi di guerra. Soltanto lì può riuscire a collocare forze di interposizione con azioni di peace-keeping che evitano frizioni e contatti bellici. Più complicata diventa la situazione laddove siano coinvolti direttamente o indirettamente gli Stati rappresentati nel Consiglio di Sicurezza che finisce per trasformarsi in un paralizzante Consiglio di Garanzia per se stessi.

Vengono travolti i principi di sicurezza e di autodeterminazione dei popoli.

Che fare? L'auspicio è quello di un Nuovo Ordine Mondiale che superi Yalta e tenga conto delle nuove superpotenze economiche non solo militari.

Una riforma dell'Onu che dia forza alla Assemblea è un modifica innanzitutto alla composizione del consiglio di Sicurezza, allargandone la presenza ai G20, o alle organizzazioni regionali continentali, eliminando in primo luogo il diritto di veto o introducendo il conflitto di interesse.

In presenza di uno stato in conflitto non si dovrebbe avere diritto di voto per le questioni che lo riguardano direttamente. La guerra di Ucraina ha dimostrato che l'accordo di Yalta è ormai lontano nel tempo e richiede un aggiornamento della Carta delle Nazioni Unite.

Se non si rispettano i valori dell'ordine internazionale non è obbligatorio stare nell'Onu che richiede cooperazione.

La Santa Sede proprio per il valore della sua azione diplomatica alla ricerca della pace e difesa dei diritti umani potrebbe assumere una iniziativa di grande significato per costruire una più aggiornata organizzazione delle Nazioni Unite.


Maurizio Eufemi

De Gasperi e il metodo democratico nel partito e in Parlamento

Convegno  - Con le lenti di De Gasperi - Viterbo 2 aprile 2022

 

Questo momento di riflessione nell'anniversario della nascita di Alcide De Gasperi ci permette di approfondire alcuni passaggi storici e politici fondamentali per il nostro Paese anche alla luce degli avvenimenti attuali soprattutto sulla politica estera sulla NATO sulla Ced e sulla politica economica.


Intanto non solo legami di fede partitica, ma geografica per Viterbo e diró il motivo, poi ne subentrano altri personali e familiari, poi quelli politici.


La mia attenzione si è soffermata sul metodo democratico perseguito da De Gasperi Nei rapporti governo Parlamento e nel Partito direzione cn nei gruppi direttivi e assemblea. In questo ci aiutano le fonti.

La Dc ha lasciato un grande patrimonio culturale che per il valore dei fondi dei gruppi parlamentari e del partito custoditi dallo Sturzo rappresentano una miniera inesauribile.


I volumi curati da Andrea Damilano sono straordinari per vedere il metodo democratico degasperiano con il dialogo costante governo, gruppi direttivi assemblea e partito direzione consiglio nazionale. Chissà se il terzo volume quello dopo il 1967 che ricordo fu messo in cantiere è rimasto seppure in bozza nell'archivio di marco Damilano. ?


Ho respirato la stagione della grande vittoria degasperiana con molti punti di contatto.

Intanto i miei padre e zio erano iscritti alla stessa sezione di De Gasperi di borgo cavalleggeri, che negli anni cinquanta era a borgo santo spirito e poi di fronte all'aula Nervi che prima era oratorio San Pietro dove c'era don Giuseppe Bersani il fratello di Lello.

Per andare a scuola al pio IX passavo tutti i giorni sotto casa di De Gasperi.

Mio padre resistente alla leva insieme a tanti altri giovani si nascondevano nel posto più sicuro che era Villa abemeleck sede della ambasciata tedesca e confinante con la stazione San Pietro che collegava Roma con la ferrovia per Viterbo. In via delle fornaci c'era la sede operativa, oggi si direbbe il data base, della Azione Cattolica. Questo era il sentimento.


A Viterbo ...

 

Veniamo ai legami di de Gasperi con Viterbo.

Nelle lettere dal carcere, il 5 settembre 1927 De Gasperi, detenuto nel 1927 presso la clinica Ciancarelli, all'onomastico di Rosina, infermiera operosissima, ma rude nelle forme e nel linguaggio fa un dono con dedica:


"Offre alla sua feroce Secondina

Il detenuto questa fu Marina

E prega Santa Rosa di Viterbo

Di farle il becco dolce e meno acerbo"


Fece 3 visite:


una nel dicembre del 1944 appena dopo la formazione del secondo Bonomi. Viene come segretario della Dc e ministro degli Esteri. Ne scrivono due storici incontestati come Bruno Barbini e Attilio Carosi, direttore della biblioteca e padre del giudice costituzionale.

Si trattava di organizzare il partito laddove era possibile in attesa che tutto il Paese soprattutto il Nord fosse liberato.

De Gasperi diffondeva l'idea Dc e il programma ricostruttivo.


Si tenne la direzione il 30 novembre molto importante, in due manoscritti, per il richiamo alle libertà ai combattenti del nord, ma con una importante richiesta di modifiche alla struttura industriale a favore del lavoro e contro i monopoli plutocratici (influenza di Toniolo che in capitalismo e socialismo usa questo termine nei confronti dei gruppi detentori della nuova ricchezza ) ( plutocrazia Europa centrale Russia Australia America)


Un'altra visita fu il 7 giugno 1951 per le elezioni provinciali e comunali dell'11 particolarmente significative perchè la competizione era tra 3 raggruppamenti.

Una terza visita nel 1952 sulla riforma agraria di Segni. Veniva realizzato uno dei punti qualificati delle idee ricostruttive di enorme significato per Viterbo e Grosseto e per la maremma risanata. I mezzadri e i braccianti diventavano proprietari di poderi di circa venti ettari, nella media 15,3, i coltivatori diretti con produzioni e autoconsumi! Le province di Viterbo e di Grosseto erano particolarmente coinvolte perché per loro si trattava del 18 per cento delle superfici coltivabili con ben 178 mila ettari sui 743 mila totali della intera riforma.


I risultati elettorali erano diversi la Dc raggiunge oltre il 35 per cento a vt e il 17 a Grosseto.

Non è questa la occasione per affrontare le vicende elettorali che se si poneva già la questione delle aggregazioni che esploderà a Roma con la vicenda Sturzo e poi nel 1953 con la legge elettorale maggioritaria.

I voti devono tenere conto che la Dc non presentò candidati in tutti collegi provinciali sia a Grosseto solo 3 su 16 che a Viterbo ma solo 14 su 16 in alcuni lasciando spazio agli alleati di centro.

A Viterbo fu accompagnato da Andreotti e Angela Guidi Cingolani.

 

De Gasperi con la sue visite sottolinea il legame tra fiducia e deputato della Regione.

Nel 48 De Gasperi era capolista della circoscrizione Roma vt lt Frosinone e onorava il suo mandato.

La bandiera della democrazia come eredità.

Azione per allargare lo schieramento democratico

Grida "Viva Cesare Battisti" come risposta alla azione di disturbo dei Missini, Ricordando che fu l'unico che lo difese a Vienna!


Motiva l'adesione alla nato dicendo "Dobbiamo essere pronti a difenderci se qualcuno ci attacca per questo abbiamo aderito alla NATO truppe sotto il comando di un generale italiano "

V'è Atteggiamento di pace e di difesa nazionale

e la Compattezza di un popolo che vuole rimanere libero.

C'era preoccupazione per quanto avvenne con l'invasione della Corea "non è così lontana e può svilupparsi in incendio"

Sottolinea il paradosso che In Corea gli aggressori non sono i nord coreani che hanno attaccato il sud ma i coreani che si difendono e le nu che accorrono in soccorso

L'URSS è socialista e non imperialista mentre il Nord America che non ha fatto annessioni è proclamato imperialista.


La scelta della NATO che provocò una grave frattura politica e all'interno della Dc una linea antiusa, non ha impedito il miracolo economico. Questo dobbiamo dirlo.

Non sono state sottratte risorse allo sviluppo o alle conquiste sociali realizzate da de Gasperi nella fase del centrismo.


Un altro elemento che ci collega a Viterbo è collegato alla operazione Sturzo del 1952.

A Luigi Gedda fu offerto il collegio senatoriale di Viterbo che fu rifiutato.


Il patto Atlantico


Grande attenzione di De Gasperi verso il Parlamento con una informativa prima della firma di aprile.

Il 30 novembre 1948 si tiene il gruppo Dc alla Camera dei deputati. De Gasperi prospetta la NATO. Dossetti si oppone al progetto.

8 marzo 1949 consiglio nazionale sulla politica estera.


Nello stesso mese si tengono 5 riunioni tra direttivi congiunti e assemblee dei gruppi.

Al gruppo camera si vota odg Spataro Taviani con 292 votanti 283 si, 3 contro e 6 astenuti.


Nella visione degasperiana Il Patto Atlantico fu concepito nel quadro delle nazioni Unite come impegno di solidarietà in favore della pace e della sicurezza delle parti contraenti previa decisione del Parlamento quindi non automatico.

La prerogativa democratica del parlamento sulla pace e sulla guerra è salvaguardata.

È patto di sicurezza una garanzia di pace una misura preventiva contro la guerra. Nessun paese o blocco di paesi fino a quando non avrà mire aggressive ha nulla da temere da esso.

Intendiamo collaborare con pazienza e moderazione perché i problemi più generali tra Occidente e oriente si risolvano nella pace e nella distensione. (Trieste ndr)

Ricorda come l'Italia ha rinnovato con urss e altri paesi dell' oriente i rapporti commerciali (missione di Ugo la Malfa a Mosca 12 agosto 1948 ) su riparazione e consegna di aliquote della flotta delle navi per i rapporti economici con l'est nei settori metallurgici e metalmeccanico attenzione ai beni di produzione piuttosto che ai beni di consumo. Problema clausola nazione più favorita

Trasformazione di beni non derivanti dal piano Marshall, ma da materie prime scambiate; l'URSS voleva 8 petroliere da 1500 tonn

Il negoziato va avanti.


Il dibattito parlamentare fu aspro. Polemica con Nenni per avere in commissione Esteri maggiori elementi.

De Gasperi mantenne una posizione ferma. "non si tratta di deliberare su documenti segreti. Meglio una discussione serena pubblica. "


16 marzo 1949 inizia discussione generale

Dopo odg Gullo si riprende all'una di notte del 17 marzo.

Respinge Odg Togliatti.

Viene ratificato il 20 luglio 1949 dopo che c'era stato firmato il 4 aprile 1949 a Washington


Un altro esempio ...


La posizione comunista era demagogica. "Vi mettete in brutta compagnia fate blocco con i reazionari e i conservatori di tutto il mondo invece gli apportatori del progresso, della libertà della democrazia sono dall'altra parte e vi rovesceranno. "

 

"Non siamo dei deboli, dei vili che si adattano per opportunità "rispose de Gasperi!


Non si può tralasciare la questione dell'Articolo 2 del patto atlantico e dell'articolo 38 della Ced.


E qui veniamo ai problemi interni tra De Gasperi e Dossetti e non solo. La Sinistra Dc era succube dei comunisti. Paura della guerra civile.


Non dimentichiamo il contesto internazionale le preoccupazioni per la visita di Eisenhauer , per le mobilitazioni della piazza. (Colloquio de Gasperi Di Vittorio sulle manifestazioni) e i telegrammi di protesta.


Il progetto Ced poteva sembrare una utopia ma che allora era un grande atto di coraggio e responsabilità.


Le resistenze dei paesi nordici verso l'ingresso dell'Italia soprattutto Norvegia Regno Unito

Per loro Noi non eravamo abbastanza Atlantici.

La soddisfazione di De Gasperi alla comunicazione dell'ingresso alla Nato prima del 4 aprile 1949


La prospettiva degasperiana era politica. Il processo è stato affidato alla economia manca la dimensione politica.

La scelta occidentale poggia sul successo e sulla forza del 18 aprile

Nella realtà la sinistra voleva separare Europa da Stati Uniti come ci ha ricordato il migliorista Ranieri Umberto alla presentazione dello studio citatissimo e documentatissimo di Paolo Acanfora per il Mulino.


Le accuse di massimalismo al gruppo dossettiano sul rapporto partito governo al punto di rimproverargli di volere lo stato partito cn 18 20 dicembre 1949


Mondo nuovo, ordine nuovo, muova anima, nuovo corpo era l'armamentario lessicale come risposta alla crisi dello stato nazione.

In Dossetti il rifiuto di una aprioristica adesione al blocco occidentale era determinata dalla paura di spingere ancora più avanti la divaricazione interna e internazionale con le forze comuniste e con le masse da esse inquadrate (cronache sociali 1947. )

Mettevamo in discussione perfino il piano marshall per la diplomazia del dollaro!

Vedevano pericoli e fratture. Una scelta internazionale che approfondisse il solco con le sinistre avrebbe reso più difficile qualsiasi politica riformista. Appariva una lacerazione.

In quei giorni la tensione era accentuata dall'arresto del primate di Ungheria.


Per Dossetti nasceva Europa nel conservatorismo senza un profilo identitaria autonomo.

Le differenze non furono colmate (articolo 2 alleanza comunità solidale e fallimento Europa politica indipendente ) furono sconfitte dossettiane e per art 38 Ced, degasperiana perché la Ced era il coronamento patto atlantico.


Nella Dc c'era una articolazione di posizioni con la sinistra Gronchiana, profilo latino per superare est ovest, quella dei sindacalisti più legati alla attività di partito con il mondo del lavoro e di Dossetti per il superamento dello stato Nazione per una Europa unificata sul piano politico e con profilo autonomo.

Questa azione fu portata avanti con cronache sociali e politica sociale.

Se la Ced fu una battuta d'arresto De Gasperi ha ragione oggi!

C'erano visioni contrastanti sul ruolo del Partito sul Parlamento. In de Gasperi c'era lo schema paronetto del governo maggioranza gabinetto Partito.

Per Dossetti il partito strumento della rappresentanza, partito come veicolo della volontà del popolo. Purtroppo abbiamo visto la crisi della rappresentanza se non ci sono i partiti!

De Gasperi vuole riformare le coalizioni per sottrarsi ai condizionamenti del mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiastiche.

Per Dossetti sottomissione dell'Italia agli Stati uniti con perdita della centralità mediterranea nella contrapposizione est ovest e per più dialogo con i paesi non allineati.

Nel settembre del 1946 Dossetti di dimette dalla Direzione perché era stato affidato a Corbino il Tesoro con questo giudizio "un uomo ottuso alle nostre idee" accusa De Gasperi di non curare l'Amministrazione e sul Partito che riteneva bloccato dalla disperata inerzia dei dirigenti. Il 18- 22 settembre 1946 i dossettiani abbandonano la direzione.

Nel cn del 9 -15 dicembre 1946 mozione di sfiducia Dossetti Lazzati alla Direzione del Partito! Fu posta per appello nominale e respinta. Attilio Piccioni fu eletto segretario con 43 voti su 63 19 schede bianche 1 a Cappi.

De Gasperi fu applaudito tracciando il quadro del partito in rapporto ai problemi del Paese.

Tre mozioni: solidarietà degli uomini liberi e dei partiti; politica economica e finanziaria; contro la stampa anticlericale.

Poi il gruppo il 16 17 e 18 approva odg di indirizzo per l'assemblea costituente.

Quello stesso Lazzati trascinó in Aula Dossetti sulla votazione del Patto Atlantico

Gli disse "già non siamo capiti. Un rifiuto a votare sarebbe per noi la perdita di ogni consenso" .


La unità europea era inconciliabile con il metodo funzionalista della integrazione per settori ma richiedeva un approccio politico.

La Ceca era quantitativa

La Ced era qualitativa


L'articolo 38 ipotizzava struttura militare con struttura politica.


Non la "via nostra"in economia, quella dell'economia mista, ma la terza via di una soluzione mediana che consacrasse italia come potenza Latina e mediterranea liberata dal franse gioco dell'alleato scomodo.

La terza via era il cavallo di battaglia di Dossetti e dei Gronchiani. Basta leggere i resoconti. Lo scontro era sulla politica economica.

Veniva messa in discussione anche la linea Pella del rigore.

C'era un vero e proprio tiro a segno verso Sforza, Pella e Pacciardi.
 

Sulla legge delega per la politica economica il 23 febbraio 1951 ci fu un voto qualificato interno al gruppo votanti 274 favorevoli 189 contrari 30 dossettiani astenuti 55 gronchiani e 30 dossettiani. La delega sarà abbandonata al senato.

De Gasperi disse la delega non è uno strumento che serve alla stabilità perché risiede nel parlamento che può revocarlo quando vuole.

 

Il governo va sotto per la prima volta su em Sannicoló 219 contro 214. Sono 81 Dc assenti e 30 franchi tiratori. 28 febbraio 1951 ministro industria Togni rel Iervolino dl n 1 potenziamento settori produttivi.


Ravaioli che era nello schieramento di sinistra, accusó Dossetti di atteggiamento antigovernativo.

 

Un episodio poco noto...

 

La rottura avviene con le dimissioni di 6 membri sulla riforma regolamentare del Gruppo sull'assenso preventivo alle iniziative.

Era un terreno di scontro decisivo tra le correnti e la maggioranza Dc su obiettivi di politica estera ed economica. Si allargava il solco tra Direzione e Gruppo.

Dossetti voleva Fanfani al Bilancio. Prevale un compromesso con De Gasperi e va alla agricoltura. Il dossettismo come gruppo organizzato era finito. Il 28 ottobre 1951 nasce iniziativa democratica.

 

Poi Dossetti si dimette ad aprile ma le rende pubbliche dopo le amministrative del 1951.

Dossetti riteneva ormai conclusa la esperienza con le vicende internazionali con la adesione al patto atlantico e perché la riforma dello Stato non era realizzabile senza una riforma della chiesa.

A Rossena nelle riunioni di agosto e di inizio settembre punta alla conservazione dell'esistente e manifesta profonda revisione critica per il suo tradizionale giudizio negativo su De Gasperi che era l'unico a garantire la continuità democratica.

Integralismo dossettiano del rinnovamento della società e dello Stato.

Dossetti voleva condizionare in positivo de Gasperi con riforme possibili dentro il sistema dalla "opposizione intransigente" alla "opposizione condizionante. "

 

De Gasperi spezza il quadrilatero dossettiano con la formazione del VII governo.

Al consiglio nazionale di grottaferrata del luglio 1951

De Gasperi dice a Dossetti "caro dossetti se non saremo uniti saremo travolti tutti dalla stessa valanga"!

Difende gli alleati minori

"Il partito più che una milizia è spirito di sacrificio".

 

Le elezioni del 1953

 

L'Europa unita non è una favola una fantasia o una teoria: è l'aspirazione di coloro che conoscono i rimedi necessari alla situazione economica attuale

Traguardo 1953

 

Al quinto congresso al neutralismo di Nenni de Gasperi rispondeva la unità politica nazionale possibile ə oggi di la politica di solidarietà internazionale ... su tali premesse poggia la nostra decisione di aderire al patto atlantico ma è sopratutto l'unione europea che sta in cima ai nostri pensieri e in testa si nostri interessi.

Per De Gasperi l'atlantismo era il contesto di riferimento per sviluppare la strategia europeista e non viceversa.

L'europeismo come idee forza per una nuova identità delle nuove generazioni.

Pur nelle difficolta la strategia degasperiana ha prodotto effetti decisivi nel lungo periodo radicati nella nazione.

 

Per De Gasperi "Non importa di avere sempre ragione.

Bisogna non avere torto domani. "
 

I contrasti con Dossetti sulla politica economica verso Corbino e verso Pella

Sulla politica estera sulla scelta euro-atlantica


Dopo le considerazioni sulle scelte di politica estera come NATO e Ced una ultima riflessione su De Gasperi e Paronetto che fu una figura straordinaria per il loro legame e per l'umiltà con cui De Gasperi seguiva le lezioni di Paronetto in economia "per imparare ed aggiornarmi con una sete del concreto e dell'elemento tecnico" che lo aiuteranno nelle scelte fondamentali.

 

Ma non abbiamo più un Montini in grado di costringere i cattolici a tessere la tela di Camaldoli che orienterà i costituenti. I committenti erano Montini e de Gasperi ; l'interlocutore costante e sistematico è Paronetto. Ricostruzione è la parola chiave.

 

Era competente e preparato. “Continua a consigliarmi con la tua coscienza illuminata sulla realtà oltre che con la tua bontà"è l’esortazione di De Gasperi in una lettera a Sergio Paronetto.

 

Il documento che è stato predisposto, è bene articolato e condivisibile soprattutto aperto perché senza pregiudiziali.


Si possono fare integrazioni sulle riforme realizzate che hanno portato progresso e grandi conquiste economiche e sociali

Alcune sottolineature


L'apertura agli scambi

le bonifiche collegate alla riforma agraria

L'elettrificazione come determinante dello sviluppo e del miracolo economico

Il fisco come valore di diritti e doveri

 

In politica estera

La scelta occidentale nell'area delle libertà e della democrazia,

poi Atlantismo poi europeismo.
 

Chi tesse oggi la tela che prima delle idee ricostruttive poggiava sul codice di Camaldoli e che aveva due committenti Montini e Degasperi?


Dov'è oggi un Paronetto?

Rileggere Alcide De Gasperi con le lenti di oggi, attraverso gli avvenimenti di 70 anni di storia permette ancora di più di apprezzarne la grandezza.

Furono scelte di libertà. Hanno consentito di ricostruire il Paese e dare un assetto moderno unito a sviluppo impetuoso. Tutto ciò nonostante i contrasti interni alla Dc che furono vivaci. Le spinte al neutralismo furono fine a se stesse .

Affrontò con coraggio la sfida energetica con il coraggio di Enrico Mattei, un partigiano Cristiano, allacciando rapporti con Algeria e Iran.
 

Bibliografia essenziale


Bibliografia

 

AA.VV., Cattolici al futuro, editoriale Rufus, 1984


Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, 1986


Giulio Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Arnoldo Mondadori editore, 1956


Piero Craveri, De Gasperi il mulino, 2006


Donato Menichella, stabilitá e sviluppo dell'economia italiana, Editori Laterza, 1997


Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana a cura di Stefano Baietti e Giovanni Farese, Rubettino Editore, 2012


Sergio Paronetto, Prospettive sulla partecipazione operaia alla gestione dell'azienda, studium xl 1944 pagg 36, 37.


C. Vasale, i cattolici e la laicitá. Un contributo alla storia del movimento cattolico italiano, ed. Dehoniane, Napoli 1980 pag. 131)


Paolo Acampora, miti e ideologia della politica estera Dc Nazione europea e comunità atlantica il Mulino, 2013

 

Giovanni Galloni antologia di iniziativa democratica ebe edizioni, 1973

Giovanni Di Capua, il centrismo plurale, nuove edizioni Ebe, 2004


Atti e documenti dc 1943 1967 edizioni cinque lune, 1968

Il Parlamento italiano1961 -1988

Voll. 14,15,16


La Dc e la comunità europea di difesa tesi Luiss relatore G Orsina candidato Francesco Bechis Roma, 30 marzo 2022

Moro: l’autentica voce della civiltà europea e la Nato come garanzia di libertà
Maurizio Eufemi 18-03-2022 - articolo comparso sul giornale online "Il domani d'Italia"


Esiste  una Europa che va al di là dei confini dell’Europa Occidentale. Con questa Europa vogliamo collaborare in uno spirito sincero di distensione e di intesa


Il quarantaquattresimo anniversario della strage di Via Fani lo abbiamo vissuto in modo diverso dal passato.  Un clima diverso. Molte le corone di fiori “recapitate” in Via Fani; dunque minori presenze “istituzionali” rispetto alla consuetudine. 
Ma Aldo Moro è vivo con il suo testamento politico. Lo è ancora di più oggi che soffiano venti di guerra che martirizzano la Ucraina e la sua capitale Kiev, mentre il suo popolo sta dando prova di coraggio nella sofferenza per la fede nella libertà e nella democrazia. 
Si potrebbero rileggere il discorso di Moro da capogruppo Dc sul fallimento della Ced, del 29 settembre 1954, sul rimpasto di governo dopo le dimissioni di Piccioni, con il suo rammarico per il sacrificio della Ced da parte francese sulla base di una insensata valutazione, ossia per la preoccupazione di non opporre al blocco sovietico una grande unitaria potenza europea, nella quale la Germania avrebbe avuto una posizione di grandissimo prestigio. 


Vedeva la Ced come articolazione della Alleanza Atlantica in un nucleo europeo che significava la voce dell’Europa, la autentica voce di questa civiltà europea occidentale che si esprime e si fa valere nell’ambito della comunità dei popoli liberi. Un’Europa che acquisisce forza economica, sociale, forza politica e anche forza militare che permettano di esprimere una voce più autorevole e di maggiore peso nell’ambito del grande gioco della politica mondiale. 


Si potrebbero rileggere le sue pagine sulla Nato, garanzia di libertà, al Consiglio Atlantico del 1975, riconoscendo come l’Alleanza abbia consentito lo sviluppo pacifico e intenso e che potrà contribuire a un ordine internazionale più giusto – che significa un mondo più sicuro. 
Moro protagonista del Trattato di Osimo che normalizzerà i rapporti con la Jugoslavia di Tito. Mentre suscitavano clamore le manifestazioni in favore degli appelli degli intellettuali Sacharov e Solgenitzin, nel settembre 1973 da Ministro degli Esteri espresse fermezza associata a responsabile prudenza perché privilegiava la prosecuzione del processo di distensione internazionale, evitando ostacoli agli sviluppi della Conferenza per la sicurezza e cooperazione europea. 


Moro fu protagonista nella firma del Trattato di Helsinki come conclusione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea: “Esiste  una Europa – disse – che va al di là dei confini dell’Europa Occidentale. Con questa Europa vogliamo collaborare in uno spirito sincero di distensione e di intesa”. Firma l’Atto finale insieme a 34 paesi, compresa la Santa Sede, quale rappresentante dell’Italia e Presidente in esercizio del Consiglio della Comunità. 


Questa era la sua visione dell’Europa. Sogni infranti dall’invasione dell’Ucraina. Giulio Andreotti nei suoi ricordi (De Prima Re Pubblic) scriverà come avesse fatto impressione la dichiarazione di Aldo Moro: “È vero: può sembrare e forse è contraddittoria la firma del signor Breznev che continua a sostenere la dottrina della sovranità limitata. Ma Breznev passerà ed Helsinki resta”. 
Breznev fu il protagonista della cosiddetta Costituzione del socialismo sviluppato dell’URSS del 1977. All’articolo 71 la repubblica dell’Ucraina era al secondo posto dopo quella russa. All’articolo 72 quella Costituzione prevedeva che ogni repubblica federata conservava il diritto di libera separazione dall’URSS. Oggi la perestrojka di Gorbaviov sembra lontana così come il diritto dei popoli alla autodeterminazione! Eppure il valore del popolo ucraino sta a ricordarci il valore della democrazia e della libertà! 
I problemi della Nato, della Ced, della sicurezza europea, della distensione internazionale sono di tutta evidenza e di grande attualità. Purtroppo non abbiamo né Aldo Moro, né Sacharov, né Solgenitzin e nella Russia d’oggi Putin non è l’erede di Gorbaciov, ma di Breznev! Dunque, scontiamo un ritorno al passato con gravi preoccupazioni per il futuro.


http://www.ildomaniditalia.eu/moro-lautentica-voce-della-civilta-europea-e-la-nato-come-garanzia-di-liberta/

Una vita spesa in politica: dal Movimento giovanile al Parlamento. Righi, 84 anni, ci racconta il suo Veneto e la sua Dc.

Vicentino, classe 1938, Righi è espressione di quel Veneto bianco che ha visto la grande trasformazione da area prevalentemente agricola a quella manifatturiera, con un distretto industriale fortissimo nelle specializzazioni produttive. Cosa emerge dall’intervista? Si può dire che il dialogo prevaleva sullo scontro: questa era la cifra politica della Dc veneta.

 

Maurizio Eufemi

 

Di recente abbiamo ascoltato giudizi disinvoltamente sprezzanti nei confronti di Mariano Rumor, un personaggio illustre della tua terra, partigiano bianco, deputato costituente, un uomo di grande cultura cresciuto nelle Acli, ministro degli Esteri, degli Interni e dell’Agricoltura, vicesegretario della Dc poi segretario nazionale, cinque volte presidente del Consiglio. Quale è la tua opinione, per te che sei cresciuto con Rumor, in quella terra vicentina? Sei un testimone e superstite di quel tempo: che cosa ha rappresentato Rumor per te?

 

Ho cominciato il mio impegno con la rivolta d’Ungheria del 1956 da studente. Nell’ambito della Dc c’era il movimento studenti medi di cui sono stato delegato del mio comune, per poi diventarlo a livello provinciale Da noi c’erano i movimenti degli studenti ma erano apolitici, con una impronta cattolica. Ricordo che nel nostro Movimento giovanile si entrava a 21 anni. Anche se ne avevo 19 mi fecero entrare cambiando la data di nascita. Questo dimostra quanta fedeltà c’era al partito.

 

La rivolta d’Ungheria è stata la scossa ?

 

Certo, la sentivamo in modo forte anche perché vicini all’Austria e vedevamo i profughi alle frontiere. Le nostre manifestazioni coinvolgevano tutti gli studenti della città e della provincia. Lo facevamo dialogando con i presidi. Allora gli istituti erano concentrati nelle città, non c’era ancora questa ricchezza di istituti superiori in tutte le città. Una fiumana di studenti convergevano a Vicenza. Ero un piccolo leader e ancora oggi ci ritroviamo con i superstiti di quegli anni.

I delegati provinciali rimanevano in carica due anni e poi venivano inseriti negli organi provinciali con incarichi vari. Il delegato provinciale del giovanile adocchiava quelli che erano i leader del movimento studenti medi ed erano “sedotti” dal partito: io sono stato uno di quelli. Purtroppo sono stato assorbito dalla politica e ciò mi ha impedito di fare l’università (cosa che poi ho fatto in tempi successivi).

Successivamente sono entrato nel consiglio nazionale dei giovani guidato all’epoca da Luciano Benadusi. C’era anche, come delegato regionale, Lillo Orlando di Venezia. Tra i delegati provinciali c’erano Carlo Bernini a Treviso, Pasetto a Verona, Ettore Bentsik professore universitario, poi sindaco di Padova. Erano tutti del giovanile. Una squadra meravigliosa. Poi sono entrato nel partito assumendo la carica di dirigente organizzativo.

 

A chi facevi riferimento?

 

Nel giovanile eravamo fuori dalle correnti o meglio avevamo la nostra corrente. Era naturale che dopo fossimo chiamati a schierarci. Facevo parte della sinistra, ma sempre in un quadro di gestione unitaria. Si registrava una preponderanza di dorotei, mentre gli andreottiani non esistevano. Ricordo altresì la presenza fanfaniana storica con Fabbri e Corder e quella della sinistra unitaria tra Forze nuove di Cengarle, espressione del sindacato, la Base e molti giovani che facevano riferimento a me. Quando essi sono entrati nel consiglio nazionale il coordinatore riconosciuto ero io.

 

Rumor che cosa rappresentava per voi?

 

Nel giovanile, ripeto, non eravamo schierati. Rumor veniva dalle Acli e quindi dal mondo cattolico. Il vescovo era interventista, insisteva perché facessi parte del gruppo doroteo di Rumor.

Risposi fermamente che come espressione dei movimento giovanile non mi potevo schierare.

In alcune foto che ho visto pubblicate mi ha colpito un piccolo tavolo sobrio con personaggi illustri alla presidenza, con lo scudo crociato sullo sfondo e tanta partecipazione. Una sala stracolma.

Organizzai come movimento giovanile un convegno sui patti agrari e sul Piano Verde con Mariano Rumor ministro dell’Agricoltura, il quale aveva appena approvato quelle riforme.

 

Che cosa ha rappresentato, dunque, il Movimento giovanile come avvicinamento alla politica?

 

È stato fondamentale. Perché organizzai i corsi di formazione, essendo fondamentale per giovani. A riguardo, predisposi una convenzione con il centro studi sociali di Milano gestito dai gesuiti. Padre Macchi di Aggiornamenti sociali, padre Perico, padre Rosa, padre Reina, tutti sono venuti a Bassano del Grappa. Il sabato pomeriggio si iniziava il convegno su temi preordinati, si cenava sobriamente con prezzi tirati all’osso e poi si lavorava fino a tardi. La domenica c’era la Messa con meditazione appropriata alla giornata di studio, poi si finiva la domenica nel tardissimo pomeriggio per potere far rientrare tutti a casa.

 

Avevate una pubblicazione?

 

Il ciclostile non poteva mancare. Era un lavoraccio. Tutto volontariato. Avevamo uno spazio dentro la sede della Dc.

 

Una volta, se non sbaglio, avete portato un gruppo del Veneto al centro studi della Camilluccia, a Roma.

 

Noi avevamo un nostro programma formativo annuale. Facevamo cinque o sei conferenze con il centro studi sociali. Il prof. Conforti, consigliere comunale con me, ma più anziano, nonché docente di diritto amministrativo, illustrava i problemi delle Regioni in via dì costituzione, poi  alcuni di noi, su invito del dott. Cesaro che dirigeva il centro studi della Camilluccia, venivano mandati a Roma. Una volta il raduno fu fatto, per il Triveneto, al passo della Mendola in una full immersion – utilizzando le ferie – con Rumor, all’epoca vice segretario nazionale, Gui che era capogruppo della Camera, Flaminio Piccoli, Bruno Kessler e altri. Per 15 giorni si svolgevano lezioni che ruotavano attorno a tesine preparate ad hoc. All’esame finale arrivai primo del corso e fu per me una grande soddisfazione.

La Dc veneta era un partito federato. Alle elezioni politiche potevamo ottenere 5-6 seggi, ma un posto era bloccato per i sindacalisti, come per Girardin a Padova e Cavallari a Venezia; un posto andava a quelli della Coldiretti, il terzo era per le Acli di Dall’Armellina poi un posto per l’Azione cattolica con Breganze, sostenuto direttamente dal Vescovo. Su sei, i posti realmente in gioco erano solo due. Il segretario provinciale Dc non è stato mai eletto. L’unico eletto fu Renato Corà, tutti gli altri no.

Poi, io e te, ci incontriamo alla Camera. Sì, c’erano i Presidenti del mio periodo: “Gingio” Rognoni,  Scotti, Gava, Bianco…e tu, Maurizio!

 

Nella storia della Dc vicentina affiora il nome di Treu…

 

Renato Treu, il papà di Tiziano, svolgeva la funzione di segretario provinciale quando io ero delegato provinciale. L’ho poi ritrovato senatore. Fu emarginato da Rumor. Treu non fu ricandidato: se la prese molto quando Rumor fu candidato nel suo collegio senatoriale. I Treu erano di origini friulane. Renato insegnava matematica e fu anche presidente dell’amministrazione provinciale. Tiziano invece, dopo essere stato Ministro, fu Presidente dell’istituto di scienze sociali e religiose fondato da Gabriele De Rosa.

 

Pensa che ho trovato una straordinaria comunità di friulani a Chieri, nel mio collegio in Piemonte, che erano apprezzati imprenditori di successo nell’edilizia, soprattutto perché i piemontesi, per parte loro, erano prevalentemente imprenditori tessili.

Se osserviamo gli indicatori socio economici della provincia di Vicenza al tempo della Ricostruzione, essi ci colpiscono per la loro assoluta rilevanza. Risultati davvero straordinari e poderosi.

 

La provincia di Vicenza era prevalentemente agricola salvo alcuni poli industriali di fine ottocento e inizio novecento, come la Lanerossi ex Marzotto a Schio e Valdagno.

Il 95 per cento della forza lavoro operava nell’agricoltura. In pratica, parliamo di povertà e miseria. Hai presente i famosi discorsi sui “metalmezzadri”? Il dato storico ci dice che da contadini passano ad operai, poi ad artigiani e in ultimo ad imprenditori.

Oggi abbiamo il 97 per cento di pmi. Siamo la più grande provincia esportatrice: industria orafa, legno, artigianato ceramico erano e sono le specializzazioni dei nostri distretti produttivi.

 

Cosa rimane, in termini di più grande soddisfazione, della tua esperienza parlamentare?

 

La legge quadro dell’artigianato di cui sono stato relatore. Riuscimmo a vararla dopo due legislature di tentativi infruttuosi. Rappresenta, vista anche oggi, una legge di sistema. Aggiungerei la riforma delle pmi (la 317) con scelte molto innovative, come l’introduzione della defiscalizzazione per gli interventi produttivi, i consorzi all’esportazione, l’attenzione alla ricerca.

È stata dura perché il titolare del dicastero dell’Industria, il repubblicano Adolfo Battaglia, legato alla Confindustria, difendeva la grande impresa.

Riuscimmo comunque a spuntarla. A prevalere fu la volontà del Parlamento. Perfino i comunisti, dall’opposizione, contribuirono a superare le difficoltà.

 

Anche i deputati del PCI diedero una mano?

 

Sì, soprattutto gli emiliani si dimostrarono sensibili alle pmi e alla struttura produttiva della loro regione.

A distanza di tempo, devo ringraziare soprattutto Viscardi e Bianchini, e poi Guido Bodrato, subentrato a Battaglia, che varò i decreti attuativi. Una fatica non da poco, essendo numerose le deleghe inserite nella legge.

 

Torniamo al partito, alla tua regione, al ruolo di Mariano Rumor.

 

Ecco, Rumor aveva una scuola di cultura cattolica e la domenica, dopo i vespri, la frequentavamo. Uno dei relatori fu anche Cossiga. Dal 1955 al 1970 si alternano i nomi di tutta la variegata e complessa compagine dorotea. A Vicenza erano di casa Gava, Antoniozzi, Signorello, Colombo. Si andò avanti in questo modo fino a che non si consumò il “tradimento” – così lo avrebbe definito Rumor nelle sue memorie – di Tony Bisaglia.

 

Quando è maturata la rottura?

 

Teniamo conto della “costruzione” politica della Dc veneta. Prima di Bisaglia, il polesano Romanato veniva eletto con i voti dei cattolici vicentini, con la benedizione delle gerarchie ecclesiastiche. Questo spiega l’avvento sulla scena di Tony Bisaglia, esponente dell’unica provincia rossa del Veneto, e cioè Rovigo. Fu portato di peso da Rumor perché la sua affermazione rispondeva a un criterio di “regolazione” degli equilibri su scala regionale.

 

Ma la  rottura quando ci fu?

 

A cavallo tra il 1968 e il 1969, nel mezzo della contestazione giovanile ed operaia.

 

Perché Rumor si sentì tradito?

 

Bisaglia scava la sabbia sotto i piedi di Rumor senza che Rumor ne abbia nell’immediato la percezione. È un movimento sotterraneo, portato avanti con lucidità e determinazione. Molti sono attratti nell’orbita bisagliana. Un uomo come Zoso nasce di sinistra ultrà, di contestazione anche nei miei confronti e si converte ai Dorotei, insieme a Zampieri, Dal Maso e Giacometti. E altri ancora.

 

Tu che pensi, qual è l’eredità di Rumor? Ha fatto molte cose oppure una grande cosa?

 

Ha organizzato la direttissima Arsiero-Tonezza, la prima grande opera che ha superato difficoltà viabilistiche, unendo le comunità di due altipiani. Come ministro rivendicava a sé la promozione del Piano verde: un grande momento di programmazione.

Rumor appartiene alla generazione che “pensa” lo sviluppo del Paese. Nel Movimento giovanile noi studiavamo lo schema Vanoni. Cosa rappresentava? Con “schema” s’intende la correlazione tra sviluppo del reddito e sviluppo dell’occupazione. “Non ho usato il termine pianificazione – disse Vanoni – per non usare un termine marxista”. Questa è stata la grandezza di Vanoni come la sua umiltà! Altro che ricordarlo per la dichiarazione dei redditi!

 

Hai fatto due legislature in Regione Veneto e poi sei stato eletto alla Camera. Sei entrato preparato, non come gli eletti di questi tempi?

 

Sono entrato in Regione nel 1975, per essere poi rieletto nel 1980. Tuttavia non completai il mandato perché nel 1983 il partito mi obbligó a candidarmi alla Camera.

In quella elezione si registrò una flessione sensibile, sebbene la Dc a Montecitorio riuscisse ad eleggere 226 deputati. Fanfani simpaticissimo e autoritario ci considerava dei ragazzetti. Lo incontrammo con Hubert Corsi. Ci disse che l’errore principale del 1983 fu quello di sguarnire le Regioni candidando gli uomini più forti sul piano elettorale.

 

Fai parte della generazione di parlamentari che è entrata nel 1983 insieme a Mattarella, Castagnetti, Bianchini, Corsi, Carrus, Puja, Astori, Pietro Soddu, Casini. Nella flessione del 1983 era entrata…molta qualità! Il bilancio definitivo, come vorresti presentarlo in forma sintetica?

 

Dal ‘64 al ‘75 sono stato in Comune, a Vicenza, poi in Regione dal ‘75 al ‘83, infine ho avuto l’onore di essere eletto al Parlamento.

L’esperienza comunale mi è servita molto per il successivo lavoro in Regione, quella regionale, a sua volta, è stata validissima per l’imoegno parlamentare. Il processo è stato ideale.

La prima vera formazione è stata quella politica, fatta con umiltà e sacrificio, perché bisognava studiare Maritain, De Gasperi, Sturzo, poi Vanoni per la parte economica. Nel consiglio nazionale era un fortuna per me stare con Moro, Zaccagnini, Fanfani, Colombo, Rumor, Piccoli, Gava.

Due vite parallele, insomma: quella amministrativa e quella parlamentare. In seguito, dopo la Camera, ho continuato a fare politica in altro modo, andando a guidare l’Istituto Niccolò Rezzara e svolgendo attività di volontariato di vario tipo. Fino a qualche tempo, sempre per amore della politica, mi sono ritrovato coordinatore regionale degli ex parlamentari. Che dire? Pur con i miei 84 anni…non mi risparmio.

 Moro, commissione stragi bloccata su via per Hammamet

dalla rivista online "www.beemagazine.it" del 18 febbraio 2022


Misteri d’Italia. Quando la Commissione Stragi era pronta ad andare ad Hammamet, perché Craxi aveva detto di voler raccontare alcune cose su Moro. Ma qualcosa bloccò il viaggio. Mario Tassone, ex sottosegretario Dc, racconta questo episodio in una intervista al sen. Maurizio Eufemi, in cui parla dei giovani e della politica, e ricorda la figura di Moro leader della Dc

di Maurizio Eufemi


Mario Tassone, classe 1943, parlamentare per nove legislature, sottosegretario ai Lavori Pubblici nei governi Craxi 1 e 2 e Fanfani, viceministro delle Infrastrutture e Trasporti, un moroteo da sempre. Con Mario Tassone ripercorriamo alcuni momenti dei suoi rapporti con Aldo Moro, e dei giovani e la politica


Come nasce la tua esperienza politica nel movimento giovanile Dc?


Nasce con una lunga militanza nell’associazionismo cattolico. Sono stato impegnato intensamente nella Giac. Ho fatto il delegato diocesano della Giac; ho fatto il movimento studenti; ho contribuito a fondare insieme ad Arrigo Rossi il movimento turistico giovanile; poi esperienza nella FUCI; esperienza nella campagna elettorale nei comitati civici dove si era impegnati a votare la Democrazia Cristiana; impegnato nell’associazionismo a tutti i livelli, ma certamente non pensavo di scegliere la strada della politica.

Questo in che anni avviene?

Negli anni 1963-64. La mia prima tessera di iscrizione alla Dc risale al 1963. La mia adesione alla Dc, il mio impegno alla politica fu dovuto ad una sollecitazione paterna che mi fece il mio arcivescovo di Catanzaro Armando Fares, che mi invitò a fare politica, a iscrivermi, a impegnarmi.

Quello è il periodo del centro sinistra. Iniziano i Governi Moro.

Sì certamente, fallisce il primo governo Moro per i problemi della scuola. Erano gli anni di un grande dibattito politico, di una grande intensità politica. Questo è il dato più significativo che è venuto fuori in quel periodo. Mi impegnai e fui cooptato nel 1964 nell’esecutivo provinciale del Movimento giovanile. Mi fu attribuito l’incarico della formazione, poi feci il dirigente organizzativo eletto della sezione Vanoni di Catanzaro della Dc, poi ho fatto il vice commissario provinciale, poi il delegato provinciale nel 1966, poi nel 1968 delegato regionale del Movimento giovanile della Dc, poi nel 1970 nel congresso nazionale di Rimini fui eletto segretario amministrativo; a quell’incarico si aggiunse il ruolo di vice delegato nazionale. Segretario amministrativo per il semplice fatto che ero moroteo. Non c’era il posto. Eravamo pochini. Moro ci teneva moltissimo. Pregò Leopoldo Elia e Ranieri Benedetto di venire ad assistermi a quel congresso e trovarono l’escamotage di farmi entrare in direzione nazionale come segretario amministrativo.

Negli anni ‘60 l’organo del Movimento giovanile era ancora “Per l’Azione” che non usciva più con la cadenza degli anni ‘50. Come mai?

C’era un problema di risorse! Un problema di costi. C’erano difficoltà finanziarie.

In tutta quella fase chi ricordi come interlocutori del movimento giovanile nazionale?

Erano ovviamente De Mita e Forlani.

E per i giovani?

Ezio Cartotto, Gilberto Bonalumi che fu delegato nazionale, Piero Pignata, Emerenzio Barbieri,  Giuseppe Pizza, Egidio Pedrini, Ettore Bonalberti, Franco Bruno, Giorgio La Pira, che era il nipote di La Pira, facemmo entrare anche Marco Follini. Fui  invitato da Moro per farlo coinvolgere, per fargli fare esperienza nel Movimento giovanile, cosa che gli feci fare. Un sacco di gente che poi è diventata classe dirigente del Paese.

Dove vi riunivate?

Avevamo una grande sede a Largo Arenula. Avevo una grande stanza che dividevo con Giorgio La Pira, vice delegato nazionale. Ci vedevamo tutte le settimane e ognuno aveva il suo settore di lavoro: chi curava l’organizzazione, chi la formazione, chi aveva i contatti con il territorio, io seguivo anche il Mezzogiorno come vice delegato nazionale, ed erano frequenti le mie puntate in Sicilia. Ho fatto il commissario del Movimento giovanile a Palermo, a Catania.

Prima di andare al Congresso di Palermo del 1974 parliamo del tuo incontro con Aldo Moro…

Eravamo tutti con Iniziativa Democratica, quindi nel campo Doroteo. Quando Moro uscì fuori, noi lo seguimmo. C’era a Catanzaro il responsabile del gruppo doroteo che era legato a Rumor; passò con Moro. Era il senatore Elio Tiriolo che è deceduto mentre era sottosegretario ai Trasporti.

Come erano gli incontri con Moro?

Ho avuto incontri sia in Via Savoia (dove Moro aveva il suo studio, ndr) sia nella piccola sede del gruppo moroteo in Via Po, dove c’era anche l’agenzia giornalistica Progetto Dc gestita da Vittorio Follini, che era giornalista della Rai, il papà di Marco. Era un gruppetto non numeroso.

Chi partecipava?

Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Corrado Belci, Tommaso Morlino, Franco Salvi che era il riferimento forte del gruppetto; aveva un grandissimo carisma. Contava moltissimo nel gruppo moroteo. Per un certo periodo di tempo fu anche responsabile del “Centro studi e formazione Alcide De Gasperi” alla Camilluccia.

Da questi incontri con Moro che cosa ne ricavavi?

Di una persona di un grande equilibrio, di grande saggezza, serenità, tranquillità; la vita di Moro è stata contrassegnata da grandi riconoscimenti, di grandi richiami quando si aveva bisogno di lui. Quando non si aveva bisogno di lui ovviamente c’era disinteresse, soprattutto disimpegno  nei confronti di una azione che Moro portava avanti.

Quando facevamo i congressi le altre correnti era attrezzate, compravano le tessere.

Ricordo che una volta raggiungemmo il 3,5 per cento: una esiguità rispetto agli altri. Non avevamo i signori delle tessere. Moro disse: come abbiamo fatto a prendere tutti questi voti, queste tessere?! Si era meravigliato che ci fossero state tante adesioni.

E quali ricordi hai del congresso di Palermo del Movimento giovanile del 1974?

L’ho presieduto io. C’era il vicesegretario del partito Attilio Ruffini. Non fu un bel congresso!  Anzi, fu un brutto congresso. C’erano delle liste rigide concorrenti, con intemperanze di qualcuno che mi misero in difficoltà, dando una brutta immagine.

C’era la logica dei numeri rispetto al confronto delle idee?

Uscì fuori delegato nazionale Giuseppe Pizza. Dovevo farlo io il delegato nazionale, ma Moro non me lo fece fare. Mi consigliò di non farlo perché ero stato eletto a fine 1973 segretario regionale della Dc della Calabria e lui mi disse: “A te conviene rimanere segretario regionale e non dimetterti perché come segretario regionale – mi disse – ti fai le ossa, ti fai una esperienza sul territorio. Il delegato nazionale dura due anni invece tu devi attrezzarti a fare politica e presentarti alle elezioni. Se non hai contatto con il territorio queste prospettive in questa direzione non ci sono, non si concretizzano”. Questo è stato il consiglio paterno di Aldo Moro.

È stata una utile indicazione perché poi nel 1976 entrerai in Parlamento.

Certo. Nel 1972 mi ero candidato alla Camera dei Deputati. Venne Moro a Catanzaro. Volle venire per sostenermi nella campagna elettorale nonostante molti gli dicessero di non venire, che non era il caso. Una grande testimonianza di stima, di affetto, di considerazione che mi ha accompagnato e mi accompagnerà per tutto il resto della mia vita.

Certo questo è bellissimo. Torniamo al congresso di Palermo del 1974. C’era già  Piersanti Mattarella. Lui, Mannino e Renzo Nicolosi erano entrati giovanissimi in Regione Sicilia e venivano considerati i giovani leoni della Dc.

Non avevo cittadinanza nella sede della Dc. Quando ero commissario del Movimento giovanile a Palermo tenevo le chiavi dello studio privato di Piersanti Mattarella dove potevo fare riunioni. Sono sempre stato ospitato da Piersanti, che segui quel congresso. In quel congresso ci fu la scorrettezza – lo debbo sottolineare – di alcuni amici che hanno dimostrato una certa immaturità politica e inconsistenza, così è se si fa la rissa per avere un posto… sparì la lista. Ci furono delle cose non esaltanti.

Quel congresso espresse Pizza come delegato nazionale ma fu commissariato dopo un anno da Fanfani.

Infatti fu nominato un commissario in Giuseppe Fornasari fino al congresso di Bergamo che poi elesse Marco Follini. Il congresso di Bergamo, ma io ero uscito dal Movimento giovanile, normalizzò la situazione con una generazione nuova di giovani dirigenti.

Dopo la strage di  via Fani e l’assassinio di Moro, voi morotei, in senso stretto, come l’avete vissuto quel dramma?

Come una grande tragedia, di sofferenza perché trovammo la chiusura di Piazza del Gesù. Ricordo che con il compianto collega Benito Cazora cercammo contatti per perlustrare anche le zone imperlustrabili di Roma per raccogliere notizie in una situazione di grande difficoltà, ma balzò alla nostra attenzione la rassegnazione di taluni ambienti politici anche del mio partito. Dell’uccisione di Moro si parlerà sempre perché non è che sia tutto chiaro e illuminato!

Ci sono ancora molte zone d’ombra…

Sono stato cinque anni nella commissione stragi. Avevo qualche idea. Anche lì emersero confusioni, incertezze, nebbie e ombre in più. La Commissione presieduta da Giovanni Pellegrino, che era una brava persona, non presentò un documento conclusivo ma solo la relazione del presidente, che non fu approvata. Poi con grande amarezza fui bloccato dopo che Craxi mi aveva fatto sapere che voleva incontrarci ad Hammamet e noi eravamo pronti ad andare. Avevo convinto l’ufficio di Presidenza a decidere perché Craxi voleva comunicare qualcosa su Moro. Era considerato un latitante. Ciononostante superammo alcuni blocchi procedurali e quant’altro per ben due volte. Era un periodo in cui in Tunisia c’era Umberto Ranieri che allora era il responsabile Esteri del Pds. Si pensa che ci sia stato qualche influsso che ha fatto scattare l’operazione del diniego, che ci fu perché, si disse, “Craxi stava male”. Ma Craxi mi disse: “Io sto male da tempo”.

Quindi hanno bloccato la visita della commissione stragi in Tunisia.

Sì, per due volte. Tanto è vero che mi scagliai due volte contro il ministro degli Esteri che venne in commissione stragi. Lamberto Dini disse che lui non c’entrava niente e portò una comunicazione della struttura sanitaria dov’era Craxi e che diceva che Craxi stava male. Ovviamente non ci abbiamo creduto. C’è stata anche un’altra cosa che balza agli occhi: quando volevo scavare su quella che passa per la seduta spiritica in casa Cló con Prodi e fu indicato Gradoli, perché noi eravamo convinti che non c’era stata alcuna seduta spiritica ma soprattutto c’era stata qualche soffiata di alcuni circoli vicini alle Brigate rosse e Università volevamo sapere di questa soffiata. Chi ha parlato allora di seduta spiritica era un modo per dire di non essere obbligato a dire chi erano gli informatori. Non fu scavata questa cosa, per il motivo che si era già interessata la magistratura ordinaria.


Se la commissione stragi ha i poteri della commissione di inchiesta e i poteri dell’autorità giudiziaria perché non si è andati avanti? significa che c’è stato un blocco politico che ha impedito di scavare la ricerca di elementi di verità?

Certo. Vale sia per quanto riguarda il viaggio ad Hammamet sia per la vicenda della seduta spiritica.  Io ero minoranza e in minoranza sono restato.

Il possibile viaggio ad Hammamet a quando si fa risalire? A ridosso della morte di Craxi?

No, risale a qualche anno prima. Ricordo bene quegli anni.

E la vicenda di Via Gradoli come la vedi?

Lavorando e impegnandomi nelle Commissioni bicamerali mi sono fatto la convinzione che questo Paese fu preso alla sprovvista. C’erano già state molte iniziative che avevano segnato molte violenze delle BR. Il Paese non era attrezzato a contrastare il fenomeno che avanzava e che aveva lasciato molte vittime. Ci sono dichiarazioni, espressioni di desolazione e di impotenza rilasciate dal ministro dell’Interno Cossiga, che non aveva trovato nulla al ministero. E pensare che Cossiga era stato indicato da Moro dopo che Gui era stato bloccato dalla vicenda Lookheed. Moro designò Cossiga che passò dal Ministero della Riforma burocratica a quello degli Interni.

Hai posto il problema di Cossiga. Come valuti il suo atteggiamento rispetto al memoriale Morucci? Quasi a mettere una pietra tombale?

C’è stato un tentativo sul piano “culturale” di dire “chiudiamo con il passato” per abbassare le tensioni e le conflittualità. Un filone di tesi che è avanzato e che avanzava e su questa posizione onestamente ho espresso qualche dubbio. Università, circoli e media. Molti di questi li abbiamo anche interrogati in Commissione. Non avevano perso l’arroganza. Erano depositari di una verità e di una cultura dichiarandosi sconfitti, perché l’idea non era andata avanti. Ma avevano ammazzato tanta gente, persone innocenti, avevano portato lutti. Abbiamo avuto uccisioni di agenti di polizia, magistrati, imprenditori, giornalisti, sindacalisti. Abbiamo avuto uccisioni di tutti i tipi.

Maastricht 30 anni dopo, tra passato e futuro: ciò che è vivo e ciò che è morto

dalla rivista online "www.beemagazine.it"

 

Tra pochi giorni,  il prossimo 7 febbraio, celebreremo il trentennale del Trattato di Maastricht, una tappa fondamentale nel cammino della costruzione della Unione Europea. Viene ricordato più per il vincolo esterno, con i suoi parametri sul disavanzo, sul rapporto debito Pil, sull’inflazione, sul livello dei tassi che come atto politico base della moneta unica attraverso i programmi di convergenza. 

La politica monetaria degli anni Novanta di Banca d’Italia, pur nella difficoltà delle crisi valutarie, è stata indirizzata per rispettare quei parametri. 

Quel Trattato ha posto le premesse per la costruzione dell’Euro, la moneta unica, simbolo di identificazione collettiva di 447 milioni di cittadini europei. 

Un Trattato che poggia sul percorso costruito con il rapporto Werner del 1970 e con l’Atto Unico di Jacques Delors del 1986. 

La spinta al Trattato viene anche da scelte geopolitiche dopo la caduta del Muro di Berlino, avvenimento che segnerà la storia mondiale e i rapporti Est Ovest, la fase di disgregazione dell’URSS e la rapida riunificazione tedesca in cambio della europeizzazione del marco per merito del cancelliere Helmuth Kohl. Quel Trattato fu la migliore soluzione possibile al riemergere della questione tedesca. 

La scelta funzionalista cara a Monnet in un costante equilibrio tra realismo e utopia ha consentito di procedere per piccoli passi, progressivi avanzamenti; rinnovamento continuo e progressivo dei progetti è stato il carburante per la crescita. 

Come non riconoscere che il successo del mercato europeo ha attirato sempre più Paesi nell’Unione accrescendo il numero degli Stati, allargando frontiere, imponendo una moneta unica che avrà bisogno di un governo economico. I passi avanti in questa direzione sono stati finora modesti. Il metodo intergovernativo ha finora prevalso su un governo autenticamente europeo e democratico.

Dovranno essere fatti passi in avanti nella governance europea senza la quale sarà difficile affrontare nuove crisi economiche e sociali. Al deficit di governance economica ha svolto azione di supplenza la Banca Centrale Europea, come è stato con il quantitative easing, che ha saputo affrontare con la guida di Mario Draghi – pur nei vincoli dello Statuto – i momenti di difficoltà per la crisi economica con coraggio e determinazione. La pandemia ha fatto maturare la consapevolezza che le crisi planetarie richiedono sempre maggiore integrazione. 

Il riposizionamento e il riadattamento delle strutture produttive, l’interdipendenza nelle catene del valore, le scelte energetiche, la transizione ambientale, il solco tecnologico che divide le aree del mondo, richiedono un approccio nuovo e diverso di cui cooperazione e solidarietà sono strumenti essenziali. 

L’Europa ha un grande ruolo se afferma i suoi valori che sono quelli dell’ umanesimo cristiano. 

Vi sono stati anche incidenti di percorso e pesanti battute d’arresto come il fallimento del progetto di Trattato di Costituzione Europea – per il voto referendario negativo di Paesi come la Francia e Olanda – perché il governo economico ha bisogno di una Costituzione. 

L’Italia e i suoi governanti hanno saputo guardare lontano. Molti dei protagonisti del Trattato di Maastricht sono scomparsi. Andreotti presidente del Consiglio, Guido Carli ministro del Tesoro, Gianni De Michelis ministro degli Affari Esteri hanno scritto una pagina di storia incancellabile nella fase di negoziazione degli accordi, poi Emilio Colombo nella fase del processo ratifica insieme agli altri 11 Paesi. De Michelis con il vertice italo- tedesco dell’Argentario contribuì a rimuovere gli ostacoli nel cammino per la riunificazione tedesca. 

Alla vigilia della ratifica parlamentare di Maastricht in una riunione della Dc Emilio Colombo, di fronte alle critiche e alle preoccupazioni dei deputati Dc soprattutto per i riflessi sull’agricoltura e sulle aree deboli disse: “Si può dire sì o no”;  “se dovesse giudicare sulla base degli obiettivi che pensava si dovessero conseguire e che si sono conseguiti modificherebbe il Trattato almeno del 50 per cento”;  e ancora “… qualunque possa essere il giudizio delle singole norme è sempre un altro passo sulla via europea … in più contiene tutto il percorso per l’arrivo all’Unione economica e monetaria”. 

Il Trattato era il coronamento di un sogno e insieme l’orizzonte dell’Europa riunita, ma finirà per incidere fortemente sul modello di crescita. Si fissavano le tappe del processo di Unione Economica e Monetaria che dieci anni più tardi, nel 2002, vedeva l’Euro come moneta, poi nel 2004 un poderoso allargamento di Stati membri con riflessi negativi sul processo decisionale comunitario, ma si manifestavano anche le insidie pericolose della globalizzazione. 

Non tutti i Paesi erano nelle stesse condizioni per affrontare il mare aperto. 

Il modello Italia soffriva il suo nanismo imprenditoriale e la sua struttura produttiva di pmi familiari. Purtroppo si verificherà quello che Antonio Fazio aveva individuato come “bradisismo” cioè come abbassamento della crescita non avendo più flessibilità sul costo del lavoro per la perdita di manovra sul cambio! 

Tra il 2000 e il 2003 il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) aumenta in Italia del 9,9 per cento, in Germania  dell’1,7 e in Francia dell’1,5. Tra il 2000 e il 2004 la produzione industriale scende del 2,8. In Francia sale del 2 e in Germania del 3 per cento. Gli investimenti produttivi tra il 2006 e il 2014 sono diminuiti del 27 per cento in Italia  e aumentati in Europa. 

Il dividendo di pace ha portato innegabili benefici. L’Unione ora dovrà affrontare problemi vecchi e nuovi: dalla cessione di sovranità dei singoli Stati alla governance istituzionale europea, dal rafforzamento dei poteri del Parlamento e della Commissione, alle maggiori dotazioni e autonomia di bilancio, dalle asimmetrie fiscali al dumping infrastrutturale, dal debito europeo al recupero e rafforzamento del principio di sussidiarietà. 

Leggi anche: Geopolitica nell’Est europeo, un affresco di Alessandro Duce. 

Lo scenario europeo vede nuovi protagonisti. 

Dopo il ritiro di Angela Merkel, Macron si trova al centro di nuovi equilibri europei sia con il semestre francese sia con le elezioni presidenziali di aprile. Ha la possibilità di coniugare politica interna e politica estera su temi europeisti decisivi. 

Resta sospesa in Francia la riforma delle pensioni bloccata dai movimenti di piazza. La revisione del Patto di stabilità insieme alla transizione ecologica e digitale possono essere le occasioni per affermare una centralità francese coinvolgendo l’Italia, dopo il Trattato dell’Eliseo, più di quanto fatto in passato con l’asse Francia Germania.

Un rinnovato europeismo può essere determinante per ridare slancio all’Unione Europea che ha bisogno di nuovi coraggiosi protagonisti. 

L’autonomia strategica dell’Europa presuppone di riconsiderare la definizione di un esercito europeo. L’attenzione verso l’Africa richiede innovazione nei rapporti nord sud. 

Riuscirà Macron al caminetto dell’Eliseo, come fu fatto prima di Maastricht da altri protagonisti come Mitterrand, Kohl, Andreotti, a far fare all’Europa quel salto in avanti indispensabile a farsi adulta aggiungendo una “idea” alla moneta, al mercato e ai diritti? 

Perché – come disse Kohl a Palazzo Giustiniani – non c’è una via comunitaria senza compromessi. Se riconosceremo di avere commesso errori (Trattato di Maastricht, ndr) non dovremo vergognarci di avere concepito una opera ed ammettere che essa era circoscritta ad un periodo limitato, che comunque ha spianato la strada verso il futuro. 

 Maurizio Eufemi

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Bibliografia essenziale 

 

A.Fazio, La grande inflazione tedesca e la grande crisi. L'Euro, 2015 Trento; 

I. Tarolli, Antonio Fazio e i fatti italiani,  in corso di stampa 2022; 

M.Eufemi,  Pagine Democristiane, il laboratorio Edizioni 2018; 

G.De Michelis documenti personali, 1996; 

Gruppo Dc Camera dei Deputati, verbali del comitato direttivo, 1992; 

Senato della Repubblica, l'Idea dell'Europa, Rubettino 2003 

Elezioni presidenziali, parla Gerardo Bianco

 

Un illustre veterano apre il cassetto dei ricordi politici Quando la Dc nel ’71 preferì Leone a Moro e Craxi nel ’92 disse no ad Andreotti. Scalfaro non fu eletto perché era successa la strage di Capaci

 

di Maurizio Eufemi (senatore nella XIV e XV legislatura)

 

Dopo l’approvazione della manovra di bilancio per il 2022, l’inizio del prossimo anno vedrà l’elezione del nuovo Capo dello Stato, essendosi concluso il settennato di Sergio Mattarella. Ne parliamo con Gerardo Bianco, parlamentare dal 1968 al 2006, dopo il genetliaco festeggiato nei giorni scorsi. Ha partecipato alla elezione di ben sei Presidenti della Repubblica, quindi un grande conoscitore della storia democratica del Paese. Con lui vogliamo aprire il cassetto dei ricordi politici e delle vicende parlamentari che hanno caratterizzato quegli appuntamenti.

 

Partiamo dalla elezione di Leone nel dicembre del 1971. Che ricordi ci sono della elezione di Leone?

Ricordo l’Assemblea dei senatori e dei deputati Dc nella sala dei Gruppi parlamentari a Montecitorio: ci fu un ampio dibattito. Ero entrato a Montecitorio nel 1968, chiesi la parola e mi fu data, parlai in favore di Moro nel gelo dei presenti. Dopo di me intervenne anche Donat-Cattin che sostenne la tesi; gli interventi prevalenti, fra cui quello di Franca Falcucci, Fiorentino Sullo, non furono favorevoli a Moro, poi però fu fatta la votazione a scrutinio segreto – ed essendo segreto  non si seppero precisamente i voti- e  prevalse Leone, ma pare che Moro prese moltissimi voti. Leone fu eletto dopo moltissimi scrutini (23). La cosa che mi ha colpito fu la discrezione, la misura, in un certo senso, perfino il distacco di Moro, il quale non partecipò a quella Assemblea. Chi non era sfavorevole a Moro nel 1971 seppure con una posizione sfumata e prudente era Arnaldo Forlani, segretario politico della DC. Era tutt’altro che contrario. Aveva un atteggiamento di grande misura e prudenza. Teneva conto del clima politico.

 

Questo ci riporta in un certo senso a un metodo che era quello delle designazioni interne dentro i partiti attraverso le votazioni interne. Adesso invece si lanciano nomi senza nessuna verifica.

Accade esattamente quello che stai dicendo. Quando in sostanza si doveva decidere il Presidente della Repubblica il partito di maggioranza relativa forniva una indicazione. C’è da ricordare, per esempio, la indicazione che dette De Gasperi con Einaudi come elemento di garanzia dell’unità nazionale. Non si sceglieva un candidato interno al partito, ma si sceglieva un nome che poteva raccogliere il consenso ampio delle altre forze politiche.

La stessa cosa, va ricordato, se andiamo indietro nel tempo, venne con la scelta che fece Fanfani, che indicò Merzagora, ma all’interno ci fu la fronda antifanfaniana anche con l’appoggio delle forze esterne al partito democristiano. Importante fu l’apporto del partito comunista. La preferenza cadde su Gronchi che rappresentava in un certo senso la posizione più aperta alle istanze della sinistra. Sembrò, ad un certo punto, che Gronchi potesse rinunziare e invece ci fu una riunione in casa di Salvatore Scoca in cui parteciparono alcuni leader della DC tra cui Pella, Andreotti etc; fu riconfermata la candidatura di Gronchi sulla quale ovviamente fu costretto anche Fanfani a convenire, e Gronchi fu eletto. Scoca era un avvocato generale dello Stato,. Dovendo fare recentemente la sua commemorazione leggendo alcuni documenti storici emerse che ci fu la voce, pare diffusa da Fanfani, che Gronchi avesse rinunziato e invece ci fu, appunto, la riunione a casa Scoca nella quale usci un comunicato che diceva una cosa molto semplice: che Gronchi non poteva rinunziare non avendo posto la candidatura e quindi rimaneva in lizza. A questo punto Fanfani ne prese atto e fecero macchina indietro.

Va anche ricordato che nelle elezioni presidenziali del 1964 Donat- Cattin e De Mita furono sospesi per sei mesi dall’attività di Gruppo perché sostenevano la candidatura di Fanfani rispetto al candidato ufficiale del partito.

 

Dopo Leone, con la vicenda delle dimissioni, la strage di Via Fani e l’assassinio di Moro, nel luglio 1978 arriviamo a Sandro Pertini, che nel discorso alle Camere disse appunto “ alla nostra mente si presenta la dolorosa immagine di un amico, di un uomo onesto, di un politico dal forte ingegno e dalla vasta cultura: Aldo Moro” “ quale vuoto ha lasciato nel suo partito e in questa Assemblea; se non fosse stato crudelmente assassinato, lui non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi”. 

Fece un nobile discorso, Pertini. La scelta di Pertini avvenne su indicazione di Zaccagnini. Fu data questa indicazione, ma nel voto interno, poiché le scelte del Segretario del Partito non è che venivano accolte senza una verifica interna, si fecero le votazioni interne e un gruppo di noi sosteneva la candidatura di Ugo La Malfa. Prese un certo numero di voti. Trenta, quaranta voti, poi La Malfa si ritirò e anche lui fece convergenza su Pertini che era presidente della Camera e in un certo senso la scelta fu oculata, dimostrando come si sapeva indirizzare, orientare, fare una regia. Sembra che La Malfa abbia poi chiesto a Pertini di portare come persona di garanzia Antonio Maccanico alla segreteria generale del Quirinale, cosa che poi avvenne. Maccanico è stato un elemento fondamentale. Ritengo Pertini un grande Presidente. Mi rinfacciava di non averlo votato. Non lo feci nel voto interno, ma ovviamente lo feci in Aula quando la scelta fu decisa. E con Pertini ho avuto uno dei rapporti migliori con i Presidenti della Repubblica da presidente del Gruppo;  meglio con Pertini che con gli altri Presidenti democristiani.

Pertini aveva un sentimento popolare forte. Era molto amato.

Fu accusato di andare oltre quelle che erano le sue funzioni. Invece era accuratissimo. Quando ci fu la vicenda dei controllori di volo lui continuava a dirmi: “ma io sono intervenuto perché me lo ha chiesto il Presidente Cossiga” di intervenire per tamponare un fatto che era molto grave. Al contrario di ciò che si pensa, era scrupoloso. Aveva un grande consigliere che era Antonio Maccanico che nelle sue memorie ha raccontato questi episodi. C’era un bilanciamento molto importante e secondo me la presidenza di Pertini va valutata come una delle più belle presidenze anche perché riconciliò le Istituzioni con il sentimento popolare. E’ una funzione che non gli si può negare nel modo più assoluto.

 

Dopo il settennato di Pertini giungiamo alla elezione di Cossiga.

Cossiga fu una idea intelligente di De Mita che concordò immediatamente con il Partito Comunista l’ intesa sul suo nome. L’operazione riuscì pienamente. Si votò all’interno per Cossiga e fu eletto con una grande maggioranza. Fu una operazione intelligentemente costruita da De Mita con una rapporto diretto con il partito di opposizione allora guidato da Natta.

 

Dopo Cossiga, un giovane presidente che esce di scena. Una volta non si eleggevano i Presidenti perché troppo giovani perché si diceva: dopo che escono dal Quirinale che fanno?. Cossiga infatti uscì giovane

Ugo Stille disse una cosa molto interessante che la costituzione italiana aveva intelligentemente risolto il problema facendo in modo che i Presidenti della Repubblica diventino senatori a vita, mentre il problema rimaneva per gli Stati  Uniti d’America dove i presidenti giovani non avevano più un ruolo pubblico e invece i Presidenti divenuti senatori potevano svolgere un ruolo di mentori, di guida, di suggerimento, non è che perdessero ruoli e funzioni. I Costituenti italiani erano stati lungimiranti. Non lasciavano il Presidente della Repubblica che aveva rappresentato la Nazione senza un ruolo politico. Quindi era stata una scelta molto accurata e intelligente.

 

Dopo Cossiga, che è anche il Presidente della Repubblica nella fase della caduta del Muro di Berlino, dei nuovi rapporti tra Est e Ovest, con crepe sullo scenario internazionale e sul versante della costruzione europea dopo l’Atto Unico di Delors ci si muove verso l’integrazione monetaria con il Trattato di Maastricht, si arriva al 1992 e alla elezione di Scalfaro.

La elezione di Scalfaro avviene dopo la rinunzia di Arnaldo Forlani al quale mancavano – se non vado errando – 29 voti per essere eletto. Forlani ci riunì (la delegazione dei presidenti dei Gruppi parlamentari e De Mita, presidente del Partito, a Piazza del Gesù e come se si fosse liberato di un peso disse: No, io non intendo più mantenere la candidatura, facciamo altre scelte e consultò perfino Valiani che venne alla Camera dei Deputati. Poi  ci fu la proposta dei socialisti. Se il candidato democristiano non ce la fa, lo proponiamo noi e si propose Vassalli. Il quale fu votato ma si vide che c’era una grande distanza dal quorum per essere eletto. Mancavano parecchi consensi, centinaia di voti per raggiungere la maggioranza mentre il PCI era inchiodato su De Martino.

Craxi indicò Vassalli mentre il Pci si orientava su De Martino per cercare di dividere i socialisti. Il problema della mancata elezione di Forlani fu determinato da due vicende: ci fu, non va dimenticata, una esplicita dichiarazione di Segni che non votava Forlani e alcuni lo seguirono; poi ci fu un dato: mancavano 30-40 voti del gruppo vicino ad Andreotti, il quale aspirava chiaramente a subentrare alla candidatura, ma la candidatura non è mai decollata perché nel gruppo parlamentare la maggioranza a favore di Forlani era schiacciante. Andreotti prese pochissimi voti e poi la esclusione della candidatura di Andreotti a Presidente della Repubblica fu netta da parte dei socialisti. Andai da Craxi perché Andreotti mi aveva chiesto di fare una verifica e Craxi, presente Martelli, rispose che non era possibile. Martelli fu perfino molto deciso. La cosa mi infastidì perché non era garbato il modo in cui liquidava la candidatura di Andreotti. Il nome di Andreotti non è mai esistito come candidato tra quelli possibili. Poi un altro nome che era circolato era quello di Martinazzoli che era stato accennato da qualcuno come punto di incontro, ma fu subito escluso dal capogruppo D’Alema in una conversazione. Disse che non poteva andare. In realtà a sciogliere il nodo a favore di Scalfaro fu Craxi il quale aveva un disegno ben preciso. Immaginava il presidente della Repubblica democristiano, il presidente della Camera comunista e indicò come nome su cui convergere Napolitano e il presidente del Consiglio socialista, che doveva essere lui. Poi le cose andarono diversamente. Craxi mostrò molta lungimiranza. Accettò che fosse Amato il presidente del Consiglio. Adesso si dice che la scelta di Scalfaro fu fatta sulla base dell’attentato criminoso di Capaci che uccise Falcone.

Sono dubbioso su questo. Mi pare di ricordare che la intesa su Scalfaro era già avvenuta. Già ci si orientava su Scalfaro . La vicenda di Capaci acceleró tutto, ma la convergenza era già stata raggiunta. Purtroppo non ho un diario su cui ho registrato questi passaggi. Abbiamo ricordato molte cose. Alcune le ho rimosse, ma fino a Scalfaro ho una memoria precisa e puntuale.

La scelta definitiva avveniva – lo sai perché facevi parte dell’equipe – con voto segreto nominale e poi le schede venivano bruciate. Quando ci fu la scelta di Forlani ero presidente del Gruppo e come membro della delegazione partecipai allo scrutinio interno.

 

Dopo Scalfaro, nel 1999 abbiamo la elezione di Ciampi  che ha registrato un nuovo punto di incontro ampio in sede parlamentare.

La elezione di Ciampi vide una convergenza successiva. Marini continuava a ripetere che il candidato nostro era la Iervolino, ma si sapeva benissimo che non poteva essere eletta perché mancava il consenso soprattutto di Forza Italia; c’era una sorta di veto di Berlusconi su Iervolino perché la ritenevano molto vicina a Scalfaro e il loro atteggiamento nei confronti di Scalfaro assolutamente era negativo; era quindi una specie di candidata di bandiera. Quando ci riunimmo alle Botteghe Oscure sollecitati all’incontro da Veltroni; Veltroni uscendo disse: il nome che sarà scelto è Ciampi . Ebbi una telefonata di Ciampi che voleva capire quale era il nostro atteggiamento; gli dissi Presidente sarai tu il candidato. Ci fu una convergenza su Ciampi. Non fu il Partito Popolare a fare da kingmaker.

Lo fece Veltroni il kingmaker.

Si, Veltroni giocò bene la partita. Non escludeva il candidato democristiano, ma puntava su Ciampi. Ciampi era stato scelto – non va dimenticato – come presidente del Consiglio da noi. Come ha ricordato Martinazzoli nelle sue memorie, fui io ad indicare Ciampi come candidato alla presidenza del Consiglio nel 1993. Era una indicazione che veniva dal nostro gruppo parlamentare.

Quindi se andava bene come presidente del Consiglio, un andava bene anche come presidente della Repubblica!

Era assurdo, incredibile potere dire di no. E’ come quello che accade oggi per Draghi. Come fate a dire di no a Draghi dopo che sono stati al governo con lui.!

Poi Ciampi era stato un presidente del Consiglio attentissimo alle posizioni del nostro partito. Non c’era scelta che faceva se non consultava noi. L’asse portante del governo Ciampi –  come tu ricorderai – era il gruppo democristiano. Eravamo noi l’asse portante, qualsiasi movimento, qualsiasi scelta qualsiasi decisione la comunicava in anteprima. Sotto certi aspetti Ciampi è stato attento alle posizioni della Dc perfino più di Prodi.

Il candidato che poteva passare, ma il tempo era scaduto, era il nome di Mancino. Il nome fu fatto ma non decollò. Il nome di Mancino era un nome che Berlusconi aveva detto accettabile, ma non fu mai candidato dalla DC.

 

Non superò il vaglio interno?

Esatto e direi che Mancino con grande classe fece un comunicato stampa dicendo che ritirava la candidatura. Fu correttissimo.  In un certo senso favorì con questa presa di posizione la opzione Ciampi.

 

 Dopo Ciampi c’è l’elezione di Napolitano a maggio 2006. Si ritorna a una votazione più risicata.

Oltre essere elettore, su Napolitano non ebbi alcun ruolo. Dovevano uscire un po’ di voti dall’UDC in favore di Napolitano.

 

Un ruolo lo ebbi io, perché lo votai. Ero convinto che ne dovessero uscire pochi solo per raggiungere il quorum, allora tanto vale farne uscire di più! 

E’ stato un atto di responsabilità. Il Presidente della Repubblica più ha vasto consenso, più ha quel ruolo di garanzia, ecco perché le elezioni risicate del Presidente  della Repubblica non sono una buona cosa.

 

 Adesso c’è un problema rispetto al passato. Nella Prima Repubblica fino a Scalfaro si votava per scheda che si depositava nell’urna, poi furono introdotti i ‘’catafalchi’’ per garantire la segretezza del voto. Abbiamo però visto che attraverso la scrittura del nome nelle varie combinazioni nome cognome sono stati posti in atto mezzi per controllare il voto ed identificarne la provenienza di gruppo.

Oggi dunque c’è il problema del controllo del voto. I rischi della pandemia farebbero ipotizzare una sola votazione al giorno tanto da far avanzare il voto a distanza per garantire il voto a tutti i grandi elettori. 

Il voto a distanza è molto discutibile.

Quello che si può immaginare è di far votare quelli che hanno problemi, alla fine della seconda chiama. Mi sembra più logico. Saranno un numero limitato di grandi elettori. Si potrebbe prevedere un turno per quelli in difficoltà o per quelli non vaccinati adoperando quelle che sono le misure prudenziali, facendoli votare con tutte le garanzie.

 

Anche aumentando i catafalchi?

Appunto con tutte le misure prudenziali, allungando i tempi del voto.

Un pensiero a Francesco Forte

 

Ci ha lasciati in questo fine d’anno Francesco Forte, docente universitario, ordinario di Scienza delle Finanze a Torino nella cattedra che fu di Luigi Einaudi , economista insigne, parlamentare, Ministro. 

 

Quando giungono notizie così tristi pensi ai momenti di incontro, alle occasione che nella vita ti hanno portato a contatto con personaggi così straordinari e poi ti portano a seguirlo nel tempo attraverso i suoi scritti, le interviste che propagano un pensiero mai banale così come è avvenuto fino ai giorni scorsi sul Sussidiario con prese di posizione sui temi di attualità economica e politica, dove forse più liberamente riusciva ad esprimersi senza remore con una visione globale. 

 

Mi aveva colpito la sua attenzione alla economia sociale di mercato e la sua disponibilità a collaborare con filosofi ed economisti (tra questi voglio ricordare i lavori con Flavio Felice) di più giovane generazione come a rinvigorire la ricerca economica attraverso un confronto intergenerazionale mai chiuso in se stesso. C’era l’impronta degli anni di insegnamento trascorsi alla Cattolica nella cattedra di Ezio Vanoni e alla collana editoriale di Vita e Pensiero. Poi certo l’influenza di James Buchanan con le teorie delle scelte pubbliche, ma anche attenzione a Roepke. Anche nelle riunioni politiche di maggioranza nelle quali partecipava in rappresentanza del PSI il suo atteggiamento era sempre costruttivo, mai impositivo. Faceva prevalere il valore profondo delle idee alla forza dei numeri. 

 

Voglio però ricordarlo con un pregevole lavoro che fece nel 1981 per una riflessione sul convegno economico di Perugia del 1972 che curai per la collana Studi e Documenti del Gruppo Dc per le edizioni Cinque Lune, che definì di spessore  molto grande. Era titolato “Verso una economia intermedia avanzata” . 

Pose attenzione sulla deresponsabilizzazione  della spesa degli enti locali, la lotta alla evasione fiscale, il superamento della cassa integrazione e la configurazione delle Agenzie del Lavoro, il rapporto tra imprese pubbliche e private, il drenaggio di risorse finanziarie da parte delle imprese pubbliche, la troppa attenzione culturale alla macroeconomia e alle macrostrutture anziché alle microeconomia e alle microstrutture, la consapevolezza che il riformismo illuminato è una strada facile da perseguire in teoria è difficile da praticare nella realtà. 

 

Rifiutava la teoria che il nostro meccanismo di sviluppo si fosse inceppato sostenendo  invece la validità costruttiva e dinamica del modello di società intermedia di cui l’Italia fin dagli  anni settanta ha assunto i tratti. Voleva dire non solo presenza di piccole e medie imprese ma un dosaggio con le grandi senza trascurare le tecnologie intermedie. Cioè avere il compito di diventare una economia intermedia avanzata riformando “stato sociale” e “stato fiscale”. 

 

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