Disegni di
Legge |
TITOLO |
DdL n. |
Data
pres. |
Proponenti |
Esenzione dall'imposta comunale sugli immobili (ICI) per l'abitazione
principale
DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa del senatore EUFEMI COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 7 MAGGIO
2007 Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, in
materia di esenzione dall’imposta comunale sugli immobili
dell’abitazione principale
Onorevoli Senatori. – L’articolo 42 della Costituzione dispone che: «La
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Si
può, pertanto, affermare che l’abitazione costituisce, per la sua
fondamentale importanza nella vita dell’individuo e delle famiglie, un
bene primario.
Lo
Stato, con numerosi interventi normativi, ha agevolato l’accesso
all’acquisto della prima casa, in particolare per le giovani coppie, con
ciò realizzando il precetto costituzionale della funzione sociale della
proprietà. Nonostante la promozione e l’attuazione di politiche
abitative volte ad introdurre agevolazioni creditizie e fiscali in
materia di acquisto della prima casa, con il decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504, è stata istituita una nuova imposta denominata
«imposta comunale sugli immobili» (ICI), avente come presupposto il
possesso di fabbricati, aree fabbricabili o terreni agricoli siti nel
territorio dello Stato, qualunque ne sia la destinazione.
L’imposizione fiscale colpisce l’unità immobiliare ed ha come soggetto
passivo il proprietario dell’immobile o il titolare del diritto di
usufrutto, uso o abitazione. Il gettito è assegnato al comune che può
determinare discrezionalmente l’aliquota fra il 4 e il 7 per mille.
Nonostante il citato decreto legislativo n. 504 del 1992 riconosca
l’esigenza di prevedere un regime differenziato e mitigato per
l’abitazione principale, ciò non ha determinato l’assoggettamento
all’aliquota più bassa o consistenti e diffuse detrazioni a favore del
proprietario della prima casa.
La
dinamica della crescita di tale tributo, incrementato del 44,2 per cento
dal 1993 è rappresentato nella tabella allegata. Il presente disegno di
legge, intende alleggerire il carico fiscale che grava sull’abitazione
principale trasformando il regime contemplato dall’articolo 8 del
medesimo decreto legislativo n. 504 del 1992, in esenzione totale.
Un
tale intervento determinerebbe le condizioni per una maggiore
disponibilità di reddito in favore delle famiglie, liberando risorse per
i consumi.
Tabella
EVOLUZIONE DEL
GETTITO ICI
ANNO |
GETTITO
(milioni
di euro) |
1993 |
7.280 |
1994 |
7.285 |
1995 |
7.445 |
1996 |
7.836 |
1997 |
8.612 |
1998 |
8.800 |
1999 |
9.158 |
2000 |
9.353 |
2001 |
9.414 |
2002 |
9.586 |
2003 |
9.682 |
2004 |
9.849 |
2005 |
10.500 (stima) |
1993-2005 = +44,2%
|
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. Al decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, sono apportate le seguenti
modificazioni: a) all’articolo 7, comma 1, dopo la lettera i) è aggiunta
la seguente: «i-bis) le unità immobiliari direttamente adibite ad
abitazione principale del soggetto passivo limitatamente al periodo
dell’anno durante il quale si protrae tale destinazione. Per “abitazione
principale“ si intende quella nella quale il contribuente, che la
possiede a titolo di proprietà, usufrutto o di altro diritto reale, e i
suoi familiari dimorano abitualmente. La disposizione di cui alla
presente lettera si applica anche per le unità immobiliari, appartenenti
alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione
principale dei soci assegnatari». b) all’articolo 8 i commi 2, 3 e 4
sono abrogati.
Art. 2.
1. Agli oneri
derivanti dall’attuazione della presente legge valutati in 3,3 miliardi
di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 si provvede mediante
l’utilizzo delle maggiori entrate determinate, ai sensi dell’articolo 1,
comma 4, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. |
1542 |
7/05/07 |
Sen. EUFEMI Maurizio |
Disposizioni in materia di Banche Popolari cooperative
Onorevoli
Colleghi,
la recentissima
decisione della Commissione europea di disporre l’archiviazione della
procedura di infrazione contro il Governo italiano, in merito ad una
presunta violazione dei principi comunitari di libertà di stabilimento e
libera circolazione dei capitali, fuga ogni dubbio sulla legittima
appartenenza delle Banche Popolari cooperative italiane al genus della
società cooperativa.
Il legislatore
italiano aveva già anticipato questo giudizio con la riforma del diritto
societario, riconoscendo che queste aziende, forti di oltre 7.700
sportelli, ubicati per oltre l’80% in aree non urbane, di oltre un
milione di soci e otto milioni di clienti, fanno parte a pieno titolo di
una realtà mondiale, la cooperazione di credito, che conta oltre
cinquantaduemila istituti e duecento milioni di soci, retti tutti dal
vincolo della solidarietà e dal principio voto capitario.
E’, quest’ultimo,
un principio universale, essenziale alla esistenza stessa della società
cooperativa e non una deviazione dal principio del voto per azione,
proprio delle s.p.a. né, tanto meno, una “anomalia” italiana.
A questo riguardo,
lo stesso commissario McCreevy, in un discorso tenuto a Bruxelles l’11
dicembre 2005, parlando del principio di proporzionalità fra rischio e
controllo nelle s.p.a. – che da una indagine di Deeminor sulle società
quotate europee risultava essere applicato dal 65% di queste, con punte
del 100% in Belgio, del 68% in Italia, ma solo dal 14% in Olanda, 25% in
Svezia e 31% in Francia e di qui la sua battaglia in difesa di questo
principio – ha affermato “Al contrario, per le cooperative il principio
è piuttosto quello del voto per testa, che è un concetto diverso”.
Peraltro, a fronte
di un quadro normativo e di mercato profondamente mutato o suscettibile
nel prossimo futuro di ulteriori evoluzioni, il Credito Popolare ha da
tempo assunto atteggiamenti di apertura, senza però disancorarsi
dall’identità propria di società cooperativa.
In più occasioni i
suoi esponenti hanno evidenziato come l’attaccamento agli ideali e ai
principi istituzionali che costituiscono l’essenza stessa della Banca
Popolare cooperativa, se non vivificato da un continuo adeguamento al
divenire del contesto normativo e operativo e da conseguenti coerenti
comportamenti da parte delle singole aziende corre il rischio di
risultare sterile.
Nel suo recente
discorso alla celebrazione della Giornata del risparmio anche il
Governatore della Banca d'Italia Dr. Draghi è intervenuto sul punto “Sul
finire della scorsa legislatura aveva trovato ampio consenso un progetto
di legge che avrebbe attenuato i limiti di partecipazione, specie per
gli investitori istituzionali, rafforzando la protezione degli azionisti
per le banche popolari quotate, pur mantenendo i caratteri essenziali
della forma cooperativa”.
Raccogliendo
questa autorevole esortazione e l’auspicio espresso nella relazione al
progetto di legge citato secondo cui “i risultati del lavoro effettuato
non debbano essere dispersi ma costituire una preziosa base di lavoro
per gli interventi legislativi che potranno essere realizzati nella
prossima legislatura”, appare opportuno predisporre un progetto di legge
che, pur recependo il primo lavoro svolto dai colleghi della Camera dei
Deputati nella precedente legislatura, ne rendesse più agevole il
percorso parlamentare eliminando quelle previsioni che avevano indotto
l’allora minoranza ad esprimere voto contrario al provvedimento, che
pertanto fu approvato a maggioranza.
In quell’occasione
l’On.le Benvenuto motivò il parere contrario con il timore che alcuni
emendamenti introdotti all’ultimo momento potessero comportare “il
rischio di attribuire il controllo delle Banche Popolari a soggetti
estranei al mondo cooperativo, ponendo a rischio la positiva specificità
di tali soggetti, che rappresentano un elemento di forza del sistema
economico nazionale, che dovrebbe pertanto essere difeso”.
Tutte queste
considerazioni trovano puntuale riscontro nel progetto di legge che
presento con l'auspicio che possa trovare definizione legislativa in
tempi rapidi con adeguate modifiche agli articoli 30 e 31 del Testo
Unico in materia bancaria e creditizia.
Disposizioni in
materia di Banche Popolari cooperative
Art. 1
(Modifica
dell’articolo 30 del testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia).
1. L’articolo 30
del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è sostituito dal
seguente:
«Art. 30. –
(Soci). – 1. Ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni
possedute. 2. Nessun soggetto può detenere azioni in misura eccedente
l’1 per cento del capitale sociale. La banca, appena rileva il
superamento di tale limite, contesta al detentore la violazione del
divieto. Le azioni eccedenti devono essere alienate entro un anno dalla
contestazione; trascorso tale termine, i relativi diritti patrimoniali
maturati fino all’alienazione delle azioni eccedenti vengono acquisiti
dalla banca. Resta fermo quanto previsto dal Capo III. 3. In deroga al
comma 2, gli organismi di investimento collettivo del risparmio e i
fondi pensione, italiani o esteri, possono detenere fino al 5 per cento
del capitale sociale. I soggetti di cui al presente comma, qualora
gestiti da un medesimo gestore, italiano o estero, non possono detenere
complessivamente più del 5 per cento del capitale sociale della banca.
Sono fatti salvi i limiti più stringenti previsti dalla disciplina
propria di tali soggetti e dallo statuto della banca popolare. 4. Ai
fini del computo dei limiti di cui ai commi 2 e 3, si tiene conto delle
partecipazioni detenute nel capitale sociale della banca, sia
direttamente, sia indirettamente, secondo quanto stabilito dall’articolo
22 5. Lo statuto delle banche popolari che adottano il sistema
dualistico può prevedere che la competenza per l’approvazione del
bilancio di esercizio sia attribuita all’assemblea.. 6. Lo statuto delle
banche popolari con azioni quotate nei mercati regolamentati può
prevedere che la nomina di sindaci o, in caso di adozione del sistema
dualistico, di componenti il consiglio di sorveglianza in rappresentanza
della minoranza, ai sensi dell’articolo 148, comma 2, del testo unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni,
avvenga su designazione dei soggetti di cui al comma 3. 7. Il numero
minimo dei soci non può essere inferiore a duecento. Qualora tale numero
diminuisca, la compagine sociale deve essere reintegrata entro un anno;
in caso contrario, la banca è posta in liquidazione. 8. L’ammissione a
socio ha luogo, su domanda, con deliberazione del consiglio di
amministrazione da comunicare all’interessato. La domanda di ammissione
si intende accolta qualora la determinazione contraria del consiglio di
amministrazione non venga comunicata al domicilio dell’aspirante socio
entro sessanta giorni dalla data in cui la domanda è pervenuta alla
banca. 9. Le delibere del consiglio di amministrazione di rigetto delle
domande di ammissione a socio devono essere motivate avuto riguardo
all’interesse della società, alle prescrizioni statutarie e allo spirito
della forma cooperativa. Il consiglio di amministrazione è tenuto a
riesaminare la domanda di ammissione su richiesta del collegio dei
probiviri, costituito ai sensi dello statuto e integrato con un
rappresentante dell’aspirante socio. L’istanza di revisione deve essere
presentata entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione della
deliberazione e il collegio dei probiviri si pronuncia entro trenta
giorni dalla richiesta. 10. Le norme di cui ai commi 8 e 9 si applicano
anche nel caso di cessione di azioni. 11. Coloro che non abbiano chiesto
od ottenuto l’ammissione a socio possono esercitare i diritti aventi
contenuto patrimoniale relativi alle azioni possedute, fermo restando
quanto disposto dal comma 2. 12. E’ nulla ogni clausola dello statuto
volta a introdurre limiti alla trasferibilità delle azioni di banche
popolari. 13. Le banche popolari con azioni quotate in mercati
regolamentati possono procedere all’emissione di nuove azioni
esclusivamente nelle forme previste dagli articoli 2438 e seguenti del
codice civile».
Art. 2
(Modifica
all’articolo 31 del testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia).
1. All’articolo 31
del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e successive
modificazioni, il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Le maggioranze
previste dallo statuto per la costituzione delle assemblee e per la
validità delle deliberazioni aventi ad oggetto le operazioni di cui al
comma 1 autorizzate nell’interesse dei creditori ovvero per esigenze di
rafforzamento patrimoniale non possono superare la meno elevata tra
quelle previste per le altre modificazioni dello statuto. E’ fatto salvo
il diritto di recesso dei soci». |
1221 |
19/12/06 |
Sen. Eufemi Maurizio |
Istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla
situazione dello sport del calcio
professionistico in Italia.
———–
Onorevoli Senatori,
la gravissima
crisi che ha colpito il mondo del calcio dopo le inchieste della
magistratura in diverse procure del Paese impone al Parlamento una
profonda riflessione. Si tratta di affrontare compiutamente le ragioni
di una crisi che ha investito un comparto tra i più importanti del Paese
in termini di volume di affari. Le intercettazioni telefoniche hanno
portato a ben 41 indagati a diverse società professionistiche sotto
indagine. Tutto ciò rappresenta, purtroppo, solo la punta dell’iceberg
del malaffare, di uno scandalo “più grave del previsto” di un “mondo
caduto in pezzi”.
Lo strumento della
Commissione di inchiesta parlamentare rappresenta il mezzo più idoneo
per affrontare la questione nella sua complessità e creare le condizioni
per una rigenerazione del sistema.
Occorre infatti
capire le ragioni di una così grave crisi che ha portato al
commissariamento della FIGC evidenziando le debolezze delle diverse
strutture di gestione del comparto e la necessità di riscrivere le
regole.
Abbiamo assistito
in questi ultimi tempi ad una fuga dalla responsabilità. Non è esatto
quanto sostenuto da più parti che il Parlamento sia stato assente. Da
parte nostra abbiamo cercato di fare ciò che era possibile fare
attraverso lo strumento del sindacato ispettivo nella sede pubblica più
alta come è l’Aula di Palazzo Madama sia con precise prese di posizione
pubbliche sia nell’ambito della indagine conoscitiva sui giochi condotta
dalla 6a Commissione del senato nella XIV Legislatura proprio per
ridefinire le regole del gioco.
Così come va ricordato il pregevole lavoro della Commissione di indagine
promossa dalla Commissione Cultura della Camera dei Deputati nella XIV
legislatura, che aveva portato utili e precisi indicazioni purtroppo
rimaste tali perché chi doveva farsi carico di un cambiamento di rotta
ha preferito rimanere inerte. Si è preferito nascondere i problemi; non
tenere conto della evidenza, nonostante la realtà fosse ormai sotto gli
occhi di tutti.
La inadeguatezza
delle regole era evidente. Era stato ripetutamente sottolineato, così
come la necessità di un loro revisione.
Ricordo altresì la ampia indagine conoscitiva citata svolta nella XIV
legislatura sui giochi, soprattutto per i profili di gestione delle
scommesse sportive e i concorsi pronostici e il sistema di finanziamento
dello sport in generale.
Ricordo la
interpellanza 2-00673 presentata in epoca non sospetta e precisamente
l’8 febbraio 2005 e esaminata dall'Assemblea del Senato il 17 marzo
2005, nella quale era evidenziata la gravità dei problemi del calcio.
Ancora più rilevante quanto emerso nel corso della audizione del
Presidente della FIGC dottor Franco Carraro nella seduta del 21 luglio
2005 nell’ambito della indagine conoscitiva della Commissione Cultura
del Senato sui problemi dello Sport. Questi sono i fatti.
Innanzitutto si è
di fronte ad una crisi di credibilità che derivava dagli intrecci e i
condizionamenti tra varie società, dai conflitti di interesse,
dall’inerzia della FIGC, dai dubbi sui risultati sportivi e dalla
conseguente crisi del Totocalcio, dalle posizioni dominanti in
violazione dei principi della libera concorrenza e del mercato, dagli
accertamenti sulla compravendita dei calciatori e sui compensi delle
prestazioni sportive in ordine alle relative condizioni contrattuali che
evidenziavano particolari anomalie, sintomatiche anche di pratiche
fiscalmente elusive.
Rivendichiamo
pertanto il diritto ed il merito di avere rappresentato nelle competenti
sedi istituzionali una problematica troppo a lungo sottovalutata la cui
indiscutibilità deriva dalla sede prestigiosa in cui è stata resa e che
molti hanno fatto finta di non conoscere compresi autorevoli media
nazionali anche perché essi stessi coinvolti nell’intreccio perverso.
Tutti elementi
questi che inducono a svolgere anche qualche considerazione in ordine
alla credibilità dell'intero sistema. Una credibilità che dobbiamo in
qualche modo riconquistare.
C'è bisogno di promuovere questo settore soprattutto sotto il profilo
della promozione dei valori sportivi che costituiscono un elemento
fondamentale. I giovani devono avere la prospettiva di giocare a calcio,
ma il loro futuro non deve essere affidato ai procuratori, ma,
piuttosto, ai valori e al talento sportivo. Questo è il punto
fondamentale. Abbiamo visto troppi intrecci conseguenti all'operato dei
procuratori, che alterano e non giustificano i risultati o
l'affermazione di un giovane nell'ambito di una società calcistica.
E' importante affermare una cultura dei valori sportivi proprio a
partire dai giovani, garantendo una loro maggiore presenza: queste sono
le regole che devono essere fissate.
Voglio tornare brevemente sulla questione dei procuratori e
sull'intreccio tra questi ultimi e le società che crea gravissime
alterazioni.
V’è la pressante necessità di agire nell'immediato per restituire
credibilità al sistema, ricorrendo a regole più rapide, forti, e severe
al fine di ricostituire una etica del calcio in cui prevalga il valore
sportivo rispetto al business e ai diritti televisivi.
In occasione della presentazione della indagine sul finanziamento dello
sport e i giochi pubblici rilevavo come “l’immagine di un Paese per
quanto riguarda gli sport in campo internazionale non deriva
esclusivamente da quello che è considerato il più popolare degli sport,
il calcio, ma si misura dal complesso delle attività sportive che, pur
non avendo masse di affezionati e di tifosi, hanno notevoli praticanti
come per esempio l’atletica leggera nelle diverse specialità.
C’è necessità di restituire una forte credibilità al calcio anche per
gli indubbi riflessi sui concorsi pronostici. Tale credibilità è stata
fortemente compromessa. I problemi finanziari del calcio
professionistico devono essere affrontati riducendo A tal fine è urgente
riscrivere le regole societarie, che devono essere diverse dalle
generali norme dettate dal codice civile per tutti i soggetti societari,
accompagnate da regole sportive nuove che privilegino l’addestramento e
la maturazione dei giovani. E’ necessario fissare un limite al numero
dei tesserati a seconda della diversità delle competizioni nazionali e
internazionali con una riserva di giovani nella rosa annuale dei
tesserati. E’ necessaria una diversa redistribuzione dei diritti
televisivi che non privilegi eccessivamente i soliti nomi, determinando
un riequilibrio che favorisca la crescita e lo sviluppo delle società
“minori”.
Non si può
rimanere inerti di fronte alle vicende di questi giorni che hanno visto
il commissaria mento della FIGC, l’azzeramento di tanti organi sportivi
le indagini di diverse procure del Paese. Si è ravvisata pertanto la
necessità di ricercare, raccogliere ed analizzare tutti gli elementi
utili alla comprensione di questa vicenda così inquietante mediante
l’istituzione di una Commissione parlamentare ad hoc quale organismo di
massima dignità istituzionale con il compito precipuo di indagare sui
fatti con severità e puntualità. Un’analisi urgente per corrispondere
alle attese dei cittadini che reclamano, a buon diritto, i necessari
chiarimenti che non potranno essere solo quelli né della giustizia
sportiva per i suoi tempi stretti, né quelli della giustizia ordinaria
per i suoi tempi opposti. D'altro canto la Commissione d'inchiesta ha
uno spettro di indagine ben più vasto e una finalità di interesse
generale che né la magistratura ordinaria, né tanto meno quella
sportiva, presentano.
Il presente
disegno di legge prevede, dunque, l’acquisizione con i poteri e le
limitazioni dell'autorità giudiziaria, come recita l'articolo 82 della
Costituzione, di tutti gli elementi utili per verificare i comportamenti
dei diversi soggetti nell’ultimo triennio.
Il Parlamento va
però oltre il mero accertamento delle responsabilità e delle cause della
crisi potendo poi formulare indicazioni e suggerimenti sulle modifiche
legislative ritenute più urgenti.
È necessario
infatti che il Parlamento, recuperando la sua indiscussa centralità,
indichi la strada più adeguata per fornire una esauriente informazione
al fine di far luce su un comparto rilevante della economia nazionale,
dando poi risposte adeguate al recupero di credibilità attraverso la
indicazione di regole nuove incidenti ed adeguate.
Con l’articolo 1
viene istituita a norma dell’articolo 82 della Costituzione la
Commissione di inchiesta parlamentare e vengono individuati i suoi
compiti e le sue finalità per un periodo circoscritto di tempo, l’ultimo
triennio, la verifica del quadro normativo interno rispetto a quello
dell’Unione Europea sia del diritto generale che di quello sportivo.
L’articolo 2 definisce i compiti propri della Commissione.
Il resto
dell’articolato disciplina il funzionamento della Commissione che è
composta da 40 tra deputati e senatori (articolo 3) e deve ultimare i
suoi lavori entro un anno dalla sua istituzione (articolo 2) con
contestuale presentazione al Parlamento di una relazione
particolareggiata sull’indagine eseguita nonché sui risultati raggiunti.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. È istituita, ai
sensi dell’articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare
di inchiesta sulla situazione del calcio professionistico in Italia.
Arti. 2
1. Le finalità
della Commissione sono le seguenti: svolgere approfondite indagini e
procedere all’esame dei documenti giudiziari e sportivi sulla situazione
del calcio professionistico italiano nel triennio 2003-2006 prevedendo
in particolare l’accertamento della situazione dei bilanci
amministrativi relativi ai campionati professionistici;
2. verificare il
quadro della normativa interna, rispetto a quella dell’Unione Europea,
sia per l'ordinamento civilistico che sportivo, in ordine alle società
quotate e alla governance societaria;
3. analizzare in
particolare le seguenti situazioni:
a) i conflitti di
interesse tra organi controllo e società, tra società e procuratori, tra
calciatori e procuratori
b) il ruolo e le responsabilità dei procuratori sportivi
c) l’autonomia del settore arbitrale
d) la diffusione di fenomeni di doping nel settore calcio
e) il funzionamento del sistema dei controlli interni ed esterni al
settore calcistico
f) i rapporti tra Coni, Federazione Italiana Gioco Calcio e tra FIGC e
Lega Calcio
g) il sistema di elezione del Consiglio Federale della FIGC e governance
della Federazione
h) il sistema di erogazione dei diritti televisivi e altre fonti di
finanziamento
i) il trattamento fiscale delle societàprofessionistiche
l) il funzionamento delle Commissioni Federali Caf, Cuf
(Commissioni vertenze economiche)
m) il funzionamento autorità terze di controllo
Art. 3
1. La Commissione
procede alle indagini ed agli esami con gli stessi poteri e le stesse
limitazioni dell’autorità giudiziaria e può avvalersi di ogni mezzo ed
istituto procedurale penale, civile,amministrativo e militare.
2. La Commissione deve ultimare i suoi lavori entro un anno dalla sua
istituzione. È fatta salva la possibilità di proroga motivata, per un
periodo non eccedente i dodici mesi.
3. Conclusa l’inchiesta, la Commissione dà mandato, ad uno o più dei
suoi componenti, di redigere la relazione conclusiva. Se nelle
conclusioni dell’inchiesta non è raggiunta l’unanimità, possono essere
presentate più relazioni.
4. Entro il termine di cui al comma 3, la Commissione deve presentare al
Parlamento la relazione, o le relazioni, sulle risultanze delle indagini
e degli accertamenti di cui all’articolo 1 e, a maggioranza dei suoi
componenti, deve deliberare la pubblicazione degli atti dell’inchiesta.
5. Il Presidente della Commissione, ogni sei mesi, deve presentare al
Parlamento una relazione sullo stato dei lavori e sul rispetto
dell’attività e dei tempi inizialmente programmati.
Art. 4
1. La Commissione
è composta da venti senatori e da venti deputati nominati,
rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal
Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei
componenti dei Gruppi parlamentari, comunque assicurando la presenza di
un rappresentante per ciascuna componente politica costituita in Gruppo
in almeno un ramo del Parlamento.
2. Con gli stessi criteri e con la stessa procedura di cui al comma 1 si
provvederà alle sostituzioni che si rendessero necessarie in caso di
dimissioni dei singoli componenti della Commissione o di cessazione dal
mandato parlamentare.
3. Il Presidente della Commissione è scelto, di comune accordo, dai
Presidenti delle due Assemblee, al di fuori dei componenti della
Commissione, tra i membri dell’uno o dell’altro ramo del Parlamento.
4. La Commissione elegge, nel suo interno, due vice presidenti e due
segretari, con voto limitato ad uno.
5. Il componente della Commissione che ritiene di essere interessato
alla natura dell’inchiesta, direttamente o per interposti rapporti, ha
l’obbligo di farlo presente alla Commissione che, a maggioranza dei suoi
componenti, delibera sull’esistenza dell’incompatibilità. Il componente,
per il quale e accertata l’incompatibilità, anche su segnalazione di
terzi, viene sostituito con la procedura di cui al presente articolo.
6. Per la validità delle sedute della Commissione è necessaria la
presenza di almeno un terzo dei suoi componenti.
7. La Commissione può deliberare di articolarsi in gruppi di lavoro.
8. I lavori della Commissione sono raccolti a verbale dagli stenografi
che possono avvalersi del sussidio di apparecchi di registrazione. I
verbali e le registrazioni fanno parte degli atti dell’inchiesta.
Art. 5
1. Ferme le
competenze dell’autorità giudiziaria, per le audizioni a testimonianza
davanti alla Commissione si applicano le disposizioni degli articoli 366
e 372 del codice penale.
2. Di fronte alla Commissione non possono essere eccepiti il segreto
d’ufficio, professionale e bancario.
3. È sempre opponibile il segreto tra difensore e parte processuale
nell’ambito del mandato.
Art. 6
1. La Commissione
può chiedere, anche in deroga al divieto stabilito dall’articolo 329 del
codice di procedura penale, copie di atti e documenti relativi a
procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri
organi inquirenti, nonché copie di atti e documenti relativi a indagini
e inchieste parlamentari. Se l’autorità giudiziaria, per ragioni di
natura istruttoria, ritiene di non poter derogare al segreto di cui al
citato articolo 329 del codice di procedura penale, emette decreto
motivato di rigetto.
Quando tali ragioni vengano meno, l’autorità giudiziaria provvede a
trasmettere quanto richiesto.
2. Qualora gli atti o i documenti richiesti siano stati assoggettati a
vincolo di segreto funzionale da parte di Commissioni d’inchiesta, detto
segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria ed alla
Commissione istituita con la presente legge.
3. La Commissione stabilisce quali atti e documenti non dovranno essere
divulgati, anche in relazione ad esigenze attinenti ad altre istruttorie
o inchieste in corso. Devono, in ogni caso, essere coperti dal segreto
gli atti e i documenti attinenti a procedimenti giudiziari in fase
istruttoria.
Art. 7
1. I componenti la
Commissione, i funzionari ed il personale di qualsiasi ordine e grado
addetti alla Commissione stessa ed ogni altra persona che collabora con
la Commissione o compie o concorre a compiere atti di inchiesta oppure
ne viene a conoscenza per ragioni d’ufficio o di servizio, sono
obbligati al segreto per tutto quanto riguarda le disposizioni, le
notizie, gli atti e i documenti acquisiti al procedimento d’inchiesta.
2. Salvo che il fatto costituisca un più grave reato, la violazione del
segreto è punita a norma dell’articolo 326 del codice penale.
3. Le stesse pene si applicano a chiunque diffonda, in tutto o in parte,
anche per riassunto o informazione, notizie, disposizioni, atti o
documenti del procedimento d’inchiesta in svolgimento, salvo che per il
fatto specifico siano previste pene più gravi.
Art. 8
1. L’attività e il
funzionamento della Commissione sono disciplinati da un regolamento
interno approvato dalla Commissione, a maggioranza dei due terzi dei
componenti, prima dell’avvio del procedimento d’inchiesta. Ciascun
componente può proporre la modifica dei testi in esame prima
dell’approvazione.
2. Tutte le volte che lo ritenga opportuno la Commissione può riunirsi
in seduta segreta.
Art. 9
1. La Commissione
può avvalersi dell’opera di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e
delle collaborazioni che ritenga necessarie, previa verifica della
compatibilità dei costi con le Presidenze delle due Camere.
Art. 10
1. Le spese per il
funzionamento della Commissione sono poste per metà a carico del
bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del
bilancio interno della Camera dei deputati.
Art. 11
1. La presente
legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. |
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Sen
EUFEMI Maurizio |
Onorevoli
Senatori. – Il presente disegno di legge nasce dalla constatazione che
ci sono zone nel territorio italiano che a causa della loro ubicazione
geografica rimangono estremamente isolate o escluse dal processo
autonomistico.
A tale situazione di isolamento si aggiunge talvolta anche una
scarsa popolazione che a norma del comma 1 dell’articolo 15 del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, impedisce di istituire nuovi comuni
laddove la popolazione è inferiore a 10.000 abitanti.
In tal modo si nega il principio dell’autonomia e un’adeguata
rappresentatività amministrativa ai residenti di queste zone.
Tale disposizione sicuramente non agevola quanto precedentemente
rappresentato; basti pensare che da uno studio ANCITEL del 18 febbraio
2002 è stato possibile evincere che in Italia i comuni con una
popolazione inferiore a 5.000 abitanti sono circa 6.000 e addirittura ci
sono circa 2.000 comuni che contano meno di 1.000 abitanti.
In questa prospettiva il presente disegno di legge trova la sua
ratio nella necessità di offrire adeguati strumenti di
rappresentatività a tutta quella fascia di popolazione che altrimenti
rimarrebbe isolata e lontana dalle istituzioni.
Ciò risponde peraltro anche alla riforma costituzionale apportata
con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, con la quale si è disposta
l’autonomia dei comuni conferendo a questi ultimi il potere di
provvedere alla propria organizzazione con l’unico vincolo di ossequio
ai princìpi costituzionali.
Non vanno dimenticate, inoltre, le profonde trasformazioni del Paese
che in questi ultimi cinquanta anni ha dovuto assistere all’abbandono
delle zone di montagna e di collina nonché alla nascita di nuovi
insediamenti produttivi ai margini dei comuni già esistenti.
Tali popolazioni hanno svolto il ruolo di «pionieri» di uno sviluppo
tumultuoso che ha sofferto inizialmente i deficit dell’offerta di
servizi e successivamente la «lontananza» del comune con conseguenti,
inevitabili, difficoltà per ottenere risposte adeguate alle numerose
domande dei nuovi siti.
Si ritiene pertanto opportuno introdurre una modifica all’articolo
15 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267,
in materia d’istituzione di nuovi comuni, prevedendo la possibilità che
questi possano essere istituiti anche laddove la popolazione sia pari a
5.000 abitanti.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. All’articolo
15, comma 1, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la parola:
«10.000» è sostituita dalla seguente: «5.000». |
103 |
29/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli
Senatori. – Nel gennaio del 2002 si è costituita l’AICOS,
Associazione italiana consulenti ed operatori della sicurezza, con
l’intento di farsi portavoce di tutti coloro che vogliono poter operare
legalmente nel settore della sicurezza.
È stato constatato, per esperienze personali e per notizie
ufficialmente riscontrabili, che in quasi tutti gli Stati europei ed in
gran parte del resto del mondo, la sicurezza privata è una professione
riconosciuta legalmente, regolamentata dalla legge ed utilizzata in
diversi campi dai privati cittadini, sollevando in molti casi lo Stato
da compiti di vigilanza che occupano spesso uomini utili in altri
servizi per la comunità. In Italia, in realtà, la sicurezza privata è
presente ed agisce da molti decenni, come chiunque può facilmente
constatare recandosi a manifestazioni, congressi, spettacoli, locali
notturni, oppure facendo attenzione a chi si preoccupa dell’incolumità
dei cosiddetti «vip», quando si spostano in veste privata od ufficiale.
Queste attività, tuttavia, vengono svolte nella perfetta illegalità,
senza la possibilità quindi di valutare l’idoneità, la preparazione
specifica dell’operatore, né di controllare la qualità del suo operato e
la sua posizione fiscale.
L’intento che la citata associazione si pone è solo quello di dare
una forma ufficiale e legale a ciò che da decenni esiste nell’ombra
dell’illegalità e dell’assoluta mancanza di regole e controlli. Si
crede, in questo modo, di rendere un servizio ai cittadini, che sapranno
sempre di rivolgersi a persone preparate a svolgere questi delicati
servizi e che potranno rivalersi legalmente in caso così non fosse. Tale
servizio è reso anche allo Stato, riducendo la disoccupazione,
aumentando gli introiti e, passando ai privati l’incarico di provvedere
ai servizi di sicurezza personali o di eventi, consentendo di recuperare
organico più utile in altre attività sul territorio. Si considera
naturalmente necessario che la supervisione ed il controllo del nostro
operato sia dello Stato, ovvero degli organi da esso preposti, con il
quale si vuole instaurare un rapporto di collaborazione subordinata.
Nessuno quindi pensa di sostituirsi alle forze dell’ordine, al contrario
si intende operare sotto il loro controllo e coadiuvarle, se richiesto,
nel loro operato rendere, quindi, un miglior servizio al cittadino, con
un minore impegno economico dello Stato.
È stato strutturato un programma che segua l’agente di sicurezza
privata dalla sua formazione fino alla fine dell’attività operativa, che
prevede l’istituzione di scuole, di programmi di addestramento, di esami
di qualifica, di documenti di riconoscimento, di ambiti di competenza,
di aggiornamenti periodici, con l’intento di realizzare i seguenti
obiettivi:
– il riconoscimento delle figure dell’agente di sicurezza e
dell’agente di scorta;
– la creazione di un albo professionale e di organi provinciali
che si occupino dell’organizzazione burocratica e della definizione dei
prezzi;
– la possibilità di essere chiaramente identificati e
riconosciuti;
– la possibilità di potersi difendere e di difendere terzi e le
modalità per farlo;
– il riconoscimento delle scuole che si occupano della
formazione;
– la possibilità di operare su tutto il territorio nazionale e,
ove fosse richiesto, in campo internazionale;
– la possibilità di collaborare con le Forze dell’ordine.
Il conseguimento dei predetti obiettivi è stato finora negato dal
testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al regio decreto 18
giugno 1931, n. 773, che al titolo I, capo I, articolo 1, comma 1
recita:
«L’autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell’ordine
pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla
tutela della proprietà».
Crediamo che l’Autorità di pubblica sicurezza possa decidere chi
possa svolgere questi compiti e che sia meglio regolamentare questo
settore piuttosto che far finta che questa massa di lavoratori non
esista.
Si propone, pertanto, un esame attento del presente disegno di
legge.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Dipartimento scorte e sicurezza privata)
1. Nell’ambito del Ministero dell’interno è istituito il
Dipartimento scorte e sicurezza privata, di seguito denominato
«Dipartimento».
2. Presso il Dipartimento hanno sede:
a) l’albo nazionale degli agenti di scorta e degli agenti
di sicurezza privata;
b) l’ufficio amministrativo.
Art. 2.
(Albo nazionale degli agenti di scorta e degli agenti di sicurezza
privata. Consiglio degli ordini professionali nazionali. Ordini
professionali nazionali e provinciali)
1. L’accesso all’albo nazionale degli agenti di scorta e degli
agenti di sicurezza privata, di seguito denominato «albo nazionale», è
subordinato al superamento dell’esame, presso una delle scuole
riconosciute dal Ministero dell’interno.
2. Gli iscritti all’albo nazionale sono abilitati all’esercizio
della professione su tutto il territorio nazionale, in base alla
qualifica conseguita. Per l’attività svolta all’estero, si applicano le
norme vigenti nel luogo dove essa si svolge.
3. Sono costituiti gli ordini professionali nazionali, per ciascuna
delle qualifiche di cui all’articolo 6, e gli ordini professionali
provinciali degli agenti di scorta e di sicurezza privata, nei quali
sono iscritti gli appartenenti all’albo nazionale in base alla residenza
e alla qualifica.
4. Agli ordini professionali, ciascuno per tipo di qualifica e per
competenza territoriale, sono conferite le seguenti funzioni:
a) verifica della permanenza delle condizioni di idoneità
amministrativa e del corretto svolgimento dell’attività dei propri
iscritti;
b) vigilanza al fine di evitare che si verifichino di
episodi di esercizio abusivo della professione di agente di scorta e di
sicurezza privata.
5. Gli ordini professionali nazionali possono adottare provvedimenti
disciplinari nei confronti dei propri iscritti, su proposta degli ordini
professionali provinciali.
6. Il consiglio degli ordini professionali nazionali, composto da
membri di ciascun ordine nazionale, stabilisce con cadenza annuale:
a) l’entità della quota associativa prevista per il
rinnovo dell’iscrizione agli ordini stessi;
b) i compensi spettanti ai propri iscritti impiegati nei
vari uffici e commissioni;
c) le decisioni sui ricorsi presentati dagli iscritti sui
provvedimenti sanzionatori adottati a loro carico dagli organi preposti,
prevedendo, nei casi più gravi, l’espulsione dall’ordine di appartenenza
e la radiazione dall’albo nazionale ovvero annullando l’efficacia dei
provvedimenti stessi.
7. Avverso le decisioni dei consigli degli ordini professionali
provinciali, in merito ai provvedimenti disciplinari, è ammesso ricorso
gerarchico; avverso la decisione del consiglio nazionale degli ordini
professionali è ammesso ricorso al Ministro dell’interno.
8. Gli ordini professionali provinciali stabiliscono annualmente i
tariffari minimi per le singole prestazioni per conto terzi da parte
degli iscritti, che sono vincolanti per il proprio territorio di
competenza.
9. Gli ordini professionali, nel proprio ambito di competenza,
provvedono altresì a promuovere l’attività di formazione e di
qualificazione professionale. Essi esprimono pareri obbligatori, ma non
vincolanti, agli organi superiori su proposte volte a migliorare il
lavoro dei propri iscritti.
10. I consigli degli ordini professionali nazionali sono composti da
cinque membri ciascuno, eletti tra gli iscritti all’albo nazionale in
rappresentanza di tutto il territorio dello Stato, e rimangono in carica
per un anno. All’interno di ogni consiglio sono eletti il presidente ed
il segretario.
Art. 3.
(Commissione tecnica)
1. Presso il Ministero dell’interno è istituita la commissione
tecnica, costituita da:
a) un membro nominato dal Comandante generale dei
Carabinieri;
b) un membro nominato dal Capo della Polizia;
c) un membro nominato dall’Ispettore generale capo dei
Vigili del fuoco;
d) un membro nominato dal Ministro della salute;
e) un membro nominato dal Consiglio superiore della
magistratura.
2. La commissione tecnica di cui al comma 1 ha il compito di:
a) concedere ovvero rifiutare lo status di «centro
di formazione per agenti di scorta e agenti di sicurezza privata» alle
scuole che ne faranno richiesta alla commissione medesima. La selezione
si effettua sui piani didattici, sui curriculum dell’ente e del
personale, e sul grado di addestramento raggiunto dagli allievi;
b) inviare a propria discrezione i propri ispettori nelle
sedi delle scuole prescelte, che hanno l’obbligo di presentare rapporto
alla commissione;
c) verificare, in caso di rapporto negativo, che esistano
ancora le condizioni per il mantenimento dello status, indicare
le carenze eventualmente riscontrate ed i tempi per rimuoverle;
d) revocare lo status in casi di gravi
inadempienze o di mancato rientro nei parametri stabiliti.
3. Le scuole possono ricorrere in ordine gerarchico in caso di
provvedimenti disciplinari; avverso la decisione della commissione
tecnica è ammesso ricorso al Ministro dell’interno.
4. Le scuole che perdono i requisiti necessari ai fini del
riconoscimento dello status di cui al comma 2, lettera a),
possono comunque ripresentare domanda sempre presso la commissione
tecnica.
Art. 4.
(Requisiti)
1. Il cittadino appartenente agli Stati dell’Unione europea, che
intenda iscriversi ad una delle scuole riconosciute dallo Stato per il
rilascio della licenza di agente di scorta e di agente di sicurezza
privata, deve essere in possesso dei seguenti requisiti:
a) idoneità psico-fisica, tramite presentazione della
relativa certificazione, in corso di validità, rilasciata dalla
competente autorità sanitaria;
b) certificato del casellario giudiziario risultante
negativo per i reati non colposi inerenti violenza, armi, esplosivi,
stupefacenti, associazione per delinquere di stampo mafioso;
c) abilitazione all’uso delle armi rilasciata dai
competenti organi iscritti al tiro a segno nazionale.
Art. 5.
(Ufficio amministrativo)
1. L’ufficio amministrativo del Dipartimento sovrintende
all’attività di tutti gli agenti iscritti all’albo nazionale, nonché
all’attività di tutti gli uffici del Dipartimento stesso. In
particolare:
a) cura la tenuta dell’albo nazionale;
b) provvede all’aggiornamento dell’albo professionale, in
base alle licenze rilasciate dalle scuole autorizzate, ai provvedimenti
di radiazione o sospensione proposte dagli ordini professionali
nazionali o provinciali, alle richieste di cancellazione degli iscritti,
alla cancellazione degli iscritti deceduti;
c) provvede a comunicare agli ordini professionali i
nuovi iscritti all’albo nazionale.
2. L’ufficio amministrativo provvede altresì al conio della placca
metallica di riconoscimento e alla stampa delle tessere di
identificazione di cui all’articolo 7.
3. L’ufficio amministrativo è composto da personale del Ministero
dell’interno.
4. Sui provvedimenti disposti dall’ufficio amministrativo è previsto
il ricorso al Ministero dell’interno.
Art. 6.
(Qualifiche)
1. Le qualifiche professionali sono:
a) agente di scorta;
b) agente di sicurezza privato.
2. La qualifica di agente di scorta comprende quella di agente di
sicurezza privato.
3. L’agente di sicurezza privato può qualificarsi agente di scorta,
in seguito all’esito positivo del corso di studio specifico.
4. Ottenuta una delle qualifiche di cui al comma 1, l’agente presta
giuramento presso l’apposito ufficio del Dipartimento secondo la formula
di cui all’articolo 5 della legge 23 dicembre 1946, n. 478.
5. È fatto divieto assoluto a qualunque cittadino italiano privo
delle qualifiche di cui al comma 1, di svolgere le mansioni inerenti
alle qualifiche medesime.
6. I cittadini stranieri, non in possesso dell’abilitazione di cui
alla presente legge, che si trovano sul territorio nazionale in
ottemperanza a rapporti di lavoro intrapresi all’estero con committenti
stranieri, ovvero non residenti in Italia, previa autorizzazione del
Dipartimento, possono svolgere l’attività di cui al presente articolo,
purché non in modo continuativo.
7. Il presente articolo non si applica al personale delle forze
dell’ordine di paesi stranieri, operanti sul territorio nazionale per
motivi di servizio. Il controllo della loro attività è di competenza del
Ministero dell’interno ai sensi della vigente normativa nazionale e
degli accordi internazionali.
8. Non è consentito l’esercizio della professione agli appartenenti
al Corpi armati dello Stato e ai dipendenti della pubblica
amministrazione che, in relazione alle proprie mansioni, svolgono
funzioni di controllo sulle attività di cui alla presente legge.
Art. 7.
(Tessera di identificazione e
placca metallica)
1. Durante lo svolgimento del servizio, il titolare della licenza di
scorta o di sicurezza privata porta con sè una tessera di
identificazione ed una placca metallica.
2. La tessera di identificazione di cui al comma 1 reca:
a) foto;
b) nome e cognome;
c) luogo e data di nascita;
d) numero telefonico da contattare in caso di emergenza;
e) numero telefonico dell’ufficio del Dipartimento presso
il quale chiedere conferme dei dati della tessera;
f) gruppo sanguigno;
g) eventuali allergie;
h) qualifica;
i) numero di iscrizione all’albo professionale nazionale;
l) simbolo del Dipartimento;
m) simbolo e bandiera nazionale ed europea.
3. La placca di cui al comma 1 reca:
a) numero di iscrizione all’albo nazionale;
b) simbolo del Dipartimento;
c) simbolo e bandiera nazionale ed europea.
4. Gli agenti di cui agli articoli 8 e 9, nello svolgimento del
servizio in divisa, devono esporre la placca metallica.
5. La tessera di cui al presente articolo è da considerarsi
documento di identificazione personale.
Art. 8.
(Agente di sicurezza privato)
1. L’agente di sicurezza privato, nell’esercizio delle proprie
funzioni, vigila sul buon andamento della normale attività di sicurezza
di cui al comma 2 presso i luoghi pubblici o privati aperti al pubblico,
che costituiscono aree adibite a spettacolo, intrattenimento culturale,
riunione scientifica, manifestazione politica, evento sportivo o
comunque di concentrazione di persone. Dirime pacificamente i dissidi e
le controversie tra privati, impedendo, anche con la forza se
necessario, che si verifichino situazioni pericolose per l’incolumità
dei contendenti o degli astanti ovvero del successo dell’evento stesso,
avvertendo e coadiuvando, ove richiesto, l’intervento delle forze
dell’ordine.
2. Ai fini del presente articolo, per attività di sicurezza in
luoghi pubblici o privati aperti al pubblico si intende, altresì:
a) il controllo degli accessi;
b) l’osservazione dinamica e la prevenzione di
circostanze che possano recare danno alle persone o alle cose.
3. Salvo quanto disposto dal decreto legislativo 19 settembre 1994,
n. 626, e successive modificazioni, nell’ambito dei luoghi ove esercita
il proprio servizio, l’agente di sicurezza svolge altresì attività di
verifica e controllo dell’adempimento di tutte le norme di sicurezza
relative ai dispositivi antincendio ed antinfortunistiche in genere,
segnalando agli organi competenti eventuali situazioni di rischio per
l’incolumità e la salute pubbliche. Qualora sia necessario, egli
provvede con solerzia alla richiesta di intervento degli enti preposti.
4. L’agente di sicurezza, nell’adempimento del proprio servizio, è
punto di riferimento in caso di emergenza sanitaria e, in base alla
preparazione che ha ricevuto, provvede ad un intervento di primo
soccorso ovvero fare intervenire l’autorità medica.
Art. 9.
(Agente di scorta)
1. L’agente di scorta svolge la propria attività nella tutela
dell’integrità psicofisica del committente.
2. L’attività di tutela di cui al comma 3 svolta dall’agente di
scorta si svolge nel rispetto della normativa vigente. L’agente non deve
mai eseguire ordini eventualmente ricevuti in contrasto con la normativa
medesima; in caso contrario, se ne assume la responsabilità.
Esclusivamente nei casi di pericolo di vita l’agente può intraprendere
comportamenti illegali purché non lesivi della sicurezza di terzi.
3. Ai fini del presente articolo, per attività di tutela si intende:
a) l’accompagnamento della persona soggetta a tutela in
tutti i luoghi frequentati dalla stessa;
b) la messa in atto di tutte le misure adatte a
preservare l’incolumità psicofisica della persona scortata, compresa la
reazione anche violenta proporzionalmente all’entità dell’attacco;
c) la raccolta di tutte le informazioni, ovvero
l’effettuazione di sopralluoghi, utili a valutare il grado di sicurezza
dei luoghi e dei percorsi in cui dovrà svolgere il proprio servizio;
d) la consulenza tecnica e legale sulla protezione delle
persone;
e) l’intervento, in caso di emergenza medica, di primo
soccorso ovvero far intervenire l’autorità medica.
3. L’agente di scorta può svolgere la sua attività anche nei
confronti di enti pubblici, sotto il controllo ed il coordinamento degli
organi istituzionalmente preposti.
4. L’agente di scorta svolge la sua attività senza fare uso di
divisa.
Art. 10.
(Armi)
1. Il titolare di una delle qualifiche di cui all’articolo 6 può
portare per difesa armi corte, lunghe e bianche purché non catalogate
come armi militari, nonché di tutti i dispositivi di difesa non
catalogati come armi.
2. La tessera di identificazione di cui all’articolo 7 è documento
valido per il porto e l’acquisto di armi, di munizioni e del relativo
materiale di ricarica presso le rivendite autorizzate previa
compilazione di un apposito modulo redatto in tre copie, di cui una è
trattenuta dal rivenditore, una dal titolare della licenza, una è
inviata tempestivamente presso il domicilio di pubblica sicurezza di cui
all’articolo 11, comma 6, a cura del titolare della licenza stessa.
3. Ai fini del mantenimento della licenza, il titolare deve compiere
non meno di due sessioni annuali di addestramento presso i centri
autorizzati iscritti al tiro a segno nazionale, provvedendo a darne
notizia all’ordine provinciale competente.
4. L’utilizzo delle munizioni ricaricate è consentito esclusivamente
per attività addestrative.
5. Il titolare di licenza è responsabile del corretto funzionamento
delle armi a sua disposizione, che devono corrispondere sempre alle
caratteristiche per cui sono state omologate.
Art. 11.
(Svolgimento del servizio)
1. All’accettazione dell’incarico ed alla fine dello stesso, il
titolare di licenza provvede tempestivamente a darne notizia al proprio
domicilio di pubblica sicurezza, indicando gli estremi del servizio.
2. Il titolare di licenza, nell’ambito del servizio acquisito, è
tenuto ad accertarsi, avvalendosi anche delle informazioni che
lecitamente gli enti pubblici possono fornirgli, che lo stesso non
persegua fini illeciti.
3. Qualora la persona o l’ente incaricante persegua fini criminosi,
è fatto assoluto divieto di prestare alcuna opera lavorativa per conto
di esso e, all’atto dell’accertamento, ogni contratto, in corso di
validità o pregresso, è da considerarsi nullo.
4. In ogni caso l’accertante è tenuto alla tempestiva segnalazione
del fatto di cui al comma 3, all’autorità giudiziaria.
5. I titolari degli istituti che, per le attività degli agenti in
possesso delle qualifiche di cui all’articolo 6, intendono assumere più
unità munite di licenza, comunicano al Dipartimento i nominativi degli
agenti che intendono assumere alle proprie dipendenze, i dati
identificativi dell’istituto, compreso il domicilio fiscale, le attività
da effettuare ed i mezzi impiegati, il numero di iscrizione all’albo
nazionale del personale ed il relativo domicilio di pubblica sicurezza.
6. Per domicilio di pubblica sicurezza si intende il comando di
pubblica sicurezza che il titolare di una delle licenze di cui
all’articolo 6 sceglie, nell’ambito della provincia di residenza, come
autorità competente per quanto attiene alle comunicazioni di polizia
amministrativa.
7. Qualora il titolare di istituto di cui al comma 5 non sia
titolare di licenza di cui all’articolo 6, delega i compiti previsti dal
medesimo comma 5 ad un proprio dipendente nominandolo titolare
esclusivamente per le sole competenze di polizia amministrativa.
8. Il titolare di istituto deve comunicare tempestivamente ogni
variazione riguardante le notizie di cui al comma 5, al Dipartimento.
9. Il titolare di istituto deve inoltre adempiere ai compiti
amministrativi per conto dei propri dipendenti, ad esclusione di quanto
previsto agli articoli 10 e 17 e dal comma 10 del presente articolo.
10. L’agente di scorta e l’agente di sicurezza privato svolgono la
propria attività come libero professionista, o alle dipendenze di enti
pubblici o privati. Essi provvedono comunque a stipulare una polizza
assicurativa personale integrativa per la copertura dei rischi personali
e per la responsabilità civile, con copertura minima di 2.582.284 euro,
provvedendo a depositarne una copia presso l’ordine provinciale
competente.
Art. 12.
(Corsi di specializzazione ed aggiornamento)
1. Le scuole di formazione autorizzate ai sensi dell’articolo 3,
comma 2, lettera a), svolgono corsi di specializzazione e
aggiornamento su programmi didattici autorizzati dall’ufficio
amministrativo di cui all’articolo 5.
2. I corsi di specializzazione sono rivolti ai titolari di licenza,
per approfondire e rinnovare una o più delle materie studiate durante il
corso di formazione. L’agente di scorta e l’agente di sicurezza privato
sono tenuti alla frequenza di uno dei corsi almeno con cadenza annuale e
con superamento dello stesso. La durata dei corsi non può essere
superiore ai tre giorni.
3. I corsi di aggiornamento sono indetti dall’ufficio amministrativo
di cui all’articolo 5 ed organizzati in coordinamento con le scuole, in
coincidenza di ogni modifica normativa del settore. I corsi di
aggiornamento sono obbligatori e devono essere svolti entro un mese
dalla avvenuta modifica normativa.
4. Il costo dei corsi di cui al presente articolo è fiscalmente
deducibile dai titolari di licenza.
5. In caso di mancata adesione ad un corso di specializzazione o di
aggiornamento, ovvero in caso di mancato superamento dei corsi di cui al
comma 2, la licenza è sospesa fino al superamento di uno dei corsi di
cui al medesimo comma 2.
Art. 13.
(Rapporti con le Forze dell’ordine)
1. Il possessore di una delle licenze di cui all’articolo 6,
nell’esercizio delle proprie funzioni, è sottoposto all’attività di
controllo del dipartimento di pubblica sicurezza.
2. L’agente di polizia privata è tenuto ad esibire la propria
tessera di identificazione ad ogni membro delle Forze dell’ordine che ne
faccia specifica richiesta.
3. Qualora particolari circostanze di gravità ed urgenza lo
richiedano, l’agente di polizia privata è tenuto a porsi a disposizione
degli appartenenti alle Forze dell’ordine che ne facciano espressa
richiesta nell’esercizio delle proprie funzioni.
Art. 14.
(Divisa e dispositivi di protezione personali)
1. Gli agenti di cui all’articolo 8 sono tenuti a svolgere il
proprio servizio in divisa.
2. Gli agenti di cui all’articolo 9 possono svolgere il proprio
servizio in abiti borghesi.
3. Le divise previste per gli agenti di cui all’articolo 8 sono
simili per tutto il territorio nazionale, ad eccezione delle indicazioni
di identificazione personali e dell’istituto per cui si svolge
l’attività, e sono approvate dall’ufficio amministrativo.
4. È fatto comunque obbligo a tutti i titolari di licenza di cui
all’articolo 6, di utilizzare, nello svolgimento del proprio servizio,
indumenti e dispositivi di protezione tenuti in modo appropriato e
decoroso, al fine di garantire la sicurezza di chi li indossa.
Art. 15.
(Norme di comportamento)
1. Salvi i princìpi di legittima difesa, agli agenti di scorta e
agli agenti di sicurezza privata non è consentito l’uso della forza; in
ogni caso le misure adottate devono essere commisurate all’entità del
rischio.
2. Per i titolari di licenza di cui all’articolo 9, nell’ambito
dell’esercizio del proprio servizio, il principio di legittima difesa è
esteso alla persona o alle persone di cui si è assunta la tutela.
3. Per i titolari di licenza di cui all’articolo 8, nell’ambito
dell’esercizio del proprio servizio, il principio di legittima difesa è
esteso alle persone presenti all’evento di cui è chiamato a
salvaguardare l’ordine e la sicurezza, che stiano subendo comportamenti
violenti.
4. Nell’ambito esclusivo della competenza del servizio che è
chiamato a svolgere, l’agente di polizia privata è tenuto ad operare il
fermo dei cittadini colti in flagranza di reato provvedendo alla
tempestiva segnalazione dell’accaduto alle autorità di pubblica
sicurezza competenti, alle quali l’assoggettato al fermo deve essere
consegnato nel più breve tempo possibile, affinché vengano presi i
provvedimenti del caso
5. È fatto assoluto divieto ai possessori di licenza di cui
all’articolo 6 di porre in essere comportamenti che possano arrecare
ingiustificato allarme ovvero danno all’ordine ed alla salute pubblica.
Art. 16.
(Dispositivi di segnalazione)
1. Ai titolari di una delle licenze di cui all’articolo 6 è
consentito l’utilizzo, durante il servizio, di dispositivi di
segnalazione luminosi a intermittenza fissi e mobili, da utilizzare a
bordo dei mezzi di trasporto e di palette segnaletiche.
2. Il titolare di licenza deve preventivamente denunciare i
dispositivi di cui al presente articolo alle autorità di pubblica
sicurezza competenti.
3. Per quanto riguarda i dispositivi di segnalazione in uso agli
agenti di polizia privata, non sono concesse deroghe a quanto stabilito
dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive
modificazioni.
4. Il Ministro dell’interno, con propria circolare da emanare entro
un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, stabilisce
i colori da utilizzare per i dispositivi e per le palette di cui al
comma 1, uguali per tutto il territorio nazionale ma diversi da quelli
delle Forze dell’ordine.
Art. 17.
(Validità delle licenze)
1. Le licenze di cui all’articolo 6 non sono soggette a scadenza,
purché il titolare dimostri il permanere dei requisiti di cui al comma
1, lettera a), dell’articolo 4, con scadenza biennale.
2. Il titolare delle licenze di cui all’articolo 6, al fine della
conservazione del titolo, deve altresì presentare all’ordine provinciale
di competenza, la certificazione di cui all’articolo 4, comma 1, lettera
b), con cadenza annuale, allegando la ricevuta di versamento di
26 euro sul conto corrente intestato alla Tesoreria generale dello
Stato.
Art. 18.
(Sanzioni)
1. Salvo che il fatto costituisca reato, la violazione delle
disposizioni previste dalla presente legge è punita con la reclusione da
sei mesi a cinque anni e con multa da 258 euro a 2.582 euro.
2. La violazione delle disposizioni previste dalla presente legge è,
altresì, punibile con la sospensione fino a un mese o con la revoca
definitiva delle licenze di cui all’articolo 6.
Art. 19.
(Imposte)
1. Sulle prestazioni su conto terzi fornite dagli agenti di cui
all’articolo 6 è applicata l’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto
pari al 4 per cento.
Art. 20.
(Raccolta e trattamento dei dati)
1. Salvo quanto disposto dal codice in materia di protezione dei
dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, su
eventuali danni recati da un uso distorto dei dati raccolti, l’agente di
polizia privata è autorizzato al trattamento dei dati anche senza il
consenso dell’interessato, salvo poterne dimostrare l’assoluta necessità
al fine di espletare le mansioni previste dalla presente legge e dal
mandato del committente.
2. Salvo specifiche autorizzazioni dell’interessato, i dati raccolti
in ottemperanza del mandato ricevuto non possono essere utilizzati una
volta ultimato l’incarico, salvo che in sede giudiziaria da parte
dell’agente di polizia privata per la difesa di un proprio diritto
ovvero per dimostrare il proprio buon operato.
3. Il titolare di licenza di cui all’articolo 6 è tenuto, inoltre,
ad adottare modalità idonee a garantire la riservatezza della
documentazione raccolta durante il servizio, conservandola per almeno 5
anni.
Art. 21.
(Norme transitorie)
1. Entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente
legge, il Ministro dell’interno provvede all’istituzione degli uffici di
cui all’articolo 1.
2. Entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente
legge, il Ministro dell’interno provvede, con proprio decreto, a
stabilire la forma e le dimensioni e la disposizione del contenuto della
tessera e della placca di cui all’articolo 7, unitamente al simbolo del
Dipartimento.
3. A decorrere dal dodicesimo mese successivo alla data di entrata
in vigore della presente legge, gli iscritti all’albo nazionale di cui
all’articolo 2 provvedono, ciascuna per competenza di qualifica e di
territorio, ad eleggere in apposite assemblee indette dalle locali
questure, gli organi degli ordini professionali provinciali.
4. Entro un mese dalla loro costituzione, gli ordini professionali
provinciali provvedono alle elezioni dei rispettivi ordini professionali
provinciali.
5. Fino alla completa costituzione degli organi elettivi e dei
rispettivi uffici l’attività organizzativa spettante agli ordini
professionali è svolta a livello provinciale dalle questure competenti
per territorio ed a livello nazionale dall’ufficio amministrativo di cui
all’articolo 5.
6. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, il Ministro dell’interno di concerto con il Ministro della salute
provvede all’effettuazione della gara di appalto per il riconoscimento
delle scuole che potranno svolgere attività di formazione per
l’ottenimento delle licenze di cui all’articolo 6.
7. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, i cittadini in possesso di qualifiche o diplomi rilasciate da
scuole non ancora riconosciute possono chiedere l’ottenimento delle
licenze di cui all’articolo 6 previo superamento con esito positivo di
un esame indetto una tantum dal Ministro dell’interno con proprio
decreto.
Art. 22.
(Entrata in vigore)
1. La presente legge entra in vigore sei mesi dopo la data della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
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29/04/06
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Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli
Senatori. – A cinquant’anni dall’International Geophysical Year,
svoltosi nel 1957-58, che ha determinato un grandioso avanzamento sulla
conoscenza del pianeta e della regione antartica in particolare, la
comunità scientifica internazionale ha proposto per il 2007-2008 l’International
Polar Year (IPY). Esso avrà luogo con osservazioni e ricerche in
Artide e Antartide dal 1º marzo 2007 al 1º marzo 2009 e costituirà una
formidabile occasione di studio per la comunità scientifica mondiale,
che già da tempo si sta muovendo per definire ed organizzare le attività
collegate. In particolare, l’International council of scientific
union (ICSU) dell’UNESCO e la World meteorological organization
(WMO) dell’ONU hanno costituito un comitato congiunto per quello che
sarà il quarto Anno polare internazionale della Storia. Il primo, nel
1882-83, vide dodici spedizioni in Artico e tre in Antartide. Il secondo
ebbe luogo cinquanta anni più tardi, nel 1932-33, e si segnalò per gli
studi sui fenomeni di magnetismo, sulle aurore e osservazioni
meteorologiche. Il terzo, già citato, dette grande risalto alle ricerche
polari e spaziali. L’Anno polare consiste in un programma coordinato a
livello internazionale di ricerca scientifica interdisciplinare, con
osservazioni nelle regioni polari del pianeta. In particolare esso ha il
fine di indagare lo stato dell’ambiente di Artide e Antartide e le
variazioni intercorse in termini temporali e spaziali; quantificare e
studiare i cambiamenti ambientali e l’impatto dell’uomo sugli stessi;
utilizzare i vantaggi unici rappresentati dalle regioni polari per le
osservazioni geofisiche sul campo magnetico terrestre. L’Anno polare
rappresenterà infine una eccellente occasione per studiare la
sostenibilità delle società sviluppatesi ai margini delle regioni
polari, la loro cultura ed il loro contributo alla diversità culturale
globale. Il comitato congiunto ICSU-WMO ha lo scopo di coordinare le
attività scientifiche internazionali nelle regioni polari ed ha prodotto
un framework contenente i criteri mediante i quali verranno
valutate le proposte di ricerca scientifica al fine del riconoscimento
come attività per l’IPY. I progetti che si svolgeranno sotto l’egida
dell’IPY dovranno distinguersi dalle attività che ordinariamente vengono
condotte dai programmi nazionali e rispondere, viceversa, a criteri di
internazionalità, unicità ed eccezionalità. Hanno aderito all’IPY
trentanove nazioni che hanno provveduto a costituire i loro comitati
nazionali. Fra queste vi sono tutte le maggiori nazioni del mondo,
incluse alcune senza una particolare tradizione di ricerca nelle regioni
polari. Nel 2004 su iniziativa della Commissione scientifica nazionale
per l’Antartide (CSNA) è stato costituito il Comitato nazionale per
l’anno polare internazionale con lo scopo principale di agire come punto
di contatto nazionale ed internazionale. Il Comitato ha promosso
incontri con la comunità scientifica nazionale ed ha garantito la
presenza italiana nelle riunioni e nel dibattito internazionale. I
ricercatori italiani hanno contribuito alla formulazione (sia come
proponenti sia come partecipanti) di oltre il 10 per cento dei progetti
sottoposti all’ICSU e ben ventidue tra essi sono stati ritenuti
potenzialmente idonei. Ciò conferma la significativa partecipazione
italiana e il contributo importantissimo offerto dalla nostra comunità
di ricerca ai temi dell’Anno polare internazionale. Tali progetti sono
tutti necessariamente basati su collaborazioni internazionali,
presentano un elevato grado di multidisciplinarità e notevole carattere
innovativo per il progresso delle conoscenze che si estende ben oltre le
regioni polari, con particolare riferimento alla ricerca di base e alla
ricerca di base orientata allo sviluppo di tecnologie chiave abilitanti
a carattere multisettoriale. I settori strategici di riferimento sono
l’ambiente, i trasporti, l’energia, l’agroalimentare e la salute, mentre
per quelli trasversali trovano riferimento nei nuovi materiali e
nanotecnologie, le biotecnologie ed i sistemi di produzione. La notevole
rilevanza scientifica delle iniziative proposte è testimoniata anche
dall’eccezionalità delle necessità logistiche e dall’ampia distribuzione
geografica dei siti di ricerca, il che richiede uno sforzo di
coordinamento e di collaborazione a livello internazionale per la
compartecipazione dei supporti logistici ed operativi. La progettualità
della ricerca italiana riguarda in particolare le attività di ricerca
oceanografiche a carattere fisico-chimico e biologico-ecologico (con la
conseguente necessità di disporre di navi oceanografiche idonee ad
operare in ambiente polare), l’esplorazione geofisica e geologico-marina,
la ricerca climatico-ambientale e geologica (in particolare per il
continente antartico saranno necessari mezzi idonei a muoversi nell’area
più remota ed inesplorata del continente in condizioni
climatico-ambientali estreme e con il supporto aereo); campagne di
fisica dell’atmosfera, ricerche di astrofisica e sulle relazioni
Terra-Sole (con l’installazione di nuova strumentazione di osservazione
presso le stazioni polari e lancio di palloni sub-orbitali). Per lo
svolgimento dei progetti di ricerca è necessaria inoltre la
partecipazione di ricercatori stranieri presso le stazioni scientifiche
polari italiane (stazioni «Mario Zucchelli» e «Concordia» in Antartide e
stazione «Dirigibile Italia» alle isole Svalbard) così come la
partecipazione di ricercatori italiani presso basi e spedizioni di altri
Paesi. Gli accordi internazionali preliminari intercorsi fra i
ricercatori dei diversi Paesi coinvolti prevedono un contributo italiano
in termini logistico-operativi variabile da progetto a progetto, ma che
è possibile stimare complessivamente intorno al 10-15 per cento del
totale. Complessivamente il fabbisogno per la preparazione e
l’attuazione di una adeguata partecipazione italiana alle attività dell’IPY
nel periodo marzo 2007 marzo 2009 nonchè per lo studio dei materiali e
dei dati raccolti e la elaborazione dei risultati (negli anni 2009 e
2010) è stimato in circa 20 milioni di euro. Il presente disegno di
legge prevede, a tal fine, la costituzione di un apposito Comitato
nazionale per il coordinamento della partecipazione italiana, che
provveda alla selezione dei progetti e alla allocazione delle risorse,
identificando l’organismo responsabile dell’attuazione e degli aspetti
logistici nel consorzio, già esistente, previsto per le attività
italiane in Antartide dal decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale 5 marzo 2002, n. 54. Il Comitato nazionale,
istituito presso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della
ricerca, dovrà elaborare un programma per la partecipazione italiana
alle attività di ricerca scientifica dell’Anno polare, indicando il
necessario fabbisogno umano e finanziario e garantendo un adeguato
livello di internazionalizzazione delle attività di ricerca, assicurando
il collegamento con gli organi scientifici dell’Anno polare
internazionale ed il coordinamento tra il programma ed eventuali
iniziative di ricerca nazionali intraprese al di fuori del programma
stesso. Il Comitato, che dovrà presentare una relazione annuale al
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e al
Parlamento sull’attività svolta (occasione nella quale verranno
rendicontati gli impegni delle risorse, le quali dovranno essere
disponibili ad inizio d’anno per non pregiudicare le capacità di
realizzazione delle ricerche in loco) provvederà inoltre ad
acquisire i risultati delle attività scientifiche e tecnologiche. Per il
suo alto valore scientifico, è necessario che l’attività di ricerca sia
coordinata da un comitato che veda, ai suoi vertici, i massimi vertici
istituzionali, in modo da offrire alla comunità scientifica
internazionale, il segno tangibile dell’impegno italiano in campo
polare. Per questo si prevede che il Comitato sia presieduto dal
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca o, in sua
assenza, da un suo rappresentante. Per il resto la composizione
dell’organismo è eminentemente tecnica, esso vede infatti la
partecipazione di un rappresentante italiano della WMO un rappresentante
italiano dell’ICSU tre esperti scientifici designati dalla CSNA. Ed
inoltre esperti scientifici di ricerche in area artica, un esperto di
logistica polare ed altre professionalità che potranno garantire la
massima qualità anche per quanto riguarda la raccolta e l’elaborazione
dei dati e la comunicazione. Per l’attuazione del programma si prevede,
come detto, di utilizzare il consorzio di cui all’articolo 4 del citato
decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26
febbraio 2002, con il compito di esprimere pareri sui programmi
esecutivi annuali con particolare riferimento ai profili della
logistica, del fabbisogno umano e finanziario. Per esprimere pareri sul
programma di ricerca (ai fini dell’autorizzazione e del controllo di
tutte le iniziative nazionali che vengono intraprese al di fuori del
programma e formulare proposte ed esprimere pareri ai fini del
coordinamento del programma con i programmi di ricerca degli altri
Paesi) si prevede la competenza del Comitato interministeriale per
l’Antartide già costituito ai sensi dell’articolo 2 del citato decreto
ministeriale 26 febbraio 2002. Al Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca sono affidati i compiti di approvare il
programma proposto dal Comitato nazionale, vigilare sull’attuazione
dello stesso (affidata al consorzio) ed emanare direttive per specifiche
modalità operative per la migliore attuazione del programma stesso. In
conclusione, vista la rilevanza del contributo della comunità
scientifica italiana agli obiettivi dell’azione internazionale e nel
quadro di un più ampio sostegno alla ricerca, si auspica una rapida
approvazione del presente disegno di legge per consentire una efficace
partecipazione italiana alle attività dell’Anno polare internazionale
2007-2008.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Finalità)
1. È autorizzata la partecipazione italiana all’Anno polare
internazionale 2007-2008 promosso dall’International council of
scientific union (ICSU) e dalla World meteorological organization
(WMO) ed alle connesse attività di ricerca scientifica multidisciplinare
coordinate a livello internazionale.
Art. 2.
(Comitato nazionale
per l’Anno polare internazionale)
1. È istituito, presso il Ministero dell’istruzione, dell’università
e della ricerca, il Comitato nazionale per l’Anno polare internazionale,
di seguito denominato «Comitato» con i compiti di:
a) elaborare un programma per la partecipazione italiana
alle attività di cui all’articolo 1, su base quadriennale, e i relativi
programmi esecutivi annuali indicando il necessario fabbisogno umano e
finanziario e garantendo un adeguato livello di internazionalizzazione
delle attività di ricerca;
b) assicurare il collegamento con gli organi scientifici
dell’Anno polare internazionale anche proponendo le nomine di
rappresentanti italiani;
c) assicurare il coordinamento tra il programma di cui
alla lettera a) e le eventuali iniziative di ricerca nazionali
che vengono intraprese al di fuori del programma stesso;
d) determinare l’incidenza percentuale massima rispetto
al finanziamento disponibile dei costi di gestione per l’attuazione del
programma di cui alla lettera a);
e) presentare una relazione annuale al Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca e al Parlamento
sull’attività svolta e predisporre gli atti per la stesura della
relazione annuale sui risultati scientifici ottenuti;
f) acquisire i risultati delle attività scientifiche e
tecnologiche svolte nell’ambito del programma di attività di cui
all’articolo 1 e predisporre i relativi elementi valutativi.
2. Il Comitato è presieduto dal Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca o, in sua assenza, da un suo
rappresentante ed è composto da:
a) un rappresentante italiano della WMO;
b) un rappresentante italiano dell’ICSU;
c) tre esperti scientifici designati dalla Commissione
scientifica nazionale per l’Antartide (CSNA) di cui all’articolo 3 del
decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26
febbraio 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 5 marzo 2002,
n. 54;
d) due esperti scientifici di ricerche in area artica
nominati dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca;
e) un esperto di logistica polare designato dal consorzio
di cui all’articolo 3;
f) un esperto designato dal Museo nazionale per
l’Antartide di cui al decreto del Ministro dell’università e della
ricerca scientifica e tecnologica 2 maggio 1996, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale 24 agosto 1996, n. 198.
3. I componenti del Comitato sono nominati con decreto del Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Il Comitato conclude i
propri lavori entro il 31 dicembre 2009.
4. Alle riunioni del Comitato possono essere invitati esperti delle
amministrazioni dello Stato e di altri enti di volta in volta
interessati.
Art. 3.
(Consorzio per l’attuazione del programma)
1. Le funzioni ed i compiti per lo svolgimento delle attività di
ricerca scientifica di cui all’articolo 1 sono svolte dal consorzio per
l’attuazione del programma di cui all’articolo 4 del citato decreto del
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio
2002.
2. Il consorzio di cui al comma 1 valuta la fattibilità
tecnico-logistica dei programmi esecutivi annuali di cui all’articolo 2,
con riferimento al fabbisogno umano e finanziario finalizzato
all’attuazione.
Art. 4.
(Comitato interministeriale per l’Antartide)
1. Per esprimere pareri sul programma di ricerca di cui all’articolo
1 nonchè per esprimere il proprio parere ai fini dell’autorizzazione e
del controllo di tutte le iniziative nazionali che vengono intraprese al
di fuori del programma e formulare proposte ed esprimere pareri ai fini
del coordinamento del programma di cui all’articolo 1 con i programmi di
ricerca degli altri Paesi che operano in Antartide, è competente il
comitato interministeriale per l’Antartide di cui all’articolo 2 del
citato decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della
ricerca 26 febbraio 2002.
Art. 5.
(Vigilanza)
1. Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca sono
affidati i compiti di:
a) approvare il programma di cui all’articolo 2, proposto
dal Comitato;
b) vigilare sull’attuazione del programma di cui
all’articolo 2, affidata al consorzio di cui all’articolo 3;
c) emanare, sentito il Comitato, direttive per specifiche
modalità operative per la migliore attuazione del programma;
d) determinare, di concerto con i Ministri dell’economia
e delle finanze e degli affari esteri, il trattamento di missione per il
personale impegnato nelle ricerche connesse all’Anno polare
internazionale.
Art. 6.
(Copertura finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione dell’articolo 1, comprensivo
dei costi di gestione di cui all’articolo 2, valutato in 5,5 milioni di
euro per ciascuno degli anni 2007, 2008, 2009 e 2010, si provvede quanto
a 5,5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007 e 2008, mediante
corrispondente utilizzo delle proiezioni per i medesimi anni, dello
stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2006-2008,
nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo
speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle
finanze per l’anno 2006, allo scopo parzialmente utilizzando, per l’anno
2007, l’accantonamento relativo al Ministero dell’ambiente e della
tutela del territorio e per l’anno 2008, l’accantonamento relativo al
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Per gli anni
2009 e 2010 si provvede ai sensi dell’articolo 11, comma 3, lettera
d) della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
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Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli
Senatori. – In data 5 febbraio 2003 è stato approvato dal Senato il
disegno di legge n. 848, divenuto legge 14 febbraio 2003, n. 30,
contenente la delega al Governo in materia d’occupazione e mercato del
lavoro.
Trova così una prima fase di realizzazione la riforma del mercato
del lavoro, avviata con il libro bianco presentato il 3 ottobre 2001 e
finalizzato ad introdurre, anche nel nostro ordinamento, conformemente
ai modelli europei e nord americani, strumenti e modelli di
flessibilità.
Le grandi innovazioni cui il testo legislativo prelude abbisognano
dell’individuazione di una categoria di soggetti destinatari altamente
compatibile con le finalità dell’evoluzione legislativa.
La categoria dei quadri portatrice di specifiche e qualificate
istanze del mondo delle professionalità medio, ha voluto e sostenuto i
programmi contenuti nel libro bianco. Essa è pure particolarmente
attenta alle innovazioni che si apprestano ad essere introdotte sui temi
del mercato del lavoro, dei contratti a contenuto formativo, della
certificazione dei rapporti di lavoro.
L’attuazione di queste previsioni legislative non esiterà a
ripercuotersi sugli assetti delle relazioni sindacali-aziendali che da
un piano uniforme e collettivo, approderanno verso istanze molto attente
agli interessi delle categorie professionali.
Potremmo assistere a breve ad uno spostamento di equilibri a favore
della specificità professionale dei soggetti o di gruppi di soggetti.
Riteniamo pertanto, che nell’attuale fase di evoluzione normativa,
debbano trovare adeguato ruolo i soggetti sindacali che, come i quadri
appaiono esponenziali di specifici e significativi settori del mondo del
lavoro.
Per tale motivo, si ritiene che in maniera armonica alla
legislazione delegata che farà seguito all’importante provvedimento
costituito dalla citata legge n. 30 del 2003, dovrà accompagnarsi
apposita normativa che valorizzi ed individui con precisione le
attribuzioni dei quadri.
L’intervento legislativo che viene auspicato si sintetizza nei
seguenti termini:
1) una più specifica definizione della categoria estesa al
rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti pubblici che non possa
essere disattesa in alcun modo dalle parti;
2) riconoscimento della rappresentatività anche per le
organizzazioni sindacali dei quadri, in particolare negli organismi
bilaterali che accompagneranno l’attuazione della citata legge n. 30 del
2003 ed i decreti legislativi che alla stessa faranno seguito.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. Alla legge 13 maggio 1985, n. 190, sono apportate le seguenti
modifiche:
a) il comma 1 dell’articolo 2 è sostituito dal seguente:
«1. La categoria dei quadri è costituita dai prestatori di
lavoro subordinato alle dipendenze dei datori di lavoro pubblici e
privati che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano
funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini
dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa, nonché da
coloro che, sebbene non appartenenti alla categoria dei dirigenti alle
dipendenze dei predetti datori di lavoro svolgano compiti che richiedono
l’iscrizione ad ordini o albi, quali i professionisti dipendenti. In
tale categoria rientrano i vicedirigenti di cui all’articolo 7 della
legge 15 luglio 2002, n. 145, e successive modificazioni, ed i
ricercatori con responsabilità equivalenti ai quadri cui si applica la
presente disciplina.»;
b) l’articolo 3 è sostituito dal seguente:
«Art. 3. – 1. Le organizzazioni sindacali della categoria dei
quadri rappresentate nell’ambito del Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro (CNEL) partecipano alle elezioni per le Rappresentanze
sindacali unitarie (RSU) disponendo di apposito collegio elettorale.»;
c) dopo l’articolo 6 è aggiunto il seguente:
«Art. 6-bis. – 1. Negli organismi ed enti bilaterali e negli
enti pubblici, nei quali sono previste rappresentanze del mondo del
lavoro, sono chiamati a partecipare di diritto i lavoratori designati
dalle organizzazioni sindacali della categoria dei quadri che fanno
parte del CNEL.».
Art. 2.
1. È fatta salva la facoltà per prestatori di lavoro dipendente
individuati ai sensi delle disposizioni di cui alle lettere b) e
c) dell’articolo 1 di usufruire della rappresentanza delle
organizzazioni sindacali di categoria dei quadri, membri del CNEL.
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29/04/06
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Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli Senatori. – La normativa che disciplina il lavoro dei
professionisti dipendenti costituisce un importante e fondamentale
passaggio di un processo ormai maturo di cambiamento del lavoro, di cui
il giurista ed il legislatore vanno prendendo atto fornendo la
necessaria disciplina.
Infatti, la proposta di direttiva comunitaria, approvata dal
Parlamento europeo in prima lettura l’11 febbraio 2004, che prevede una
disciplina uniforme in tutti i Paesi membri per l’accesso alle
professioni cosiddette «regolamentate», all’articolo 2 espressamente
prevede che tutto il coacervo di norme ivi contenute, finalizzate a
garantire e sorvegliare, nell’interesse dei «consumatori», lo
standard qualitativo dei professionisti intellettuali, si applica a
tutti i cittadini che vogliono esercitare, come lavoratori dipendenti o
indipendenti, una professione regolamentata.
Pertanto la disciplina del lavoro vigente in Italia, ormai in gran
parte di fonte contrattuale, caratterizzata dall’ampia fungibilità dei
ruoli e dalla responsabilizzazione amministrativa dei soli dirigenti, si
pone in evidente contrasto con la normativa comunitaria che, invece, è
orientata verso la valorizzazione della specializzazione professionale e
verso una conseguente forte responsabilizzazione professionale,
assoggettata alla severa valutazione dei rispettivi ordini o
associazioni, considerati i più titolati a salvaguardare la permanenza
di un uniforme ed elevato grado di standard qualitativo.
Del resto, a ben guardare, già attualmente alcune vigenti normative
di derivazione comunitaria, come le norme in materia di lavori pubblici,
che hanno «sposato» la filosofia del «professionista capo progetto», con
la forte responsabilizzazione professionale del tecnico nominato
«responsabile unico del procedimento (RUP)», sono assolutamente
inconciliabili con la vigente disciplina del lavoro dipendente atteso
che quest’ultima, rinnegando di fatto l’autonomia professionale del RUP,
ne prevede la subordinazione gerarchica al dirigente.
Coerentemente il mondo del lavoro dipendente deve evolversi e
congiungersi con quello delle professioni anche per consentire sia un
rilevante apporto di conoscenza e professionalità al lavoro in ambito
pubblico e privato, sia per favorire mobilità e interazione tra
professionalità in ambito diverso, superando il rigido sistema di
compartimenti stagni e spesso non comunicanti, che ancora connota la
nostra realtà e alimenta derive corporative.
Si è pertanto pensato con i primi articoli del presente disegno di
legge di identificare la realtà giuridica dei professionisti dipendenti
sul piano individuale e collettivo. In tal senso, in maniera conforme
alla nuova disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, si è
voluto conferire al progetto un’impostazione quanto più possibile
comune.
Negli articoli da 2 a 4 è stata affrontata la dimensione
contrattuale di tali rapporti, cercando di ricondurli ad ambiti
contrattuali capaci di valorizzarne le funzioni, sia dal punto di vista
dell’inquadramento, che da quello retributivo.
L’articolo 4 appare maggiormente incentrato nella tutela di quei
valori di formazione, professionalità, assistenza operativa, che soli
consentono il raggiungimento dei necessari obiettivi sul mercato.
I successivi articoli 5 e 6 si occupano in qualche modo delle
specificità esterne (rapporto con ordini e deontologia, accesso
all’impiego) di cui gli anzidetti rapporti professionali appaiono
portatori.
Guardano pure all’esterno del rapporto contrattuale gli articoli 7,
8 e 9, che favoriscono la libera circolazione delle professionalità e la
loro conseguente implementazione. L’articolo 7 estende ai professionisti
dipendenti la disciplina che consente e facilità l’interscambio di
professionalità dirigenziali tra pubblico e privato. Il successivo
articolo 8 vuole invece garantire ai professionisti dipendenti
(specialmente dei ruoli tecnici) la tutela piena in caso di invenzioni
che agli stessi potrebbe essere sostanzialmente negata a causa della
loro specifica collocazione professionale (il regio decreto 29 giugno
1939, n. 1127, nega qualsiasi forma di compenso qualora il rapporto di
lavoro abbia come oggetto specifico l’elaborazione di novità ed
invenzioni). Si è inoltre voluto garantire sino in fondo il «libero
mercato» dei professionisti, anche dipendenti, garantendo dal punto di
vista previdenziale il passaggio dalla professione dipendente alla
libera professione e viceversa, mediante la previsione di cui
all’articolo 9.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Definizione)
1. Ai fini di armonizzare la normativa nazionale ai princìpi
comunitari in materia di professioni intellettuali ed in esecuzione
dell’articolo 40 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e
successive modificazioni, tutti i soggetti giuridici, pubblici o
privati, che nell’ambito della propria organizzazione o azienda,
prevedono l’inserimento di dipendenti i quali, nell’esercizio dei
compiti loro assegnati, si assumono a norma di legge una personale
responsabilità di natura professionale e, che per svolgere le loro
mansioni, devono essere iscritti in albi o associazioni professionali,
sono obbligati a riservare una disciplina giuridica ed economica
specifica per tali dipendenti ed un’area di contrattazione separata con
l’intervento della rappresentanza di detta categoria aderente ad
organizzazioni dei quadri, membri del Consiglio nazionale dell’economia
e del lavoro o del Comitato economico e sociale europeo.
Art. 2.
(Trattamento economico)
1. I soggetti giuridici privati, tenuto indicativamente conto del
valore della prestazione di cui alle tariffe professionali e del
trattamento economico attribuito ai vertici del lavoro dipendente in
azienda, nel pieno rispetto del principio costituzionale di cui
all’articolo 36 della Costituzione, attribuiscono il trattamento
giuridico economico al personale il cui esercizio dell’attività
professionale presupponga obbligatoriamente l’iscrizione ad albi o
associazioni professionali per le quali è richiesto il titolo di laurea
specialistica o titolo equipollente, di laurea breve o diploma di scuola
media superiore.
Art. 3.
(Inquadramento e trattamento normativo)
1. I soggetti pubblici di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono
obbligati ad attivare appositi ruoli professionali nei termini indicati
dall’articolo 15 della legge 20 marzo 1975, n. 70, per l’inquadramento
dei lavoratori che sono inseriti nella propria organizzazione per lo
specifico esercizio di attività professionali per le quali sono
richieste l’abilitazione all’esercizio della professione e l’iscrizione
ai rispettivi albi o associazioni professionali.
2. L’obbligo di cui al comma 1 sussiste ogniqualvolta le normative
di settore richiedono, per lo svolgimento di alcuni compiti, una
particolare qualificazione professionale certificata dall’appartenenza
ad ordini o associazioni professionali.
3. Il trattamento giuridico ed economico spettante ai professionisti
laureati di cui al presente articolo si attiene ai medesimi princìpi di
cui all’articolo 2.
4. Ai professionisti dipendenti possono essere conferite anche
funzioni dirigenziali, ove le leggi che disciplinano i casi di
incompatibilità con lo svolgimento delle rispettive professioni
intellettuali o leggi ordinistiche lo consentano, senza oneri
aggiuntivi.
5. Il ruolo professionale di cui al presente articolo si articola in
due posizioni:
a) alla prima posizione appartengono gli iscritti in albi
o associazioni professionali per i quali è richiesto il titolo di laurea
specialistica o titolo equipollente;
b) alla seconda posizione appartengono gli iscritti in
albi professionali per i quali è richiesto un titolo di studio di laurea
breve o diploma di scuola media superiore.
6. Sono fatte salve le diverse articolazioni che i soggetti datori
di lavoro assumono, che tengano conto, ai fini delle declaratorie
contrattuali e dell’inquadramento, dei requisiti professionali stabiliti
e richiesti dagli ordini e dalle associazioni professionali.
Art. 4.
(Tutela della professionalità)
1. Anche in ottemperanza a quanto disposto dall’articolo 2103 del
codice civile e dall’articolo 52 del citato decreto legislativo n. 165
del 2001, i datori di lavoro pubblici e privati garantiscono la
dotazione di idonei mezzi strutturali e di adeguati sussidi conseguenti
allo sviluppo ed all’evoluzione della tecnologia e delle metodologie di
ricerca e di applicazione, nonché del necessario supporto di personale
tecnico ed amministrativo funzionalmente dipendente dalle strutture
professionali medesime.
2. Ai fini della migliore qualificazione dei professionisti
dipendenti i datori di lavoro promuovono e favoriscono l’aggiornamento
professionale, nonché la partecipazione dei professionisti a convegni di
studio, a corsi di attività scientifiche, nonché a corsi di
specializzazione tenuto anche conto della disciplina comunitaria.
3. I professionisti dipendenti possono, altresì, fruire per ogni
anno di anzianità maturata, di quindici giorni di permesso o aspettativa
non retribuiti per svolgere attività formativa, didattica, esami, nonché
docenza nelle materie di pertinenza. Detti periodi possono essere
cumulati per il massimo di un semestre continuativo.
4. I datori di lavoro stipulano a favore dei propri dipendenti
appartenenti al ruolo professionale, relativamente alle attività
professionali da essi svolte, apposite polizze assicurative di
responsabilità civile e professionale per i rischi e i danni colposi
anche a terzi, derivanti dallo svolgimento delle attività professionali
di propria competenza. Il pagamento del premio è posto a carico dei
datori di lavoro medesimi.
5. Nel caso in cui i professionisti dipendenti siano sottoposti a
procedimenti giudiziari per fatti connessi all’esercizio delle attività
professionali loro affidate, i datori di lavoro assumono a loro carico
ogni onere relativo alla difesa sin dall’apertura del procedimento,
facendo assistere il dipendente da un legale o da un eventuale perito di
comune gradimento.
Art. 5.
(Accesso)
1. L’accesso alle qualifiche del ruolo professionale relativamente
alle pubbliche amministrazioni avviene per concorso pubblico indetto
dalle singole amministrazioni o dai singoli enti pubblici, ovvero per
corso-concorso mediante lo svolgimento di prove volte all’accertamento
della pratica professionale, alle quali sono ammessi gli iscritti ai
relativi albi o associazioni professionali indicati nei bandi di
concorso, in possesso dei titoli di studio richiesti e degli eventuali
titoli di professionalità e di specializzazione.
2. Alla data di entrata in vigore della presente legge è inquadrato
nel ruolo professionale e nelle corrispondenti aree e categorie il
personale che svolge rispettivamente nelle pubbliche amministrazioni o
nelle aziende private, in forza di regolare inquadramento, funzioni per
il cui svolgimento è necessaria l’iscrizione in albi o associazioni
professionali.
Art. 6.
(Autonomia professionale)
1. Il rapporto tra i professionisti appartenenti al ruolo
professionale o comunque come tali inquadrati ed utilizzati, nell’ambito
delle strutture amministrative o aziendali, si sviluppa nel rigoroso
rispetto degli ambiti di autonomia e di deontologia professionale anche
sul piano della gestione tecnica e finanziaria.
2. I professionisti di cui all’articolo 2 sono altresì esonerati
dall’obbligo di presentare i piani di gestione e rispondono
dell’incarico ricevuto direttamente al legale rappresentante dell’ente,
nel rispetto del principio di autonomia professionale e sono soggetti al
codice deontologico professionale, oltre che al controllo delle
eventuali autorità indipendenti specificamente istituite.
Art. 7.
(Mobilità)
1. L’articolo 23-bis del citato decreto legislativo n. 165
del 2001, recante disposizioni in materia di mobilità tra pubblico e
privato, è esteso al personale di cui agli articoli 1, 2 e 3, della
presente legge.
2. All’articolo 12, comma 1, del citato decreto legislativo n. 165
del 2001, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le amministrazioni
assegnano prioritariamente a tali uffici proprio personale dipendente
che abbia titolo e qualifica di avvocato ovvero reperisce il detto
personale facendo ricorso a procedure di mobilità anche temporanea
concordata con gli interessati prima di procedere all’assunzione di
personale idoneo esterno».
Art. 8.
(Invenzioni)
1. Per i dipendenti con la qualifica di professionisti dipendenti,
l’apposita retribuzione di cui all’articolo 23 del regio decreto 29
giugno 1939, n. 1127, deve essere prevista in forma scritta nell’ambito
del contratto individuale ed in termini adeguati all’importanza della
invenzione. In caso contrario, al professionista spetta comunque
all’atto della risoluzione del rapporto, apposita indennità commisurata
al periodo lavorato, all’inquadramento, alla retribuzione oltre che
all’importanza dell’invenzione.
Art. 9.
(Contribuzione)
1. Nel caso di passaggio dal ruolo professionale o dalla qualifica
di professionista dipendente a quella di professionista lavoratore
autonomo o viceversa, i rispettivi periodi contributivi di
professionista dipendente e di professionista lavoratore autonomo,
possono essere ricongiunti senza onere economico alcuno per il
professionista medesimo.
Art. 10.
(Praticantato)
1. Il periodo di attività presso strutture rette da professionisti
dipendenti alle dirette dipendenze dagli stessi ed in attività coerente
con la professione, è riconosciuto, previa valutazione dei competenti
ordini, come praticantato professionale.
Art. 11.
(Inderogabilità)
1. Le disposizioni della presente legge costituiscono princìpi
fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e si
applicano altresì alle regioni a statuto speciale ed alle province
autonome di Trento e di Bolzano.
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99 |
29/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli Senatori. – La legge 22 maggio 1978, n. 194, approvata dal
Parlamento nella fase politica della solidarietà nazionale e sulle
spinte di un esasperato femminismo che volge ormai al tramonto, ad oltre
venticinque anni dalla sua introduzione nell’ordinamento giuridico,
conferma tutti i suoi limiti e la sua inadeguatezza.
Il gruppo dell’UDC ha presentato nel corso della XIV legislatura,
sia alla Camera dei deputati, che al Senato della Repubblica una
proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di
inchiesta in materia di prevenzione dell’aborto volontario e di
funzionamento dei consultori, per verificare il funzionamento e
l’attuazione della citata legge n. 194 del 1978 (A.S. n. 51).
Secondo i drammatici dati rilevati nella relazione trasmessa dal
Governo al Parlamento sull’attuazione della citata legge n. 194 del 1978
nel 1999, si sono registrati 139.386 casi di interruzione volontaria di
gravidanza con un incremento dello 0,7 per cento rispetto al 1998. Il
tasso di abortività è risultato pari al 9,9 per 1.000 donne di età fra i
quindici e i quarantanove anni; tale tasso, pur diminuito rispetto agli
anni scorsi, rappresenta ancora un valore elevato.
Nella relazione presentata in Parlamento il 19 ottobre 2005 (Doc.
XXXVII, n. 9 della XIV legislatura) si registrano 136.715 interventi
di interruzione volontaria della gravidanza, con una crescita del 3,4
per cento rispetto all’anno precedente e l’incidenza delle donne
straniere rispetto alle cittadine italiane.
La citata relazione sottolinea come risulti basso il ricorso al
consultorio familiare per la certificazione, riconoscendo le difficoltà
a farvi ricorso e l’inadeguatezza dell’integrazione con il servizio dei
consultori familiari, l’incompletezza delle strutture consultoriali ed
il numero limitato di figure professionali, soprattutto in vaste aree
del paese.
La relazione riconosce, altresì, che i consultori familiari
andrebbero opportunamente potenziati e riqualificati, non raggiungendo
il limite indicato nel decreto-legge 1º dicembre 1995, n. 509,
convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 1996, n. 34, di un
consultorio per ogni ventimila abitanti.
Con il presente disegno di legge, pur manifestando profonda
contrarietà rispetto alle finalità della citata legge n. 194 del 1978,
si intendono modificare e correggere quelle parti che esaltano la
cultura della morte anzichè la cultura della vita.
Intendiamo richiamare la questione relativa al momento delicato in
cui la donna abbia già dichiarato di volere interrompere la gravidanza,
ma, a seguito di ulteriori riflessioni, con un atto di rinuncia alla
interruzione volontaria della gravidanza, decida la continuazione della
gestazione; è in tale fase che riteniamo opportuno agevolare questa
scelta attraverso un adeguato intervento finanziario di sostegno a
carico dello Stato, non solo nei confronti della donna ma anche
attraverso gli istituti che sono in grado di sostenerla, e una maggiore
responsabilizzazione del genitore rispetto ad una scelta che resta
dolorosa.
Intendiamo riaffermare una cultura della vita. Lo Stato si deve fare
carico di aiutare le donne che si trovano in queste situazioni
contribuendo a salvare vite umane che rappresentano una risorsa per il
paese.
A titolo esemplificativo ricordiamo che se tutte le donne che hanno
abortito nel 1999 avessero rinunciato all’aborto utilizzando le misure
finanziarie previste nella presente proposta di legge, il costo per lo
Stato sarebbe stato di lire 1.680 miliardi. Se il numero delle donne
fosse stato solo il 10 per cento del totale effettivo, l’importo si
sarebbe limitato a 168 miliardi di lire. L’uno per cento delle donne
avrebbe significato un costo sociale di 16,8 miliardi di lire. Sono
cifre che acquistano un significato morale che va oltre l’impegno
finanziario dello Stato e che potrebbero essere recuperate nelle
«pieghe» del bilancio pubblico se riuscissero nello scopo di salvare
anche un solo bambino.
Agli interventi finanziari dello Stato possono essere uniti quelli
provenienti dalle regioni o da altri enti indicati dalle regioni stesse.
Con l’articolo 1 della proposta di legge viene modificato il quarto
comma dell’articolo 5 della legge n. 194 del 1978 ampliando la
responsabilità della scelta anche alla persona indicata come padre del
nascituro.
L’articolo 2, modificando profondamente l’articolo 5 della legge n.
194 del 1978, prevede che la donna che nei sette giorni antecedenti
l’interruzione volontaria della gravidanza rinuncia all’aborto beneficia
dei contributi previsti dall’articolo 3, cioè, dell’intervento
finanziario di sostegno dello Stato, integrabile dalle regioni, pari a
mille euro mensili per la durata di un anno dal momento del concepimento
fino al momento del ricovero in un istituto di assistenza.
Con l’articolo 4 si prevede che i bambini che nascono a seguito di
rinuncia all’interruzione volontaria della gravidanza possono essere
adottati o dati in affidamento con il consenso dei genitori, con
procedura di urgenza, venendo incontro ai desideri di coppie che –
attraverso organizzazioni compiacenti – sono costrette ad andare
all’estero per soddisfare i loro desideri di genitorialità e il bisogno
di adottare i minori.
L’articolo 5, modificando l’articolo 12 della legge n. 194 del 1978,
obbliga il giudice tutelare, che può autorizzare la donna di età
inferiore a diciotto anni all’interruzione volontaria della gravidanza,
a sentire la persona indicata come padre del nascituro.
L’articolo 6 reca la copertura finanziaria.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. Dopo l’articolo 4 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sono
inseriti i seguenti:
«Art. 4-bis. – 1. Alle donne che rinunciano alla interruzione
della gravidanza lo Stato eroga un contributo pari a mille euro mensili
per la durata di un anno, che decorre dal momento del concepimento fino
al ricovero del minore in un istituto di assistenza, ovvero alla sua
adozione o affidamento.
2. Le regioni, nell’ambito delle proprie disponibilità
finanziarie, possono concedere ulteriori contributi ad integrazione di
quelli erogati ai sensi del comma 1.
3. Lo Stato assicura il ricovero presso appositi istituti
alle donne che rinunciano alla interruzione della gravidanza. Le spese
relative al ricovero sono a totale carico dello Stato.
Art. 4-ter. – 1. I bambini che nascono a seguito di rinuncia
alla interruzione della gravidanza possono essere adottati o dati in
affidamento, con procedura di urgenza, con il consenso dei genitori,
entro sei mesi dalla nascita».
Art. 2.
1. All’articolo 5 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sono apportate
le seguenti modificazioni:
a) al quarto comma, dopo le parole: «di cui all’articolo
4,» sono inserite le seguenti: «sentita obbligatoriamente anche la
persona indicata come padre del nascituro,»;
b) dopo il quarto comma, è aggiunto il seguente:
«La donna che entro i sette giorni stabiliti al quarto comma, e
comunque entro i termini previsti dall’articolo 4, dichiara di volere
rinunciare alla interruzione della gravidanza beneficia dei contributi
erogati ai sensi dell’articolo 4-bis».
Art. 3.
1. All’articolo 12, secondo comma, della legge 22 maggio 1978, n.
194, dopo le parole: «e della relazione trasmessagli,» sono inserite le
seguenti: «nonché sentita obbligatoriamente anche la persona indicata
come padre del nascituro,».
Art. 4.
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge si
provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto,
ai fini del bilancio triennale 2006-2008, nell’ambito dell’unità
previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di
previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per il 2006, allo
scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero
della salute.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
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97 |
29/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli
Senatori. – Il presente progetto di legge è essenzialmente finalizzato,
nell’ambito delle celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità
d’Italia, a dare vita ad un soggetto giuridico che, nel rispetto della
lettera e della ratio delle disposizioni del Codice dei beni
culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale,
provveda a costituire e valorizzare un percorso espositivo museale
incentrato sulle residenze reali della dinastia sabauda, alla quale va
comunque ascritto il processo di riunificazione nazionale.
Il percorso si propone soprattutto di legare, secondo un filo
conduttore unitario, le «residenze sabaude» in un itinerario culturale
che richiami alla memoria del visitatore italiano e straniero le tappe
più significative della storia di Casa Savoia, contribuendo così per un
verso a riscoprire le radici dell’Unità nazionale e per l’altro a
valorizzare sotto il profilo culturale i cospicui investimenti dello
Stato, della Regione e degli enti locali nel recupero di molti siti
reali quali, ad esempio, Venaria Reale e Stupinigi.
Risulterebbe, per questo riguardo, particolamente significativa
l’attuazione di un progetto di restauro e valorizzazione a fini museali
del centro di comando dello Stato sabaudo (cosiddetto «Polo Reale»),
comprendente il Palazzo Reale, la Biblioteca Reale, l’Armeria Reale, la
nuova sede della Galleria Sabauda e il Museo di Antichità con l’attigua
area archeologica. Questo vasto complesso di palazzi e musei, sito nel
cuore di Torino, è stato testimone delle fasi di unificazione dello
Stato e racchiude tra le sale auliche del Palazzo reale la Sala dello
Statuto e la Sala del Trono, cui fanno corona le «maniche» destinate ad
accogliere le collezioni storico-artistiche della casata, dalla
pinacoteca alle raccolte archeologiche, librarie e d’armi.
Il finanziamento varrebbe a consentire la musealizzazione della
parte non ancora accessibile al pubblico del complesso ed a potenziarne
gli spazi d’accoglienza, consentendo inoltre il restauro e il recupero
di parte importante delle collezioni, le quali potrebbero essere in tale
occasione esposte.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. È istituito il
Comitato nazionale per le celebrazioni del centocinquantesimo
anniversario dell’Unità d’Italia, che ricorre nell’anno 2011.
2. Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri
oppure, su delega, dal Ministro per i beni e le attività culturali, e ne
fanno parte rappresentanti delle istituzioni nazionali, regionali e
locali. L’indicazione delle istituzioni rappresentate ed ogni altro
profilo concernente la composizione del Comitato sono disciplinati con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanarsi, previa
intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro sessanta giorni dall’entrata
in vigore della presente legge.
3. Il Comitato promuove, sostiene e coordina le iniziative
finalizzate alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario
dell’Unità d’Italia.
Art. 2.
1. Il Ministero
per i beni e le attività culturali, d’intesa con la regione Piemonte e
con il concorso dei soggetti proprietari o detentori di residenze
sabaude e degli altri soggetti pubblici e privati interessati,
istituisce un sistema integrato di valorizzazione del patrimonio
culturale sabaudo, costituito dagli immobili, dalle raccolte artistiche,
dai documenti, dai libri e da ogni altra testimonianza riferibile alle
vicende della dinastia sabauda, attribuendo ad esso apposita
soggettività giuridica ed adeguata autonomia organizzativa e
finanziaria, provvedendo altresì al reperimento delle necessarie risorse
finanziarie.
2. Per la realizzazione del «Polo Reale» attraverso un progetto di
restauro e valorizzazione a fini museali del centro di comando dello
Stato sabaudo comprendente il Palazzo reale, la Biblioteca reale,
l’Armeria reale, la nuova sede della Galleria sabauda e il Museo di
antichità con l’attigua area archeologica, è prevista una spesa
complessiva di 25 milioni di euro nel triennio 2007-2009, di cui 5
milioni di euro nell’esercizio finanziario 2007 e 10 milioni di euro per
ciascuno degli esercizi 2008 e 2009.
3. All’onere derivante dall’attuazione del comma 2, si provvede
mediante corrispondente riduzione delle proiezioni dello stanziamento
iscritto ai fini del bilancio triennale 2006-2008 nell’ambito della
unità previsionale di base di conto capitale «Fondo speciale» dello
stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, allo
scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo
Ministero.
4. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
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36 |
28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio |
Onorevoli
Senatori. –
Premessa
Il rispetto delle regole europee deve trovare un più forte momento
di coesione tra tutti i livelli di governo.
Le ultime sessioni di bilancio hanno dimostrato l’urgenza di
apportare interventi correttivi alla legge di contabilità (legge 5
agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni), riprendendo il cammino
riformatore.
Occorre avere la consapevolezza che il passaggio dalla legge
finanziaria al consolidato di cassa, non deve essere solo un mutamento
nominalistico o terminologico ma deve assumere il significato forte del
passaggio ad una fase politica diversa, dopo il trattato di Maastricht,
con i relativi vincoli europei e il patto di stabilità e crescita
fissato dall’Unione europea.
Deve inoltre essere assicurato l’indispensabile coordinamento tra
finanza nazionale e finanza locale, oltre gli interventi realizzati in
questi ultimi anni attraverso il Patto di stabilità interno, dopo le
modifiche intervenute con il novellato Titolo V della Carta
costituzionale.
Devono essere posti inoltre più stringenti limiti finalizzati al
contenimento e alla razionalizzazione dell’aggregato spesa pubblica. La
creazione di buone regole di finanza pubblica è oggi un’esigenza
imprescindibile, anche se non sufficiente per l’esistenza di una buona
politica; ma buone politiche e buone regole sono essenziali per
realizzare obiettivi di stabilizzazione e di sviluppo.
È stato più volte detto che il bilancio ha più padroni. È strumento
di Governo, perché ad esso appartiene in quanto strumento della gestione
finanziaria che è affidata alla Pubblica amministrazione; è strumento
del Parlamento, perché strumento di decisione.
Il problema che oggi abbiamo di fronte non è quello di alterare
questo rapporto, ma di affermare una vera ed autentica cultura del
bilancio da tutti condivisa.
Rafforzare i vincoli di bilancio e chiamare tutti i soggetti ad una
nuova stagione di responsabilità, rispetto alla quale nessuno può
ritenersi estraneo, è l’obiettivo che ispira questa proposta di legge ed
è altresì il contributo che si vuole portare al confronto parlamentare.
L’articolo 28 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge
finanziaria 2003), con l’avvio del progetto SIOPE (Sistema informativo
delle operazioni degli enti pubblici) rappresenta un indubbio passo
avanti in questa direzione: viene infatti recepita quella indicazione
che avevo formulato fin dalla finanziaria relativa al 2002 – legge 28
dicembre 2001, n. 448 – sulla necessità di creare una rete telematica
che permetta una conoscenza in tempo reale dell’andamento dei flussi di
finanza pubblica sia dello Stato sia degli enti decentrati, quindi
dell’intera area pubblica, insieme ad efficaci sistemi di
rendicontazione. Esso consente la rilevazione telematica degli incassi e
dei pagamenti effettuati dai tesorieri degli enti pubblici con
operazioni codificate in modo uniforme su tutto il territorio nazionale
ed una gestione operativa affidata alla Banca d’Italia. Ad oggi, sono
attivi nel SIOPE, 2691 enti su una platea potenziale di 3113 enti così
suddivisi:
– 21 su 22 regioni e province autonome di Trento e di Bolzano
(manca la Sicilia);
– 580 su 593 comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti
e province;
– 64 su 64 università;
– 2026 su 2034 dipartimenti universitari censiti.
Dal 2007 entreranno i restanti enti: comuni con popolazione
inferiore a 20.000 abitanti, ASL, enti di previdenza e ricerca.
A regime il SIOPE comprenderà circa 12.0000 soggetti, inclusi i
dipartimenti universitari.
Solo muovendo da una puntuale conoscenza dei dati dell’intero
perimetro delle amministrazioni pubbliche di contabilità nazionale è
possibile assumere orientamenti e decisioni coerenti.
Si intendano definire gli strumenti per la realizzazione del
consolidato di cassa della pubblica amministrazione; è una esigenza
eticamente, politicamente e gestionalmente necessaria, affiancando le
procedure oggi in vigore con un meccanismo che porti direttamente a
disaggregare le informazioni disponibili secondo le varie esigenze.
È il rendiconto il collante di ogni organizzazione, la madre di
tutte le riforme istituzionali, l’unica che può portare i Parlamenti
alla funzione originaria di controllo sul buon uso del denaro dei
cittadini. Questo obbligo di rendicontazione ha ora dignità di norma
sovranazionale con il trattato di Maastricht.
Abbiamo riscontrato come il complesso delle innovazioni nelle regole
e negli strumenti non abbia ridotto la capacità di proposta emendativa.
Occorre allora intervenire anche sul versante dei regolamenti
parlamentari, accrescendo il ruolo della Commissione bilancio e
recuperando il suo ruolo di filtro del lavoro istruttorio.
Proseguire nell’azione riformatrice sui diversi versanti, sia
legislativi che regolamentari, potrà garantire rigore, razionalità
procedurale e successo negli obiettivi per consolidare il traguardo
nella integrazione europea.
Gli obiettivi della riforma proposta
1. La strada maestra dell’innovazione politica ed amministrativa
passa per un nuovo modo di fare la legge finanziaria.
2. Il punto di svolta è il passaggio apparentemente tecnico, che è
già nei fatti: il passaggio da una gestione di competenza ad una
gestione di cassa.
3. Di fatto, con grande disordine e confusione, decreti «blocca-spese»
ed altro, polemiche sul «fabbisogno» e sull’«indebitamento netto»,
siamo, da Maastricht in poi, dentro una logica che fa prevalere la
gestione di cassa su quella di competenza: ciò che deve essere chiarito,
ed ancora pochi hanno chiaro, è che questo passaggio ha implicazioni
politiche ed amministrative di grande rilievo. Si tratta di profittarne.
4. In estrema sintesi, e semplificando moltissimo, abbiamo di fronte
due alternative:
a) la gestione per «competenza». Detto con grande
semplicità, è gestione basata sul concetto di affidare a ciascuno dei
vari livelli di responsabilità politica ed amministrativa un «tesoretto»
di «disponibilità futura di danaro» da spendere per scopi definiti, di
fatto senza limiti di tempo. Le conseguenze negative sono tre:
a1) la concorrenza tra i vari soggetti politici ed
amministrativi non è sull’efficienza oppure sull’efficacia della spesa
misurate ex post. È invece ex ante, tutta politica, in
sede di approvazione della legge finanziaria, attualmente con il solo
vincolo del «patto di stabilità»;
a2) il «tesoretto» vale se «non viene speso», perché
«può essere promesso a tanti se non viene speso per nessuno». Di qui
l’assenza strutturale della cultura del rendiconto, nell’attuale
sistema. Tutto è centrato sul controllo del «livello dei vari
tesoretti»: di fatto nulla si sa del loro uso. La spesa pubblica tende a
divenire strutturalmente inefficiente, a frantumarsi in rivoletti sempre
più piccoli, a divenire «elemosina», in luogo di strumento di soluzione
di problemi strutturali. I tempi di realizzazione delle varie «cose» da
fare si dilatano sempre più, e così inevitabilmente il loro costo. Si
allarga sempre più la «faglia istituzionale» tra i cittadini che pagano
e non vedono ritorni, e gli eletti che cercano di usare il danaro dei
cittadini per massimizzare le proprie rendite politiche;
a3) la macchina amministrativa ha un alibi colossale
a «non fare». La concorrenza tra le forze politiche alimenta
continuamente questo alibi. Non c’è alcun incentivo a spendere presto e
bene. Al contrario, si constata tutti i giorni l’esistenza di un
formidabile incentivo a comportamenti opposti.
b) La gestione per cassa che si propone. Si tratta di
dare forma giuridica ed istituzionale coerente a una strada di fatto già
imboccata. Si tratta di porre in essere tre strumenti:
b1) un quadro macroeconomico di medio periodo, che
sia allo stesso tempo «camicia di forza» ex ante all’uso del
danaro pubblico e documento guida di politica economica;
b2) un budget di cassa mensile per ogni
livello di governo, che cali la «camicia di forza» dell’obbligo e della
cultura del rendiconto ben dentro la «macchina» della Pubblica
Amministrazione;
b3) la concorrenza tra i vari livelli di governo e
dell’amministrazione ad essere «più bravi». I «tesoretti» non sono
«competenza», sono «cassa»: i danari non si possono tenere fermi. Chi li
usa bene e per primo ha possibilità di concorrere ad usare i danari di
chi continua a pensare di poterli «covare», come accade ora. Si apre
naturalmente la strada ad una cultura politica ed amministrativa di «zero
budgeting», che annulla ogni anno le rendite di posizione acquisite
e riporta correttamente tutto ad una forma di concorrenza tra le
amministrazioni basata sui risultati.
5. La legge finanziaria dovrebbe essere fondamentalmente un
documento «non emendabile» con i contenuti del punto b1)
precedente, e null’altro. Il Titolo V della Costituzione si applica
costruendo, dentro i «paletti» della legge finanziaria, il budget di cui
al punto b2).
Il contenuto del testo
1. Con l’articolo 1 del presente testo, redatto in forma di novella
alla legge n. 468 del 1978, si definisce il quadro programmatico
macroeconomico entro il quale deve svolgersi l’attività di tutta la
Pubblica amministrazione. Sono dati di cassa e non di competenza, per i
motivi già esposti in premessa. Sono dati di cassa perché impattano
direttamente sul debito, la cui riduzione è l’obiettivo principale del
risanamento della finanza pubblica. Sono dati di cassa, perché è la
cassa (e non la competenza) che rappresenta da anni il limite superiore
alla spesa pubblica. I dati relativi al personale (numero dei dipendenti
pubblici e loro costo), insieme al numero dei pensionati e al loro
costo, sono i parametri principali che determinano il valore della spesa
pubblica Il quadro macro deve includere le decisioni di politica fiscale
e di politica della spesa che sono implicite nello stesso quadro: l’uno
senza i contenuti di quelle sarebbe incomprensibile.
2. Sempre l’articolo 1, ai capoversi 2-ter e 2-quater,
è diretta conseguenza di due fatti elementari ed incontestabili:
a) la necessità di dividere i poteri tra Governo e
Parlamento: il potere esecutivo ai primi, il controllo ai secondi;
b) l’obbligo di portare rispetto al danaro, e quindi alla
fatica, dei cittadini. Il Parlamento, con il proprio voto, sancisce un
limite al prelievo del danaro dalle tasche dei cittadini, ed un limite
al debito (che è danaro dei cittadini aggiuntivo, che dovrà in futuro
essere prelevato dalle loro tasche per poter essere restituito ai
creditori). Tali limiti devono essere tassativamente rispettati dai
governi, centrale e periferici.
3. Il capoverso 2-septies meglio precisa gli aspetti di cui
al punto 2. In particolare richiama il fondamento di qualsiasi progetto
di riforma della Pubblica amministrazione e della legge finanziaria: uno
strumento di contabilità di cassa in tempo reale, articolato per livelli
di governo. È esattamente quanto discende dall’applicazione
dell’articolo 28 della citata legge finanziaria 2003, commi 3, 4 e 5.
4. L’articolo 3 indica esplicitamente il primo obiettivo di
qualsiasi politica di risanamento strutturale della finanza pubblica:
contenere la crescita annuale della spesa corrente al netto degli
interessi al di sotto del tasso di inflazione. Il risultato è un suo
calo in rapporto al PIL, e quindi un saldo attivo da destinare a tre
scopi:
a) riduzione del deficit annuale di cassa;
b) crescita degli investimenti e quindi maggiore crescita
annua;
c) calo del debito, e quindi di nuovo maggior saldo
annuale derivante da una minore spesa per interessi da destinare ai due
scopi precedenti.
Il secondo obiettivo è bloccare la crescita del debito garantito e
non garantito che discende da minore spesa conseguente a rinvio di
pagamenti, e non da riduzione strutturale della spesa, oltre alla
crescita del debito che discende da deficit annuali di cassa prolungati
e eccessivi. Con questo provvedimento si costringono le amministrazioni
a vendere il patrimonio per abbassare il debito. L’esperienza prova che
la vendita del patrimonio ha di solito due effetti positivi: migliora i
conti della Pubblica Amministrazione, poiché spesso il patrimonio ha
rendimenti negativi, e migliora la crescita economica in generale,
poiché alza la produttività dell’economia. Il capoverso 2-septies
definisce il significato operativo del federalismo fiscale: la
diffusione coerente, a livello di territori, e quindi di governi locali,
dei limiti di utilizzo del danaro pubblico resosi disponibile fissati
all’articolo 1.
L’articolo 3, comma 2, sancisce che la cosiddetta «esternalizzazione
dei servizi» conviene alle amministrazioni se produce più efficienza.
Non conviene, oppure diviene impossibile, se produce effetti nulli o
negativi rispetto alla produzione interna di servizi.
5. L’articolo 4, infine, mira a creare concorrenza interna tra i
territori e tra le amministrazioni. L’efficienza merita di essere
premiata, in quanto fa rendere di più il danaro pubblico, e viceversa.
Esso si propone, inoltre, di cambiare in meglio la cultura
amministrativa del paese, come deve essere.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. All’articolo 11 della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive
modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il comma 2 è sostituito dal seguente:
«2. La legge finanziaria ha la finalità di dare
attuazione prioritariamente all’articolo 104 del Trattato istitutivo
della Comunità europea, nonché agli obiettivi di cui all’articolo 3,
comma 2. A tal fine essa definisce annualmente il quadro di riferimento
finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale e provvede,
per il medesimo periodo, alla regolazione annuale delle grandezze
previste dalla legislazione vigente al fine di adeguarne gli effetti
finanziari agli obiettivi»;
b) dopo il comma 2 sono inseriti i seguenti:
«2-bis. La legge finanziaria reca, in particolare,
allegate a un apposito articolo, distintamente per l’anno di riferimento
e per i quattro anni successivi:
a) la tabella delle autorizzazioni di cassa, espresse
unitariamente per lo Stato, le regioni, le province autonome di Trento e
di Bolzano, le province, i comuni e ogni altra amministrazione ed ente
pubblico, relative a:
1) spesa corrente al netto degli interessi;
2) spesa per interessi;
3) spesa per investimenti pubblici;
4) incassi;
5) saldo di cassa;
6) ammontare del debito pubblico garantito dallo Stato;
7) ammontare di altro debito pubblico;
8) ammontare del prodotto interno lordo;
9) numero e costo dei dipendenti;
10) numero e costo dei collaboratori esterni aventi un
rapporto, anche part time; di durata superiore ai tre mesi
complessivi per anno;
11) numero e costo delle pensioni che saranno pagate;
b) la tabella delle previsioni di cassa concernenti
l’area delle partecipazioni pubbliche di diritto privato per gli anni
predetti relative a:
1) numero dei dipendenti;
2) indebitamento e fatturato totali;
3) incassi totali da amministrazioni pubbliche, per contratti di
servizio o aumenti di capitale o fatturato o altro;
4) incassi totali da amministrazioni pubbliche per contributo
agli investimenti, totale «lavori interni», risultato finale di
bilancio, quota di partecipazione pubblica totale;
c) una relazione, contenente la descrizione della
politica fiscale e della politica della spesa implicita nella tabella
delle previsioni di cui alla lettera a).
2-ter. I Presidenti delle Camere accertano se l’articolo
della legge finanziaria di cui al comma 2-bis e i relativi
allegati presentati dal Governo contengano disposizioni estranee al loro
contenuto quale previsto dal comma predetto e, in caso positivo, ne
dispongono lo stralcio. L’articolo di cui al comma 2-bis, con i
relativi allegati, è approvato dalle Camere con unica votazione. Su di
esso non sono ammissibili emendamenti, proposte di stralcio o richieste
di votazione per parti separate.
2-quater. La legge finanziaria non può contenere:
a) norme di delega, o di carattere ordinamentale ovvero
organizzatorio;
b) disposizioni recanti obbligo di effettuazione di
investimenti;
c) contributi, erogazioni o benefici comunque denominati
a qualsiasi titolo in denaro, beni o servizi a beneficio di enti
pubblici, anche territoriali, persone fisiche o giuridiche, associazioni
non riconosciute, italiane e straniere.
2-quinquies. L’assegnazione dei contributi, erogazioni o
benefici di cui al comma 2-quater, lettera c), è
competenza specifica ed esclusiva degli organi di governo degli enti
competenti, nell’ambito della legge statale e regionale.
2-sexies. I dati contenuti nella tabella di cui al comma 2-bis,
lettera a), individuano i limiti entro i quali le Pubbliche
amministrazioni possono effettuare spese entro ciascun anno. Le
disposizioni legislative recanti autorizzazioni di spesa in contrasto
con i predetti dati si intendono abrogate.
2-septies. Le tabelle di cui al comma 2-bis
definiscono unitariamente per lo Stato, le regioni, le province autonome
di Trento e di Bolzano e ogni altra Amministrazione pubblica, per
ciascun anno, il numero massimo del personale dipendente retribuito, il
limite massimo della spesa corrente e il limite massimo per la spesa per
investimenti. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri,
emanato, entro il 28 febbraio di ogni anno, previa intesa con la
Conferenza Stato-Regioni, i predetti limiti massimi sono ripartiti fra
lo Stato, le regioni e le province autonome. Con decreti dei Presidenti
delle regioni e delle province autonome, emanati entro il 31 marzo di
ogni anno, i limiti massimi fissati per ciascuna regione o provincia
autonoma sono ripartiti fra le Amministrazioni regionali, le province, i
comuni e gli altri enti pubblici subregionali»;
c) al comma 3, alinea, le parole: «non può contenere
norme di delega o di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio.
Essa» sono soppresse.
Art. 2.
1. Gli organi di governo dei comuni, delle province, delle regioni,
degli enti pubblici, nonché delle società di diritto privato ove vi sia
almeno il 5 per cento di partecipazione pubblica, presentano
tempestivamente, ogni anno, alle assemblee elettive, agli organi
controllanti ovvero all’azionista pubblico, il dettagliato rendiconto
degli incassi e delle spese effettuati nell’anno precedente, con
analitica illustrazione dell’impiego delle somme e dei risultati
ottenuti. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da
emanare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8
del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definite le
modalità tecniche, in conformità a quelle determinate ai sensi
dell’articolo 28, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per la
realizzazione di un sistema informatico per l’accesso ai dati relativi
ai pagamenti e agli incassi relativi a tutte le amministrazioni, enti o
società interessate, da parte di tutti i soggetti aventi titolo.
Nell’attuazione del sistema è conferita specifica priorità alle
assemblee elettive.
Art. 3.
1. Fino a quando il saldo annuale di cassa consolidato delle
amministrazioni pubbliche, accertato in sede di consuntivo, non sarà
positivo, gli obiettivi prioritari della manovra di finanza pubblica di
cui all’articolo 3, comma 2, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e
successive modificazioni, sono esclusivamente i seguenti:
a) la spesa corrente al netto degli interessi delle
amministrazioni pubbliche non può, nel suo complesso, crescere
annualmente oltre la metà del tasso annuale di inflazione programmata;
b) il debito pubblico garantito dallo Stato ed il
restante debito pubblico in capo ad altre amministrazioni o società a
controllo pubblico di diritto privato non possono superare
complessivamente i 1.500 miliardi di euro.
2. Gli aumenti di capitale effettuati da amministrazioni pubbliche
in società di diritto pubblico o privato, a qualsiasi titolo, sono
comunque da conteggiarsi tra le spese correnti al netto degli interessi,
così come qualsiasi altra somma di danaro pubblico ad esse erogata. Sono
tassativamente proibiti crediti di firma o garanzie reali prestate ad
ogni e qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche a creditori di
società di diritto pubblico o privato. I crediti di firma o le garanzie
eventualmente prestate sono nulle di diritto.
Art. 4.
1. Le amministrazioni pubbliche che conseguono risparmi di cassa
nella spesa corrente, rispetto alla previsione, possono utilizzare le
somme residue per investimenti aggiuntivi.
2. Le amministrazioni pubbliche che hanno spese eccedenti quelle
programmate subiranno tagli equivalenti alle somme loro trasferite
nell’anno successivo, pari alle eccedenze riscontrate. I dirigenti
generali responsabili delle eccedenze di spesa di queste amministrazioni
potranno essere licenziati in tronco, in deroga alle leggi vigenti.
3. Nei casi più gravi, le giunte e le assemblee elettive
responsabili del mancato rispetto dei limiti della legge finanziaria
potranno essere rispettivamente commissariate oppure sciolte.
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35 |
28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli Senatori. – La questione dell’istruzione è un punto
fondamentale per la crescita del Paese.
Dopo l’introduzione dell’euro, il processo di integrazione europea
ha segnato un punto di crisi nella fase di ratifica del trattato
costituzionale europeo in conseguenza dell’esito referendario in due
importanti paesi membri come Francia ed Olanda.
È ora necessario riprendere il cammino europeo, armonizzando tutte
le strutture pubbliche e private in questa azione di diffusione degli
ideali europei affinchè non vi siano «zone grigie».
Si può utilizzare la via dell’articolo 138 della Costituzione per
apportare modifiche parziali, procedura che è stata seguita per
modifiche relative a importanti segmenti della nostra società, quali i
provvedimenti per l’esercizio del voto degli italiani all’estero, per
l’elezione diretta del presidente della regione, per il giusto processo,
per il principio di sussidiarietà, per l’articolo 51 della Costituzione
relativo alla parità di accesso agli uffici pubblici ed alle cariche
elettive e per tutti gli adattamenti che possano consentire al Paese di
armonizzarsi con la legislazione europea ed affrontare le sfide del
futuro.
Gli articoli 33 e 34 della Costituzione hanno quale oggetto
l’istruzione e furono approvati dall’Assemblea costituente dopo un vasto
e prolungato dibattito che si aprì sul tema «scuola pubblica-scuola
privata» nel quale si evidenziò una forte divaricazione di scelte e di
orientamenti tra laici e cattolici.
Sono abbondantemente note le ragioni che hanno impedito di
affrontare la «questione istruzione» senza quelle preclusioni
ideologiche che trovano un ostacolo nella formulazione del terzo comma
dell’articolo 33 della Costituzione al quale si è voluto attribuire un
significato che va oltre l’interpretazione degli stessi proponenti.
È opportuno, infatti, ricordare che il relatore all’Assemblea
costituente, onorevole Marchesi, nella seduta del 22 aprile 1947 si
pronunciò per un pieno diritto della scuola privata alla libertà di
insegnamento (Atti dell’Assemblea costituente pag. 3204), e l’onorevole
Corbino, anche a nome degli altri firmatari, chiarì la portata
dell’emendamento con le seguenti parole: «Noi non diciamo che lo Stato
non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati: diciamo solo
che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti
da parte dello Stato» e di fronte alle obiezioni dell’onorevole Gronchi
sulla sorte che sarebbe stata riservata alle scuole professionali che
non sono di Stato e che vivono con il concorso dello Stato, un altro
firmatario dell’emendamento, l’onorevole Codignola, chiarì che con
l’aggiunta «senza oneri per lo Stato» non è vero che si venga a impedire
qualsiasi aiuto dello Stato alle scuole professionali, si stabilisce
solo che «non esiste un diritto costituzionale a chiedere tale aiuto».
Una interpretazione restrittiva della norma costituzionale ha finito
per dividere per più di cinquanta anni le forze politiche impedendo di
trovare una soluzione idonea ai problemi della scuola italiana e alle
sue prospettive di crescita, soprattutto nei campi fondamentali della
educazione e della istruzione.
Sono stati vani finora i tentativi di trovare un’intesa capace di
superare le difficoltà frapposte per impedire una soluzione che,
disciplinando la parità scolastica, non si esaurisca nella erogazione di
risorse assistenziali ma consenta all’impresa scolastica di svolgere un
ruolo competitivo rispetto al progressivo monopolio dell’istruzione. Il
monopolio pubblico dell’istruzione finisce per intaccare il principio
del pluralismo educativo in una società democratica, come dimostrano i
dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sulla situazione
della scuola non statale, che, nel 2001, presentava il seguente
allarmante quadro: scuola materna: 12.339 scuole; 672.141 alunni; scuola
elementare: 1.887 scuole; 203.016 alunni; scuola media 807 scuole;
68.551 alunni; scuola superiore: 1.806 scuole; 159.277 alunni.
Tale situazione si è ultieriormente modificata nell’anno scolastico
2004-2005 presentando i seguenti dati: scuola dell’infanzia: 11.287
scuole; 689.695 alunni; scuola primaria: 2.289 scuole; 249.609 alunni;
scuola secondaria di primo grado: 860 scuole; 98.748 alunni; scuola
secondaria di secondo grado: 1.615 scuole; 179.302 alunni. Si evince
chiaramente ed inequivocabilmente il fenomeno grave della ulteriore
contrazione dei plessi scolastici non statali, cui fa riscontro una
lieve crescita in termini di alunni a dimostrazione di una domanda che
non trova adeguata soluzione.
I passi in avanti che si registrano nel provvedimento sulla parità
scolastica non raggiungono l’obiettivo di una maggiore democrazia
scolastica di cui sentiamo fortemente l’esigenza e soprattutto non
consentono al Paese di raggiungere standard e livelli europei nel
settore dell’istruzione.
In ambito europeo possono essere individuate quattro tipologie di
aspetti strutturali e giuridici che caratterizzano la scuola non statale
negli Stati membri dell’Unione europea.
Le quattro tipologie sono così sintetizzabili:
1) scuola non statale con equivalenza completa con la scuola
statale. Appartengono a questa tipologia il Belgio, la Danimarca,
l’Islanda e i Paesi Bassi;
2) scuola non statale convenzionata e finanziata in rapporto al
riconoscimento di soddisfare un «bisogno riconosciuto». In genere in
questi Paesi coesistono due tipologie di scuola «privata»: da una parte
quella completamente privata e indipendente che non riceve
finanziamenti; dall’altra la scuola sovvenzionata o sotto contratto che
riceve finanziamenti a certe condizioni; appartengono a questa tipologia
Austria, Finlandia, Francia, Inghilterra, Galles, Norvegia, Portogallo,
Repubblica Federale di Germania, Spagna, Svezia e Italia;
3) scuola non statale indipendente e autofinanziata.
Appartengono a questa tipologia Inghilterra e Galles, Grecia e Scozia;
4) solo scuola non statale in regime di assenza di scuola
pubblica. Appartiene a questa tipologia l’Irlanda.
Il maggior numero di Paesi europei sembra ispirarsi al modello di
scuola non statale che viene finanziata solo quando si riconosce che
soddisfi un «bisogno» realmente presente e tale che la scuola pubblica
statale non riesce ad appagare. In Germania e in Spagna esistono forme
di sovvenzione indirette che si concretizzano in un abbattimento fiscale
per la famiglia.
L’insoddisfazione dell’UDC per la soluzione adottata nel
provvedimento sulla parità scolastica approvato nella XIII legislatura
(legge 10 marzo 2000, n. 62) resta profonda.
Presentiamo, dunque, come rappresentanti dell’UDC il disegno di
legge costituzionale recante la modifica del terzo comma l’articolo 33
della Costituzione affinchè si possa rimuovere quello che può essere
considerato un alibi costituzionale per non affrontare il problema della
parità scolastica nel suo significato più pieno ed autentico e che
dimostra l’incapacità della sinistra di affrontare coraggiosamente nella
sua reale dimensione un tema che consente di introdurre elementi di
competizione nel sistema scolastico, di ridurre le inefficienze, di
restituire libertà e capacità di scelta alle famiglie.
La nostra proposta di modifica costituzionale vuole dunque essere
una sfida di principio, una sfida di libertà, una sfida su ragioni che
non possono essere sacrificate da soffocanti erogazioni pubbliche che
avrebbero il solo scopo di allungare l’agonia della scuola non statale.
La libertà di educazione e quindi il superamento dell’attuale
modello di scuola statalista è condizione indispensabile di qualunque
riforma che voglia dare efficienza al sistema formativo e consenta
all’Italia di competere nel mondo proprio perché il primo sistema
competitivo della Nazione è il sistema scolastico, che in Italia ha
raggiunto il livello di quasi monopolio protetto dalla finanza pubblica
senza produrre vantaggi per il cittadino.
Auspichiamo che il presente disegno di legge costituzionale possa
trovare un largo consenso tra le forze politiche, anche trasversale
rispetto agli attuali schieramenti. Da parte nostra opereremo anche
attraverso l’utilizzo degli strumenti regolamentari affinchè il
provvedimento possa essere affrontato ed esaminato.
DISEGNO DI LEGGE
COSTITUZIONALE
Art. 1.
1. Il terzo comma dell’articolo 33 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di
educazione».
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34 |
28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio
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Onorevoli
Senatori. – Con il presente progetto di legge si intende affrontare il
problema della casa in termini nuovi rispetto a come è stato affrontato
finora tenendo conto sia dei problemi delle giovani coppie che dei
grandi centri urbani, affermando una «cultura del risparmio» legata alla
casa. Il problema era stato già posto nella scorsa legislatura con
l’atto Senato 730. Su iniziativa del proponente era stato inserito
attraverso una specifica proposta emendativa come principio di delega
nella grande riforma fiscale (legge 7 aprile 2003, n. 80) che per
complesse ragioni, non ultime quelle legate al cambiamento nelle
responsabilità al Dicastero dell’economia e delle finanze, non ha potuto
vedere la sua definitiva applicazione essendo la delega scaduta senza la
approvazione del relativo decreto delegato nei termini previsti.
È motivo di soddisfazione constatare che la questione risparmio casa
su sollecitazione dell’UDC ha trovato la giusta attenzione con il
relativo inserimento al punto 6.1 del programma elettorale della Casa
delle Libertà presentato ai sensi della legge 21 dicembre 2005, n. 270.
Le ragioni fondamentali che spingono per l’approvazione di questo
progetto di legge risiedono sulle seguenti considerazioni.
L’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei nuclei familiari
intesi come giovani coppie e mononucleari, l’immigrazione da Paesi
extracomunitari poveri, la maggiore domanda di mobilità degli individui
per rispondere ad esigenze diverse (lavoro, studio, eccetera), la
presenza e la crescita di nuove marginalità e povertà sono fenomeni che
caratterizzano fortemente l’attuale quadro evolutivo della struttura
economico-sociale del nostro Paese.
Ci si trova di fronte ad una società, dunque, fortemente trasformata
nelle caratteristiche demografiche, nelle composizione, nelle abitudini.
A fronte di queste trasformazioni, che hanno originato nuove
esigenze abitative occorre prendere atto di alcuni elementi
imprescindibili:
– alta percentuale di abitazioni in proprietà (il 75 per cento
circa), la gran parte collocate in aree geografiche dove non sono utili
e non contribuiscono ad alleviare le esigenze abitative;
– scarsità dell’offerta di abitazioni primarie in locazioni
connotate da elevati valori dei canoni;
– ridotta efficacia dell’azione pubblica sul mercato
dell’affitto.
Va inoltre considerato che rispetto al volume complessivo dei mutui
erogati dal sistema bancario soltanto il dieci per cento viene acceso da
giovani coppie. Questo conferma la difficoltà oggettiva dei giovani di
investire nell’abitazione recuperando quella cultura del risparmio
indispensabile ad una crescita dell’economia.
Altro fenomeno importante da sottolineare è rappresentato dalla
vetustà dello stock abitativo.
Infatti, oltre il 35 per cento dello stock ha più di 50 anni:
ciò vuol dire che per riportare i beni ad uno stato di discreta
vivibilità non bastano interventi di manutenzione, ma pesanti interventi
di recupero o ristrutturazione, oltre che di miglioramento dell’ambiente
urbano.
Tenuto conto della riduzione delle risorse finanziarie pubbliche
occorre progettare un nuovo sistema di convenienze pubbliche e private
per rispondere adeguatamente e prontamente ad una domanda di
residenzialità che si connota diversamente rispetto al passato.
In condizioni di scarsità di risorse finanziarie pubbliche, dunque,
e conseguentemente alla «stabilizzazione a basso livello del ritmo
dell’inflazione e del sistema dei tassi interni, è possibile oggi
delineare forme di accumulazione preventiva di risparmio finalizzato
alla costruzione, alla manutenzione e ristrutturazione di abitazione,
all’acquisto di aree edificabili e aree dimesse od alloggi da
recuperare, attraverso mutui bancari aggiuntivi d’importo pari o
superiore al risparmio cumulato», cioè tramite il «risparmio casa».
Il meccanismo del «risparmio casa» è riservato a tutti i cittadini,
persone giuridiche e persone fisiche, ancorché associati o riuniti in
cooperative di abitazione, che intendono accedere ad un programma
finalizzato alla realizzazione di un intervento di edilizia abitativa
che può essere destinato anche alla locazione ai sensi dell’articolo 9
della legge 17 febbraio 1992, n. 179.
Le banche che intendano offrire alla clientela il «risparmio casa»
devono rispettare due vincoli economico-finanziari posti dal presente
disegno di legge:
– il risparmio accumulato deve essere remunerato a tasso fisso;
– il mutuo aggiuntivo sarà erogato a un tasso fisso per tutta
la durata del rimborso.
Il sistema «risparmio casa» educa le persone al risparmio e alla
regolarità dei versamenti sia nella fase di accumulo che nella fase di
rimborso del mutuo, ma soprattutto consente di creare un particolare
circuito di provvista/impieghi sganciato dall’andamento del mercato
finanziario e quindi a condizioni favorevoli e trasparenti.
Il risparmiatore depositante che accede ad un programma di
«risparmio casa» ha l’obbligo di mantenere vincolato il proprio
risparmio almeno per due anni consecutivi; successivamente potrà
richiedere all’istituto di credito il risparmio accantonato e il mutuo
aggiuntivo quando avrà raggiunto una adeguata posizione nella
graduatoria generale di attribuzione (metodo meritocratico).
Il programma contrattuale ha la durata complessiva in genere di anni
20, comprensivo degli anni di accumulo del risparmio e dell’ammortamento
del mutuo bancario aggiuntivo.
Nella fase di accumulo il risparmiatore è libero di stabilire
l’ammontare di ogni rata e la loro frequenza.
Le banche devono prevedere una gestione contabile autonoma
dell’attività finanziaria del «risparmio casa» per garantire l’esclusiva
destinazione del risparmio accumulato alla concessione di finanziamenti
finalizzati agli obiettivi previsti dal sistema del «risparmio casa».
Garantire l’aiuto dello Stato al sistema del «risparmio casa» è
indispensabile, in quanto l’incentivazione è ritenuta fondamentale per
il funzionamento di tale sistema. È previsto per il contraente di
«risparmio casa» il diritto all’esenzione dell’imposta alla fonte di cui
all’articolo 26 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 600.
Inoltre è previsto un incentivo finanziario da parte dello Stato per
il depositante persona fisica e giuridica che rispetta i vincoli del
programma di risparmio nell’entità stabilita dall’articolo 6.
Per quanti, persone fisiche e giuridiche, intendano realizzare o
ristrutturare alloggi da destinare alla locazione ai sensi dell’articolo
9 della detta legge n. 179 del 1992 è previsto un incentivo del 10 per
cento della somma annualmente accumulata fino ad un massimo di 7.500
euro di premio complessivo.
Agli incentivi finanziari di cui sopra si farà fronte con parte dei
fondi stanziati per il «programma sperimentale per la riduzione del
disagio abitativo».
Le famiglie che aderiranno in nome e per conto dei figli minori ad
un programma di «risparmio casa» in forma singola od associata avranno
il diritto di usufruire degli stessi incentivi e agevolazioni previste
dal presente disegno di legge.
I sottoscrittori di certificati immobiliari destinati al
finanziamento di interventi per la realizzazione di alloggi finalizzati
all’affitto, ai sensi dell’articolo 9 della citata legge n. 179 del
1992, potranno usufruire delle agevolazioni fiscali previste dalla
presente legge.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. Ai sensi della presente legge per «risparmio casa» si intende
l’attività, svolta dalle banche, finalizzata alla raccolta di risparmio
attraverso depositi vincolati e nell’utilizzo di tale risparmio per la
concessione a persone giuridiche e a persone fisiche ancorché associate
in cooperative di abitazione, depositanti, di finanziamenti fondiari ai
sensi dell’articolo 38 del testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia, di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, da
utilizzare dopo l’attribuzione.
2. L’attribuzione, regolata dettagliatamente nelle regole generali
contrattuali esposte nelle norme attuative, è il momento in cui il
depositante, in relazione al contratto stipulato con la banca, può far
valere il diritto al rimborso del saldo attivo del «risparmio casa»
accumulato e alla concessione del finanziamento, secondo le modalità
stabilite dal regolamento di cui all’articolo 4.
3. Le banche non possono erogare le somme contrattualmente convenute
prima che sia avvenuta l’attribuzione di cui al comma 2.
4. L’accumulo può essere restituito anticipatamente solo a seguito
di disdetta unilaterale del contratto da parte del risparmiatore.
Art. 2.
1. L’attività del «risparmio casa» è svolta dalle banche attraverso
una gestione contabile autonoma ed indipendente rispetto alle altre
forme ordinarie di raccolta del risparmio, tale da garantire l’uso
esclusivo ed equilibrato delle risorse per la concessione dei
finanziamenti finalizzati al «risparmio casa».
2. Solo alle sezioni autonome delle banche che svolgono attività di
«risparmio casa» ai sensi della presente legge è consentito utilizzare
l’appellativo «risparmio casa» nel denominare tale prodotto.
Art. 3.
1. Le sezioni autonome delle banche che svolgono l’attività di
«risparmio casa» erogano la somma contrattualmente convenuta, secondo le
modalità previste dal regolamento attuativo di cui all’articolo 4, non
prima dell’attribuzione del contratto di risparmio casa.
Art. 4.
1. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca
d’Italia, adotta con proprio decreto il regolamento per l’attuazione
della presente legge.
2. Il regolamento di cui al comma 1 prevede le condizioni generali
contrattuali, le quali contengono le seguenti condizioni e disposizioni:
a) l’entità e la scadenza delle prestazioni del titolare
di contratto di «risparmio casa» e della cassa di risparmio edilizio
nonché le conseguenze giuridiche connesse alla mora delle prestazioni;
b) il tasso di interesse dei depositi a «risparmio casa»
e dei mutui da «risparmio casa»;
c) l’entità dei costi e delle commissioni a carico dei
titolari di contratto di «risparmio casa»;
d) i presupposti e il metodo per la determinazione della
graduatoria di attribuzione e le condizioni di erogazione del capitale
sottoscritto per il «risparmio casa»;
e) la garanzia dei crediti relativi ai mutui da
«risparmio casa»;
f) le condizioni per poter frazionare un contratto di
«risparmio casa» oppure per poterlo mettere insieme ad un altro
contratto oppure per poter aumentare o ridurre il capitale sottoscritto;
g) le condizioni per poter cedere o costituire in pegno i
diritti maturati con il contratto di «risparmio casa» oppure per poter
recedere dal contratto di «risparmio casa».
3. Il regolamento di cui al comma 1 contiene inoltre le regole
generali di attività a cui si attengono le sezioni autonome delle banche
per esercitare l’attività di «risparmio casa».
Art. 5.
1. I finanziamenti di «risparmio casa», a pena di decadenza dei
benefici di cui agli articoli 6 e 7, sono consentiti per le seguenti
finalità:
a) la costruzione, l’acquisto, la manutenzione e il
miglioramento di immobili destinati prevalentemente ad abitazione
principale, nonché alla locazione di cui all’articolo 9 della legge 17
febbraio 1992, n. 179;
b) l’acquisto di aree edificabili con destinazione
prevalentemente ad uso abitativo da utilizzare per le finalità di cui
alla lettera a);
c) l’estinzione di passività assunte al fine di
realizzare le finalità di cui alle lettere a) e b).
Art. 6.
1. Il Ministero dell’economia e delle finanze concede ai titolari
dei contratti di «risparmio casa» un contributo annuale commisurato agli
importi depositati, compresi gli interessi.
2. Il contributo annuale di cui al comma 1 è pari al 5 per cento
dell’importo accumulato in un anno e non può, comunque, superare 2.582
euro di premio complessivo per contraente. Le modalità di versamento
sono stabilite dal regolamento di attuazione di cui all’articolo 4.
3. Nel caso di costruzione o ristrutturazione di alloggi destinati
alla locazione ai sensi dell’articolo 9 della legge 17 febbraio 1992, n.
179, in favore del contraente è previsto un contributo pari al 10 per
cento delle somme accumulate annualmente fino ad un massimo di 7.745
euro di premio complessivo, cui si fa fronte con i fondi stanziati per
la realizzazione del «programma sperimentale per la riduzione del
disagio abitativo» di cui all’articolo 3 della legge 8 febbraio 2001, n.
21, previa presentazione del contratto di affitto regolarmente
registrato.
4. Il contraente che, in forma singola o associata, aderisce al
sistema «risparmio casa» per conto dei figli minori ha diritto a fruire
delle agevolazioni e degli incentivi previsti dalla presente legge.
Art. 7.
1. Durante il periodo di accumulo, e per un importo massimo di 5.164
euro per anno, il contraente di «risparmio casa» depositante consegue il
diritto all’esenzione dell’imposta alla fonte prevista dall’articolo 26
del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e
gli interessi non concorrono a formare il reddito del percipiente.
Art. 8.
1. Il contraente di «risparmio casa» decade retroattivamente dal
diritto alle agevolazioni previste dalla presente legge qualora prima di
due anni dalla stipula del contratto, senza aver maturato il diritto
all’attribuzione, abbia prelevato, in tutto o in parte, la somma
pattuita.
2. Il contraente non decade dai benefici di cui al comma 1 nel caso
in cui destini le somme accumulate a finalità diverse da quelle elencate
nell’articolo 5 dopo cinque anni dell’inizio del programma «risparmio
casa».
Art. 9.
1. La massa di attribuzione è composta dai risparmi, dagli
interessi, dai premi e dagli ammortamenti dei mutui concessi dalle
sezioni autonome delle banche di cui all’articolo 2. Tale massa di
attribuzione è utilizzata prioritariamente per il «risparmio-casa», per
la restituzione a terzi del denaro prestato, per integrare la massa di
attribuzione al fine di concedere prefinanziamenti per brevi periodi.
2. I fondi per il «risparmio casa» non ancora attribuiti dalle
sezioni autonome delle banche che svolgono attività di «risparmio casa»
per mancanza di domande procedibili possono essere investiti:
a) in buoni del Tesoro;
b) in fondi di deposito presso istituti di credito ed in
obbligazioni emesse dagli stessi istituti.
3. I mutui superiori a 10.329 euro sono garantiti da ipoteca anche
di secondo grado.
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33 |
28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio |
Onorevoli Senatori. – Il tema del trattamento fiscale della famiglia ha
trovato centralità in occasione della ultima campagna elettorale.
L’UDC – Unione democristiana e di Centro – ha posto il problema come
questione programmatica prioritaria prevedendone l’inserimento al punto
1.1 dedicato alla famiglia nel programma elettorale presentato dalla
coalizione di centrodestra «Casa delle Libertà» ai sensi della legge 21
dicembre 2005, n. 270.
Non va dimenticato che l’UDC si era fatto sostenitore di questo tema
già nella XIV legislatura presentando il relativo progetto di legge il
primo giorno stesso di attività parlamentare. Era stato inoltre inserito
attraverso uno specifico emendamento nei princìpi di delega della grande
riforma fiscale rimasta inattuata in alcune parti per la mancata
predisposizione dei decreti legislativi entro il termine di scadenza per
l’esercizio della delega. Nè può essere dimenticato il lavoro
parlamentare portato avanti in 6ª Commissione – Finanze del Senato
attraverso una importante indagine conoscitiva sul trattamento fiscale
del reddito familiare e sulle relative politiche di sostegno, che ha
fatto luce, con l’audizione di rappresentanti dell’ISTAT, dell’Istituto
di Studi e analisi economica (ISAE), della Banca di Italia, del Forum
delle Associazioni familiari, sulle complesse problematiche della
famiglia italiana legate all’andamento demografico, ponendo il
Parlamento in condizione di valutare gli interventi e il sostegno della
natalità, anche tenendo conto degli anni oneri a carico del bilancio
dello Stato.
Dobbiamo partire da un dato che dimostra la gravità del problema.
Il tasso di fecondità che si è registrato in Italia nella seconda
metà degli anni Novanta, pari a 1,21 per cento, è notevolmente inferiore
al cosiddetto “numero di rimpiazzo“ che assicura la stazionarietà della
popolazione, che è pari a 2,1. Negli ultimi decenni, in Italia e negli
altri paesi europei, si è registrato un forte rallentamento della
crescita della popolazione che è stato particolarmente rilevante tra la
seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. I
mutamenti avvenuti nella struttura economica e sociale hanno modificato
le scelte procreative delle famiglie: si è assistito ad un forte calo
del tasso di fecondità. Per l’Italia tali cifre sono largamente
inferiori rispetto a quelle di altri paesi della Unione europea, dove il
problema è presente, ma con un’intensità diversa. A frenare il
rallentamento demografico hanno contribuito l’allungamento della vita
media, e il crescente fenomeno dell’immigrazione. Dalla riduzione del
tasso di fecondità e dall’allungamento della vita media tuttavia è
derivato un progressivo invecchiamento della popolazione. La
combinazione di questi due fattori, il rallentamento della popolazione e
il suo progressivo invecchiamento, inoltre, ha frenato l’espansione
della domanda interna. Ciò è vero in tutti i paesi dell’Unione europea
ed ancor più vero per l’Italia. L’aumento dell’età media delle forze di
lavoro è probabilmente una concausa del rallentamento della
produttività, particolarmente forte in Italia, che si riflette sul
declino di competitività del nostro Paese. La crescita della popolazione
in età avanzata influisce pesantemente sulla spesa pubblica, mettendone
a rischio la sostenibilità di lungo periodo.
In questo contesto sono necessari adeguamenti al sistema di
sicurezza sociale diretti ad assicurare la compatibilità delle risorse
con la salvaguardia delle sue finalità di base.
In prospettiva, occorre ripristinare un adeguato rapporto tra la
popolazione anziana e quella in età lavorativa. Per realizzare tale
obiettivo è opportuno favorire la ripresa della fecondità attraverso
adeguate politiche di sostegno. Le scelte individuali di procreazione
non dipendono solo dal livello del reddito ma anche da altri fattori di
contesto; per incidere sul tasso di natalità, agli strumenti fiscali
occorre certo affiancare servizi sociali adeguati ai nuovi bisogni,
altrimenti l’effetto che si ottiene può non essere apprezzabile. Per
mettere in condizione il Parlamento di decidere oculatamente, è bene
dire subito quali sono gli obiettivi che questi strumenti possono
perseguire.
Tali obiettivi sono tre. Il primo è la redistribuzione del reddito
in favore dei nuclei familiari in condizioni di povertà, la cosiddetta
equità verticale tra nuclei o individui con diversi livelli di reddito.
Vi è poi un problema di equità orizzontale, ossia un trattamento
differenziato a parità di reddito (quindi per qualunque livello di
reddito) volto a compensare le maggiori esigenze di spesa connesse con i
carichi familiari. Il terzo obiettivo è proprio la modifica delle scelte
procreative delle famiglie per conseguire obiettivi demografici di
ordine sociale, ossia la natalità.
Il primo obiettivo è quello di ridurre l’esposizione delle famiglie
al rischio di povertà, che deriva dalla presenza di persone che non
svolgono alcuna attività lavorativa (i figli e il coniuge). Tale rischio
è direttamente correlato alla numerosità del nucleo familiare; quindi,
un livello di reddito di per sè medio può diventare insufficiente se si
associa ad un numero di carichi familiari assai elevato. Nel secondo
caso (equità orizzontale), la finalità è quella di discriminare, a
parità di reddito, tra famiglie con un diverso numero di persone a
carico. Si tratta di evitare che, per tutti i livelli di reddito, la
presenza di un numero elevato di carichi familiari penalizzi la capacità
di spesa della famiglia. Il terzo obiettivo (quello demografico)
presuppone l’esistenza di una discrepanza fra interesse individuale e
interesse collettivo relativamente al livello, alla dinamica e alla
composizione della popolazione.
L’accentuato invecchiamento demografico, che in Italia stiamo
sperimentando, e l’attesa di forte flessione della popolazione
configurano uno scenario che certamente non può definirsi ottimale e un
intervento in tale direzione è pertanto auspicabile. Questo è un aspetto
abbastanza innovativo dell’ordinamento italiano anche perchè gli assegni
familiari e le detrazioni di imposta si sono dimostrati scarsamente
incisivi.
Se esaminiamo le detrazioni d’imposta, possiamo rilevare che per il
secondo figlio vi è un lieve innalzamento; nell’ambito degli assegni
familiari, l’innalzamento diviene significativo dal terzo e quarto
figlio. Se l’indice di fecondità totale è 1,21, bisogna convincere le
persone a fare il secondo figlio.
Non a caso in Francia, dove il tasso di fecondità è di 1,76, il
problema va nella direzione di convincere la gente a fare il terzo
figlio.
Per quanto riguarda il trattamento fiscale della famiglia, il
problema centrale che si pone è quello della scelta dell’unità
impositiva da tassare: questa può essere rappresentata dall’individuo o
dalla famiglia. Entrambe le metodologie presentano vantaggi, ma anche
problemi applicativi, nonché svantaggi.
La scelta di tassare separatamente ciascun individuo presuppone che
la capacità di spesa di ogni familiare sia indipendente da quella degli
altri membri. Per correlare l’onere tributario con la situazione
familiare del contribuente – nell’ambito della tassazione a livello
individuale – sono possibili due vie. La prima è quella di prevedere un
minimo familiare esente, determinato partendo dalla soglia di esenzione
individuale modificata in funzione della composizione del nucleo
familiare. Come seconda alternativa, si possono concedere deduzioni dal
reddito o anche detrazioni d’imposta per i familiari a carico. Questa
modalità, che si collegava alla delega proposta dal ministro Tremonti a
cui si doveva dare applicazione, poiché si fa riferimento a deduzioni,
presenta aspetti positivi in quanto non si caratterizza per le
problematicità che presentano altre soluzioni.
Data la progressività dell’imposta, le deduzioni dal reddito
stabilite in misura fissa comportano un vantaggio crescente con il
reddito (la deduzione viene ad abbattere il reddito; a parità di altre
condizioni, il vantaggio è pari all’aliquota marginale moltiplicata per
la deduzione del reddito e quindi cresce con il reddito). In tal modo,
cioè introducendo deduzioni stabilite in misura fissa, si tiene conto
del fatto che, di norma, il costo del mantenimento della prole aumenta
con il reddito dei genitori; questo è, in qualche modo, immediatamente
percepibile. E ovvio, però, che con una deduzione si può realizzare
anche l’obiettivo opposto, dipende da come si può correlare la deduzione
in funzione del reddito. Se l’importo viene ridotto al crescere del
reddito, anche con la deduzione si riesce a realizzare una
redistribuzione in favore delle fasce di reddito medio-basse.
Esaminiamo ora le detrazioni, che rappresentano il sistema ormai
superato. Le detrazioni stabilite in misura fissa accrescono la
progressività dell’imposta, accentuando la redistribuzione in favore
delle classi meno abbienti. Quindi, per definizione, una detrazione
stabilita in cifra fissa ha un effetto redistributivo in favore delle
classi meno abbienti. Il presupposto logico per fare questa scelta è che
lo Stato riconosca costi di mantenimento dei componenti del nucleo
familiare indipendenti dal livello del reddito.
Per le deduzioni e le detrazioni si può presentare un problema di
incapienza, nel senso che può accadere che il livello del reddito sia
così basso che l’applicazione di una detrazione o deduzione non dà luogo
ad alcun beneficio di imposta. Attualmente, infatti, se l’imposta è
negativa, non si ha alcun risultato; ovviamente, l’imposta negativa non
dà luogo ad un credito d’imposta. Il problema potrebbe essere superato
consentendo il rimborso delle detrazioni o delle deduzioni incapienti
attraverso lo strumento dell’assegno diretto, unica via per consentire
di recuperare l’incapienza.
Se si passa al sistema delle famiglie come soggetto di imposta si
possono identificare tre sistemi prevalenti di tassazione della
famiglia. Il primo è il regime del cumulo, il quale prevede che
l’imposta sia calcolata sulla somma dei redditi dei due coniugi. Il
cumulo permette di parificare il trattamento fiscale delle famiglie
monoreddito e bireddito dello stesso livello di reddito, ovviamente
penalizzando queste ultime rispetto all’ipotesi di tassazione a livello
individuale. Il secondo sistema è lo splitting, che prevede che i
redditi dei coniugi siano sommati e il risultato diviso per due. Al
reddito così ottenuto si applica la scala di aliquote e scaglioni
ordinaria e la relativa imposta ottenuta si moltiplica per due. Un altro
sistema è quello del quoziente, verso il quale va la nostra preferenza,
che può essere visto come una evoluzione dello splitting perché
consente di tenere conto non solo dei due coniugi ma anche di altri
componenti familiari. Con questo metodo si attribuisce ai vari
componenti della famiglia un peso variabile. I valori della scala di
riferimento nota come «scala Carbonaro», dal nome dello studioso che
l’aveva proposta sono: 0,6 per un componente, 1 per due componenti, 1,33
per tre componenti, 1,63 per quattro componenti, 1,90 per cinque
componenti, 2,16 per sei componenti, eccetera.
Per quanto riguarda la scala di equivalenza della Organisation
for economic co-operation anddevelopment (OECD/OCSE), per ogni
famiglia il fattore di scala è pari alla somma di più parametri
individuali così determinati:
– Primo adulto: 1,0
– ogni altro adulto: 0,5
– ogni bambino di età inferiore a 14 anni: 0,3
– ogni figlio superiore a 14 anni 0,5
(esempio: coppia con due figli di 10 e 4 anni = 1 + 0,5 + 0,3 + 0,3 =
2,1)
L’ordinamento italiano conosce poi l’applicazione di una scala di
equivalenza per la determinazione dell’indicatore della situazione
economica equivalente che è così composta:
N. componenti della famiglia fattore di equivalenza
1 1,00
2 1,57
3 2,04
4 2,46
5 2,85
6 3,20
7 3,55
8 3,90
9 4,25
10 5,60
Non possiamo dimenticare cosa succede sul fronte del trattamento
fiscale della famiglia nei principali paesi OCSE, al fine di delineare
uno scenario internazionale che aiuti a capire quali sono le scelte
migliori che possono essere in qualche modo utilizzate e mutuate per
giungere ad una soluzione più soddisfacente e più correlata con i
bisogni.
Nei Paesi membri dell’OCSE esistono modalità molto diverse
nell’entità delle agevolazioni fiscali accordate alle famiglie. In una
minoranza di casi, l’unità impositiva è costituita dalla famiglia; nella
maggior parte dei paesi si è preferito ricorrere a deduzioni dal reddito
o a detrazioni dall’imposta individuale. Molti paesi utilizzano una
combinazione di questi strumenti. Gli assegni sociali esistono da noi ma
anche in Francia e nel Regno Unito.
Sulla base dei dati relativi al 2003, dei 30 paesi dell’OCSE, 17
utilizzano il modello di tassazione su base individuale, quattro
utilizzano la tassazione su base puramente familiare (l’esempio più
eclatante è la Francia), e due paesi soltanto utilizzano la tassazione
familiare riservata ai redditi di capitale. In sette paesi al
contribuente viene lasciata la facoltà di scelta tra i due sistemi.
Nell’ambito della tassazione su base individuale, le agevolazioni
inversamente correlate al reddito sono relativamente poco diffuse, però
si stanno estendendo. In Italia negli ultimi anni sono stati utilizzati
metodi di questo tipo, per cui possiamo dire che il ricorso a questo
tipo di strumento si va estendendo.
Nella maggior parte dei paesi, alle detrazioni-deduzioni –
nell’ambito sia della tassazione familiare sia di quella individuale –
si affiancano prestazioni di natura assistenziale, in particolare sotto
forma di trasferimenti (assegni familiari). Fanno eccezione alcuni paesi
che non prevedono alcun beneficio di questo tipo. In Messico e in
Turchia, invece, non è prevista alcuna forma di sostegno pubblico alla
famiglia, nè sotto forma di agevolazioni fiscali nè di trasferimenti.
Tra il 1970 e il 1990 diversi paesi sono passati dalla tassazione su
base familiare a quella individuale. Ciò è avvenuto perchè ci si è mossi
verso una graduale riduzione nelle aliquote nominali dell’imposta
personale sul reddito, con una conseguente attenuazione della
progressività, il che ha reso meno significativo il vantaggio associato
ad una tassazione su base familiare. Tanto più la scala della
progressività dell’aliquota è ripida, tanto maggiore è il vantaggio che
se ne trae.
Se ci si muove in direzione di una riduzione del numero delle
aliquote e di un ampliamento degli scaglioni, il vantaggio di questo
tipo di tassazione rispetto a quella individuale si attenua. E’ una
tendenza abbastanza comune che si riscontra in tutti i paesi.
Negli anni più recenti, agli obiettivi di redistribuzione del
reddito se ne sono affiancati altri, più mirati, come quello di
attenuare il disincentivo all’ingresso nel mercato del lavoro per il
coniuge, ovvero quello di concentrare le agevolazioni sulle famiglie con
redditi più bassi. Ci si sta muovendo in direzione di una concentrazione
delle risorse finalizzate ad una tutela della povertà. In termini
quantitativi, un possibile indicatore della portata delle politiche
fiscali di sostegno alle famiglie è rappresentato dalla differenza tra
le aliquote medie di tassazione dei contribuenti senza coniuge e senza
figli rispetto a quelle delle famiglie monoreddito con due figli
calcolate per un reddito pari a quello medio di un lavoratore del
settore manifatturiero. È evidente il vantaggio fiscale della famiglia
monoreddito con due figli rispetto al contribuente non coniugato senza
figli in diversi Paesi.
In Germania e Belgio si ha un differenziale di aliquota media
superiore a 20 punti percentuali; l’Italia si colloca in una posizione
intermedia. Nel 1996, il guadagno in termini di aliquota di imposta era
del 10 per cento mentre nel 2003, seguendo un andamento dapprima
crescente e poi leggermente decrescente, arriviamo ad un differenziale
di aliquota compreso tra il 12 e il 13 per cento.
Analizzando nel dettaglio la situazione italiana, vediamo che
inizialmente il legislatore, in materia di imposizione diretta, aveva
scelto la tassazione familiare, introducendo già nel 1923 l’istituto del
cumulo dei redditi ai fini dell’imposta complementare. Dopo la riforma
fiscale dei primi anni Settanta venne introdotto il cumulo anche per
l’imposta personale sui redditi, la vecchia IRPEF. Questa scelta fu
abbandonata dopo la sentenza n. 179 del 15 luglio 1976 della Corte
costituzionale e attualmente il regime tributario è imperniato sul
principio della tassazione personale. Nell’ambito della predetta
sentenza – è utile ricordarlo perchè spiega i motivi della crescita del
vantaggio accordato alle famiglie – la Corte costituzionale esortò il
legislatore ad apprestare un differente sistema di tassazione che
agevolasse la formazione e lo sviluppo della famiglia e considerasse la
posizione della donna casalinga e lavoratrice. Questo monito rimase a
lungo inascoltato e nella sentenza n. 83 del 7 aprile 1983 la Corte
costituzionale tornò sulla materia lamentando il perdurare delle
sperequazioni a carico dei nuclei monoreddito. Nel 1990 l’Esecutivo fu
delegato ad adottare un sistema di tassazione familiare ispirato
all’esperienza francese del «quoziente familiare».
La delega decadde alla fine del 1992 senza avere alcun seguito. Essa
non trovò applicazione principalmente a causa del consistente impatto
negativo sul gettito (stimato in 7.000 miliardi di lire dell’epoca) e
del concentrarsi del vantaggio che ne sarebbe derivato sulle classi più
abbienti, con problemi di iniquità verticale.
Da allora, sulla base degli impulsi della Corte costituzionale, ma
anche di altri organismi, numerose innovazioni sono state apportate in
materia al fine di facilitare la famiglia. Ne è scaturita un’opera di
rafforzamento dell’impianto delle detrazioni e dei sussidi. Tra il 1989
e il 1995 le detrazioni erano rimaste invariate in termini reali grazie
all’introduzione di un meccanismo di recupero automatico del drenaggio
fiscale ai fini dell’IRPEF. A partire dal 1996 la leva fiscale è stata
orientata verso i contribuenti con redditi bassi e familiari a carico:
le detrazioni per carichi familiari sono state aumentate e correlate
inversamente al reddito; se ne è differenziata l’entità in relazione
alla numerosità del nucleo di appartenenza; sono state previste misure
ad hoc per figli di età inferiore a tre anni o disabili. Nel 2003 la
legge delega per la riforma fiscale ha previsto, tra l’altro, che le
attuali detrazioni vengano sostituite da deduzioni, concentrate sui
redditi medio-bassi. La famiglia è stata definita «soggetto centrale,
anche nell’economia fiscale».
Purtroppo quella delega, nonostante la esplicita indicazione del
Parlamento, è rimasta inattuata.
Vediamo ora l’istituto degli assegni familiari e la sua evoluzione
nel corso del tempo.
Gli assegni familiari sono stati introdotti in Italia negli anni
Trenta, contestualmente alla riduzione dell’orario lavorativo (da 48 a
40 ore), decisa allo scopo di ridurre la disoccupazione. Gli assegni
familiari avevano l’obiettivo di contenere i disagi connessi alle
diminuzioni salariali, soprattutto per le famiglie numerose. Essi erano
finanziati con i contributi sociali a carico dei datori di lavoro. Con
la riforma sono stati inglobati nel contributo pensionistico.
L’introduzione di questo strumento di sostegno alle famiglie avvenne in
un contesto molto diverso da quello attuale: il reddito pro capite
era notevolmente inferiore e la natalità molto superiore; la spesa
sociale aveva dimensioni relativamente modeste; la tassazione dei
redditi coinvolgeva un numero limitato di contribuenti. I cambiamenti
avvenuti in seguito hanno radicalmente mutato sia le esigenze che gli
assegni familiari sono chiamati a soddisfare, sia gli strumenti
utilizzabili per sostenere i carichi familiari. La prima modifica
avvenne nel 1983 con l’introduzione degli assegni integrativi. Nel
successivo quinquennio, da una situazione in cui prevalevano i flussi
redistributivi orizzontali fra individui con un numero diverso di
carichi familiari (orizzontale significa che, a parità di reddito, si
cerca di dare un sostegno alle famiglie più numerose, a prescindere se
siano più bisognose o meno), si è passati ad un’altra in cui predominava
la redistribuzione verticale in favore dei soggetti con redditi bassi o
medio-bassi.
Varie sono state le innovazioni e le modifiche apportate proprio per
ampliare l’importo degli assegni e per correlarli al reddito dei
beneficiari. Attualmente, però, il sistema presenta alcune criticità,
tra cui la non universalità dell’azione di sostegno. Gli assegni sono
riservati solo ai lavoratori dipendenti, in quanto per i lavoratori
autonomi esistono alcune controindicazioni o, perlomeno, sono necessarie
alcune azioni specifiche.
L’altra criticità è la graduazione dell’assegno in base ai redditi
dichiarati, trascurando fenomeni di erosione ed evasione (l’unico modo
di applicarlo è quello di basarsi su una autodichiarazione che spesso è
difficile da verificare perchè richiederebbe oneri notevoli). Infine, –
punto su cui probabilmente si può facilmente agire – vi è la presenza di
punti di discontinuità negli importi rispetto al reddito, che origina
fenomeni di «trappola della povertà», vale a dire quella condizione
nella quale, una integrazione del reddito, realizzata magari con un
lavoro part-time o in altri modi, porta al risultato di un
reddito netto inferiore a quello di partenza, per cui viene meno
l’interesse a cercare un altro lavoro. Questo problema può essere
risolto avendo come utile punto di riferimento il metodo usato in
Germania. Fino alla prima metà degli anni Ottanta vi è una sostanziale
stazionarietà o forse una leggera tendenza flettente; si nota poi che
dal 1995 il vantaggio a favore delle famiglie, in particolare della
coppia monoreddito con due figli, aumenta in modo significativo. Il
punto di picco è nel 2001, in corrispondenza della riduzione del carico
fiscale per la coppia monoreddito con due figli.
L’utilizzo di uno strumento in luogo di un altro determina effetti
assai diversi. Gli aspetti che maggiormente rilevano nel giudicare
questa tipologia di interventi sono la neutralità, l’equità,
l’efficienza e il sostegno della natalità.
La neutralità del sistema implica che la variabile fiscale non
influisca sulle scelte individuali. Il regime del cumulo è stato
descritto come una sorta di «tassa sul matrimonio» per l’effetto
disincentivante nei confronti del matrimonio o, di contro, incentivante
delle separazioni ai soli fini fiscali, e pertanto non era certamente
neutrale.
I metodi di tassazione per parti, per converso, influenzano
positivamente la costituzione di unioni legali o di fatto, nei limiti in
cui queste siano ammesse a fruire del beneficio. Il vantaggio nel metodo
di tassazione per parti è tanto maggiore quanto più ampia è la
differenza tra i due redditi. Infatti, più i redditi sono sperequati più
la tassazione separata li avvantaggia. La tassazione separata è invece
neutrale rispetto alle scelte personali non essendoci, ad esempio, alcun
disincentivo al lavoro della donna che di solito è il coniuge più debole
e più soggetto a questo tipo di effetti.
Il sistema di tassazione sulla base del reddito familiare influenza
l’offerta di lavoro del coniuge con il reddito più basso, generalmente
la moglie. Il disincentivo al lavoro è strettamente correlato al livello
dell’aliquota marginale che grava sul soggetto. In un sistema integrato
di sussidi e tassazione, l’aliquota marginale dipende tanto dalla
struttura impositiva quanto dalla presenza di sussidi commisurati al
reddito. Quindi contano entrambi, sia il regime di tassazione che il
sistema di sostegno dei redditi dal lato della spesa. Il tasso di
partecipazione femminile al lavoro risente fortemente del carattere
progressivo dell’imposta. Il cumulo e la tassazione per parti tendono ad
esercitare un disincentivo al lavoro femminile, che cresce all’aumentare
delle disparità di guadagno. Relativamente ai problemi di equità, va
rilevato che lo splitting e il cumulo consentono di parificare, a
parità di reddito, il trattamento dei nuclei monoreddito e bireddito.
Ciò è abbastanza evidente perchè, a parità di reddito, l’imposta pagata
è la medesima e quindi il reddito netto è lo stesso. La tassazione
separata, in genere, accorda un vantaggio alle coppie bireddito rispetto
a quelle monoreddito: si configura una forma implicita di riconoscimento
di maggiori costi di gestione familiare sostenuti dalle coppie bireddito.
È vero infatti che vi è un secondo reddito, ma occorre considerare che
in questo caso i nuclei familiari devono farsi carico di altri tipi di
spesa come, ad esempio, quella per una collaboratrice domestica,
altrimenti la donna è sottoposta ad un lavoro più pressante. Quindi, se
il legislatore opera questa scelta, l’ipotesi implicita è il
riconoscimento di questo aspetto. Con la tassazione separata, l’imposta
complessiva a carico della coppia dipende dalla ripartizione del reddito
tra i coniugi e cresce con l’aumentare del livello di concentrazione dei
redditi in capo ad un coniuge. In termini di efficienza, il sistema di
imposizione deve evitare fenomeni di «trappola della povertà», cioè di
dare benefici che finiscono con il far venir meno l’incentivo ad
impegnarsi a guadagnare redditi aggiuntivi per portarsi al di fuori
dell’area di assistenza da parte dello Stato. Il sistema dovrebbe quindi
essere rivolto alla generalità delle persone che si trovano in
condizioni di effettivo bisogno e non deve comportare sprechi di risorse
destinando benefici a coloro che non hanno i presupposti per averli. Si
tratta pertanto di concentrare e migliorare l’intervento nei confronti
di coloro che hanno un effettivo bisogno. Un sistema efficiente non deve
poi discriminare tra tipologie di lavoratori ma tra condizioni
economiche dei nuclei familiari; sempre che, con riferimento al lavoro
autonomo, siano soddisfatte alcune condizioni.
Relativamente al sostegno della natalità, un trattamento di favore
delle famiglie parte dal presupposto della contrazione della capacità di
spesa in presenza di componenti a carico. Nell’ambito dei metodi di
tassazione per parti, il quoziente familiare consente di valorizzare (è
il caso del sistema francese) la presenza di altri componenti diversi
dai coniugi. In sostanza, si assume che i bisogni aumentino con
l’ampliamento del nucleo, anche se in misura meno che proporzionale.
In Francia, il sistema è stato introdotto nella seconda metà degli
anni Quaranta ed è stato successivamente modificato. Nel 1982, per
rafforzare gli incentivi in favore della natalità, il coefficiente
previsto per i figli successivi al secondo è stato portato a 1, mentre
per i primi due è rimasto dello 0,5. In sostanza, in una visione di
economia di scala, se un coniuge vale 1, l’altro coniuge vale 1 e i
primi due figli valgono 0,5 ai successivi dovrebbe essere riconosciuto
un valore inferiore, magari pari a 0,25. Tuttavia, poiché la Francia ha
un tasso di natalità prossimo a due ma comunque inferiore (1,76), lì
l’obiettivo è di spingere verso il terzo figlio. L’Italia invece ha il
problema di favorire la nascita del secondo figlio.
Guardando all’andamento del tasso di natalità della Francia, si
riscontra che, seppure in declino dalla seconda metà degli anni Sessanta
come negli altri paesi europei, il tasso risulta leggermente superiore e
in ripresa rispetto a quello medio europeo, con qualche cifra che
farebbe addirittura sperare in un’inversione di tendenza. Inoltre, il
divario rispetto alla media dei paesi in cui la tassazione della
famiglia è meno favorevole, si sta ampliando.
La Francia, che pure partiva da posizioni migliori grazie ad un più
favorevole trattamento fiscale del nucleo familiare, pur registrando un
declino nelle nascite ha visto aumentare il divario rispetto agli altri
Paesi che non hanno un sistema fiscale altrettanto favorevole alla
famiglia.
Osservando i dati relativi agli ultimi tempi, che pure sono
piuttosto oscillanti, si può sperare in un’inversione di tendenza,
soprattutto se si considerano periodi abbastanza lunghi come un
quinquennio, onde evitare problemi di carattere statistico. Ad esempio,
nel quinquennio 1990-1995 il tasso di natalità era dell’1,71, nel
quinquennio successivo è passato all’1,76. E’ un dato che, ripeto, fa
sperare in un’inversione di tendenza. Certamente il trattamento fiscale
della famiglia non è l’unico elemento che influisce sul tasso di
natalità. I servizi sociali di certo sono importanti; anche nel Regno
Unito e in Germania, paesi che presentano alcune similitudini sono stati
avviati processi di riforma delle politiche fiscali e di sicurezza
sociale mirati a promuovere una maggiore redistribuzione a favore delle
fasce di reddito più basse, incentivando nel contempo l’offerta di
lavoro. Per la realizzazione di questi obiettivi, apparentemente
contrastanti, si è fatto ricorso ad un insieme di strumenti: da un lato,
si è rafforzato il ricorso ai benefici mirati alle classi di reddito
effettivamente bisognose (assegni familiari); dall’altro, per attenuare
le distorsioni legate a questo tipo di agevolazioni (ad esempio, il
disincentivo al lavoro), sono stati introdotti appositi correttivi alla
detrazione per carichi familiari. La detrazione per carichi familiari è
stata divisa in due parti: la prima riguarda specificamente i redditi da
lavoro dipendente, la seconda è concessa in relazione al numero di figli
a carico e riconosciuta a tutti i contribuenti, indipendentemente dal
tipo di reddito percepito di lavoro dipendente o di altra natura).
In Germania, dal 1996 vige un meccanismo di complementarietà tra le
deduzioni fiscali e i trasferimenti per i figli. A tutte le famiglie
viene erogato mensilmente un assegno per i figli, di ammontare più
elevato a partire dal quarto figlio (non si tratta sicuramente di un
incentivo alla natalità perchè la Germania, sebbene abbia un tasso di
natalità – 1,34 nel quinquennio 1995-2000 – che è inferiore a quello
della Francia ma superiore al nostro, ha più che altro un problema di
povertà). I benefici non sono cumulabili: alla famiglia viene dato il
maggiore tra l’importo dell’agevolazione derivante dalla deduzione e
quello degli assegni. Il sistema è stato congegnato molto bene, perchè
con esso gli assegni familiari tutelano le classi di reddito più basse,
mentre le famiglie con reddito più elevato utilizzano le deduzioni
fiscali.
Per quanto riguarda l’Italia, l’idea di introdurre il quoziente
familiare è tornata di attualità dopo l’avvio del primo modulo della
riforma. Da più parti è stata invocata una tutela della famiglia più
efficace, anche sotto il profilo fiscale: l’introduzione della no tax
area infatti penalizza i nuclei monoreddito rispetto a quelli
bireddito (i nuclei bireddito beneficiano due volte della no tax
area).
Va pure considerato, però, che la tendenza all’«appiattimento» della
struttura dell’imposizione personale, derivante dalla riduzione del
livello delle aliquote e del numero degli scaglioni, diminuisce i
potenziali vantaggi dei sistemi di tassazione su base familiare.
Nel contesto attuale, il sostegno fiscale alle famiglie può essere
adeguatamente realizzato mediante un insieme di strumenti che faccia
riferimento alla tassazione individuale.
In linea con l’esperienza di altri Paesi, la modifica del
trattamento fiscale della famiglia dovrebbe collocarsi nell’ambito di
una revisione coordinata del sistema fiscale e delle politiche di
sostegno alle fasce più deboli.
Quindi, si deve collegare questa riforma a quella degli assegni
familiari, cercando di superare le attuali criticità del sistema di
protezione sociale laddove i benefici improvvisamente si perdono per un
aumento del reddito magari di poco significato. Occorre dare priorità in
modo innovativo al sostegno alla natalità perchè la nostra situazione è
fortemente negativa, e lo è in misura superiore rispetto a quella di
altri Paesi, che forse dovremmo privilegiare più di altri questo
aspetto.
Occorre ripensare alla qualità degli strumenti, cercando di
adattarli il più possibile alla situazione, valutando anche il costo
relativo di ciascuna misura.
La prima misura che non costa è ripristinare il soggetto unico di
imposta nella famiglia; misura che dovremmo attuare immediatamente
superando l’attuale separazione che non aiuta certo l’effettuazione
delle scelte. Una particolare attenzione va rivolta alle spese che la
famiglia sostiene per la luce e l’assistenza di componenti disabili.
È sulla famiglia infatti che grava, soprattutto in Italia, il
maggior carico dell’assistenza del disabile ed è il nucleo familiare a
fronteggiare quotidianamente le necessità e i bisogni che derivano dalle
condizioni di non autosufficienza di un suo componente. Sono circa
2.400.000 le famiglie con almeno una persona disabile (pari all’11 per
cento delle famiglie), oltre un quarto di esse è composto da una persona
sola e un 10 per cento è composto da monogenitori.
Non si può non partire da una comparazione tra le riforme varate nel
1997 e nel 2001 dal governo di centrosinistra e quella realizzata dal
governo Berlusconi, con l’atuazione del primo e del secondo modulo della
riforma fiscale voluta dal ministro Tremonti.
Si è giunti a tale stato di cose anche per effetto della riforma
fiscale proposta dall’ex ministro delle finanze Visco che, nella
rimodulazione della curva delle imposte sul reddito delle persone
fisiche (IRPEF) come determinata dal decreto legislativo 15 dicembre
1997, n. 446, ha colpito pesantemente i redditi più bassi, portando
l’aliquota dal 10 al 19 per cento per il primo scaglione di reddito, ha
alzato le aliquote intermedie e ha innalzato dal 40 al 46 per cento
l’aliquota per i redditi da oltre 135 milioni, colpendo pesantemente il
ceto medio.
Le aliquote IRPEF per scaglione di reddito in base al citato decreto
legislativo n. 446 del 1997 risultavano infatti essere le seguenti:
– fino a lire 15 milioni 18,5 per cento;
– oltre lire 15 milioni e fino a lire 30 milioni 26,5 per cento;
– oltre lire 30 milioni e fino a lire 60 milioni 33,5 per cento;
– oltre lire 60 milioni e fino a lire 135 milioni 39,5 per
cento;
– oltre lire 135 milioni 45,5 per cento.
Con la legge finanziaria, per il 2001 oltre alle modifiche apportate
con il decreto-legge 30 settembre 2000, n. 268, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 novembre 2000, n. 354, viene proposta una
nuova struttura delle aliquote e degli scaglioni da applicare ai redditi
del 2001, che risulta così configurata:
– fino a lire 20 milioni 18 per cento;
da lire 20 milioni a lire 30 milioni 24 per cento;
– da lire 30 milioni a lire 60 milioni 32 per cento;
– da lire 60 milioni a lire 135 milioni 39 per cento;
– oltre lire 135 milioni 45 per cento.
Tutto ciò rappresenta certo un’inversione di tendenza che riteniamo
tuttavia insufficiente a ridurre significativamente la pressione fiscale
sulle famiglie che hanno bisogno di interventi di ben altra portata.
Con la legge finanziaria 2004 è stato realizzato il secondo modulo
della riforma fiscale del governo Berlusconi, modificando ulteriormente
gli scaglioni di imposta. La delega per la riforma del sistema fiscale
statale definitivamente approvata dal Parlamento nel 2003 (legge 7
aprile 2003, n. 80) prevedeva in relazione alla riforma dell’imposta sul
reddito:
– la riduzione a due del numero delle aliquote, in prospettiva
rispettivamente nella misura del 23 e del 33 per cento;
– l’individuazione, in funzione della soglia di povertà, di un
livello di reddito minimo personale escluso da imposizione, tenendo
conto delle condizioni familiari (cosiddetta no tax area) del
contribuente, al fine di garantire la progressività dell’imposta.
– un nuovo sistema di determinazione dell’imponibile e di calcolo
dell’imposta, caratterizzato dalla progressiva sostituzione delle
detrazioni con deduzioni;
– la concentrazione delle deduzioni sui redditi bassi e medi in modo
da garantire la progressività dell’imposizione;
– l’articolazione delle deduzioni in relazione a specifici valori e
finalità (tra gli altri, presenza di un unico reddito nell’ambito del
nucleo familiare, attività giovanili, casa, sanità e istruzione);
– un nuovo regime fiscale per i redditi di natura finanziaria;
– individuazione, in relazione alla previsione di un regime fiscale
di favore da applicare sulla parte di retribuzione, o compenso,
commisurata ai risultati dell’impresa, dell’obiettivo di favorire la
diffusione di sistemi retributivi flessibili, finalizzati a rendere i
lavoratori partecipi dell’andamento economico dell’impresa.
In conclusione, sono interventi correttivi che hanno portato alla
diminuzione delle aliquote intermedie e rappresentano misure
assistenziali rispetto a un progetto strategico che – come noi riteniamo
– debba essere in grado di favorire una autentica politica per la
famiglia che non può essere affidata a misure estemporanee, confondendo
le politiche assistenziali con le politiche familiari, ma richiede
interventi seri, profondi, in grado di consentire la diffusione e la
crescita della famiglia, così come afferma il dettato costituzionale.
Uno degli interventi più urgenti per la piena applicazione dei principi
costituzionali relativi alla tutela della famiglia riguarda il
trattamento tributario. Infatti, l’articolo 31 della Carta
costituzionale si pone come preciso indirizzo di politica legislativa
per incoraggiare i cittadini nel momento in cui formano una famiglia.
Rispetto a un sistema di tassazione che privilegia le spinte
individualistiche preferiamo un sistema fiscale che tassi la famiglia
nella sua entità. Ciò può essere agevolmente e concretamente realizzato
attraverso il sistema del quoziente familiare, e dunque la divisione del
reddito per il numero dei componenti della famiglia. Si prevede dunque
l’applicazione al reddito complessivo del nucleo familiare di una
aliquota ricavata sulla base di un sistema di «quoziente familiare»: il
reddito complessivo è diviso per il numero di parti risultante
dall’attribuzione a ciascun componente del nucleo di un coefficiente
variabile da 1 a 0,3 a seconda del rapporto di coniugio, parentela,
affinità e del numero totale dei componenti del nucleo familiare; ciò
permette di ottenere un reddito figurativo medio di ciascun componente
del nucleo familiare in rapporto al quale è determinata l’aliquota da
applicare al reddito complessivo della famiglia. Tale meccanismo è
ispirato al sistema francese in materia di tassazione del reddito
familiare. È evidente che tale sistema non è obbligatorio per tutti, ma
debba essere prevista la facoltà di optare per il nuovo sistema di
tassazione su base familiare in alternativa all’attuale regime su base
individuale.
Nessuna coercizione, ma libertà di scelta. I due sistemi possono e
devono coesistere e la convenienza dei contribuenti verso il nuovo
regime si sarebbe realizzata solo in presenza di un risparmio di imposta
rispetto alla tassazione su base individuale. Siamo dunque ben lontani
dalla impostazione dell’ex ministro delle finanze Visco che,
violando precise disposizioni di legge (legge 13 aprile 1977, n. 114),
ha abolito pretestuosamente con il modello unico anche la possibilità di
presentare la dichiarazione congiunta dei coniugi. È stato cancellato il
principio della tassazione congiunta nel quale la famiglia veniva
riconosciuta come entità economica fondamentale. Nè abbiamo avuto
fiducia sulla possibilità che l’ultimo Ministro dell’economia e delle
finanze potesse ripristinare tale facoltà.
Il regime della tassazione separata, introdotto a decorrere dalla
dichiarazione dei redditi presentata nel 1998 con il modello UNICO,
sancisce di fatto la irrilevanza fiscale dell’istituto familiare, in
quanto soggetto passivo di imposta è soltanto colui il quale ha la
titolarità giuridica del reddito prodotto.
Conseguentemente, a parità di reddito complessivo del nucleo
familiare e in particolare dei due coniugi, la diversa distribuzione dei
redditi in capo ai vari titolari comporta una differente onerosità del
tributo a causa del meccanismo della progressività delle aliquote. Il
massimo grado dell’onere fiscale si verifica nel caso della famiglia
monoreddito, mentre tende a ridursi progressivamente quanto più il
reddito è ripartito tra i diversi componenti il nucleo familiare; si
verifica un sensibile temperamento della progressività dell’imposta e,
in particolare, tale attenuazione è più accentuata per i redditi
medio-alti. In definitiva si privilegia la famiglia già formata
piuttosto che quella da formare. Tale situazione si è aggravata con la
nuova curva delle aliquote operata dall’ex ministro delle finanze
Visco.
La legge finanziaria per il 2001 con le risorse finanziarie
disponibili poteva certamente affrontare il problema del trattamento
fiscale della famiglia in termini nuovi e diversi e comunque tali da
determinare orizzonti di crescita e non di impoverimento demografico.
La questione del costo dei figli è affrontata in modo residuale,
destinando a tale obiettivo solo «briciole» e non le risorse
indispensabili per fare crescere la società. La variazione di gettito
prodotta dal passaggio da una tassazione IRPEF individuale a una
tassazione di tipo splitting familiare, intendendosi come
famiglia fiscale il nucleo composto dal percettore di reddito, dai figli
e da altri familiari fiscalmente a carico, presuppone l’eliminazione
delle detrazioni del coniuge a carico e, secondo una simulazione della
Società generale d’informatica (SOGEI), interesserebbe 11 milioni di
famiglie fiscali con un vantaggio medio di 1,2 milioni di lire per
famiglia, naturalmente con differenziazioni rispetto agli scaglioni di
reddito.
Un’altra questione che merita la necessaria attenzione è il
contrasto di interesse: questione che è stata sottovalutata in questi
cinque anni di politica tributaria. Certo diviene difficile avere
risultati nella lotta all’evasione fiscale se la misura percentuale
degli interessi detraibili viene ridotta dal 27 per cento degli anni
scorsi fino all’attuale 19 per cento, in misura inferiore all’imposta
sul valore aggiunto (IVA) che il cittadino dovrebbe pagare a fronte di
operazioni fiscali. Se si vuole percorrere tale indirizzo è necessario
riportare le detrazioni fiscali in misura conveniente all’emersione di
operazioni che in caso contrario rimarrebbero nascoste al fisco.
L’articolo 1 contiene le norme più significative, recando
disposizioni sul quoziente familiare di diretta derivazione dalla
vigente disciplina del Code général des impôts francese. Con tale
articolo sono dettate disposizioni intese alla determinazione del
reddito di ciascun nucleo familiare attraverso il sistema del quoziente
familiare, che è adottato in molte legislazioni europee particolarmente
sensibili all’istituto familiare e, quindi, a un sistema tributario che
privilegia e agevola i coniugi ai fini della determinazione del reddito.
In particolare il reddito complessivo viene diviso per un coefficiente
prestabilito, consentendo l’applicazione di una aliquota fiscale più
favorevole, rispetto alla vigente normativa. L’introduzione di tale
metodologia, inoltre, impone il superamento del sistema di deduzioni per
carichi di famiglia previsti dalla vigente disciplina.
L’articolo 2 contiene una serie di modifiche al sistema delle
detrazioni per oneri di cui all’articolo 15 del testo unico di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e
successive modificazioni. In particolare l’innovazione legislativa
prevede l’elevazione dal 19 al 27 per cento della percentuale
dell’imposta lorda detraibile. Tale elevazione si rende necessaria oltre
che per ripristinare il livello della detrazione prima della manovra
fiscale di questi ultimi anni, anche per consentire una più forte azione
di contrasto di interessi che è oggi vanificata da una percentuale che è
inferiore all’aliquota normale dell’IVA. Viene poi previsto l’incremento
dell’attuale limite di 1.250 euro a 2.500 di detraibilità per i premi di
assicurazione e quello previsto per gli interessi pagati sui mutui
immobiliari per l’acquisto della casa destinata ad abitazione che viene
raddoppiato passando da 7 milioni di lire a 7.000 euro; sono previste
inoltre norme per la detassazione delle spese sostenute dalle famiglie
per l’istruzione secondaria e universitaria al fine di favorire una più
ampia libertà di scelta educativa. Viene poi introdotta una norma del
tutto innovativa per le spese sostenute dai nubendi nel momento più
impegnativo di costruzione della nuova famiglia. Si conferma inoltre la
agevolazione fiscale per le spese sostenute per assistenza e cura
attraverso l’impiego di personale specializzato.
Con l’articolo 3 è confermata la facoltà dei coniugi non legalmente
ed effettivamente separati di presentare su un unico modello la
dichiarazione dei redditi, consentendo i versamenti e le compensazioni
relativamente alle imposte sui redditi.
L’articolo 4 prevede la disposizione di copertura degli oneri.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Determinazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche per
nucleo familiare)
1. All’articolo 12 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui
al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e
successive modificazioni, i commi 1, 2, 3 e 4 sono abrogati.
2. Ai fini del calcolo dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche (IRPEF) di ciascun nucleo familiare, la base imponibile è
determinata sommando i rispettivi redditi, al netto degli oneri
deducibili di cui agli articoli 10 e 12, comma 4-bis, del citato
testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917
del 1986, e successive modificazioni, divisi per:
a) 1, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo
individuo, celibe, divorziato o vedovo, senza figli;
b) 2, qualora il nucleo familiare sia composto dai
coniugi, senza figli;
c) 1,5, qualora il nucleo familiare sia composto da un
solo individuo, celibe o divorziato, con un figlio;
d) 2,5, qualora il nucleo familiare sia composto dai
coniugi, ovvero da un solo coniuge vedovo, con un figlio a carico;
e) 2, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo
individuo, celibe o divorziato, con due figli a carico;
f) 3, qualora il nucleo familiare sia composto dai
coniugi, ovvero da un coniuge vedovo, con due figli a carico;
g) 3, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo
individuo, celibe o divorziato, con tre figli a carico;
h) 4, qualora il nucleo familiare sia composto dai
coniugi, ovvero da un coniuge vedovo, con tre figli a carico;
i) il coefficiente previsto alla lettera g) cui va
aggiunta un’unità per ogni figlio a carico successivo al quarto qualora
il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe o
divorziato, e da un numero di figli a carico superiore a quattro;
l) il coefficiente previsto alla lettera h) cui va
aggiunta un’unità per ogni figlio a carico successivo al terzo qualora
il nucleo familiare sia composto dai coniugi, ovvero da un coniuge
vedovo, e da un numero di figli a carico superiore al tre.
3. Ai fini del calcolo della base imponibile di cui al comma 2, i
valori dei coefficienti individuati nel medesimo comma sono aumentati:
a) di 0,5 per ciascun figlio portatore di handicap
ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104;
b) di 0,2 per ciascun figlio di età inferiore a tre anni;
c) di 0,5 per ogni altra persona a carico, diversa dai
figli, indicata all’articolo 433 del codice civile che conviva con il
contribuente o percepisca assegni alimentari non risultanti da
provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
4. Alla base imponibile determinata ai sensi dei commi 2 e 3, al
netto della deduzione di cui all’articolo 11 del citato testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e
successive modificazioni, sono applicate le aliquote di cui all’articolo
13 del medesimo. L’imposta lorda sul reddito complessivo del nucleo
familiare è ottenuta moltiplicando il valore determinato ai sensi del
primo periodo del presente comma per il medesimo coefficiente utilizzato
per determinare la base imponibile ai sensi dei commi 2 e 3 del presente
articolo.
Art. 2.
(Modifiche alla disciplina delle detrazioni
di cui all’articolo 5 del testo unico
delle imposte sui redditi)
1. All’articolo 15, comma 1, del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e successive modificazioni,
sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’alinea, le parole: «un importo pari al 19 per
cento» sono sostituite dalle seguenti: «un importo pari al 27 per
cento»;
b) alla lettera a), primo periodo, le parole: «non
superiori a 7 milioni di lire» sono sostituite dalle seguenti: «non
superiore a 7.000 euro»;
c) la lettera e) è sostituita dalla seguente:
«e) le spese per frequenza di corsi di istruzione
secondaria e universitaria, comprese quelle relative all’acquisto dei
testi scolastici, per un importo complessivamente non superiore a 5.160
euro;»;
d) alla lettera f), le parole: «non superiori a
lire 2 milioni e 500 mila» sono sostituite con le seguenti: «non
superiore a 2.500 euro»;
e) dopo la lettera i-quater, è aggiunta la
seguente:
«i-quinquies) le spese sostenute in occasione del matrimonio
nel semestre antecedente e nel semestre successivo alla data di
celebrazione del medesimo per un importo complessivamente non superiore
a 30 mila euro. Tra tali spese rientrano, oltre a quelle relative
all’organizzazione della cerimonia nuziale, secondo gli usi prevalenti,
anche quelle sostenute per la predisposizione e l’arredamento della
abitazione in cui i nubendi hanno fissato la propria residenza. Detta
detrazione è ripartita in quote costanti nell’anno in cui sono state
sostenute le spese e nei quattro periodi d’imposta successivi.».
2. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da
emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23
agosto 1988, n. 400, sono stabilite le modalità di attuazione delle
disposizioni recate all’articolo 15, comma 1, lettera i-quinquies),
del citato testo unico, introdotta dal comma 1, lettera e), del
presente articolo.
Art. 3.
(Presentazione della dichiarazione
dei redditi)
1. All’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, dopo il terzo comma,
è inserito il seguente:
«È in facoltà dei coniugi non legalmente ed effettivamente separati
presentare su unico modello la dichiarazione unica dei redditi di
ciascuno di essi, compresi quelli di cui all’articolo 4, primo comma,
lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 597, e successive modificazioni. Ai fini del presente
comma si applicano le disposizioni di cui all’articolo 17 della legge 13
aprile 1977, n. 114, e successive modificazioni. Nel caso di cui al
presente comma, i versamenti unitari e le compensazioni di cui
all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e
successive modificazioni, si riferiscono esclusivamente alle imposte sui
redditi».
Art. 4.
(Copertura finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge,
valutato in 7 miliardi di euro, si provvede ai sensi dell’articolo 1,
comma 4, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, con le maggiori entrate
contabilizzate e derivanti dalla lotta all’evasione fiscale.
|
32 |
28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio |
Disposizioni in
materia di polizia locale
———–
Il presente
progetto di legge recupera il testo unificato delle proposte di legge n.2,
di iniziativa popolare e abbinate, licenziato dalla Commissione
permanente Affari Costituzionali della Camera dei deputati.
Rappresenta l'esito
di un lungo lavoro volto dalla stessa commissione avviato fin dal luglio
2002 e finalizzato essenzialmente ad individuare gli ambiti di
competenza legislativa statale in materia, come definiti a seguito
dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della parte seconda della
Costituzione.
Si tratta ora di
riprendere il lavoro già svolto dando le indispensabili risposte alle
attese, che non possono andare deluse, di questo importante comparto.
Va ricordato in
proposito che, prima della riforma costituzionale del 2001, la « polizia
locale, urbana e rurale » costituiva materia di competenza legislativa
regionale concorrente per le regioni a statuto ordinario. Nel vigente
testo dell’articolo 117, l’espressione « polizia locale, urbana e rurale
» non e` piu` presente e si fa invece riferimento – al secondo comma
della lettera h) – alla « polizia amministrativa locale », per sottrarla
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine
pubblico e sicurezza. Conseguentemente, e` da ritenersi che la « polizia
amministrativa locale » rientri tra le materie di competenza regionale,
dato che l’articolo 117, quarto comma, nel testo vigente, assegna « alle
Regioni la potesta` legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato ».
Va ricordato, in
proposito, che il testo di riforma costituzionale approvato
definitivamente dai due rami del Parlamento riserva espressamente alla
potesta` legislativa esclusiva delle regioni la disciplina della «
polizia amministrativa regionale e locale ». La riforma costituzionale
ha, quindi, determinato un netto restringimento dell’ambito di
intervento del legislatore statale che, tuttavia, pur non potendo piu`
dettare norme di principio in materia di polizia amministrativa locale,
conserva la possibilita` di intervenire sulle funzioni di polizia
giudiziaria e di pubblica sicurezza che – attualmente in via ausiliaria
e non istituzionale – sono attribuite al personale appartenente alla
polizia locale. Cio` in forza della potesta` legislativa esclusiva di
cui lo Stato gode in materia di « giurisdizione, norme processuali e
ordinamento penale », ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
l), della Costituzione, oltre che – come si e` detto – in materia di
ordine pubblico e sicurezza.
Spetta, inoltre, al
legislatore statale la disciplina dell’uso delle armi, attesa la
competenza esclusiva allo stesso riconosciuta in materia di « armi,
munizioni ed esplosivi » dalla lettera d) del citato secondo comma
dell’articolo 117 della Costituzione. E`, dunque, in questo ambito di
competenza del legislatore statale che si inserisce la proposta di legge
elaborata dalla Commissione Affari costituzionali, la quale si compone
di soli quattro articoli. L’articolo 1 modifica l’articolo 57, comma 1,
del codice di procedura penale al fine di includere tra gli ufficiali di
polizia giudiziaria, oltre ai soggetti ivi gia` previsti, anche gli
ufficiali ed i sottufficiali di polizia locale. Inoltre, modificando la
lettera b) del comma 2 del medesimo articolo 57, si stabilisce che siano
agenti di polizia giudiziaria gli agenti di polizia locale.
Si ricorda in
proposito che la vigente disposizione attribuisce tale qualifica,
nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza, alle guardie delle
province e dei comuni quando sono in servizio. L’articolo 2 reca alcune
modifiche alla legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale
(legge 7 marzo 1986 n. 65). In primo luogo viene modificato il comma 5
dell’articolo 5, che reca disposizioni in materia di porto delle armi da
parte degli addetti al servizio di polizia municipale. La normativa
vigente prevede che gli addetti al servizio di polizia municipale
possono portare le armi solamente previa deliberazione del consiglio
comunale e limita tale possibilita` di portare le armi all’ambito
territoriale dell’ente di appartenenza ed ai casi previsti dall’articolo
4 della medesima legge.
Con le modifiche
proposte si prevede, invece, che gli addetti al servizio di polizia
municipale ai quali, e` conferita la qualita` di agente di pubblica
sicurezza portino, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati
in relazione al tipo di servizio, nei termini e nelle modalita` previsti
dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio. In secondo luogo
si propone di inserire un nuovo articolo 5-bis, che disciplina la
dotazione delle armi agli addetti alla polizia locale ai quali e`
conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza, prevedendo che
tale arma sia la pistola semiautomatica o la pistola a rotazione, i cui
modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale
delle armi comuni da sparo di cui all’articolo 7 della legge 18 aprile
1975, n. 110.
Si prevede, inoltre,
che il modello, il tipo ed il calibro di queste armi siano determinati
con regolamento dell’ente di appartenenza, e che gli addetti alla
polizia locale possano comunque essere dotati di una serie di armi,
tipizzate al comma 3. L’articolo in esame aggiunge inoltre alla legge n.
65 del 1986 un nuovo articolo 7-bis, relativo all’area di contrattazione
collettiva per il personale dei corpi di polizia locale. In particolare,
si prevede che il contratto collettivo nazionale di lavoro per il
personale dei corpi di polizia locale e` stipulato nell’ambito di
un’apposita area di contrattazione, alla quale sono ammesse le
organizzazioni sindacali del medesimo personale aventi una
rappresentativita` non inferiore al 5 per cento, considerando a tale
fine il dato associativo espresso dalla percentuale delle deleghe per il
versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe
rilasciate nell’ambito del personale considerato. L’articolo 3 apporta
modifiche alla legge 1o aprile 1981, n. 121 (nuovo ordinamento
dell’amministrazione della pubblica sicurezza). Viene innanzitutto
esteso agli ufficiali di polizia giudiziaria l’accesso ai dati ed alle
informazioni conservati negli archivi automatizzati del Centro
elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’interno e la loro
utilizzazione, previsto dall’articolo 9 della predetta legge. In secondo
luogo, si propone di modificare l’articolo 16 della medesima legge nel
senso di prevedere che siano forze di polizia, fermi restando i
rispettivi ordinamenti locali e dipendenze locali, anche le forze di
polizia locale. Da ultimo, a seguito del parere favorevole espresso
dalla V Commissione (Bilancio), la Commissione ha introdotto l’articolo
4 che, recependo un’apposita condizione posta dalla stessa Commissione
Bilancio ai sensi dell’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ha
inteso specificare che all’attuazione della legge in esame si provvede
nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio dello Stato e degli
enti interessati e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica.
DISEGNO DI LEGGE
ART. 1.
(Modifiche
all’articolo 57 del codice di procedura penale).
1. All’articolo 57
del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo
la lettera b), e` inserita la seguente: « b-bis) gli ufficiali e i
sottufficiali di polizia locale »;
b) al comma 2,
lettera b), le parole: « , nell’ambito territoriale dell’ente di
appartenenza, le guardie delle province e dei comuni quando sono in
servizio » sono sostituite dalle seguenti: « gli agenti di polizia
locale ».
ART. 2.
(Modifiche alla legge
7 marzo 1986, n. 65).
1. Alla legge 7 marzo
1986, n. 65, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo
5, comma 5, primo periodo, le parole: « possono, previa deliberazione in
tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza, le armi, di
cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e
nelle modalita` previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal
servizio, purche´ nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e
nei casi di cui all’articolo 4 » sono sostituite dalle seguenti: «
portano, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati in
relazione al tipo di servizio nei termini e con le modalita` previsti
dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio »;
b) all’articolo
5, comma 5, terzo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole «
, fermo restando quanto disposto dall’articolo 5-bis »;
c) dopo
l’articolo 5 e` inserito il seguente: « ART. 5-bis. – (Armi in dotazione
agli addetti alla polizia locale ai quali e` conferita la qualifica di
agente di pubblica sicurezza).
1. L’arma in
dotazione agli addetti alla polizia locale ai quali e` conferita la
qualifica di agente di pubblica sicurezza e` la pistola semi-automatica
o la pistola a rotazione, i cui modelli devono essere scelti fra quelli
iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui
all’articolo 7 della legge 18 aprile 1975, n. 110.
2. Il modello, il
tipo ed il calibro delle armi di cui al comma 1 sono determinati con
regolamento dell’ente di appartenenza, da adottare entro sei mesi dalla
data di entrata in vigore della presente disposizione.
3. Gli addetti alla
polizia locale possono comunque essere dotati:
a) della sciabola per
i soli servizi di guardia d’onore in occasione di feste o di funzioni
pubbliche;
b) di un’arma lunga
comune da sparo;
c) di ausili tattico
difensivi a basso deterrente visivo; d) del bastone estensibile; e)
dello spray antiaggressione a base di peperoncino naturale »;
d) dopo l’articolo 7
e` inserito il seguente: « ART. 7-bis. – (Area di contrattazione
collettiva per il personale dei corpi di polizia locale). – 1. Il
contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dei corpi di
polizia locale e` stipulato nell’ambito di un’apposita area di
contrattazione, alla quale sono ammesse le organizzazioni sindacali del
medesimo personale aventi una rappresentativita` non inferiore al 5 per
cento, considerando a tale fine il dato associativo espresso dalla
percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali
rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito del personale
considerato ».
ART. 3.
(Modifiche alla legge
1o aprile 1981, n. 121).
1. Alla legge 1o
aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni, sono apportate le
seguenti modificazioni:
a) all’articolo 9,
primo comma, dopo le parole: « agli ufficiali di polizia giudiziaria
appartenenti alle forze di polizia, » sono inserite le seguenti: « agli
ufficiali di polizia locale, »;
b) all’articolo 16,
al primo comma, sono apportate le seguenti modificazioni:
1) all’alinea, le
parole: « i rispettivi ordinamenti e dipendenze » sono sostituite dalle
seguenti: « i rispettivi ordinamenti statali o locali e dipendenze
statali o locali »;
2) alla lettera b),
dopo le parole: « guardia di finanza » sono inserite le seguenti: « e la
polizia locale ».
ART. 4.
(Disposizioni
finanziarie).
1. All’attuazione
della presente legge si provvede nell’ambito degli ordinari stanziamenti
di bilancio dello Stato e degli enti interessati e comunque senza nuovi
o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. |
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28/04/06 |
Sen
EUFEMI Maurizio |