MAURIZIO EUFEMI

eletto al Senato della Repubblica per la Regione Piemonte

Segretario della Presidenza del Senato

ATTIVITA' PARLAMENTARE del Sen. EUFEMI

nella XV Legislatura

Disegni di Legge

TITOLO DdL n. Data pres. Proponenti

Esenzione dall'imposta comunale sugli immobili (ICI) per l'abitazione principale

DISEGNO DI LEGGE d’iniziativa del senatore EUFEMI COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 7 MAGGIO 2007 Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, in materia di esenzione dall’imposta comunale sugli immobili dell’abitazione principale

Onorevoli Senatori. – L’articolo 42 della Costituzione dispone che: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Si può, pertanto, affermare che l’abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell’individuo e delle famiglie, un bene primario.

Lo Stato, con numerosi interventi normativi, ha agevolato l’accesso all’acquisto della prima casa, in particolare per le giovani coppie, con ciò realizzando il precetto costituzionale della funzione sociale della proprietà. Nonostante la promozione e l’attuazione di politiche abitative volte ad introdurre agevolazioni creditizie e fiscali in materia di acquisto della prima casa, con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, è stata istituita una nuova imposta denominata «imposta comunale sugli immobili» (ICI), avente come presupposto il possesso di fabbricati, aree fabbricabili o terreni agricoli siti nel territorio dello Stato, qualunque ne sia la destinazione.

L’imposizione fiscale colpisce l’unità immobiliare ed ha come soggetto passivo il proprietario dell’immobile o il titolare del diritto di usufrutto, uso o abitazione. Il gettito è assegnato al comune che può determinare discrezionalmente l’aliquota fra il 4 e il 7 per mille. Nonostante il citato decreto legislativo n. 504 del 1992 riconosca l’esigenza di prevedere un regime differenziato e mitigato per l’abitazione principale, ciò non ha determinato l’assoggettamento all’aliquota più bassa o consistenti e diffuse detrazioni a favore del proprietario della prima casa.

La dinamica della crescita di tale tributo, incrementato del 44,2 per cento dal 1993 è rappresentato nella tabella allegata. Il presente disegno di legge, intende alleggerire il carico fiscale che grava sull’abitazione principale trasformando il regime contemplato dall’articolo 8 del medesimo decreto legislativo n. 504 del 1992, in esenzione totale.

Un tale intervento determinerebbe le condizioni per una maggiore disponibilità di reddito in favore delle famiglie, liberando risorse per i consumi.

Tabella

EVOLUZIONE DEL GETTITO ICI

ANNO

GETTITO

 (milioni di euro)

1993 7.280
1994 7.285
1995 7.445
1996 7.836
1997 8.612
1998 8.800
1999 9.158
2000 9.353
2001 9.414
2002 9.586
2003 9.682
2004 9.849
2005 10.500 (stima)

1993-2005 = +44,2%

DISEGNO DI LEGGE Art. 1.

1. Al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 7, comma 1, dopo la lettera i) è aggiunta la seguente: «i-bis) le unità immobiliari direttamente adibite ad abitazione principale del soggetto passivo limitatamente al periodo dell’anno durante il quale si protrae tale destinazione. Per “abitazione principale“ si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o di altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente. La disposizione di cui alla presente lettera si applica anche per le unità immobiliari, appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale dei soci assegnatari». b) all’articolo 8 i commi 2, 3 e 4 sono abrogati.

Art. 2.

1. Agli oneri derivanti dall’attuazione della presente legge valutati in 3,3 miliardi di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 si provvede mediante l’utilizzo delle maggiori entrate determinate, ai sensi dell’articolo 1, comma 4, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.

1542 7/05/07 Sen. EUFEMI Maurizio

Disposizioni in materia di Banche Popolari cooperative

Onorevoli Colleghi,

la recentissima decisione della Commissione europea di disporre l’archiviazione della procedura di infrazione contro il Governo italiano, in merito ad una presunta violazione dei principi comunitari di libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali, fuga ogni dubbio sulla legittima appartenenza delle Banche Popolari cooperative italiane al genus della società cooperativa.

Il legislatore italiano aveva già anticipato questo giudizio con la riforma del diritto societario, riconoscendo che queste aziende, forti di oltre 7.700 sportelli, ubicati per oltre l’80% in aree non urbane, di oltre un milione di soci e otto milioni di clienti, fanno parte a pieno titolo di una realtà mondiale, la cooperazione di credito, che conta oltre cinquantaduemila istituti e duecento milioni di soci, retti tutti dal vincolo della solidarietà e dal principio voto capitario.

E’, quest’ultimo, un principio universale, essenziale alla esistenza stessa della società cooperativa e non una deviazione dal principio del voto per azione, proprio delle s.p.a. né, tanto meno, una “anomalia” italiana.

A questo riguardo, lo stesso commissario McCreevy, in un discorso tenuto a Bruxelles l’11 dicembre 2005, parlando del principio di proporzionalità fra rischio e controllo nelle s.p.a. – che da una indagine di Deeminor sulle società quotate europee risultava essere applicato dal 65% di queste, con punte del 100% in Belgio, del 68% in Italia, ma solo dal 14% in Olanda, 25% in Svezia e 31% in Francia e di qui la sua battaglia in difesa di questo principio – ha affermato “Al contrario, per le cooperative il principio è piuttosto quello del voto per testa, che è un concetto diverso”.

Peraltro, a fronte di un quadro normativo e di mercato profondamente mutato o suscettibile nel prossimo futuro di ulteriori evoluzioni, il Credito Popolare ha da tempo assunto atteggiamenti di apertura, senza però disancorarsi dall’identità propria di società cooperativa.

In più occasioni i suoi esponenti hanno evidenziato come l’attaccamento agli ideali e ai principi istituzionali che costituiscono l’essenza stessa della Banca Popolare cooperativa, se non vivificato da un continuo adeguamento al divenire del contesto normativo e operativo e da conseguenti coerenti comportamenti da parte delle singole aziende corre il rischio di risultare sterile.

Nel suo recente discorso alla celebrazione della Giornata del risparmio anche il Governatore della Banca d'Italia Dr. Draghi è intervenuto sul punto “Sul finire della scorsa legislatura aveva trovato ampio consenso un progetto di legge che avrebbe attenuato i limiti di partecipazione, specie per gli investitori istituzionali, rafforzando la protezione degli azionisti per le banche popolari quotate, pur mantenendo i caratteri essenziali della forma cooperativa”.

Raccogliendo questa autorevole esortazione e l’auspicio espresso nella relazione al progetto di legge citato secondo cui “i risultati del lavoro effettuato non debbano essere dispersi ma costituire una preziosa base di lavoro per gli interventi legislativi che potranno essere realizzati nella prossima legislatura”, appare opportuno predisporre un progetto di legge che, pur recependo il primo lavoro svolto dai colleghi della Camera dei Deputati nella precedente legislatura, ne rendesse più agevole il percorso parlamentare eliminando quelle previsioni che avevano indotto l’allora minoranza ad esprimere voto contrario al provvedimento, che pertanto fu approvato a maggioranza.

In quell’occasione l’On.le Benvenuto motivò il parere contrario con il timore che alcuni emendamenti introdotti all’ultimo momento potessero comportare “il rischio di attribuire il controllo delle Banche Popolari a soggetti estranei al mondo cooperativo, ponendo a rischio la positiva specificità di tali soggetti, che rappresentano un elemento di forza del sistema economico nazionale, che dovrebbe pertanto essere difeso”.

Tutte queste considerazioni trovano puntuale riscontro nel progetto di legge che presento con l'auspicio che possa trovare definizione legislativa in tempi rapidi con adeguate modifiche agli articoli 30 e 31 del Testo Unico in materia bancaria e creditizia.

Disposizioni in materia di Banche Popolari cooperative

Art. 1

(Modifica dell’articolo 30 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).

1. L’articolo 30 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è sostituito dal seguente:

«Art. 30. – (Soci). – 1. Ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute. 2. Nessun soggetto può detenere azioni in misura eccedente l’1 per cento del capitale sociale. La banca, appena rileva il superamento di tale limite, contesta al detentore la violazione del divieto. Le azioni eccedenti devono essere alienate entro un anno dalla contestazione; trascorso tale termine, i relativi diritti patrimoniali maturati fino all’alienazione delle azioni eccedenti vengono acquisiti dalla banca. Resta fermo quanto previsto dal Capo III. 3. In deroga al comma 2, gli organismi di investimento collettivo del risparmio e i fondi pensione, italiani o esteri, possono detenere fino al 5 per cento del capitale sociale. I soggetti di cui al presente comma, qualora gestiti da un medesimo gestore, italiano o estero, non possono detenere complessivamente più del 5 per cento del capitale sociale della banca. Sono fatti salvi i limiti più stringenti previsti dalla disciplina propria di tali soggetti e dallo statuto della banca popolare. 4. Ai fini del computo dei limiti di cui ai commi 2 e 3, si tiene conto delle partecipazioni detenute nel capitale sociale della banca, sia direttamente, sia indirettamente, secondo quanto stabilito dall’articolo 22 5. Lo statuto delle banche popolari che adottano il sistema dualistico può prevedere che la competenza per l’approvazione del bilancio di esercizio sia attribuita all’assemblea.. 6. Lo statuto delle banche popolari con azioni quotate nei mercati regolamentati può prevedere che la nomina di sindaci o, in caso di adozione del sistema dualistico, di componenti il consiglio di sorveglianza in rappresentanza della minoranza, ai sensi dell’articolo 148, comma 2, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni, avvenga su designazione dei soggetti di cui al comma 3. 7. Il numero minimo dei soci non può essere inferiore a duecento. Qualora tale numero diminuisca, la compagine sociale deve essere reintegrata entro un anno; in caso contrario, la banca è posta in liquidazione. 8. L’ammissione a socio ha luogo, su domanda, con deliberazione del consiglio di amministrazione da comunicare all’interessato. La domanda di ammissione si intende accolta qualora la determinazione contraria del consiglio di amministrazione non venga comunicata al domicilio dell’aspirante socio entro sessanta giorni dalla data in cui la domanda è pervenuta alla banca. 9. Le delibere del consiglio di amministrazione di rigetto delle domande di ammissione a socio devono essere motivate avuto riguardo all’interesse della società, alle prescrizioni statutarie e allo spirito della forma cooperativa. Il consiglio di amministrazione è tenuto a riesaminare la domanda di ammissione su richiesta del collegio dei probiviri, costituito ai sensi dello statuto e integrato con un rappresentante dell’aspirante socio. L’istanza di revisione deve essere presentata entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione della deliberazione e il collegio dei probiviri si pronuncia entro trenta giorni dalla richiesta. 10. Le norme di cui ai commi 8 e 9 si applicano anche nel caso di cessione di azioni. 11. Coloro che non abbiano chiesto od ottenuto l’ammissione a socio possono esercitare i diritti aventi contenuto patrimoniale relativi alle azioni possedute, fermo restando quanto disposto dal comma 2. 12. E’ nulla ogni clausola dello statuto volta a introdurre limiti alla trasferibilità delle azioni di banche popolari. 13. Le banche popolari con azioni quotate in mercati regolamentati possono procedere all’emissione di nuove azioni esclusivamente nelle forme previste dagli articoli 2438 e seguenti del codice civile».

Art. 2

(Modifica all’articolo 31 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).

1. All’articolo 31 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e successive modificazioni, il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Le maggioranze previste dallo statuto per la costituzione delle assemblee e per la validità delle deliberazioni aventi ad oggetto le operazioni di cui al comma 1 autorizzate nell’interesse dei creditori ovvero per esigenze di rafforzamento patrimoniale non possono superare la meno elevata tra quelle previste per le altre modificazioni dello statuto. E’ fatto salvo il diritto di recesso dei soci».

1221 19/12/06 Sen. Eufemi Maurizio


Istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla situazione dello sport del calcio
professionistico in Italia.

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Onorevoli Senatori,

la gravissima crisi che ha colpito il mondo del calcio dopo le inchieste della magistratura in diverse procure del Paese impone al Parlamento una profonda riflessione. Si tratta di affrontare compiutamente le ragioni di una crisi che ha investito un comparto tra i più importanti del Paese in termini di volume di affari. Le intercettazioni telefoniche hanno portato a ben 41 indagati a diverse società professionistiche sotto indagine. Tutto ciò rappresenta, purtroppo, solo la punta dell’iceberg del malaffare, di uno scandalo “più grave del previsto” di un “mondo caduto in pezzi”.

Lo strumento della Commissione di inchiesta parlamentare rappresenta il mezzo più idoneo per affrontare la questione nella sua complessità e creare le condizioni per una rigenerazione del sistema.

Occorre infatti capire le ragioni di una così grave crisi che ha portato al commissariamento della FIGC evidenziando le debolezze delle diverse strutture di gestione del comparto e la necessità di riscrivere le regole.

Abbiamo assistito in questi ultimi tempi ad una fuga dalla responsabilità. Non è esatto quanto sostenuto da più parti che il Parlamento sia stato assente. Da parte nostra abbiamo cercato di fare ciò che era possibile fare attraverso lo strumento del sindacato ispettivo nella sede pubblica più alta come è l’Aula di Palazzo Madama sia con precise prese di posizione pubbliche sia nell’ambito della indagine conoscitiva sui giochi condotta dalla 6a Commissione del senato nella XIV Legislatura proprio per ridefinire le regole del gioco.
Così come va ricordato il pregevole lavoro della Commissione di indagine promossa dalla Commissione Cultura della Camera dei Deputati nella XIV legislatura, che aveva portato utili e precisi indicazioni purtroppo rimaste tali perché chi doveva farsi carico di un cambiamento di rotta ha preferito rimanere inerte. Si è preferito nascondere i problemi; non tenere conto della evidenza, nonostante la realtà fosse ormai sotto gli occhi di tutti.

La inadeguatezza delle regole era evidente. Era stato ripetutamente sottolineato, così come la necessità di un loro revisione.
Ricordo altresì la ampia indagine conoscitiva citata svolta nella XIV legislatura sui giochi, soprattutto per i profili di gestione delle scommesse sportive e i concorsi pronostici e il sistema di finanziamento dello sport in generale.

Ricordo la interpellanza 2-00673 presentata in epoca non sospetta e precisamente l’8 febbraio 2005 e esaminata dall'Assemblea del Senato il 17 marzo 2005, nella quale era evidenziata la gravità dei problemi del calcio. Ancora più rilevante quanto emerso nel corso della audizione del Presidente della FIGC dottor Franco Carraro nella seduta del 21 luglio 2005 nell’ambito della indagine conoscitiva della Commissione Cultura del Senato sui problemi dello Sport. Questi sono i fatti.

Innanzitutto si è di fronte ad una crisi di credibilità che derivava dagli intrecci e i condizionamenti tra varie società, dai conflitti di interesse, dall’inerzia della FIGC, dai dubbi sui risultati sportivi e dalla conseguente crisi del Totocalcio, dalle posizioni dominanti in violazione dei principi della libera concorrenza e del mercato, dagli accertamenti sulla compravendita dei calciatori e sui compensi delle prestazioni sportive in ordine alle relative condizioni contrattuali che evidenziavano particolari anomalie, sintomatiche anche di pratiche fiscalmente elusive.

Rivendichiamo pertanto il diritto ed il merito di avere rappresentato nelle competenti sedi istituzionali una problematica troppo a lungo sottovalutata la cui indiscutibilità deriva dalla sede prestigiosa in cui è stata resa e che molti hanno fatto finta di non conoscere compresi autorevoli media nazionali anche perché essi stessi coinvolti nell’intreccio perverso.

Tutti elementi questi che inducono a svolgere anche qualche considerazione in ordine alla credibilità dell'intero sistema. Una credibilità che dobbiamo in qualche modo riconquistare.
C'è bisogno di promuovere questo settore soprattutto sotto il profilo della promozione dei valori sportivi che costituiscono un elemento fondamentale. I giovani devono avere la prospettiva di giocare a calcio, ma il loro futuro non deve essere affidato ai procuratori, ma, piuttosto, ai valori e al talento sportivo. Questo è il punto fondamentale. Abbiamo visto troppi intrecci conseguenti all'operato dei procuratori, che alterano e non giustificano i risultati o l'affermazione di un giovane nell'ambito di una società calcistica.
E' importante affermare una cultura dei valori sportivi proprio a partire dai giovani, garantendo una loro maggiore presenza: queste sono le regole che devono essere fissate.
Voglio tornare brevemente sulla questione dei procuratori e sull'intreccio tra questi ultimi e le società che crea gravissime alterazioni.
V’è la pressante necessità di agire nell'immediato per restituire credibilità al sistema, ricorrendo a regole più rapide, forti, e severe al fine di ricostituire una etica del calcio in cui prevalga il valore sportivo rispetto al business e ai diritti televisivi.
In occasione della presentazione della indagine sul finanziamento dello sport e i giochi pubblici rilevavo come “l’immagine di un Paese per quanto riguarda gli sport in campo internazionale non deriva esclusivamente da quello che è considerato il più popolare degli sport, il calcio, ma si misura dal complesso delle attività sportive che, pur non avendo masse di affezionati e di tifosi, hanno notevoli praticanti come per esempio l’atletica leggera nelle diverse specialità.
C’è necessità di restituire una forte credibilità al calcio anche per gli indubbi riflessi sui concorsi pronostici. Tale credibilità è stata fortemente compromessa. I problemi finanziari del calcio professionistico devono essere affrontati riducendo A tal fine è urgente riscrivere le regole societarie, che devono essere diverse dalle generali norme dettate dal codice civile per tutti i soggetti societari, accompagnate da regole sportive nuove che privilegino l’addestramento e la maturazione dei giovani. E’ necessario fissare un limite al numero dei tesserati a seconda della diversità delle competizioni nazionali e internazionali con una riserva di giovani nella rosa annuale dei tesserati. E’ necessaria una diversa redistribuzione dei diritti televisivi che non privilegi eccessivamente i soliti nomi, determinando un riequilibrio che favorisca la crescita e lo sviluppo delle società “minori”.

Non si può rimanere inerti di fronte alle vicende di questi giorni che hanno visto il commissaria mento della FIGC, l’azzeramento di tanti organi sportivi le indagini di diverse procure del Paese. Si è ravvisata pertanto la necessità di ricercare, raccogliere ed analizzare tutti gli elementi utili alla comprensione di questa vicenda così inquietante mediante l’istituzione di una Commissione parlamentare ad hoc quale organismo di massima dignità istituzionale con il compito precipuo di indagare sui fatti con severità e puntualità. Un’analisi urgente per corrispondere alle attese dei cittadini che reclamano, a buon diritto, i necessari chiarimenti che non potranno essere solo quelli né della giustizia sportiva per i suoi tempi stretti, né quelli della giustizia ordinaria per i suoi tempi opposti. D'altro canto la Commissione d'inchiesta ha uno spettro di indagine ben più vasto e una finalità di interesse generale che né la magistratura ordinaria, né tanto meno quella sportiva, presentano.

Il presente disegno di legge prevede, dunque, l’acquisizione con i poteri e le limitazioni dell'autorità giudiziaria, come recita l'articolo 82 della Costituzione, di tutti gli elementi utili per verificare i comportamenti dei diversi soggetti nell’ultimo triennio.

Il Parlamento va però oltre il mero accertamento delle responsabilità e delle cause della crisi potendo poi formulare indicazioni e suggerimenti sulle modifiche legislative ritenute più urgenti.

È necessario infatti che il Parlamento, recuperando la sua indiscussa centralità, indichi la strada più adeguata per fornire una esauriente informazione al fine di far luce su un comparto rilevante della economia nazionale, dando poi risposte adeguate al recupero di credibilità attraverso la indicazione di regole nuove incidenti ed adeguate.

Con l’articolo 1 viene istituita a norma dell’articolo 82 della Costituzione la Commissione di inchiesta parlamentare e vengono individuati i suoi compiti e le sue finalità per un periodo circoscritto di tempo, l’ultimo triennio, la verifica del quadro normativo interno rispetto a quello dell’Unione Europea sia del diritto generale che di quello sportivo. L’articolo 2 definisce i compiti propri della Commissione.

Il resto dell’articolato disciplina il funzionamento della Commissione che è composta da 40 tra deputati e senatori (articolo 3) e deve ultimare i suoi lavori entro un anno dalla sua istituzione (articolo 2) con contestuale presentazione al Parlamento di una relazione particolareggiata sull’indagine eseguita nonché sui risultati raggiunti.


DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. È istituita, ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare di inchiesta sulla situazione del calcio professionistico in Italia.

Arti. 2

1. Le finalità della Commissione sono le seguenti: svolgere approfondite indagini e procedere all’esame dei documenti giudiziari e sportivi sulla situazione del calcio professionistico italiano nel triennio 2003-2006 prevedendo in particolare l’accertamento della situazione dei bilanci amministrativi relativi ai campionati professionistici;

2. verificare il quadro della normativa interna, rispetto a quella dell’Unione Europea, sia per l'ordinamento civilistico che sportivo, in ordine alle società quotate e alla governance societaria;

3. analizzare in particolare le seguenti situazioni:

a) i conflitti di interesse tra organi controllo e società, tra società e procuratori, tra calciatori e procuratori
b) il ruolo e le responsabilità dei procuratori sportivi
c) l’autonomia del settore arbitrale
d) la diffusione di fenomeni di doping nel settore calcio
e) il funzionamento del sistema dei controlli interni ed esterni al settore calcistico
f) i rapporti tra Coni, Federazione Italiana Gioco Calcio e tra FIGC e Lega Calcio
g) il sistema di elezione del Consiglio Federale della FIGC e governance della Federazione
h) il sistema di erogazione dei diritti televisivi e altre fonti di finanziamento
i) il trattamento fiscale delle societàprofessionistiche
l) il funzionamento delle Commissioni Federali Caf, Cuf
(Commissioni vertenze economiche)
m) il funzionamento autorità terze di controllo

Art. 3

1. La Commissione procede alle indagini ed agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria e può avvalersi di ogni mezzo ed istituto procedurale penale, civile,amministrativo e militare.
2. La Commissione deve ultimare i suoi lavori entro un anno dalla sua istituzione. È fatta salva la possibilità di proroga motivata, per un periodo non eccedente i dodici mesi.
3. Conclusa l’inchiesta, la Commissione dà mandato, ad uno o più dei suoi componenti, di redigere la relazione conclusiva. Se nelle conclusioni dell’inchiesta non è raggiunta l’unanimità, possono essere presentate più relazioni.
4. Entro il termine di cui al comma 3, la Commissione deve presentare al Parlamento la relazione, o le relazioni, sulle risultanze delle indagini e degli accertamenti di cui all’articolo 1 e, a maggioranza dei suoi componenti, deve deliberare la pubblicazione degli atti dell’inchiesta.
5. Il Presidente della Commissione, ogni sei mesi, deve presentare al Parlamento una relazione sullo stato dei lavori e sul rispetto dell’attività e dei tempi inizialmente programmati.

Art. 4

1. La Commissione è composta da venti senatori e da venti deputati nominati, rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti dei Gruppi parlamentari, comunque assicurando la presenza di un rappresentante per ciascuna componente politica costituita in Gruppo in almeno un ramo del Parlamento.
2. Con gli stessi criteri e con la stessa procedura di cui al comma 1 si provvederà alle sostituzioni che si rendessero necessarie in caso di dimissioni dei singoli componenti della Commissione o di cessazione dal mandato parlamentare.
3. Il Presidente della Commissione è scelto, di comune accordo, dai Presidenti delle due Assemblee, al di fuori dei componenti della Commissione, tra i membri dell’uno o dell’altro ramo del Parlamento.
4. La Commissione elegge, nel suo interno, due vice presidenti e due segretari, con voto limitato ad uno.
5. Il componente della Commissione che ritiene di essere interessato alla natura dell’inchiesta, direttamente o per interposti rapporti, ha l’obbligo di farlo presente alla Commissione che, a maggioranza dei suoi componenti, delibera sull’esistenza dell’incompatibilità. Il componente, per il quale e accertata l’incompatibilità, anche su segnalazione di terzi, viene sostituito con la procedura di cui al presente articolo.
6. Per la validità delle sedute della Commissione è necessaria la presenza di almeno un terzo dei suoi componenti.
7. La Commissione può deliberare di articolarsi in gruppi di lavoro.
8. I lavori della Commissione sono raccolti a verbale dagli stenografi che possono avvalersi del sussidio di apparecchi di registrazione. I verbali e le registrazioni fanno parte degli atti dell’inchiesta.

Art. 5

1. Ferme le competenze dell’autorità giudiziaria, per le audizioni a testimonianza davanti alla Commissione si applicano le disposizioni degli articoli 366 e 372 del codice penale.
2. Di fronte alla Commissione non possono essere eccepiti il segreto d’ufficio, professionale e bancario.
3. È sempre opponibile il segreto tra difensore e parte processuale nell’ambito del mandato.

Art. 6

1. La Commissione può chiedere, anche in deroga al divieto stabilito dall’articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri organi inquirenti, nonché copie di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari. Se l’autorità giudiziaria, per ragioni di natura istruttoria, ritiene di non poter derogare al segreto di cui al citato articolo 329 del codice di procedura penale, emette decreto motivato di rigetto.
Quando tali ragioni vengano meno, l’autorità giudiziaria provvede a trasmettere quanto richiesto.
2. Qualora gli atti o i documenti richiesti siano stati assoggettati a vincolo di segreto funzionale da parte di Commissioni d’inchiesta, detto segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria ed alla Commissione istituita con la presente legge.
3. La Commissione stabilisce quali atti e documenti non dovranno essere divulgati, anche in relazione ad esigenze attinenti ad altre istruttorie o inchieste in corso. Devono, in ogni caso, essere coperti dal segreto gli atti e i documenti attinenti a procedimenti giudiziari in fase istruttoria.

Art. 7

1. I componenti la Commissione, i funzionari ed il personale di qualsiasi ordine e grado addetti alla Commissione stessa ed ogni altra persona che collabora con la Commissione o compie o concorre a compiere atti di inchiesta oppure ne viene a conoscenza per ragioni d’ufficio o di servizio, sono obbligati al segreto per tutto quanto riguarda le disposizioni, le notizie, gli atti e i documenti acquisiti al procedimento d’inchiesta.
2. Salvo che il fatto costituisca un più grave reato, la violazione del segreto è punita a norma dell’articolo 326 del codice penale.
3. Le stesse pene si applicano a chiunque diffonda, in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, notizie, disposizioni, atti o documenti del procedimento d’inchiesta in svolgimento, salvo che per il fatto specifico siano previste pene più gravi.

Art. 8

1. L’attività e il funzionamento della Commissione sono disciplinati da un regolamento interno approvato dalla Commissione, a maggioranza dei due terzi dei
componenti, prima dell’avvio del procedimento d’inchiesta. Ciascun componente può proporre la modifica dei testi in esame prima dell’approvazione.
2. Tutte le volte che lo ritenga opportuno la Commissione può riunirsi in seduta segreta.

Art. 9

1. La Commissione può avvalersi dell’opera di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e delle collaborazioni che ritenga necessarie, previa verifica della compatibilità dei costi con le Presidenze delle due Camere.

Art. 10

1. Le spese per il funzionamento della Commissione sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati.

Art. 11

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

    Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – Il presente disegno di legge nasce dalla constatazione che ci sono zone nel territorio italiano che a causa della loro ubicazione geografica rimangono estremamente isolate o escluse dal processo autonomistico.
    A tale situazione di isolamento si aggiunge talvolta anche una scarsa popolazione che a norma del comma 1 dell’articolo 15 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, impedisce di istituire nuovi comuni laddove la popolazione è inferiore a 10.000 abitanti.
    In tal modo si nega il principio dell’autonomia e un’adeguata rappresentatività amministrativa ai residenti di queste zone.
    Tale disposizione sicuramente non agevola quanto precedentemente rappresentato; basti pensare che da uno studio ANCITEL del 18 febbraio 2002 è stato possibile evincere che in Italia i comuni con una popolazione inferiore a 5.000 abitanti sono circa 6.000 e addirittura ci sono circa 2.000 comuni che contano meno di 1.000 abitanti.
    In questa prospettiva il presente disegno di legge trova la sua ratio nella necessità di offrire adeguati strumenti di rappresentatività a tutta quella fascia di popolazione che altrimenti rimarrebbe isolata e lontana dalle istituzioni.
    Ciò risponde peraltro anche alla riforma costituzionale apportata con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, con la quale si è disposta l’autonomia dei comuni conferendo a questi ultimi il potere di provvedere alla propria organizzazione con l’unico vincolo di ossequio ai princìpi costituzionali.
    Non vanno dimenticate, inoltre, le profonde trasformazioni del Paese che in questi ultimi cinquanta anni ha dovuto assistere all’abbandono delle zone di montagna e di collina nonché alla nascita di nuovi insediamenti produttivi ai margini dei comuni già esistenti.
    Tali popolazioni hanno svolto il ruolo di «pionieri» di uno sviluppo tumultuoso che ha sofferto inizialmente i deficit dell’offerta di servizi e successivamente la «lontananza» del comune con conseguenti, inevitabili, difficoltà per ottenere risposte adeguate alle numerose domande dei nuovi siti.
    Si ritiene pertanto opportuno introdurre una modifica all’articolo 15 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in materia d’istituzione di nuovi comuni, prevedendo la possibilità che questi possano essere istituiti anche laddove la popolazione sia pari a 5.000 abitanti.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.

1. All’articolo 15, comma 1, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la parola: «10.000» è sostituita dalla seguente: «5.000».

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29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – Nel gennaio del 2002 si è costituita l’AICOS, Associazione italiana consulenti ed operatori della sicurezza, con l’intento di farsi portavoce di tutti coloro che vogliono poter operare legalmente nel settore della sicurezza.
    È stato constatato, per esperienze personali e per notizie ufficialmente riscontrabili, che in quasi tutti gli Stati europei ed in gran parte del resto del mondo, la sicurezza privata è una professione riconosciuta legalmente, regolamentata dalla legge ed utilizzata in diversi campi dai privati cittadini, sollevando in molti casi lo Stato da compiti di vigilanza che occupano spesso uomini utili in altri servizi per la comunità. In Italia, in realtà, la sicurezza privata è presente ed agisce da molti decenni, come chiunque può facilmente constatare recandosi a manifestazioni, congressi, spettacoli, locali notturni, oppure facendo attenzione a chi si preoccupa dell’incolumità dei cosiddetti «vip», quando si spostano in veste privata od ufficiale. Queste attività, tuttavia, vengono svolte nella perfetta illegalità, senza la possibilità quindi di valutare l’idoneità, la preparazione specifica dell’operatore, né di controllare la qualità del suo operato e la sua posizione fiscale.
    L’intento che la citata associazione si pone è solo quello di dare una forma ufficiale e legale a ciò che da decenni esiste nell’ombra dell’illegalità e dell’assoluta mancanza di regole e controlli. Si crede, in questo modo, di rendere un servizio ai cittadini, che sapranno sempre di rivolgersi a persone preparate a svolgere questi delicati servizi e che potranno rivalersi legalmente in caso così non fosse. Tale servizio è reso anche allo Stato, riducendo la disoccupazione, aumentando gli introiti e, passando ai privati l’incarico di provvedere ai servizi di sicurezza personali o di eventi, consentendo di recuperare organico più utile in altre attività sul territorio. Si considera naturalmente necessario che la supervisione ed il controllo del nostro operato sia dello Stato, ovvero degli organi da esso preposti, con il quale si vuole instaurare un rapporto di collaborazione subordinata. Nessuno quindi pensa di sostituirsi alle forze dell’ordine, al contrario si intende operare sotto il loro controllo e coadiuvarle, se richiesto, nel loro operato rendere, quindi, un miglior servizio al cittadino, con un minore impegno economico dello Stato.
    È stato strutturato un programma che segua l’agente di sicurezza privata dalla sua formazione fino alla fine dell’attività operativa, che prevede l’istituzione di scuole, di programmi di addestramento, di esami di qualifica, di documenti di riconoscimento, di ambiti di competenza, di aggiornamenti periodici, con l’intento di realizzare i seguenti obiettivi:
        –  il riconoscimento delle figure dell’agente di sicurezza e dell’agente di scorta;
        –  la creazione di un albo professionale e di organi provinciali che si occupino dell’organizzazione burocratica e della definizione dei prezzi;
        –  la possibilità di essere chiaramente identificati e riconosciuti;
        –  la possibilità di potersi difendere e di difendere terzi e le modalità per farlo;
        –  il riconoscimento delle scuole che si occupano della formazione;
        –  la possibilità di operare su tutto il territorio nazionale e, ove fosse richiesto, in campo internazionale;
        –  la possibilità di collaborare con le Forze dell’ordine.
    Il conseguimento dei predetti obiettivi è stato finora negato dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, che al titolo I, capo I, articolo 1, comma 1 recita:
    «L’autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà».
    Crediamo che l’Autorità di pubblica sicurezza possa decidere chi possa svolgere questi compiti e che sia meglio regolamentare questo settore piuttosto che far finta che questa massa di lavoratori non esista.
    Si propone, pertanto, un esame attento del presente disegno di legge.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Dipartimento scorte e sicurezza privata)


    1. Nell’ambito del Ministero dell’interno è istituito il Dipartimento scorte e sicurezza privata, di seguito denominato «Dipartimento».
    2. Presso il Dipartimento hanno sede:
        a) l’albo nazionale degli agenti di scorta e degli agenti di sicurezza privata;
        b) l’ufficio amministrativo.


Art. 2.
(Albo nazionale degli agenti di scorta e degli agenti di sicurezza privata. Consiglio degli ordini professionali nazionali. Ordini professionali nazionali e provinciali)


    1. L’accesso all’albo nazionale degli agenti di scorta e degli agenti di sicurezza privata, di seguito denominato «albo nazionale», è subordinato al superamento dell’esame, presso una delle scuole riconosciute dal Ministero dell’interno.
    2. Gli iscritti all’albo nazionale sono abilitati all’esercizio della professione su tutto il territorio nazionale, in base alla qualifica conseguita. Per l’attività svolta all’estero, si applicano le norme vigenti nel luogo dove essa si svolge.
    3. Sono costituiti gli ordini professionali nazionali, per ciascuna delle qualifiche di cui all’articolo 6, e gli ordini professionali provinciali degli agenti di scorta e di sicurezza privata, nei quali sono iscritti gli appartenenti all’albo nazionale in base alla residenza e alla qualifica.
    4. Agli ordini professionali, ciascuno per tipo di qualifica e per competenza territoriale, sono conferite le seguenti funzioni:
        a) verifica della permanenza delle condizioni di idoneità amministrativa e del corretto svolgimento dell’attività dei propri iscritti;
        b) vigilanza al fine di evitare che si verifichino di episodi di esercizio abusivo della professione di agente di scorta e di sicurezza privata.
    5. Gli ordini professionali nazionali possono adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei propri iscritti, su proposta degli ordini professionali provinciali.
    6. Il consiglio degli ordini professionali nazionali, composto da membri di ciascun ordine nazionale, stabilisce con cadenza annuale:
        a) l’entità della quota associativa prevista per il rinnovo dell’iscrizione agli ordini stessi;
        b) i compensi spettanti ai propri iscritti impiegati nei vari uffici e commissioni;
        c) le decisioni sui ricorsi presentati dagli iscritti sui provvedimenti sanzionatori adottati a loro carico dagli organi preposti, prevedendo, nei casi più gravi, l’espulsione dall’ordine di appartenenza e la radiazione dall’albo nazionale ovvero annullando l’efficacia dei provvedimenti stessi.
    7. Avverso le decisioni dei consigli degli ordini professionali provinciali, in merito ai provvedimenti disciplinari, è ammesso ricorso gerarchico; avverso la decisione del consiglio nazionale degli ordini professionali è ammesso ricorso al Ministro dell’interno.
    8. Gli ordini professionali provinciali stabiliscono annualmente i tariffari minimi per le singole prestazioni per conto terzi da parte degli iscritti, che sono vincolanti per il proprio territorio di competenza.
    9. Gli ordini professionali, nel proprio ambito di competenza, provvedono altresì a promuovere l’attività di formazione e di qualificazione professionale. Essi esprimono pareri obbligatori, ma non vincolanti, agli organi superiori su proposte volte a migliorare il lavoro dei propri iscritti.
    10. I consigli degli ordini professionali nazionali sono composti da cinque membri ciascuno, eletti tra gli iscritti all’albo nazionale in rappresentanza di tutto il territorio dello Stato, e rimangono in carica per un anno. All’interno di ogni consiglio sono eletti il presidente ed il segretario.


Art. 3.
(Commissione tecnica)


    1. Presso il Ministero dell’interno è istituita la commissione tecnica, costituita da:
        a) un membro nominato dal Comandante generale dei Carabinieri;
        b) un membro nominato dal Capo della Polizia;
        c) un membro nominato dall’Ispettore generale capo dei Vigili del fuoco;
        d) un membro nominato dal Ministro della salute;
        e) un membro nominato dal Consiglio superiore della magistratura.
    2. La commissione tecnica di cui al comma 1 ha il compito di:
        a) concedere ovvero rifiutare lo status di «centro di formazione per agenti di scorta e agenti di sicurezza privata» alle scuole che ne faranno richiesta alla commissione medesima. La selezione si effettua sui piani didattici, sui curriculum dell’ente e del personale, e sul grado di addestramento raggiunto dagli allievi;
        b) inviare a propria discrezione i propri ispettori nelle sedi delle scuole prescelte, che hanno l’obbligo di presentare rapporto alla commissione;
        c) verificare, in caso di rapporto negativo, che esistano ancora le condizioni per il mantenimento dello status, indicare le carenze eventualmente riscontrate ed i tempi per rimuoverle;
        d) revocare lo status in casi di gravi inadempienze o di mancato rientro nei parametri stabiliti.
    3. Le scuole possono ricorrere in ordine gerarchico in caso di provvedimenti disciplinari; avverso la decisione della commissione tecnica è ammesso ricorso al Ministro dell’interno.
    4. Le scuole che perdono i requisiti necessari ai fini del riconoscimento dello status di cui al comma 2, lettera a), possono comunque ripresentare domanda sempre presso la commissione tecnica.


Art. 4.
(Requisiti)


    1. Il cittadino appartenente agli Stati dell’Unione europea, che intenda iscriversi ad una delle scuole riconosciute dallo Stato per il rilascio della licenza di agente di scorta e di agente di sicurezza privata, deve essere in possesso dei seguenti requisiti:
        a) idoneità psico-fisica, tramite presentazione della relativa certificazione, in corso di validità, rilasciata dalla competente autorità sanitaria;
        b) certificato del casellario giudiziario risultante negativo per i reati non colposi inerenti violenza, armi, esplosivi, stupefacenti, associazione per delinquere di stampo mafioso;
        c) abilitazione all’uso delle armi rilasciata dai competenti organi iscritti al tiro a segno nazionale.


Art. 5.
(Ufficio amministrativo)


    1. L’ufficio amministrativo del Dipartimento sovrintende all’attività di tutti gli agenti iscritti all’albo nazionale, nonché all’attività di tutti gli uffici del Dipartimento stesso. In particolare:
        a) cura la tenuta dell’albo nazionale;
        b) provvede all’aggiornamento dell’albo professionale, in base alle licenze rilasciate dalle scuole autorizzate, ai provvedimenti di radiazione o sospensione proposte dagli ordini professionali nazionali o provinciali, alle richieste di cancellazione degli iscritti, alla cancellazione degli iscritti deceduti;
        c) provvede a comunicare agli ordini professionali i nuovi iscritti all’albo nazionale.
    2. L’ufficio amministrativo provvede altresì al conio della placca metallica di riconoscimento e alla stampa delle tessere di identificazione di cui all’articolo 7.
    3. L’ufficio amministrativo è composto da personale del Ministero dell’interno.
    4. Sui provvedimenti disposti dall’ufficio amministrativo è previsto il ricorso al Ministero dell’interno.


Art. 6.
(Qualifiche)


    1. Le qualifiche professionali sono:
        a) agente di scorta;
        b) agente di sicurezza privato.
    2. La qualifica di agente di scorta comprende quella di agente di sicurezza privato.
    3. L’agente di sicurezza privato può qualificarsi agente di scorta, in seguito all’esito positivo del corso di studio specifico.
    4. Ottenuta una delle qualifiche di cui al comma 1, l’agente presta giuramento presso l’apposito ufficio del Dipartimento secondo la formula di cui all’articolo 5 della legge 23 dicembre 1946, n. 478.
    5. È fatto divieto assoluto a qualunque cittadino italiano privo delle qualifiche di cui al comma 1, di svolgere le mansioni inerenti alle qualifiche medesime.
    6. I cittadini stranieri, non in possesso dell’abilitazione di cui alla presente legge, che si trovano sul territorio nazionale in ottemperanza a rapporti di lavoro intrapresi all’estero con committenti stranieri, ovvero non residenti in Italia, previa autorizzazione del Dipartimento, possono svolgere l’attività di cui al presente articolo, purché non in modo continuativo.
    7. Il presente articolo non si applica al personale delle forze dell’ordine di paesi stranieri, operanti sul territorio nazionale per motivi di servizio. Il controllo della loro attività è di competenza del Ministero dell’interno ai sensi della vigente normativa nazionale e degli accordi internazionali.
    8. Non è consentito l’esercizio della professione agli appartenenti al Corpi armati dello Stato e ai dipendenti della pubblica amministrazione che, in relazione alle proprie mansioni, svolgono funzioni di controllo sulle attività di cui alla presente legge.


Art. 7.
(Tessera di identificazione e
placca metallica)


    1. Durante lo svolgimento del servizio, il titolare della licenza di scorta o di sicurezza privata porta con sè una tessera di identificazione ed una placca metallica.
    2. La tessera di identificazione di cui al comma 1 reca:
        a) foto;
        b) nome e cognome;
        c) luogo e data di nascita;
        d) numero telefonico da contattare in caso di emergenza;
        e) numero telefonico dell’ufficio del Dipartimento presso il quale chiedere conferme dei dati della tessera;
        f) gruppo sanguigno;
        g) eventuali allergie;
        h) qualifica;
        i) numero di iscrizione all’albo professionale nazionale;
        l) simbolo del Dipartimento;
        m) simbolo e bandiera nazionale ed europea.
    3. La placca di cui al comma 1 reca:
        a) numero di iscrizione all’albo nazionale;
        b) simbolo del Dipartimento;
        c) simbolo e bandiera nazionale ed europea.
    4. Gli agenti di cui agli articoli 8 e 9, nello svolgimento del servizio in divisa, devono esporre la placca metallica.
    5. La tessera di cui al presente articolo è da considerarsi documento di identificazione personale.


Art. 8.
(Agente di sicurezza privato)


    1. L’agente di sicurezza privato, nell’esercizio delle proprie funzioni, vigila sul buon andamento della normale attività di sicurezza di cui al comma 2 presso i luoghi pubblici o privati aperti al pubblico, che costituiscono aree adibite a spettacolo, intrattenimento culturale, riunione scientifica, manifestazione politica, evento sportivo o comunque di concentrazione di persone. Dirime pacificamente i dissidi e le controversie tra privati, impedendo, anche con la forza se necessario, che si verifichino situazioni pericolose per l’incolumità dei contendenti o degli astanti ovvero del successo dell’evento stesso, avvertendo e coadiuvando, ove richiesto, l’intervento delle forze dell’ordine.
    2. Ai fini del presente articolo, per attività di sicurezza in luoghi pubblici o privati aperti al pubblico si intende, altresì:
        a) il controllo degli accessi;
        b) l’osservazione dinamica e la prevenzione di circostanze che possano recare danno alle persone o alle cose.
    3. Salvo quanto disposto dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, nell’ambito dei luoghi ove esercita il proprio servizio, l’agente di sicurezza svolge altresì attività di verifica e controllo dell’adempimento di tutte le norme di sicurezza relative ai dispositivi antincendio ed antinfortunistiche in genere, segnalando agli organi competenti eventuali situazioni di rischio per l’incolumità e la salute pubbliche. Qualora sia necessario, egli provvede con solerzia alla richiesta di intervento degli enti preposti.
    4. L’agente di sicurezza, nell’adempimento del proprio servizio, è punto di riferimento in caso di emergenza sanitaria e, in base alla preparazione che ha ricevuto, provvede ad un intervento di primo soccorso ovvero fare intervenire l’autorità medica.


Art. 9.
(Agente di scorta)


    1. L’agente di scorta svolge la propria attività nella tutela dell’integrità psicofisica del committente.
    2. L’attività di tutela di cui al comma 3 svolta dall’agente di scorta si svolge nel rispetto della normativa vigente. L’agente non deve mai eseguire ordini eventualmente ricevuti in contrasto con la normativa medesima; in caso contrario, se ne assume la responsabilità. Esclusivamente nei casi di pericolo di vita l’agente può intraprendere comportamenti illegali purché non lesivi della sicurezza di terzi.
    3. Ai fini del presente articolo, per attività di tutela si intende:
        a) l’accompagnamento della persona soggetta a tutela in tutti i luoghi frequentati dalla stessa;
        b) la messa in atto di tutte le misure adatte a preservare l’incolumità psicofisica della persona scortata, compresa la reazione anche violenta proporzionalmente all’entità dell’attacco;
        c) la raccolta di tutte le informazioni, ovvero l’effettuazione di sopralluoghi, utili a valutare il grado di sicurezza dei luoghi e dei percorsi in cui dovrà svolgere il proprio servizio;
        d) la consulenza tecnica e legale sulla protezione delle persone;
        e) l’intervento, in caso di emergenza medica, di primo soccorso ovvero far intervenire l’autorità medica.
    3. L’agente di scorta può svolgere la sua attività anche nei confronti di enti pubblici, sotto il controllo ed il coordinamento degli organi istituzionalmente preposti.
    4. L’agente di scorta svolge la sua attività senza fare uso di divisa.


Art. 10.
(Armi)


    1. Il titolare di una delle qualifiche di cui all’articolo 6 può portare per difesa armi corte, lunghe e bianche purché non catalogate come armi militari, nonché di tutti i dispositivi di difesa non catalogati come armi.
    2. La tessera di identificazione di cui all’articolo 7 è documento valido per il porto e l’acquisto di armi, di munizioni e del relativo materiale di ricarica presso le rivendite autorizzate previa compilazione di un apposito modulo redatto in tre copie, di cui una è trattenuta dal rivenditore, una dal titolare della licenza, una è inviata tempestivamente presso il domicilio di pubblica sicurezza di cui all’articolo 11, comma 6, a cura del titolare della licenza stessa.
    3. Ai fini del mantenimento della licenza, il titolare deve compiere non meno di due sessioni annuali di addestramento presso i centri autorizzati iscritti al tiro a segno nazionale, provvedendo a darne notizia all’ordine provinciale competente.
    4. L’utilizzo delle munizioni ricaricate è consentito esclusivamente per attività addestrative.
    5. Il titolare di licenza è responsabile del corretto funzionamento delle armi a sua disposizione, che devono corrispondere sempre alle caratteristiche per cui sono state omologate.


Art. 11.
(Svolgimento del servizio)


    1. All’accettazione dell’incarico ed alla fine dello stesso, il titolare di licenza provvede tempestivamente a darne notizia al proprio domicilio di pubblica sicurezza, indicando gli estremi del servizio.
    2. Il titolare di licenza, nell’ambito del servizio acquisito, è tenuto ad accertarsi, avvalendosi anche delle informazioni che lecitamente gli enti pubblici possono fornirgli, che lo stesso non persegua fini illeciti.
    3. Qualora la persona o l’ente incaricante persegua fini criminosi, è fatto assoluto divieto di prestare alcuna opera lavorativa per conto di esso e, all’atto dell’accertamento, ogni contratto, in corso di validità o pregresso, è da considerarsi nullo.
    4. In ogni caso l’accertante è tenuto alla tempestiva segnalazione del fatto di cui al comma 3, all’autorità giudiziaria.
    5. I titolari degli istituti che, per le attività degli agenti in possesso delle qualifiche di cui all’articolo 6, intendono assumere più unità munite di licenza, comunicano al Dipartimento i nominativi degli agenti che intendono assumere alle proprie dipendenze, i dati identificativi dell’istituto, compreso il domicilio fiscale, le attività da effettuare ed i mezzi impiegati, il numero di iscrizione all’albo nazionale del personale ed il relativo domicilio di pubblica sicurezza.
    6. Per domicilio di pubblica sicurezza si intende il comando di pubblica sicurezza che il titolare di una delle licenze di cui all’articolo 6 sceglie, nell’ambito della provincia di residenza, come autorità competente per quanto attiene alle comunicazioni di polizia amministrativa.
    7. Qualora il titolare di istituto di cui al comma 5 non sia titolare di licenza di cui all’articolo 6, delega i compiti previsti dal medesimo comma 5 ad un proprio dipendente nominandolo titolare esclusivamente per le sole competenze di polizia amministrativa.
    8. Il titolare di istituto deve comunicare tempestivamente ogni variazione riguardante le notizie di cui al comma 5, al Dipartimento.
    9. Il titolare di istituto deve inoltre adempiere ai compiti amministrativi per conto dei propri dipendenti, ad esclusione di quanto previsto agli articoli 10 e 17 e dal comma 10 del presente articolo.
    10. L’agente di scorta e l’agente di sicurezza privato svolgono la propria attività come libero professionista, o alle dipendenze di enti pubblici o privati. Essi provvedono comunque a stipulare una polizza assicurativa personale integrativa per la copertura dei rischi personali e per la responsabilità civile, con copertura minima di 2.582.284 euro, provvedendo a depositarne una copia presso l’ordine provinciale competente.


Art. 12.
(Corsi di specializzazione ed aggiornamento)


    1. Le scuole di formazione autorizzate ai sensi dell’articolo 3, comma 2, lettera a), svolgono corsi di specializzazione e aggiornamento su programmi didattici autorizzati dall’ufficio amministrativo di cui all’articolo  5.
    2. I corsi di specializzazione sono rivolti ai titolari di licenza, per approfondire e rinnovare una o più delle materie studiate durante il corso di formazione. L’agente di scorta e l’agente di sicurezza privato sono tenuti alla frequenza di uno dei corsi almeno con cadenza annuale e con superamento dello stesso. La durata dei corsi non può essere superiore ai tre giorni.
    3. I corsi di aggiornamento sono indetti dall’ufficio amministrativo di cui all’articolo 5 ed organizzati in coordinamento con le scuole, in coincidenza di ogni modifica normativa del settore. I corsi di aggiornamento sono obbligatori e devono essere svolti entro un mese dalla avvenuta modifica normativa.
    4. Il costo dei corsi di cui al presente articolo è fiscalmente deducibile dai titolari di licenza.
    5. In caso di mancata adesione ad un corso di specializzazione o di aggiornamento, ovvero in caso di mancato superamento dei corsi di cui al comma 2, la licenza è sospesa fino al superamento di uno dei corsi di cui al medesimo comma 2.


Art. 13.
(Rapporti con le Forze dell’ordine)


    1. Il possessore di una delle licenze di cui all’articolo 6, nell’esercizio delle proprie funzioni, è sottoposto all’attività di controllo del dipartimento di pubblica sicurezza.
    2. L’agente di polizia privata è tenuto ad esibire la propria tessera di identificazione ad ogni membro delle Forze dell’ordine che ne faccia specifica richiesta.
    3. Qualora particolari circostanze di gravità ed urgenza lo richiedano, l’agente di polizia privata è tenuto a porsi a disposizione degli appartenenti alle Forze dell’ordine che ne facciano espressa richiesta nell’esercizio delle proprie funzioni.


Art. 14.
(Divisa e dispositivi di protezione personali)


    1. Gli agenti di cui all’articolo 8 sono tenuti a svolgere il proprio servizio in divisa.
    2. Gli agenti di cui all’articolo 9 possono svolgere il proprio servizio in abiti borghesi.
    3. Le divise previste per gli agenti di cui all’articolo 8 sono simili per tutto il territorio nazionale, ad eccezione delle indicazioni di identificazione personali e dell’istituto per cui si svolge l’attività, e sono approvate dall’ufficio amministrativo.
    4. È fatto comunque obbligo a tutti i titolari di licenza di cui all’articolo 6, di utilizzare, nello svolgimento del proprio servizio, indumenti e dispositivi di protezione tenuti in modo appropriato e decoroso, al fine di garantire la sicurezza di chi li indossa.


Art. 15.
(Norme di comportamento)


    1. Salvi i princìpi di legittima difesa, agli agenti di scorta e agli agenti di sicurezza privata non è consentito l’uso della forza; in ogni caso le misure adottate devono essere commisurate all’entità del rischio.
    2. Per i titolari di licenza di cui all’articolo 9, nell’ambito dell’esercizio del proprio servizio, il principio di legittima difesa è esteso alla persona o alle persone di cui si è assunta la tutela.
    3. Per i titolari di licenza di cui all’articolo 8, nell’ambito dell’esercizio del proprio servizio, il principio di legittima difesa è esteso alle persone presenti all’evento di cui è chiamato a salvaguardare l’ordine e la sicurezza, che stiano subendo comportamenti violenti.
    4. Nell’ambito esclusivo della competenza del servizio che è chiamato a svolgere, l’agente di polizia privata è tenuto ad operare il fermo dei cittadini colti in flagranza di reato provvedendo alla tempestiva segnalazione dell’accaduto alle autorità di pubblica sicurezza competenti, alle quali l’assoggettato al fermo deve essere consegnato nel più breve tempo possibile, affinché vengano presi i provvedimenti del caso
    5. È fatto assoluto divieto ai possessori di licenza di cui all’articolo 6 di porre in essere comportamenti che possano arrecare ingiustificato allarme ovvero danno all’ordine ed alla salute pubblica.


Art. 16.
(Dispositivi di segnalazione)


    1. Ai titolari di una delle licenze di cui all’articolo 6 è consentito l’utilizzo, durante il servizio, di dispositivi di segnalazione luminosi a intermittenza fissi e mobili, da utilizzare a bordo dei mezzi di trasporto e di palette segnaletiche.
    2. Il titolare di licenza deve preventivamente denunciare i dispositivi di cui al presente articolo alle autorità di pubblica sicurezza competenti.
    3. Per quanto riguarda i dispositivi di segnalazione in uso agli agenti di polizia privata, non sono concesse deroghe a quanto stabilito dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni.
    4. Il Ministro dell’interno, con propria circolare da emanare entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, stabilisce i colori da utilizzare per i dispositivi e per le palette di cui al comma 1, uguali per tutto il territorio nazionale ma diversi da quelli delle Forze dell’ordine.


Art. 17.
(Validità delle licenze)


    1. Le licenze di cui all’articolo 6 non sono soggette a scadenza, purché il titolare dimostri il permanere dei requisiti di cui al comma 1, lettera a), dell’articolo 4, con scadenza biennale.
    2. Il titolare delle licenze di cui all’articolo 6, al fine della conservazione del titolo, deve altresì presentare all’ordine provinciale di competenza, la certificazione di cui all’articolo 4, comma 1, lettera b), con cadenza annuale, allegando la ricevuta di versamento di 26 euro sul conto corrente intestato alla Tesoreria generale dello Stato.


Art. 18.
(Sanzioni)


    1. Salvo che il fatto costituisca reato, la violazione delle disposizioni previste dalla presente legge è punita con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con multa da 258 euro a 2.582 euro.
    2. La violazione delle disposizioni previste dalla presente legge è, altresì, punibile con la sospensione fino a un mese o con la revoca definitiva delle licenze di cui all’articolo 6.


Art. 19.
(Imposte)


    1. Sulle prestazioni su conto terzi fornite dagli agenti di cui all’articolo 6 è applicata l’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto pari al 4 per cento.


Art. 20.
(Raccolta e trattamento dei dati)


    1. Salvo quanto disposto dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, su eventuali danni recati da un uso distorto dei dati raccolti, l’agente di polizia privata è autorizzato al trattamento dei dati anche senza il consenso dell’interessato, salvo poterne dimostrare l’assoluta necessità al fine di espletare le mansioni previste dalla presente legge e dal mandato del committente.
    2. Salvo specifiche autorizzazioni dell’interessato, i dati raccolti in ottemperanza del mandato ricevuto non possono essere utilizzati una volta ultimato l’incarico, salvo che in sede giudiziaria da parte dell’agente di polizia privata per la difesa di un proprio diritto ovvero per dimostrare il proprio buon operato.
    3. Il titolare di licenza di cui all’articolo 6 è tenuto, inoltre, ad adottare modalità idonee a garantire la riservatezza della documentazione raccolta durante il servizio, conservandola per almeno 5 anni.


Art. 21.
(Norme transitorie)


    1. Entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro dell’interno provvede all’istituzione degli uffici di cui all’articolo 1.
    2. Entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro dell’interno provvede, con proprio decreto, a stabilire la forma e le dimensioni e la disposizione del contenuto della tessera e della placca di cui all’articolo 7, unitamente al simbolo del Dipartimento.
    3. A decorrere dal dodicesimo mese successivo alla data di entrata in vigore della presente legge, gli iscritti all’albo nazionale di cui all’articolo 2 provvedono, ciascuna per competenza di qualifica e di territorio, ad eleggere in apposite assemblee indette dalle locali questure, gli organi degli ordini professionali provinciali.
    4. Entro un mese dalla loro costituzione, gli ordini professionali provinciali provvedono alle elezioni dei rispettivi ordini professionali provinciali.
    5. Fino alla completa costituzione degli organi elettivi e dei rispettivi uffici l’attività organizzativa spettante agli ordini professionali è svolta a livello provinciale dalle questure competenti per territorio ed a livello nazionale dall’ufficio amministrativo di cui all’articolo 5.
    6. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro dell’interno di concerto con il Ministro della salute provvede all’effettuazione della gara di appalto per il riconoscimento delle scuole che potranno svolgere attività di formazione per l’ottenimento delle licenze di cui all’articolo 6.
    7. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i cittadini in possesso di qualifiche o diplomi rilasciate da scuole non ancora riconosciute possono chiedere l’ottenimento delle licenze di cui all’articolo 6 previo superamento con esito positivo di un esame indetto una tantum dal Ministro dell’interno con proprio decreto.


Art. 22.
(Entrata in vigore)


    1. La presente legge entra in vigore sei mesi dopo la data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

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29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – A cinquant’anni dall’International Geophysical Year, svoltosi nel 1957-58, che ha determinato un grandioso avanzamento sulla conoscenza del pianeta e della regione antartica in particolare, la comunità scientifica internazionale ha proposto per il 2007-2008 l’International Polar Year (IPY). Esso avrà luogo con osservazioni e ricerche in Artide e Antartide dal 1º marzo 2007 al 1º marzo 2009 e costituirà una formidabile occasione di studio per la comunità scientifica mondiale, che già da tempo si sta muovendo per definire ed organizzare le attività collegate. In particolare, l’International council of scientific union (ICSU) dell’UNESCO e la World meteorological organization (WMO) dell’ONU hanno costituito un comitato congiunto per quello che sarà il quarto Anno polare internazionale della Storia. Il primo, nel 1882-83, vide dodici spedizioni in Artico e tre in Antartide. Il secondo ebbe luogo cinquanta anni più tardi, nel 1932-33, e si segnalò per gli studi sui fenomeni di magnetismo, sulle aurore e osservazioni meteorologiche. Il terzo, già citato, dette grande risalto alle ricerche polari e spaziali. L’Anno polare consiste in un programma coordinato a livello internazionale di ricerca scientifica interdisciplinare, con osservazioni nelle regioni polari del pianeta. In particolare esso ha il fine di indagare lo stato dell’ambiente di Artide e Antartide e le variazioni intercorse in termini temporali e spaziali; quantificare e studiare i cambiamenti ambientali e l’impatto dell’uomo sugli stessi; utilizzare i vantaggi unici rappresentati dalle regioni polari per le osservazioni geofisiche sul campo magnetico terrestre. L’Anno polare rappresenterà infine una eccellente occasione per studiare la sostenibilità delle società sviluppatesi ai margini delle regioni polari, la loro cultura ed il loro contributo alla diversità culturale globale. Il comitato congiunto ICSU-WMO ha lo scopo di coordinare le attività scientifiche internazionali nelle regioni polari ed ha prodotto un framework contenente i criteri mediante i quali verranno valutate le proposte di ricerca scientifica al fine del riconoscimento come attività per l’IPY. I progetti che si svolgeranno sotto l’egida dell’IPY dovranno distinguersi dalle attività che ordinariamente vengono condotte dai programmi nazionali e rispondere, viceversa, a criteri di internazionalità, unicità ed eccezionalità. Hanno aderito all’IPY trentanove nazioni che hanno provveduto a costituire i loro comitati nazionali. Fra queste vi sono tutte le maggiori nazioni del mondo, incluse alcune senza una particolare tradizione di ricerca nelle regioni polari. Nel 2004 su iniziativa della Commissione scientifica nazionale per l’Antartide (CSNA) è stato costituito il Comitato nazionale per l’anno polare internazionale con lo scopo principale di agire come punto di contatto nazionale ed internazionale. Il Comitato ha promosso incontri con la comunità scientifica nazionale ed ha garantito la presenza italiana nelle riunioni e nel dibattito internazionale. I ricercatori italiani hanno contribuito alla formulazione (sia come proponenti sia come partecipanti) di oltre il 10 per cento dei progetti sottoposti all’ICSU e ben ventidue tra essi sono stati ritenuti potenzialmente idonei. Ciò conferma la significativa partecipazione italiana e il contributo importantissimo offerto dalla nostra comunità di ricerca ai temi dell’Anno polare internazionale. Tali progetti sono tutti necessariamente basati su collaborazioni internazionali, presentano un elevato grado di multidisciplinarità e notevole carattere innovativo per il progresso delle conoscenze che si estende ben oltre le regioni polari, con particolare riferimento alla ricerca di base e alla ricerca di base orientata allo sviluppo di tecnologie chiave abilitanti a carattere multisettoriale. I settori strategici di riferimento sono l’ambiente, i trasporti, l’energia, l’agroalimentare e la salute, mentre per quelli trasversali trovano riferimento nei nuovi materiali e nanotecnologie, le biotecnologie ed i sistemi di produzione. La notevole rilevanza scientifica delle iniziative proposte è testimoniata anche dall’eccezionalità delle necessità logistiche e dall’ampia distribuzione geografica dei siti di ricerca, il che richiede uno sforzo di coordinamento e di collaborazione a livello internazionale per la compartecipazione dei supporti logistici ed operativi. La progettualità della ricerca italiana riguarda in particolare le attività di ricerca oceanografiche a carattere fisico-chimico e biologico-ecologico (con la conseguente necessità di disporre di navi oceanografiche idonee ad operare in ambiente polare), l’esplorazione geofisica e geologico-marina, la ricerca climatico-ambientale e geologica (in particolare per il continente antartico saranno necessari mezzi idonei a muoversi nell’area più remota ed inesplorata del continente in condizioni climatico-ambientali estreme e con il supporto aereo); campagne di fisica dell’atmosfera, ricerche di astrofisica e sulle relazioni Terra-Sole (con l’installazione di nuova strumentazione di osservazione presso le stazioni polari e lancio di palloni sub-orbitali). Per lo svolgimento dei progetti di ricerca è necessaria inoltre la partecipazione di ricercatori stranieri presso le stazioni scientifiche polari italiane (stazioni «Mario Zucchelli» e «Concordia» in Antartide e stazione «Dirigibile Italia» alle isole Svalbard) così come la partecipazione di ricercatori italiani presso basi e spedizioni di altri Paesi. Gli accordi internazionali preliminari intercorsi fra i ricercatori dei diversi Paesi coinvolti prevedono un contributo italiano in termini logistico-operativi variabile da progetto a progetto, ma che è possibile stimare complessivamente intorno al 10-15 per cento del totale. Complessivamente il fabbisogno per la preparazione e l’attuazione di una adeguata partecipazione italiana alle attività dell’IPY nel periodo marzo 2007 marzo 2009 nonchè per lo studio dei materiali e dei dati raccolti e la elaborazione dei risultati (negli anni 2009 e 2010) è stimato in circa 20 milioni di euro. Il presente disegno di legge prevede, a tal fine, la costituzione di un apposito Comitato nazionale per il coordinamento della partecipazione italiana, che provveda alla selezione dei progetti e alla allocazione delle risorse, identificando l’organismo responsabile dell’attuazione e degli aspetti logistici nel consorzio, già esistente, previsto per le attività italiane in Antartide dal decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 5 marzo 2002, n.  54. Il Comitato nazionale, istituito presso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dovrà elaborare un programma per la partecipazione italiana alle attività di ricerca scientifica dell’Anno polare, indicando il necessario fabbisogno umano e finanziario e garantendo un adeguato livello di internazionalizzazione delle attività di ricerca, assicurando il collegamento con gli organi scientifici dell’Anno polare internazionale ed il coordinamento tra il programma ed eventuali iniziative di ricerca nazionali intraprese al di fuori del programma stesso. Il Comitato, che dovrà presentare una relazione annuale al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e al Parlamento sull’attività svolta (occasione nella quale verranno rendicontati gli impegni delle risorse, le quali dovranno essere disponibili ad inizio d’anno per non pregiudicare le capacità di realizzazione delle ricerche in loco) provvederà inoltre ad acquisire i risultati delle attività scientifiche e tecnologiche. Per il suo alto valore scientifico, è necessario che l’attività di ricerca sia coordinata da un comitato che veda, ai suoi vertici, i massimi vertici istituzionali, in modo da offrire alla comunità scientifica internazionale, il segno tangibile dell’impegno italiano in campo polare. Per questo si prevede che il Comitato sia presieduto dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca o, in sua assenza, da un suo rappresentante. Per il resto la composizione dell’organismo è eminentemente tecnica, esso vede infatti la partecipazione di un rappresentante italiano della WMO un rappresentante italiano dell’ICSU tre esperti scientifici designati dalla CSNA. Ed inoltre esperti scientifici di ricerche in area artica, un esperto di logistica polare ed altre professionalità che potranno garantire la massima qualità anche per quanto riguarda la raccolta e l’elaborazione dei dati e la comunicazione. Per l’attuazione del programma si prevede, come detto, di utilizzare il consorzio di cui all’articolo 4 del citato decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002, con il compito di esprimere pareri sui programmi esecutivi annuali con particolare riferimento ai profili della logistica, del fabbisogno umano e finanziario. Per esprimere pareri sul programma di ricerca (ai fini dell’autorizzazione e del controllo di tutte le iniziative nazionali che vengono intraprese al di fuori del programma e formulare proposte ed esprimere pareri ai fini del coordinamento del programma con i programmi di ricerca degli altri Paesi) si prevede la competenza del Comitato interministeriale per l’Antartide già costituito ai sensi dell’articolo 2 del citato decreto ministeriale 26 febbraio 2002. Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca sono affidati i compiti di approvare il programma proposto dal Comitato nazionale, vigilare sull’attuazione dello stesso (affidata al consorzio) ed emanare direttive per specifiche modalità operative per la migliore attuazione del programma stesso. In conclusione, vista la rilevanza del contributo della comunità scientifica italiana agli obiettivi dell’azione internazionale e nel quadro di un più ampio sostegno alla ricerca, si auspica una rapida approvazione del presente disegno di legge per consentire una efficace partecipazione italiana alle attività dell’Anno polare internazionale 2007-2008.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Finalità)


    1. È autorizzata la partecipazione italiana all’Anno polare internazionale 2007-2008 promosso dall’International council of scientific union (ICSU) e dalla World meteorological organization (WMO) ed alle connesse attività di ricerca scientifica multidisciplinare coordinate a livello internazionale.


Art. 2.
(Comitato nazionale
per l’Anno polare internazionale)


    1. È istituito, presso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Comitato nazionale per l’Anno polare internazionale, di seguito denominato «Comitato» con i compiti di:
        a) elaborare un programma per la partecipazione italiana alle attività di cui all’articolo 1, su base quadriennale, e i relativi programmi esecutivi annuali indicando il necessario fabbisogno umano e finanziario e garantendo un adeguato livello di internazionalizzazione delle attività di ricerca;
        b) assicurare il collegamento con gli organi scientifici dell’Anno polare internazionale anche proponendo le nomine di rappresentanti italiani;
        c) assicurare il coordinamento tra il programma di cui alla lettera a) e le eventuali iniziative di ricerca nazionali che vengono intraprese al di fuori del programma stesso;
        d) determinare l’incidenza percentuale massima rispetto al finanziamento disponibile dei costi di gestione per l’attuazione del programma di cui alla lettera a);
        e) presentare una relazione annuale al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e al Parlamento sull’attività svolta e predisporre gli atti per la stesura della relazione annuale sui risultati scientifici ottenuti;
        f) acquisire i risultati delle attività scientifiche e tecnologiche svolte nell’ambito del programma di attività di cui all’articolo 1 e predisporre i relativi elementi valutativi.
    2. Il Comitato è presieduto dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca o, in sua assenza, da un suo rappresentante ed è composto da:
        a) un rappresentante italiano della WMO;
        b) un rappresentante italiano dell’ICSU;
        c) tre esperti scientifici designati dalla Commissione scientifica nazionale per l’Antartide (CSNA) di cui all’articolo 3 del decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 5 marzo 2002, n. 54;
        d) due esperti scientifici di ricerche in area artica nominati dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca;
        e) un esperto di logistica polare designato dal consorzio di cui all’articolo 3;
        f) un esperto designato dal Museo nazionale per l’Antartide di cui al decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 2 maggio 1996, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 24 agosto 1996, n. 198.
    3. I componenti del Comitato sono nominati con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Il Comitato conclude i propri lavori entro il 31 dicembre 2009.
    4. Alle riunioni del Comitato possono essere invitati esperti delle amministrazioni dello Stato e di altri enti di volta in volta interessati.


Art. 3.
(Consorzio per l’attuazione del programma)


    1. Le funzioni ed i compiti per lo svolgimento delle attività di ricerca scientifica di cui all’articolo 1 sono svolte dal consorzio per l’attuazione del programma di cui all’articolo 4 del citato decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002.
    2. Il consorzio di cui al comma 1 valuta la fattibilità tecnico-logistica dei programmi esecutivi annuali di cui all’articolo 2, con riferimento al fabbisogno umano e finanziario finalizzato all’attuazione.


Art. 4.
(Comitato interministeriale per l’Antartide)


    1. Per esprimere pareri sul programma di ricerca di cui all’articolo 1 nonchè per esprimere il proprio parere ai fini dell’autorizzazione e del controllo di tutte le iniziative nazionali che vengono intraprese al di fuori del programma e formulare proposte ed esprimere pareri ai fini del coordinamento del programma di cui all’articolo 1 con i programmi di ricerca degli altri Paesi che operano in Antartide, è competente il comitato interministeriale per l’Antartide di cui all’articolo 2 del citato decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 26 febbraio 2002.


Art. 5.
(Vigilanza)


    1. Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca sono affidati i compiti di:
        a) approvare il programma di cui all’articolo 2, proposto dal Comitato;
        b) vigilare sull’attuazione del programma di cui all’articolo 2, affidata al consorzio di cui all’articolo 3;
        c) emanare, sentito il Comitato, direttive per specifiche modalità operative per la migliore attuazione del programma;
        d) determinare, di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e degli affari esteri, il trattamento di missione per il personale impegnato nelle ricerche connesse all’Anno polare internazionale.


Art. 6.
(Copertura finanziaria)


    1. All’onere derivante dall’attuazione dell’articolo 1, comprensivo dei costi di gestione di cui all’articolo 2, valutato in 5,5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008, 2009 e 2010, si provvede quanto a 5,5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007 e 2008, mediante corrispondente utilizzo delle proiezioni per i medesimi anni, dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2006-2008, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2006, allo scopo parzialmente utilizzando, per l’anno 2007, l’accantonamento relativo al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e per l’anno 2008, l’accantonamento relativo al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Per gli anni 2009 e 2010 si provvede ai sensi dell’articolo 11, comma 3, lettera d) della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni.
    2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

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29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – In data 5 febbraio 2003 è stato approvato dal Senato il disegno di legge n. 848, divenuto legge 14 febbraio 2003, n. 30, contenente la delega al Governo in materia d’occupazione e mercato del lavoro.
    Trova così una prima fase di realizzazione la riforma del mercato del lavoro, avviata con il libro bianco presentato il 3 ottobre 2001 e finalizzato ad introdurre, anche nel nostro ordinamento, conformemente ai modelli europei e nord americani, strumenti e modelli di flessibilità.
    Le grandi innovazioni cui il testo legislativo prelude abbisognano dell’individuazione di una categoria di soggetti destinatari altamente compatibile con le finalità dell’evoluzione legislativa.
    La categoria dei quadri portatrice di specifiche e qualificate istanze del mondo delle professionalità medio, ha voluto e sostenuto i programmi contenuti nel libro bianco. Essa è pure particolarmente attenta alle innovazioni che si apprestano ad essere introdotte sui temi del mercato del lavoro, dei contratti a contenuto formativo, della certificazione dei rapporti di lavoro.
    L’attuazione di queste previsioni legislative non esiterà a ripercuotersi sugli assetti delle relazioni sindacali-aziendali che da un piano uniforme e collettivo, approderanno verso istanze molto attente agli interessi delle categorie professionali.
    Potremmo assistere a breve ad uno spostamento di equilibri a favore della specificità professionale dei soggetti o di gruppi di soggetti.
    Riteniamo pertanto, che nell’attuale fase di evoluzione normativa, debbano trovare adeguato ruolo i soggetti sindacali che, come i quadri appaiono esponenziali di specifici e significativi settori del mondo del lavoro.
    Per tale motivo, si ritiene che in maniera armonica alla legislazione delegata che farà seguito all’importante provvedimento costituito dalla citata legge n. 30 del 2003, dovrà accompagnarsi apposita normativa che valorizzi ed individui con precisione le attribuzioni dei quadri.
    L’intervento legislativo che viene auspicato si sintetizza nei seguenti termini:
        1) una più specifica definizione della categoria estesa al rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti pubblici che non possa essere disattesa in alcun modo dalle parti;
        2) riconoscimento della rappresentatività anche per le organizzazioni sindacali dei quadri, in particolare negli organismi bilaterali che accompagneranno l’attuazione della citata legge n. 30 del 2003 ed i decreti legislativi che alla stessa faranno seguito.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.


    1. Alla legge 13 maggio 1985, n. 190, sono apportate le seguenti modifiche:
        a) il comma 1 dell’articolo 2 è sostituito dal seguente:
    «1. La categoria dei quadri è costituita dai prestatori di lavoro subordinato alle dipendenze dei datori di lavoro pubblici e privati che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa, nonché da coloro che, sebbene non appartenenti alla categoria dei dirigenti alle dipendenze dei predetti datori di lavoro svolgano compiti che richiedono l’iscrizione ad ordini o albi, quali i professionisti dipendenti. In tale categoria rientrano i vicedirigenti di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 2002, n. 145, e successive modificazioni, ed i ricercatori con responsabilità equivalenti ai quadri cui si applica la presente disciplina.»;
        b) l’articolo 3 è sostituito dal seguente:
    «Art. 3. – 1. Le organizzazioni sindacali della categoria dei quadri rappresentate nell’ambito del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) partecipano alle elezioni per le Rappresentanze sindacali unitarie (RSU) disponendo di apposito collegio elettorale.»;
        c) dopo l’articolo 6 è aggiunto il seguente:
    «Art. 6-bis. – 1. Negli organismi ed enti bilaterali e negli enti pubblici, nei quali sono previste rappresentanze del mondo del lavoro, sono chiamati a partecipare di diritto i lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali della categoria dei quadri che fanno parte del CNEL.».


Art. 2.


    1. È fatta salva la facoltà per prestatori di lavoro dipendente individuati ai sensi delle disposizioni di cui alle lettere b) e c) dell’articolo 1 di usufruire della rappresentanza delle organizzazioni sindacali di categoria dei quadri, membri del CNEL.

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29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio


Onorevoli Senatori. – La normativa che disciplina il lavoro dei professionisti dipendenti costituisce un importante e fondamentale passaggio di un processo ormai maturo di cambiamento del lavoro, di cui il giurista ed il legislatore vanno prendendo atto fornendo la necessaria disciplina.
    Infatti, la proposta di direttiva comunitaria, approvata dal Parlamento europeo in prima lettura l’11 febbraio 2004, che prevede una disciplina uniforme in tutti i Paesi membri per l’accesso alle professioni cosiddette «regolamentate», all’articolo 2 espressamente prevede che tutto il coacervo di norme ivi contenute, finalizzate a garantire e sorvegliare, nell’interesse dei «consumatori», lo standard qualitativo dei professionisti intellettuali, si applica a tutti i cittadini che vogliono esercitare, come lavoratori dipendenti o indipendenti, una professione regolamentata.
    Pertanto la disciplina del lavoro vigente in Italia, ormai in gran parte di fonte contrattuale, caratterizzata dall’ampia fungibilità dei ruoli e dalla responsabilizzazione amministrativa dei soli dirigenti, si pone in evidente contrasto con la normativa comunitaria che, invece, è orientata verso la valorizzazione della specializzazione professionale e verso una conseguente forte responsabilizzazione professionale, assoggettata alla severa valutazione dei rispettivi ordini o associazioni, considerati i più titolati a salvaguardare la permanenza di un uniforme ed elevato grado di standard qualitativo.
    Del resto, a ben guardare, già attualmente alcune vigenti normative di derivazione comunitaria, come le norme in materia di lavori pubblici, che hanno «sposato» la filosofia del «professionista capo progetto», con la forte responsabilizzazione professionale del tecnico nominato «responsabile unico del procedimento (RUP)», sono assolutamente inconciliabili con la vigente disciplina del lavoro dipendente atteso che quest’ultima, rinnegando di fatto l’autonomia professionale del RUP, ne prevede la subordinazione gerarchica al dirigente.
    Coerentemente il mondo del lavoro dipendente deve evolversi e congiungersi con quello delle professioni anche per consentire sia un rilevante apporto di conoscenza e professionalità al lavoro in ambito pubblico e privato, sia per favorire mobilità e interazione tra professionalità in ambito diverso, superando il rigido sistema di compartimenti stagni e spesso non comunicanti, che ancora connota la nostra realtà e alimenta derive corporative.
    Si è pertanto pensato con i primi articoli del presente disegno di legge di identificare la realtà giuridica dei professionisti dipendenti sul piano individuale e collettivo. In tal senso, in maniera conforme alla nuova disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, si è voluto conferire al progetto un’impostazione quanto più possibile comune.
    Negli articoli da 2 a 4 è stata affrontata la dimensione contrattuale di tali rapporti, cercando di ricondurli ad ambiti contrattuali capaci di valorizzarne le funzioni, sia dal punto di vista dell’inquadramento, che da quello retributivo.
    L’articolo 4 appare maggiormente incentrato nella tutela di quei valori di formazione, professionalità, assistenza operativa, che soli consentono il raggiungimento dei necessari obiettivi sul mercato.
    I successivi articoli 5 e 6 si occupano in qualche modo delle specificità esterne (rapporto con ordini e deontologia, accesso all’impiego) di cui gli anzidetti rapporti professionali appaiono portatori.
    Guardano pure all’esterno del rapporto contrattuale gli articoli 7, 8 e 9, che favoriscono la libera circolazione delle professionalità e la loro conseguente implementazione. L’articolo 7 estende ai professionisti dipendenti la disciplina che consente e facilità l’interscambio di professionalità dirigenziali tra pubblico e privato. Il successivo articolo 8 vuole invece garantire ai professionisti dipendenti (specialmente dei ruoli tecnici) la tutela piena in caso di invenzioni che agli stessi potrebbe essere sostanzialmente negata a causa della loro specifica collocazione professionale (il regio decreto 29 giugno 1939, n. 1127, nega qualsiasi forma di compenso qualora il rapporto di lavoro abbia come oggetto specifico l’elaborazione di novità ed invenzioni). Si è inoltre voluto garantire sino in fondo il «libero mercato» dei professionisti, anche dipendenti, garantendo dal punto di vista previdenziale il passaggio dalla professione dipendente alla libera professione e viceversa, mediante la previsione di cui all’articolo 9.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Definizione)


    1. Ai fini di armonizzare la normativa nazionale ai princìpi comunitari in materia di professioni intellettuali ed in esecuzione dell’articolo 40 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, tutti i soggetti giuridici, pubblici o privati, che nell’ambito della propria organizzazione o azienda, prevedono l’inserimento di dipendenti i quali, nell’esercizio dei compiti loro assegnati, si assumono a norma di legge una personale responsabilità di natura professionale e, che per svolgere le loro mansioni, devono essere iscritti in albi o associazioni professionali, sono obbligati a riservare una disciplina giuridica ed economica specifica per tali dipendenti ed un’area di contrattazione separata con l’intervento della rappresentanza di detta categoria aderente ad organizzazioni dei quadri, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro o del Comitato economico e sociale europeo.


Art. 2.
(Trattamento economico)


    1. I soggetti giuridici privati, tenuto indicativamente conto del valore della prestazione di cui alle tariffe professionali e del trattamento economico attribuito ai vertici del lavoro dipendente in azienda, nel pieno rispetto del principio costituzionale di cui all’articolo 36 della Costituzione, attribuiscono il trattamento giuridico economico al personale il cui esercizio dell’attività professionale presupponga obbligatoriamente l’iscrizione ad albi o associazioni professionali per le quali è richiesto il titolo di laurea specialistica o titolo equipollente, di laurea breve o diploma di scuola media superiore.


Art. 3.
(Inquadramento e trattamento normativo)


    1. I soggetti pubblici di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono obbligati ad attivare appositi ruoli professionali nei termini indicati dall’articolo 15 della legge 20 marzo 1975, n. 70, per l’inquadramento dei lavoratori che sono inseriti nella propria organizzazione per lo specifico esercizio di attività professionali per le quali sono richieste l’abilitazione all’esercizio della professione e l’iscrizione ai rispettivi albi o associazioni professionali.
    2. L’obbligo di cui al comma 1 sussiste ogniqualvolta le normative di settore richiedono, per lo svolgimento di alcuni compiti, una particolare qualificazione professionale certificata dall’appartenenza ad ordini o associazioni professionali.
    3. Il trattamento giuridico ed economico spettante ai professionisti laureati di cui al presente articolo si attiene ai medesimi princìpi di cui all’articolo 2.
    4. Ai professionisti dipendenti possono essere conferite anche funzioni dirigenziali, ove le leggi che disciplinano i casi di incompatibilità con lo svolgimento delle rispettive professioni intellettuali o leggi ordinistiche lo consentano, senza oneri aggiuntivi.
    5. Il ruolo professionale di cui al presente articolo si articola in due posizioni:
        a) alla prima posizione appartengono gli iscritti in albi o associazioni professionali per i quali è richiesto il titolo di laurea specialistica o titolo equipollente;
        b) alla seconda posizione appartengono gli iscritti in albi professionali per i quali è richiesto un titolo di studio di laurea breve o diploma di scuola media superiore.
    6. Sono fatte salve le diverse articolazioni che i soggetti datori di lavoro assumono, che tengano conto, ai fini delle declaratorie contrattuali e dell’inquadramento, dei requisiti professionali stabiliti e richiesti dagli ordini e dalle associazioni professionali.


Art. 4.
(Tutela della professionalità)


    1. Anche in ottemperanza a quanto disposto dall’articolo 2103 del codice civile e dall’articolo 52 del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, i datori di lavoro pubblici e privati garantiscono la dotazione di idonei mezzi strutturali e di adeguati sussidi conseguenti allo sviluppo ed all’evoluzione della tecnologia e delle metodologie di ricerca e di applicazione, nonché del necessario supporto di personale tecnico ed amministrativo funzionalmente dipendente dalle strutture professionali medesime.
    2. Ai fini della migliore qualificazione dei professionisti dipendenti i datori di lavoro promuovono e favoriscono l’aggiornamento professionale, nonché la partecipazione dei professionisti a convegni di studio, a corsi di attività scientifiche, nonché a corsi di specializzazione tenuto anche conto della disciplina comunitaria.
    3. I professionisti dipendenti possono, altresì, fruire per ogni anno di anzianità maturata, di quindici giorni di permesso o aspettativa non retribuiti per svolgere attività formativa, didattica, esami, nonché docenza nelle materie di pertinenza. Detti periodi possono essere cumulati per il massimo di un semestre continuativo.
    4. I datori di lavoro stipulano a favore dei propri dipendenti appartenenti al ruolo professionale, relativamente alle attività professionali da essi svolte, apposite polizze assicurative di responsabilità civile e professionale per i rischi e i danni colposi anche a terzi, derivanti dallo svolgimento delle attività professionali di propria competenza. Il pagamento del premio è posto a carico dei datori di lavoro medesimi.
    5. Nel caso in cui i professionisti dipendenti siano sottoposti a procedimenti giudiziari per fatti connessi all’esercizio delle attività professionali loro affidate, i datori di lavoro assumono a loro carico ogni onere relativo alla difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale o da un eventuale perito di comune gradimento.


Art. 5.
(Accesso)


    1. L’accesso alle qualifiche del ruolo professionale relativamente alle pubbliche amministrazioni avviene per concorso pubblico indetto dalle singole amministrazioni o dai singoli enti pubblici, ovvero per corso-concorso mediante lo svolgimento di prove volte all’accertamento della pratica professionale, alle quali sono ammessi gli iscritti ai relativi albi o associazioni professionali indicati nei bandi di concorso, in possesso dei titoli di studio richiesti e degli eventuali titoli di professionalità e di specializzazione.
    2. Alla data di entrata in vigore della presente legge è inquadrato nel ruolo professionale e nelle corrispondenti aree e categorie il personale che svolge rispettivamente nelle pubbliche amministrazioni o nelle aziende private, in forza di regolare inquadramento, funzioni per il cui svolgimento è necessaria l’iscrizione in albi o associazioni professionali.


Art. 6.
(Autonomia professionale)


    1. Il rapporto tra i professionisti appartenenti al ruolo professionale o comunque come tali inquadrati ed utilizzati, nell’ambito delle strutture amministrative o aziendali, si sviluppa nel rigoroso rispetto degli ambiti di autonomia e di deontologia professionale anche sul piano della gestione tecnica e finanziaria.
    2. I professionisti di cui all’articolo 2 sono altresì esonerati dall’obbligo di presentare i piani di gestione e rispondono dell’incarico ricevuto direttamente al legale rappresentante dell’ente, nel rispetto del principio di autonomia professionale e sono soggetti al codice deontologico professionale, oltre che al controllo delle eventuali autorità indipendenti specificamente istituite.


Art. 7.
(Mobilità)


    1. L’articolo 23-bis del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, recante disposizioni in materia di mobilità tra pubblico e privato, è esteso al personale di cui agli articoli 1, 2 e 3, della presente legge.
    2. All’articolo 12, comma 1, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le amministrazioni assegnano prioritariamente a tali uffici proprio personale dipendente che abbia titolo e qualifica di avvocato ovvero reperisce il detto personale facendo ricorso a procedure di mobilità anche temporanea concordata con gli interessati prima di procedere all’assunzione di personale idoneo esterno».


Art. 8.
(Invenzioni)


    1. Per i dipendenti con la qualifica di professionisti dipendenti, l’apposita retribuzione di cui all’articolo 23 del regio decreto 29 giugno 1939, n. 1127, deve essere prevista in forma scritta nell’ambito del contratto individuale ed in termini adeguati all’importanza della invenzione. In caso contrario, al professionista spetta comunque all’atto della risoluzione del rapporto, apposita indennità commisurata al periodo lavorato, all’inquadramento, alla retribuzione oltre che all’importanza dell’invenzione.


Art. 9.
(Contribuzione)


    1. Nel caso di passaggio dal ruolo professionale o dalla qualifica di professionista dipendente a quella di professionista lavoratore autonomo o viceversa, i rispettivi periodi contributivi di professionista dipendente e di professionista lavoratore autonomo, possono essere ricongiunti senza onere economico alcuno per il professionista medesimo.


Art. 10.
(Praticantato)


    1. Il periodo di attività presso strutture rette da professionisti dipendenti alle dirette dipendenze dagli stessi ed in attività coerente con la professione, è riconosciuto, previa valutazione dei competenti ordini, come praticantato professionale.


Art. 11.
(Inderogabilità)


    1. Le disposizioni della presente legge costituiscono princìpi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e si applicano altresì alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano.

99 29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio


Onorevoli Senatori. – La legge 22 maggio 1978, n. 194, approvata dal Parlamento nella fase politica della solidarietà nazionale e sulle spinte di un esasperato femminismo che volge ormai al tramonto, ad oltre venticinque anni dalla sua introduzione nell’ordinamento giuridico, conferma tutti i suoi limiti e la sua inadeguatezza.
    Il gruppo dell’UDC ha presentato nel corso della XIV legislatura, sia alla Camera dei deputati, che al Senato della Repubblica una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta in materia di prevenzione dell’aborto volontario e di funzionamento dei consultori, per verificare il funzionamento e l’attuazione della citata legge n. 194 del 1978 (A.S. n. 51).
    Secondo i drammatici dati rilevati nella relazione trasmessa dal Governo al Parlamento sull’attuazione della citata legge n. 194 del 1978 nel 1999, si sono registrati 139.386 casi di interruzione volontaria di gravidanza con un incremento dello 0,7 per cento rispetto al 1998. Il tasso di abortività è risultato pari al 9,9 per 1.000 donne di età fra i quindici e i quarantanove anni; tale tasso, pur diminuito rispetto agli anni scorsi, rappresenta ancora un valore elevato.
    Nella relazione presentata in Parlamento il 19 ottobre 2005 (Doc. XXXVII, n. 9 della XIV legislatura) si registrano 136.715 interventi di interruzione volontaria della gravidanza, con una crescita del 3,4 per cento rispetto all’anno precedente e l’incidenza delle donne straniere rispetto alle cittadine italiane.
    La citata relazione sottolinea come risulti basso il ricorso al consultorio familiare per la certificazione, riconoscendo le difficoltà a farvi ricorso e l’inadeguatezza dell’integrazione con il servizio dei consultori familiari, l’incompletezza delle strutture consultoriali ed il numero limitato di figure professionali, soprattutto in vaste aree del paese.
    La relazione riconosce, altresì, che i consultori familiari andrebbero opportunamente potenziati e riqualificati, non raggiungendo il limite indicato nel decreto-legge 1º dicembre 1995, n. 509, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 1996, n. 34, di un consultorio per ogni ventimila abitanti.
    Con il presente disegno di legge, pur manifestando profonda contrarietà rispetto alle finalità della citata legge n. 194 del 1978, si intendono modificare e correggere quelle parti che esaltano la cultura della morte anzichè la cultura della vita.
    Intendiamo richiamare la questione relativa al momento delicato in cui la donna abbia già dichiarato di volere interrompere la gravidanza, ma, a seguito di ulteriori riflessioni, con un atto di rinuncia alla interruzione volontaria della gravidanza, decida la continuazione della gestazione; è in tale fase che riteniamo opportuno agevolare questa scelta attraverso un adeguato intervento finanziario di sostegno a carico dello Stato, non solo nei confronti della donna ma anche attraverso gli istituti che sono in grado di sostenerla, e una maggiore responsabilizzazione del genitore rispetto ad una scelta che resta dolorosa.
    Intendiamo riaffermare una cultura della vita. Lo Stato si deve fare carico di aiutare le donne che si trovano in queste situazioni contribuendo a salvare vite umane che rappresentano una risorsa per il paese.
    A titolo esemplificativo ricordiamo che se tutte le donne che hanno abortito nel 1999 avessero rinunciato all’aborto utilizzando le misure finanziarie previste nella presente proposta di legge, il costo per lo Stato sarebbe stato di lire 1.680 miliardi. Se il numero delle donne fosse stato solo il 10 per cento del totale effettivo, l’importo si sarebbe limitato a 168 miliardi di lire. L’uno per cento delle donne avrebbe significato un costo sociale di 16,8 miliardi di lire. Sono cifre che acquistano un significato morale che va oltre l’impegno finanziario dello Stato e che potrebbero essere recuperate nelle «pieghe» del bilancio pubblico se riuscissero nello scopo di salvare anche un solo bambino.
    Agli interventi finanziari dello Stato possono essere uniti quelli provenienti dalle regioni o da altri enti indicati dalle regioni stesse.
    Con l’articolo 1 della proposta di legge viene modificato il quarto comma dell’articolo 5 della legge n. 194 del 1978 ampliando la responsabilità della scelta anche alla persona indicata come padre del nascituro.
    L’articolo 2, modificando profondamente l’articolo 5 della legge n. 194 del 1978, prevede che la donna che nei sette giorni antecedenti l’interruzione volontaria della gravidanza rinuncia all’aborto beneficia dei contributi previsti dall’articolo 3, cioè, dell’intervento finanziario di sostegno dello Stato, integrabile dalle regioni, pari a mille euro mensili per la durata di un anno dal momento del concepimento fino al momento del ricovero in un istituto di assistenza.
    Con l’articolo 4 si prevede che i bambini che nascono a seguito di rinuncia all’interruzione volontaria della gravidanza possono essere adottati o dati in affidamento con il consenso dei genitori, con procedura di urgenza, venendo incontro ai desideri di coppie che – attraverso organizzazioni compiacenti – sono costrette ad andare all’estero per soddisfare i loro desideri di genitorialità e il bisogno di adottare i minori.
    L’articolo 5, modificando l’articolo 12 della legge n. 194 del 1978, obbliga il giudice tutelare, che può autorizzare la donna di età inferiore a diciotto anni all’interruzione volontaria della gravidanza, a sentire la persona indicata come padre del nascituro.
    L’articolo 6 reca la copertura finanziaria.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.


    1. Dopo l’articolo 4 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sono inseriti i seguenti:
    «Art. 4-bis. – 1. Alle donne che rinunciano alla interruzione della gravidanza lo Stato eroga un contributo pari a mille euro mensili per la durata di un anno, che decorre dal momento del concepimento fino al ricovero del minore in un istituto di assistenza, ovvero alla sua adozione o affidamento.
    2. Le regioni, nell’ambito delle proprie disponibilità finanziarie, possono concedere ulteriori contributi ad integrazione di quelli erogati ai sensi del comma 1.
    3. Lo Stato assicura il ricovero presso appositi istituti alle donne che rinunciano alla interruzione della gravidanza. Le spese relative al ricovero sono a totale carico dello Stato.
    Art. 4-ter. – 1. I bambini che nascono a seguito di rinuncia alla interruzione della gravidanza possono essere adottati o dati in affidamento, con procedura di urgenza, con il consenso dei genitori, entro sei mesi dalla nascita».


Art. 2.


    1. All’articolo 5 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sono apportate le seguenti modificazioni:
        a) al quarto comma, dopo le parole: «di cui all’articolo 4,» sono inserite le seguenti: «sentita obbligatoriamente anche la persona indicata come padre del nascituro,»;
        b) dopo il quarto comma, è aggiunto il seguente:
    «La donna che entro i sette giorni stabiliti al quarto comma, e comunque entro i termini previsti dall’articolo 4, dichiara di volere rinunciare alla interruzione della gravidanza beneficia dei contributi erogati ai sensi dell’articolo 4-bis».


Art. 3.


    1. All’articolo 12, secondo comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, dopo le parole: «e della relazione trasmessagli,» sono inserite le seguenti: «nonché sentita obbligatoriamente anche la persona indicata come padre del nascituro,».


Art. 4.


    1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2006-2008, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per il 2006, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della salute.
    2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

97 29/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – Il presente progetto di legge è essenzialmente finalizzato, nell’ambito delle celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia, a dare vita ad un soggetto giuridico che, nel rispetto della lettera e della ratio delle disposizioni del Codice dei beni culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale, provveda a costituire e valorizzare un percorso espositivo museale incentrato sulle residenze reali della dinastia sabauda, alla quale va comunque ascritto il processo di riunificazione nazionale.
    Il percorso si propone soprattutto di legare, secondo un filo conduttore unitario, le «residenze sabaude» in un itinerario culturale che richiami alla memoria del visitatore italiano e straniero le tappe più significative della storia di Casa Savoia, contribuendo così per un verso a riscoprire le radici dell’Unità nazionale e per l’altro a valorizzare sotto il profilo culturale i cospicui investimenti dello Stato, della Regione e degli enti locali nel recupero di molti siti reali quali, ad esempio, Venaria Reale e Stupinigi.
    Risulterebbe, per questo riguardo, particolamente significativa l’attuazione di un progetto di restauro e valorizzazione a fini museali del centro di comando dello Stato sabaudo (cosiddetto «Polo Reale»), comprendente il Palazzo Reale, la Biblioteca Reale, l’Armeria Reale, la nuova sede della Galleria Sabauda e il Museo di Antichità con l’attigua area archeologica. Questo vasto complesso di palazzi e musei, sito nel cuore di Torino, è stato testimone delle fasi di unificazione dello Stato e racchiude tra le sale auliche del Palazzo reale la Sala dello Statuto e la Sala del Trono, cui fanno corona le «maniche» destinate ad accogliere le collezioni storico-artistiche della casata, dalla pinacoteca alle raccolte archeologiche, librarie e d’armi.
    Il finanziamento varrebbe a consentire la musealizzazione della parte non ancora accessibile al pubblico del complesso ed a potenziarne gli spazi d’accoglienza, consentendo inoltre il restauro e il recupero di parte importante delle collezioni, le quali potrebbero essere in tale occasione esposte.

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.

 1. È istituito il Comitato nazionale per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, che ricorre nell’anno 2011.
  2. Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri oppure, su delega, dal Ministro per i beni e le attività culturali, e ne fanno parte rappresentanti delle istituzioni nazionali, regionali e locali. L’indicazione delle istituzioni rappresentate ed ogni altro profilo concernente la composizione del Comitato sono disciplinati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanarsi, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge.
    3. Il Comitato promuove, sostiene e coordina le iniziative finalizzate alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

Art. 2.

 1. Il Ministero per i beni e le attività culturali, d’intesa con la regione Piemonte e con il concorso dei soggetti proprietari o detentori di residenze sabaude e degli altri soggetti pubblici e privati interessati, istituisce un sistema integrato di valorizzazione del patrimonio culturale sabaudo, costituito dagli immobili, dalle raccolte artistiche, dai documenti, dai libri e da ogni altra testimonianza riferibile alle vicende della dinastia sabauda, attribuendo ad esso apposita soggettività giuridica ed adeguata autonomia organizzativa e finanziaria, provvedendo altresì al reperimento delle necessarie risorse finanziarie.
 2. Per la realizzazione del «Polo Reale» attraverso un progetto di restauro e valorizzazione a fini museali del centro di comando dello Stato sabaudo comprendente il Palazzo reale, la Biblioteca reale, l’Armeria reale, la nuova sede della Galleria sabauda e il Museo di antichità con l’attigua area archeologica, è prevista una spesa complessiva di 25 milioni di euro nel triennio 2007-2009, di cui 5 milioni di euro nell’esercizio finanziario 2007 e 10 milioni di euro per ciascuno degli esercizi 2008 e 2009.
 3. All’onere derivante dall’attuazione del comma 2, si provvede mediante corrispondente riduzione delle proiezioni dello stanziamento iscritto ai fini del bilancio triennale 2006-2008 nell’ambito della unità previsionale di base di conto capitale «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero.
    4. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

36 28/04/06 Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. –
Premessa

    Il rispetto delle regole europee deve trovare un più forte momento di coesione tra tutti i livelli di governo.
    Le ultime sessioni di bilancio hanno dimostrato l’urgenza di apportare interventi correttivi alla legge di contabilità (legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni), riprendendo il cammino riformatore.
    Occorre avere la consapevolezza che il passaggio dalla legge finanziaria al consolidato di cassa, non deve essere solo un mutamento nominalistico o terminologico ma deve assumere il significato forte del passaggio ad una fase politica diversa, dopo il trattato di Maastricht, con i relativi vincoli europei e il patto di stabilità e crescita fissato dall’Unione europea.
    Deve inoltre essere assicurato l’indispensabile coordinamento tra finanza nazionale e finanza locale, oltre gli interventi realizzati in questi ultimi anni attraverso il Patto di stabilità interno, dopo le modifiche intervenute con il novellato Titolo V della Carta costituzionale.
    Devono essere posti inoltre più stringenti limiti finalizzati al contenimento e alla razionalizzazione dell’aggregato spesa pubblica. La creazione di buone regole di finanza pubblica è oggi un’esigenza imprescindibile, anche se non sufficiente per l’esistenza di una buona politica; ma buone politiche e buone regole sono essenziali per realizzare obiettivi di stabilizzazione e di sviluppo.
    È stato più volte detto che il bilancio ha più padroni. È strumento di Governo, perché ad esso appartiene in quanto strumento della gestione finanziaria che è affidata alla Pubblica amministrazione; è strumento del Parlamento, perché strumento di decisione.
    Il problema che oggi abbiamo di fronte non è quello di alterare questo rapporto, ma di affermare una vera ed autentica cultura del bilancio da tutti condivisa.
    Rafforzare i vincoli di bilancio e chiamare tutti i soggetti ad una nuova stagione di responsabilità, rispetto alla quale nessuno può ritenersi estraneo, è l’obiettivo che ispira questa proposta di legge ed è altresì il contributo che si vuole portare al confronto parlamentare.
    L’articolo 28 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), con l’avvio del progetto SIOPE (Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici) rappresenta un indubbio passo avanti in questa direzione: viene infatti recepita quella indicazione che avevo formulato fin dalla finanziaria relativa al 2002 – legge 28 dicembre 2001, n.  448 – sulla necessità di creare una rete telematica che permetta una conoscenza in tempo reale dell’andamento dei flussi di finanza pubblica sia dello Stato sia degli enti decentrati, quindi dell’intera area pubblica, insieme ad efficaci sistemi di rendicontazione. Esso consente la rilevazione telematica degli incassi e dei pagamenti effettuati dai tesorieri degli enti pubblici con operazioni codificate in modo uniforme su tutto il territorio nazionale ed una gestione operativa affidata alla Banca d’Italia. Ad oggi, sono attivi nel SIOPE, 2691 enti su una platea potenziale di 3113 enti così suddivisi:
        – 21 su 22 regioni e province autonome di Trento e di Bolzano (manca la Sicilia);
        – 580 su 593 comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti e province;
        – 64 su 64 università;
        – 2026 su 2034 dipartimenti universitari censiti.
    Dal 2007 entreranno i restanti enti: comuni con popolazione inferiore a 20.000 abitanti, ASL, enti di previdenza e ricerca.
    A regime il SIOPE comprenderà circa 12.0000 soggetti, inclusi i dipartimenti universitari.
    Solo muovendo da una puntuale conoscenza dei dati dell’intero perimetro delle amministrazioni pubbliche di contabilità nazionale è possibile assumere orientamenti e decisioni coerenti.
    Si intendano definire gli strumenti per la realizzazione del consolidato di cassa della pubblica amministrazione; è una esigenza eticamente, politicamente e gestionalmente necessaria, affiancando le procedure oggi in vigore con un meccanismo che porti direttamente a disaggregare le informazioni disponibili secondo le varie esigenze.
    È il rendiconto il collante di ogni organizzazione, la madre di tutte le riforme istituzionali, l’unica che può portare i Parlamenti alla funzione originaria di controllo sul buon uso del denaro dei cittadini. Questo obbligo di rendicontazione ha ora dignità di norma sovranazionale con il trattato di Maastricht.
    Abbiamo riscontrato come il complesso delle innovazioni nelle regole e negli strumenti non abbia ridotto la capacità di proposta emendativa. Occorre allora intervenire anche sul versante dei regolamenti parlamentari, accrescendo il ruolo della Commissione bilancio e recuperando il suo ruolo di filtro del lavoro istruttorio.
    Proseguire nell’azione riformatrice sui diversi versanti, sia legislativi che regolamentari, potrà garantire rigore, razionalità procedurale e successo negli obiettivi per consolidare il traguardo nella integrazione europea.
Gli obiettivi della riforma proposta
    1. La strada maestra dell’innovazione politica ed amministrativa passa per un nuovo modo di fare la legge finanziaria.
    2. Il punto di svolta è il passaggio apparentemente tecnico, che è già nei fatti: il passaggio da una gestione di competenza ad una gestione di cassa.
    3. Di fatto, con grande disordine e confusione, decreti «blocca-spese» ed altro, polemiche sul «fabbisogno» e sull’«indebitamento netto», siamo, da Maastricht in poi, dentro una logica che fa prevalere la gestione di cassa su quella di competenza: ciò che deve essere chiarito, ed ancora pochi hanno chiaro, è che questo passaggio ha implicazioni politiche ed amministrative di grande rilievo. Si tratta di profittarne.
    4. In estrema sintesi, e semplificando moltissimo, abbiamo di fronte due alternative:
        a) la gestione per «competenza». Detto con grande semplicità, è gestione basata sul concetto di affidare a ciascuno dei vari livelli di responsabilità politica ed amministrativa un «tesoretto» di «disponibilità futura di danaro» da spendere per scopi definiti, di fatto senza limiti di tempo. Le conseguenze negative sono tre:
            a1) la concorrenza tra i vari soggetti politici ed amministrativi non è sull’efficienza oppure sull’efficacia della spesa misurate ex post. È invece ex ante, tutta politica, in sede di approvazione della legge finanziaria, attualmente con il solo vincolo del «patto di stabilità»;
            a2) il «tesoretto» vale se «non viene speso», perché «può essere promesso a tanti se non viene speso per nessuno». Di qui l’assenza strutturale della cultura del rendiconto, nell’attuale sistema. Tutto è centrato sul controllo del «livello dei vari tesoretti»: di fatto nulla si sa del loro uso. La spesa pubblica tende a divenire strutturalmente inefficiente, a frantumarsi in rivoletti sempre più piccoli, a divenire «elemosina», in luogo di strumento di soluzione di problemi strutturali. I tempi di realizzazione delle varie «cose» da fare si dilatano sempre più, e così inevitabilmente il loro costo. Si allarga sempre più la «faglia istituzionale» tra i cittadini che pagano e non vedono ritorni, e gli eletti che cercano di usare il danaro dei cittadini per massimizzare le proprie rendite politiche;
            a3) la macchina amministrativa ha un alibi colossale a «non fare». La concorrenza tra le forze politiche alimenta continuamente questo alibi. Non c’è alcun incentivo a spendere presto e bene. Al contrario, si constata tutti i giorni l’esistenza di un formidabile incentivo a comportamenti opposti.
        b) La gestione per cassa che si propone. Si tratta di dare forma giuridica ed istituzionale coerente a una strada di fatto già imboccata. Si tratta di porre in essere tre strumenti:
            b1) un quadro macroeconomico di medio periodo, che sia allo stesso tempo «camicia di forza» ex ante all’uso del danaro pubblico e documento guida di politica economica;
            b2) un budget di cassa mensile per ogni livello di governo, che cali la «camicia di forza» dell’obbligo e della cultura del rendiconto ben dentro la «macchina» della Pubblica Amministrazione;
            b3) la concorrenza tra i vari livelli di governo e dell’amministrazione ad essere «più bravi». I «tesoretti» non sono «competenza», sono «cassa»: i danari non si possono tenere fermi. Chi li usa bene e per primo ha possibilità di concorrere ad usare i danari di chi continua a pensare di poterli «covare», come accade ora. Si apre naturalmente la strada ad una cultura politica ed amministrativa di «zero budgeting», che annulla ogni anno le rendite di posizione acquisite e riporta correttamente tutto ad una forma di concorrenza tra le amministrazioni basata sui risultati.
    5. La legge finanziaria dovrebbe essere fondamentalmente un documento «non emendabile» con i contenuti del punto b1) precedente, e null’altro. Il Titolo V della Costituzione si applica costruendo, dentro i «paletti» della legge finanziaria, il budget di cui al punto b2).
Il contenuto del testo
    1. Con l’articolo 1 del presente testo, redatto in forma di novella alla legge n. 468 del 1978, si definisce il quadro programmatico macroeconomico entro il quale deve svolgersi l’attività di tutta la Pubblica amministrazione. Sono dati di cassa e non di competenza, per i motivi già esposti in premessa. Sono dati di cassa perché impattano direttamente sul debito, la cui riduzione è l’obiettivo principale del risanamento della finanza pubblica. Sono dati di cassa, perché è la cassa (e non la competenza) che rappresenta da anni il limite superiore alla spesa pubblica. I dati relativi al personale (numero dei dipendenti pubblici e loro costo), insieme al numero dei pensionati e al loro costo, sono i parametri principali che determinano il valore della spesa pubblica Il quadro macro deve includere le decisioni di politica fiscale e di politica della spesa che sono implicite nello stesso quadro: l’uno senza i contenuti di quelle sarebbe incomprensibile.
    2. Sempre l’articolo 1, ai capoversi 2-ter e 2-quater, è diretta conseguenza di due fatti elementari ed incontestabili:
        a) la necessità di dividere i poteri tra Governo e Parlamento: il potere esecutivo ai primi, il controllo ai secondi;
        b) l’obbligo di portare rispetto al danaro, e quindi alla fatica, dei cittadini. Il Parlamento, con il proprio voto, sancisce un limite al prelievo del danaro dalle tasche dei cittadini, ed un limite al debito (che è danaro dei cittadini aggiuntivo, che dovrà in futuro essere prelevato dalle loro tasche per poter essere restituito ai creditori). Tali limiti devono essere tassativamente rispettati dai governi, centrale e periferici.
    3. Il capoverso 2-septies meglio precisa gli aspetti di cui al punto 2. In particolare richiama il fondamento di qualsiasi progetto di riforma della Pubblica amministrazione e della legge finanziaria: uno strumento di contabilità di cassa in tempo reale, articolato per livelli di governo. È esattamente quanto discende dall’applicazione dell’articolo 28 della citata legge finanziaria 2003, commi 3, 4 e 5.
    4. L’articolo 3 indica esplicitamente il primo obiettivo di qualsiasi politica di risanamento strutturale della finanza pubblica: contenere la crescita annuale della spesa corrente al netto degli interessi al di sotto del tasso di inflazione. Il risultato è un suo calo in rapporto al PIL, e quindi un saldo attivo da destinare a tre scopi:
        a) riduzione del deficit annuale di cassa;
        b) crescita degli investimenti e quindi maggiore crescita annua;
        c) calo del debito, e quindi di nuovo maggior saldo annuale derivante da una minore spesa per interessi da destinare ai due scopi precedenti.
    Il secondo obiettivo è bloccare la crescita del debito garantito e non garantito che discende da minore spesa conseguente a rinvio di pagamenti, e non da riduzione strutturale della spesa, oltre alla crescita del debito che discende da deficit annuali di cassa prolungati e eccessivi. Con questo provvedimento si costringono le amministrazioni a vendere il patrimonio per abbassare il debito. L’esperienza prova che la vendita del patrimonio ha di solito due effetti positivi: migliora i conti della Pubblica Amministrazione, poiché spesso il patrimonio ha rendimenti negativi, e migliora la crescita economica in generale, poiché alza la produttività dell’economia. Il capoverso 2-septies definisce il significato operativo del federalismo fiscale: la diffusione coerente, a livello di territori, e quindi di governi locali, dei limiti di utilizzo del danaro pubblico resosi disponibile fissati all’articolo 1.
    L’articolo 3, comma 2, sancisce che la cosiddetta «esternalizzazione dei servizi» conviene alle amministrazioni se produce più efficienza. Non conviene, oppure diviene impossibile, se produce effetti nulli o negativi rispetto alla produzione interna di servizi.
    5. L’articolo 4, infine, mira a creare concorrenza interna tra i territori e tra le amministrazioni. L’efficienza merita di essere premiata, in quanto fa rendere di più il danaro pubblico, e viceversa. Esso si propone, inoltre, di cambiare in meglio la cultura amministrativa del paese, come deve essere.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.


    1. All’articolo 11 della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
        a) il comma 2 è sostituito dal seguente:
        «2. La legge finanziaria ha la finalità di dare attuazione prioritariamente all’articolo 104 del Trattato istitutivo della Comunità europea, nonché agli obiettivi di cui all’articolo 3, comma 2. A tal fine essa definisce annualmente il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale e provvede, per il medesimo periodo, alla regolazione annuale delle grandezze previste dalla legislazione vigente al fine di adeguarne gli effetti finanziari agli obiettivi»;
        b) dopo il comma 2 sono inseriti i seguenti:
        «2-bis. La legge finanziaria reca, in particolare, allegate a un apposito articolo, distintamente per l’anno di riferimento e per i quattro anni successivi:
        a) la tabella delle autorizzazioni di cassa, espresse unitariamente per lo Stato, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni e ogni altra amministrazione ed ente pubblico, relative a:
            1) spesa corrente al netto degli interessi;
            2) spesa per interessi;
            3) spesa per investimenti pubblici;
            4) incassi;
            5) saldo di cassa;
            6) ammontare del debito pubblico garantito dallo Stato;
            7) ammontare di altro debito pubblico;
            8) ammontare del prodotto interno lordo;
            9) numero e costo dei dipendenti;
            10) numero e costo dei collaboratori esterni aventi un rapporto, anche part time; di durata superiore ai tre mesi complessivi per anno;
            11) numero e costo delle pensioni che saranno pagate;
        b) la tabella delle previsioni di cassa concernenti l’area delle partecipazioni pubbliche di diritto privato per gli anni predetti relative a:
        1) numero dei dipendenti;
        2) indebitamento e fatturato totali;
        3) incassi totali da amministrazioni pubbliche, per contratti di servizio o aumenti di capitale o fatturato o altro;
        4) incassi totali da amministrazioni pubbliche per contributo agli investimenti, totale «lavori interni», risultato finale di bilancio, quota di partecipazione pubblica totale;
        c) una relazione, contenente la descrizione della politica fiscale e della politica della spesa implicita nella tabella delle previsioni di cui alla lettera a).
    2-ter. I Presidenti delle Camere accertano se l’articolo della legge finanziaria di cui al comma 2-bis e i relativi allegati presentati dal Governo contengano disposizioni estranee al loro contenuto quale previsto dal comma predetto e, in caso positivo, ne dispongono lo stralcio. L’articolo di cui al comma 2-bis, con i relativi allegati, è approvato dalle Camere con unica votazione. Su di esso non sono ammissibili emendamenti, proposte di stralcio o richieste di votazione per parti separate.
    2-quater. La legge finanziaria non può contenere:
        a) norme di delega, o di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio;
        b) disposizioni recanti obbligo di effettuazione di investimenti;
        c) contributi, erogazioni o benefici comunque denominati a qualsiasi titolo in denaro, beni o servizi a beneficio di enti pubblici, anche territoriali, persone fisiche o giuridiche, associazioni non riconosciute, italiane e straniere.
    2-quinquies. L’assegnazione dei contributi, erogazioni o benefici di cui al comma 2-quater, lettera c), è competenza specifica ed esclusiva degli organi di governo degli enti competenti, nell’ambito della legge statale e regionale.
    2-sexies. I dati contenuti nella tabella di cui al comma 2-bis, lettera a), individuano i limiti entro i quali le Pubbliche amministrazioni possono effettuare spese entro ciascun anno. Le disposizioni legislative recanti autorizzazioni di spesa in contrasto con i predetti dati si intendono abrogate.
    2-septies. Le tabelle di cui al comma 2-bis definiscono unitariamente per lo Stato, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano e ogni altra Amministrazione pubblica, per ciascun anno, il numero massimo del personale dipendente retribuito, il limite massimo della spesa corrente e il limite massimo per la spesa per investimenti. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, emanato, entro il 28 febbraio di ogni anno, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, i predetti limiti massimi sono ripartiti fra lo Stato, le regioni e le province autonome. Con decreti dei Presidenti delle regioni e delle province autonome, emanati entro il 31 marzo di ogni anno, i limiti massimi fissati per ciascuna regione o provincia autonoma sono ripartiti fra le Amministrazioni regionali, le province, i comuni e gli altri enti pubblici subregionali»;
        c) al comma 3, alinea, le parole: «non può contenere norme di delega o di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio. Essa» sono soppresse.


Art. 2.


    1. Gli organi di governo dei comuni, delle province, delle regioni, degli enti pubblici, nonché delle società di diritto privato ove vi sia almeno il 5 per cento di partecipazione pubblica, presentano tempestivamente, ogni anno, alle assemblee elettive, agli organi controllanti ovvero all’azionista pubblico, il dettagliato rendiconto degli incassi e delle spese effettuati nell’anno precedente, con analitica illustrazione dell’impiego delle somme e dei risultati ottenuti. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definite le modalità tecniche, in conformità a quelle determinate ai sensi dell’articolo 28, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per la realizzazione di un sistema informatico per l’accesso ai dati relativi ai pagamenti e agli incassi relativi a tutte le amministrazioni, enti o società interessate, da parte di tutti i soggetti aventi titolo. Nell’attuazione del sistema è conferita specifica priorità alle assemblee elettive.


Art. 3.


    1. Fino a quando il saldo annuale di cassa consolidato delle amministrazioni pubbliche, accertato in sede di consuntivo, non sarà positivo, gli obiettivi prioritari della manovra di finanza pubblica di cui all’articolo 3, comma 2, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, sono esclusivamente i seguenti:
        a) la spesa corrente al netto degli interessi delle amministrazioni pubbliche non può, nel suo complesso, crescere annualmente oltre la metà del tasso annuale di inflazione programmata;
        b) il debito pubblico garantito dallo Stato ed il restante debito pubblico in capo ad altre amministrazioni o società a controllo pubblico di diritto privato non possono superare complessivamente i 1.500 miliardi di euro.
    2. Gli aumenti di capitale effettuati da amministrazioni pubbliche in società di diritto pubblico o privato, a qualsiasi titolo, sono comunque da conteggiarsi tra le spese correnti al netto degli interessi, così come qualsiasi altra somma di danaro pubblico ad esse erogata. Sono tassativamente proibiti crediti di firma o garanzie reali prestate ad ogni e qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche a creditori di società di diritto pubblico o privato. I crediti di firma o le garanzie eventualmente prestate sono nulle di diritto.


Art. 4.


    1. Le amministrazioni pubbliche che conseguono risparmi di cassa nella spesa corrente, rispetto alla previsione, possono utilizzare le somme residue per investimenti aggiuntivi.
    2. Le amministrazioni pubbliche che hanno spese eccedenti quelle programmate subiranno tagli equivalenti alle somme loro trasferite nell’anno successivo, pari alle eccedenze riscontrate. I dirigenti generali responsabili delle eccedenze di spesa di queste amministrazioni potranno essere licenziati in tronco, in deroga alle leggi vigenti.
    3. Nei casi più gravi, le giunte e le assemblee elettive responsabili del mancato rispetto dei limiti della legge finanziaria potranno essere rispettivamente commissariate oppure sciolte.

35 28/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – La questione dell’istruzione è un punto fondamentale per la crescita del Paese.
    Dopo l’introduzione dell’euro, il processo di integrazione europea ha segnato un punto di crisi nella fase di ratifica del trattato costituzionale europeo in conseguenza dell’esito referendario in due importanti paesi membri come Francia ed Olanda.
    È ora necessario riprendere il cammino europeo, armonizzando tutte le strutture pubbliche e private in questa azione di diffusione degli ideali europei affinchè non vi siano «zone grigie».
    Si può utilizzare la via dell’articolo 138 della Costituzione per apportare modifiche parziali, procedura che è stata seguita per modifiche relative a importanti segmenti della nostra società, quali i provvedimenti per l’esercizio del voto degli italiani all’estero, per l’elezione diretta del presidente della regione, per il giusto processo, per il principio di sussidiarietà, per l’articolo 51 della Costituzione relativo alla parità di accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive e per tutti gli adattamenti che possano consentire al Paese di armonizzarsi con la legislazione europea ed affrontare le sfide del futuro.
    Gli articoli 33 e 34 della Costituzione hanno quale oggetto l’istruzione e furono approvati dall’Assemblea costituente dopo un vasto e prolungato dibattito che si aprì sul tema «scuola pubblica-scuola privata» nel quale si evidenziò una forte divaricazione di scelte e di orientamenti tra laici e cattolici.
    Sono abbondantemente note le ragioni che hanno impedito di affrontare la «questione istruzione» senza quelle preclusioni ideologiche che trovano un ostacolo nella formulazione del terzo comma dell’articolo 33 della Costituzione al quale si è voluto attribuire un significato che va oltre l’interpretazione degli stessi proponenti.
    È opportuno, infatti, ricordare che il relatore all’Assemblea costituente, onorevole Marchesi, nella seduta del 22 aprile 1947 si pronunciò per un pieno diritto della scuola privata alla libertà di insegnamento (Atti dell’Assemblea costituente pag. 3204), e l’onorevole Corbino, anche a nome degli altri firmatari, chiarì la portata dell’emendamento con le seguenti parole: «Noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati: diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato» e di fronte alle obiezioni dell’onorevole Gronchi sulla sorte che sarebbe stata riservata alle scuole professionali che non sono di Stato e che vivono con il concorso dello Stato, un altro firmatario dell’emendamento, l’onorevole Codignola, chiarì che con l’aggiunta «senza oneri per lo Stato» non è vero che si venga a impedire qualsiasi aiuto dello Stato alle scuole professionali, si stabilisce solo che «non esiste un diritto costituzionale a chiedere tale aiuto».
    Una interpretazione restrittiva della norma costituzionale ha finito per dividere per più di cinquanta anni le forze politiche impedendo di trovare una soluzione idonea ai problemi della scuola italiana e alle sue prospettive di crescita, soprattutto nei campi fondamentali della educazione e della istruzione.
    Sono stati vani finora i tentativi di trovare un’intesa capace di superare le difficoltà frapposte per impedire una soluzione che, disciplinando la parità scolastica, non si esaurisca nella erogazione di risorse assistenziali ma consenta all’impresa scolastica di svolgere un ruolo competitivo rispetto al progressivo monopolio dell’istruzione. Il monopolio pubblico dell’istruzione finisce per intaccare il principio del pluralismo educativo in una società democratica, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sulla situazione della scuola non statale, che, nel 2001, presentava il seguente allarmante quadro: scuola materna: 12.339 scuole; 672.141 alunni; scuola elementare: 1.887 scuole; 203.016 alunni; scuola media 807 scuole; 68.551 alunni; scuola superiore: 1.806 scuole; 159.277 alunni.
    Tale situazione si è ultieriormente modificata nell’anno scolastico 2004-2005 presentando i seguenti dati: scuola dell’infanzia: 11.287 scuole; 689.695 alunni; scuola primaria: 2.289 scuole; 249.609 alunni; scuola secondaria di primo grado: 860 scuole; 98.748 alunni; scuola secondaria di secondo grado: 1.615 scuole; 179.302 alunni. Si evince chiaramente ed inequivocabilmente il fenomeno grave della ulteriore contrazione dei plessi scolastici non statali, cui fa riscontro una lieve crescita in termini di alunni a dimostrazione di una domanda che non trova adeguata soluzione.
    I passi in avanti che si registrano nel provvedimento sulla parità scolastica non raggiungono l’obiettivo di una maggiore democrazia scolastica di cui sentiamo fortemente l’esigenza e soprattutto non consentono al Paese di raggiungere standard e livelli europei nel settore dell’istruzione.
    In ambito europeo possono essere individuate quattro tipologie di aspetti strutturali e giuridici che caratterizzano la scuola non statale negli Stati membri dell’Unione europea.
    Le quattro tipologie sono così sintetizzabili:
        1) scuola non statale con equivalenza completa con la scuola statale. Appartengono a questa tipologia il Belgio, la Danimarca, l’Islanda e i Paesi Bassi;
        2) scuola non statale convenzionata e finanziata in rapporto al riconoscimento di soddisfare un «bisogno riconosciuto». In genere in questi Paesi coesistono due tipologie di scuola «privata»: da una parte quella completamente privata e indipendente che non riceve finanziamenti; dall’altra la scuola sovvenzionata o sotto contratto che riceve finanziamenti a certe condizioni; appartengono a questa tipologia Austria, Finlandia, Francia, Inghilterra, Galles, Norvegia, Portogallo, Repubblica Federale di Germania, Spagna, Svezia e Italia;
        3) scuola non statale indipendente e autofinanziata. Appartengono a questa tipologia Inghilterra e Galles, Grecia e Scozia;
        4) solo scuola non statale in regime di assenza di scuola pubblica. Appartiene a questa tipologia l’Irlanda.
    Il maggior numero di Paesi europei sembra ispirarsi al modello di scuola non statale che viene finanziata solo quando si riconosce che soddisfi un «bisogno» realmente presente e tale che la scuola pubblica statale non riesce ad appagare. In Germania e in Spagna esistono forme di sovvenzione indirette che si concretizzano in un abbattimento fiscale per la famiglia.
    L’insoddisfazione dell’UDC per la soluzione adottata nel provvedimento sulla parità scolastica approvato nella XIII legislatura (legge 10 marzo 2000, n. 62) resta profonda.
    Presentiamo, dunque, come rappresentanti dell’UDC il disegno di legge costituzionale recante la modifica del terzo comma l’articolo 33 della Costituzione affinchè si possa rimuovere quello che può essere considerato un alibi costituzionale per non affrontare il problema della parità scolastica nel suo significato più pieno ed autentico e che dimostra l’incapacità della sinistra di affrontare coraggiosamente nella sua reale dimensione un tema che consente di introdurre elementi di competizione nel sistema scolastico, di ridurre le inefficienze, di restituire libertà e capacità di scelta alle famiglie.
    La nostra proposta di modifica costituzionale vuole dunque essere una sfida di principio, una sfida di libertà, una sfida su ragioni che non possono essere sacrificate da soffocanti erogazioni pubbliche che avrebbero il solo scopo di allungare l’agonia della scuola non statale.
    La libertà di educazione e quindi il superamento dell’attuale modello di scuola statalista è condizione indispensabile di qualunque riforma che voglia dare efficienza al sistema formativo e consenta all’Italia di competere nel mondo proprio perché il primo sistema competitivo della Nazione è il sistema scolastico, che in Italia ha raggiunto il livello di quasi monopolio protetto dalla finanza pubblica senza produrre vantaggi per il cittadino.
    Auspichiamo che il presente disegno di legge costituzionale possa trovare un largo consenso tra le forze politiche, anche trasversale rispetto agli attuali schieramenti. Da parte nostra opereremo anche attraverso l’utilizzo degli strumenti regolamentari affinchè il provvedimento possa essere affrontato ed esaminato.
 

DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE
Art. 1.


    1. Il terzo comma dell’articolo 33 della Costituzione è sostituito dal seguente:
    «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione».

34 28/04/06

Sen EUFEMI Maurizio

Onorevoli Senatori. – Con il presente progetto di legge si intende affrontare il problema della casa in termini nuovi rispetto a come è stato affrontato finora tenendo conto sia dei problemi delle giovani coppie che dei grandi centri urbani, affermando una «cultura del risparmio» legata alla casa. Il problema era stato già posto nella scorsa legislatura con l’atto Senato 730. Su iniziativa del proponente era stato inserito attraverso una specifica proposta emendativa come principio di delega nella grande riforma fiscale (legge 7 aprile 2003, n. 80) che per complesse ragioni, non ultime quelle legate al cambiamento nelle responsabilità al Dicastero dell’economia e delle finanze, non ha potuto vedere la sua definitiva applicazione essendo la delega scaduta senza la approvazione del relativo decreto delegato nei termini previsti.
    È motivo di soddisfazione constatare che la questione risparmio casa su sollecitazione dell’UDC ha trovato la giusta attenzione con il relativo inserimento al punto 6.1 del programma elettorale della Casa delle Libertà presentato ai sensi della legge 21 dicembre 2005, n. 270. Le ragioni fondamentali che spingono per l’approvazione di questo progetto di legge risiedono sulle seguenti considerazioni.
    L’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei nuclei familiari intesi come giovani coppie e mononucleari, l’immigrazione da Paesi extracomunitari poveri, la maggiore domanda di mobilità degli individui per rispondere ad esigenze diverse (lavoro, studio, eccetera), la presenza e la crescita di nuove marginalità e povertà sono fenomeni che caratterizzano fortemente l’attuale quadro evolutivo della struttura economico-sociale del nostro Paese.
    Ci si trova di fronte ad una società, dunque, fortemente trasformata nelle caratteristiche demografiche, nelle composizione, nelle abitudini.
    A fronte di queste trasformazioni, che hanno originato nuove esigenze abitative occorre prendere atto di alcuni elementi imprescindibili:
        –  alta percentuale di abitazioni in proprietà (il 75 per cento circa), la gran parte collocate in aree geografiche dove non sono utili e non contribuiscono ad alleviare le esigenze abitative;
        –  scarsità dell’offerta di abitazioni primarie in locazioni connotate da elevati valori dei canoni;
        –  ridotta efficacia dell’azione pubblica sul mercato dell’affitto.
    Va inoltre considerato che rispetto al volume complessivo dei mutui erogati dal sistema bancario soltanto il dieci per cento viene acceso da giovani coppie. Questo conferma la difficoltà oggettiva dei giovani di investire nell’abitazione recuperando quella cultura del risparmio indispensabile ad una crescita dell’economia.
    Altro fenomeno importante da sottolineare è rappresentato dalla vetustà dello stock abitativo.
    Infatti, oltre il 35 per cento dello stock ha più di 50 anni: ciò vuol dire che per riportare i beni ad uno stato di discreta vivibilità non bastano interventi di manutenzione, ma pesanti interventi di recupero o ristrutturazione, oltre che di miglioramento dell’ambiente urbano.
    Tenuto conto della riduzione delle risorse finanziarie pubbliche occorre progettare un nuovo sistema di convenienze pubbliche e private per rispondere adeguatamente e prontamente ad una domanda di residenzialità che si connota diversamente rispetto al passato.
    In condizioni di scarsità di risorse finanziarie pubbliche, dunque, e conseguentemente alla «stabilizzazione a basso livello del ritmo dell’inflazione e del sistema dei tassi interni, è possibile oggi delineare forme di accumulazione preventiva di risparmio finalizzato alla costruzione, alla manutenzione e ristrutturazione di abitazione, all’acquisto di aree edificabili e aree dimesse od alloggi da recuperare, attraverso mutui bancari aggiuntivi d’importo pari o superiore al risparmio cumulato», cioè tramite il «risparmio casa».
    Il meccanismo del «risparmio casa» è riservato a tutti i cittadini, persone giuridiche e persone fisiche, ancorché associati o riuniti in cooperative di abitazione, che intendono accedere ad un programma finalizzato alla realizzazione di un intervento di edilizia abitativa che può essere destinato anche alla locazione ai sensi dell’articolo 9 della legge 17 febbraio 1992, n. 179.
    Le banche che intendano offrire alla clientela il «risparmio casa» devono rispettare due vincoli economico-finanziari posti dal presente disegno di legge:
        –  il risparmio accumulato deve essere remunerato a tasso fisso;
        –  il mutuo aggiuntivo sarà erogato a un tasso fisso per tutta la durata del rimborso.
    Il sistema «risparmio casa» educa le persone al risparmio e alla regolarità dei versamenti sia nella fase di accumulo che nella fase di rimborso del mutuo, ma soprattutto consente di creare un particolare circuito di provvista/impieghi sganciato dall’andamento del mercato finanziario e quindi a condizioni favorevoli e trasparenti.
    Il risparmiatore depositante che accede ad un programma di «risparmio casa» ha l’obbligo di mantenere vincolato il proprio risparmio almeno per due anni consecutivi; successivamente potrà richiedere all’istituto di credito il risparmio accantonato e il mutuo aggiuntivo quando avrà raggiunto una adeguata posizione nella graduatoria generale di attribuzione (metodo meritocratico).
    Il programma contrattuale ha la durata complessiva in genere di anni 20, comprensivo degli anni di accumulo del risparmio e dell’ammortamento del mutuo bancario aggiuntivo.
    Nella fase di accumulo il risparmiatore è libero di stabilire l’ammontare di ogni rata e la loro frequenza.
    Le banche devono prevedere una gestione contabile autonoma dell’attività finanziaria del «risparmio casa» per garantire l’esclusiva destinazione del risparmio accumulato alla concessione di finanziamenti finalizzati agli obiettivi previsti dal sistema del «risparmio casa».
    Garantire l’aiuto dello Stato al sistema del «risparmio casa» è indispensabile, in quanto l’incentivazione è ritenuta fondamentale per il funzionamento di tale sistema. È previsto per il contraente di «risparmio casa» il diritto all’esenzione dell’imposta alla fonte di cui all’articolo 26 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.
    Inoltre è previsto un incentivo finanziario da parte dello Stato per il depositante persona fisica e giuridica che rispetta i vincoli del programma di risparmio nell’entità stabilita dall’articolo 6.
    Per quanti, persone fisiche e giuridiche, intendano realizzare o ristrutturare alloggi da destinare alla locazione ai sensi dell’articolo 9 della detta legge n. 179 del 1992 è previsto un incentivo del 10 per cento della somma annualmente accumulata fino ad un massimo di 7.500 euro di premio complessivo.
    Agli incentivi finanziari di cui sopra si farà fronte con parte dei fondi stanziati per il «programma sperimentale per la riduzione del disagio abitativo».
    Le famiglie che aderiranno in nome e per conto dei figli minori ad un programma di «risparmio casa» in forma singola od associata avranno il diritto di usufruire degli stessi incentivi e agevolazioni previste dal presente disegno di legge.
    I sottoscrittori di certificati immobiliari destinati al finanziamento di interventi per la realizzazione di alloggi finalizzati all’affitto, ai sensi dell’articolo 9 della citata legge n. 179 del 1992, potranno usufruire delle agevolazioni fiscali previste dalla presente legge.

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.


    1. Ai sensi della presente legge per «risparmio casa» si intende l’attività, svolta dalle banche, finalizzata alla raccolta di risparmio attraverso depositi vincolati e nell’utilizzo di tale risparmio per la concessione a persone giuridiche e a persone fisiche ancorché associate in cooperative di abitazione, depositanti, di finanziamenti fondiari ai sensi dell’articolo 38 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, da utilizzare dopo l’attribuzione.
    2. L’attribuzione, regolata dettagliatamente nelle regole generali contrattuali esposte nelle norme attuative, è il momento in cui il depositante, in relazione al contratto stipulato con la banca, può far valere il diritto al rimborso del saldo attivo del «risparmio casa» accumulato e alla concessione del finanziamento, secondo le modalità stabilite dal regolamento di cui all’articolo 4.
    3. Le banche non possono erogare le somme contrattualmente convenute prima che sia avvenuta l’attribuzione di cui al comma 2.
    4. L’accumulo può essere restituito anticipatamente solo a seguito di disdetta unilaterale del contratto da parte del risparmiatore.


Art. 2.


    1. L’attività del «risparmio casa» è svolta dalle banche attraverso una gestione contabile autonoma ed indipendente rispetto alle altre forme ordinarie di raccolta del risparmio, tale da garantire l’uso esclusivo ed equilibrato delle risorse per la concessione dei finanziamenti finalizzati al «risparmio casa».
    2. Solo alle sezioni autonome delle banche che svolgono attività di «risparmio casa» ai sensi della presente legge è consentito utilizzare l’appellativo «risparmio casa» nel denominare tale prodotto.


Art. 3.


    1. Le sezioni autonome delle banche che svolgono l’attività di «risparmio casa» erogano la somma contrattualmente convenuta, secondo le modalità previste dal regolamento attuativo di cui all’articolo 4, non prima dell’attribuzione del contratto di risparmio casa.


Art. 4.


    1. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, adotta con proprio decreto il regolamento per l’attuazione della presente legge.
    2. Il regolamento di cui al comma 1 prevede le condizioni generali contrattuali, le quali contengono le seguenti condizioni e disposizioni:
        a) l’entità e la scadenza delle prestazioni del titolare di contratto di «risparmio casa» e della cassa di risparmio edilizio nonché le conseguenze giuridiche connesse alla mora delle prestazioni;
        b) il tasso di interesse dei depositi a «risparmio casa» e dei mutui da «risparmio casa»;
        c) l’entità dei costi e delle commissioni a carico dei titolari di contratto di «risparmio casa»;
        d) i presupposti e il metodo per la determinazione della graduatoria di attribuzione e le condizioni di erogazione del capitale sottoscritto per il «risparmio casa»;
        e) la garanzia dei crediti relativi ai mutui da «risparmio casa»;
        f) le condizioni per poter frazionare un contratto di «risparmio casa» oppure per poterlo mettere insieme ad un altro contratto oppure per poter aumentare o ridurre il capitale sottoscritto;
        g) le condizioni per poter cedere o costituire in pegno i diritti maturati con il contratto di «risparmio casa» oppure per poter recedere dal contratto di «risparmio casa».
    3. Il regolamento di cui al comma 1 contiene inoltre le regole generali di attività a cui si attengono le sezioni autonome delle banche per esercitare l’attività di «risparmio casa».


Art. 5.


    1. I finanziamenti di «risparmio casa», a pena di decadenza dei benefici di cui agli articoli 6 e 7, sono consentiti per le seguenti finalità:
        a) la costruzione, l’acquisto, la manutenzione e il miglioramento di immobili destinati prevalentemente ad abitazione principale, nonché alla locazione di cui all’articolo 9 della legge 17 febbraio 1992, n. 179;
        b) l’acquisto di aree edificabili con destinazione prevalentemente ad uso abitativo da utilizzare per le finalità di cui alla lettera a);
        c) l’estinzione di passività assunte al fine di realizzare le finalità di cui alle lettere a) e b).


Art. 6.


    1. Il Ministero dell’economia e delle finanze concede ai titolari dei contratti di «risparmio casa» un contributo annuale commisurato agli importi depositati, compresi gli interessi.
    2. Il contributo annuale di cui al comma 1 è pari al 5 per cento dell’importo accumulato in un anno e non può, comunque, superare 2.582 euro di premio complessivo per contraente. Le modalità di versamento sono stabilite dal regolamento di attuazione di cui all’articolo 4.
    3. Nel caso di costruzione o ristrutturazione di alloggi destinati alla locazione ai sensi dell’articolo 9 della legge 17 febbraio 1992, n. 179, in favore del contraente è previsto un contributo pari al 10 per cento delle somme accumulate annualmente fino ad un massimo di 7.745 euro di premio complessivo, cui si fa fronte con i fondi stanziati per la realizzazione del «programma sperimentale per la riduzione del disagio abitativo» di cui all’articolo 3 della legge 8 febbraio 2001, n. 21, previa presentazione del contratto di affitto regolarmente registrato.
    4. Il contraente che, in forma singola o associata, aderisce al sistema «risparmio casa» per conto dei figli minori ha diritto a fruire delle agevolazioni e degli incentivi previsti dalla presente legge.


Art. 7.


    1. Durante il periodo di accumulo, e per un importo massimo di 5.164 euro per anno, il contraente di «risparmio casa» depositante consegue il diritto all’esenzione dell’imposta alla fonte prevista dall’articolo 26 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e gli interessi non concorrono a formare il reddito del percipiente.


Art. 8.


    1. Il contraente di «risparmio casa» decade retroattivamente dal diritto alle agevolazioni previste dalla presente legge qualora prima di due anni dalla stipula del contratto, senza aver maturato il diritto all’attribuzione, abbia prelevato, in tutto o in parte, la somma pattuita.
    2. Il contraente non decade dai benefici di cui al comma 1 nel caso in cui destini le somme accumulate a finalità diverse da quelle elencate nell’articolo 5 dopo cinque anni dell’inizio del programma «risparmio casa».


Art. 9.


    1. La massa di attribuzione è composta dai risparmi, dagli interessi, dai premi e dagli ammortamenti dei mutui concessi dalle sezioni autonome delle banche di cui all’articolo 2. Tale massa di attribuzione è utilizzata prioritariamente per il «risparmio-casa», per la restituzione a terzi del denaro prestato, per integrare la massa di attribuzione al fine di concedere prefinanziamenti per brevi periodi.
    2. I fondi per il «risparmio casa» non ancora attribuiti dalle sezioni autonome delle banche che svolgono attività di «risparmio casa» per mancanza di domande procedibili possono essere investiti:
        a) in buoni del Tesoro;
        b) in fondi di deposito presso istituti di credito ed in obbligazioni emesse dagli stessi istituti.
    3. I mutui superiori a 10.329 euro sono garantiti da ipoteca anche di secondo grado.

33 28/04/06 Sen EUFEMI Maurizio


Onorevoli Senatori. – Il tema del trattamento fiscale della famiglia ha trovato centralità in occasione della ultima campagna elettorale.
    L’UDC – Unione democristiana e di Centro – ha posto il problema come questione programmatica prioritaria prevedendone l’inserimento al punto 1.1 dedicato alla famiglia nel programma elettorale presentato dalla coalizione di centrodestra «Casa delle Libertà» ai sensi della legge 21 dicembre 2005, n. 270.
    Non va dimenticato che l’UDC si era fatto sostenitore di questo tema già nella XIV legislatura presentando il relativo progetto di legge il primo giorno stesso di attività parlamentare. Era stato inoltre inserito attraverso uno specifico emendamento nei princìpi di delega della grande riforma fiscale rimasta inattuata in alcune parti per la mancata predisposizione dei decreti legislativi entro il termine di scadenza per l’esercizio della delega. Nè può essere dimenticato il lavoro parlamentare portato avanti in 6ª Commissione – Finanze del Senato attraverso una importante indagine conoscitiva sul trattamento fiscale del reddito familiare e sulle relative politiche di sostegno, che ha fatto luce, con l’audizione di rappresentanti dell’ISTAT, dell’Istituto di Studi e analisi economica (ISAE), della Banca di Italia, del Forum delle Associazioni familiari, sulle complesse problematiche della famiglia italiana legate all’andamento demografico, ponendo il Parlamento in condizione di valutare gli interventi e il sostegno della natalità, anche tenendo conto degli anni oneri a carico del bilancio dello Stato.
    Dobbiamo partire da un dato che dimostra la gravità del problema.
    Il tasso di fecondità che si è registrato in Italia nella seconda metà degli anni Novanta, pari a 1,21 per cento, è notevolmente inferiore al cosiddetto “numero di rimpiazzo“ che assicura la stazionarietà della popolazione, che è pari a 2,1. Negli ultimi decenni, in Italia e negli altri paesi europei, si è registrato un forte rallentamento della crescita della popolazione che è stato particolarmente rilevante tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. I mutamenti avvenuti nella struttura economica e sociale hanno modificato le scelte procreative delle famiglie: si è assistito ad un forte calo del tasso di fecondità. Per l’Italia tali cifre sono largamente inferiori rispetto a quelle di altri paesi della Unione europea, dove il problema è presente, ma con un’intensità diversa. A frenare il rallentamento demografico hanno contribuito l’allungamento della vita media, e il crescente fenomeno dell’immigrazione. Dalla riduzione del tasso di fecondità e dall’allungamento della vita media tuttavia è derivato un progressivo invecchiamento della popolazione. La combinazione di questi due fattori, il rallentamento della popolazione e il suo progressivo invecchiamento, inoltre, ha frenato l’espansione della domanda interna. Ciò è vero in tutti i paesi dell’Unione europea ed ancor più vero per l’Italia. L’aumento dell’età media delle forze di lavoro è probabilmente una concausa del rallentamento della produttività, particolarmente forte in Italia, che si riflette sul declino di competitività del nostro Paese. La crescita della popolazione in età avanzata influisce pesantemente sulla spesa pubblica, mettendone a rischio la sostenibilità di lungo periodo.
    In questo contesto sono necessari adeguamenti al sistema di sicurezza sociale diretti ad assicurare la compatibilità delle risorse con la salvaguardia delle sue finalità di base.
    In prospettiva, occorre ripristinare un adeguato rapporto tra la popolazione anziana e quella in età lavorativa. Per realizzare tale obiettivo è opportuno favorire la ripresa della fecondità attraverso adeguate politiche di sostegno. Le scelte individuali di procreazione non dipendono solo dal livello del reddito ma anche da altri fattori di contesto; per incidere sul tasso di natalità, agli strumenti fiscali occorre certo affiancare servizi sociali adeguati ai nuovi bisogni, altrimenti l’effetto che si ottiene può non essere apprezzabile. Per mettere in condizione il Parlamento di decidere oculatamente, è bene dire subito quali sono gli obiettivi che questi strumenti possono perseguire.
    Tali obiettivi sono tre. Il primo è la redistribuzione del reddito in favore dei nuclei familiari in condizioni di povertà, la cosiddetta equità verticale tra nuclei o individui con diversi livelli di reddito. Vi è poi un problema di equità orizzontale, ossia un trattamento differenziato a parità di reddito (quindi per qualunque livello di reddito) volto a compensare le maggiori esigenze di spesa connesse con i carichi familiari. Il terzo obiettivo è proprio la modifica delle scelte procreative delle famiglie per conseguire obiettivi demografici di ordine sociale, ossia la natalità.
    Il primo obiettivo è quello di ridurre l’esposizione delle famiglie al rischio di povertà, che deriva dalla presenza di persone che non svolgono alcuna attività lavorativa (i figli e il coniuge). Tale rischio è direttamente correlato alla numerosità del nucleo familiare; quindi, un livello di reddito di per sè medio può diventare insufficiente se si associa ad un numero di carichi familiari assai elevato. Nel secondo caso (equità orizzontale), la finalità è quella di discriminare, a parità di reddito, tra famiglie con un diverso numero di persone a carico. Si tratta di evitare che, per tutti i livelli di reddito, la presenza di un numero elevato di carichi familiari penalizzi la capacità di spesa della famiglia. Il terzo obiettivo (quello demografico) presuppone l’esistenza di una discrepanza fra interesse individuale e interesse collettivo relativamente al livello, alla dinamica e alla composizione della popolazione.
    L’accentuato invecchiamento demografico, che in Italia stiamo sperimentando, e l’attesa di forte flessione della popolazione configurano uno scenario che certamente non può definirsi ottimale e un intervento in tale direzione è pertanto auspicabile. Questo è un aspetto abbastanza innovativo dell’ordinamento italiano anche perchè gli assegni familiari e le detrazioni di imposta si sono dimostrati scarsamente incisivi.
    Se esaminiamo le detrazioni d’imposta, possiamo rilevare che per il secondo figlio vi è un lieve innalzamento; nell’ambito degli assegni familiari, l’innalzamento diviene significativo dal terzo e quarto figlio. Se l’indice di fecondità totale è 1,21, bisogna convincere le persone a fare il secondo figlio.
    Non a caso in Francia, dove il tasso di fecondità è di 1,76, il problema va nella direzione di convincere la gente a fare il terzo figlio.
    Per quanto riguarda il trattamento fiscale della famiglia, il problema centrale che si pone è quello della scelta dell’unità impositiva da tassare: questa può essere rappresentata dall’individuo o dalla famiglia. Entrambe le metodologie presentano vantaggi, ma anche problemi applicativi, nonché svantaggi.
    La scelta di tassare separatamente ciascun individuo presuppone che la capacità di spesa di ogni familiare sia indipendente da quella degli altri membri. Per correlare l’onere tributario con la situazione familiare del contribuente – nell’ambito della tassazione a livello individuale – sono possibili due vie. La prima è quella di prevedere un minimo familiare esente, determinato partendo dalla soglia di esenzione individuale modificata in funzione della composizione del nucleo familiare. Come seconda alternativa, si possono concedere deduzioni dal reddito o anche detrazioni d’imposta per i familiari a carico. Questa modalità, che si collegava alla delega proposta dal ministro Tremonti a cui si doveva dare applicazione, poiché si fa riferimento a deduzioni, presenta aspetti positivi in quanto non si caratterizza per le problematicità che presentano altre soluzioni.
    Data la progressività dell’imposta, le deduzioni dal reddito stabilite in misura fissa comportano un vantaggio crescente con il reddito (la deduzione viene ad abbattere il reddito; a parità di altre condizioni, il vantaggio è pari all’aliquota marginale moltiplicata per la deduzione del reddito e quindi cresce con il reddito). In tal modo, cioè introducendo deduzioni stabilite in misura fissa, si tiene conto del fatto che, di norma, il costo del mantenimento della prole aumenta con il reddito dei genitori; questo è, in qualche modo, immediatamente percepibile. E ovvio, però, che con una deduzione si può realizzare anche l’obiettivo opposto, dipende da come si può correlare la deduzione in funzione del reddito. Se l’importo viene ridotto al crescere del reddito, anche con la deduzione si riesce a realizzare una redistribuzione in favore delle fasce di reddito medio-basse.
    Esaminiamo ora le detrazioni, che rappresentano il sistema ormai superato. Le detrazioni stabilite in misura fissa accrescono la progressività dell’imposta, accentuando la redistribuzione in favore delle classi meno abbienti. Quindi, per definizione, una detrazione stabilita in cifra fissa ha un effetto redistributivo in favore delle classi meno abbienti. Il presupposto logico per fare questa scelta è che lo Stato riconosca costi di mantenimento dei componenti del nucleo familiare indipendenti dal livello del reddito.
    Per le deduzioni e le detrazioni si può presentare un problema di incapienza, nel senso che può accadere che il livello del reddito sia così basso che l’applicazione di una detrazione o deduzione non dà luogo ad alcun beneficio di imposta. Attualmente, infatti, se l’imposta è negativa, non si ha alcun risultato; ovviamente, l’imposta negativa non dà luogo ad un credito d’imposta. Il problema potrebbe essere superato consentendo il rimborso delle detrazioni o delle deduzioni incapienti attraverso lo strumento dell’assegno diretto, unica via per consentire di recuperare l’incapienza.
    Se si passa al sistema delle famiglie come soggetto di imposta si possono identificare tre sistemi prevalenti di tassazione della famiglia. Il primo è il regime del cumulo, il quale prevede che l’imposta sia calcolata sulla somma dei redditi dei due coniugi. Il cumulo permette di parificare il trattamento fiscale delle famiglie monoreddito e bireddito dello stesso livello di reddito, ovviamente penalizzando queste ultime rispetto all’ipotesi di tassazione a livello individuale. Il secondo sistema è lo splitting, che prevede che i redditi dei coniugi siano sommati e il risultato diviso per due. Al reddito così ottenuto si applica la scala di aliquote e scaglioni ordinaria e la relativa imposta ottenuta si moltiplica per due. Un altro sistema è quello del quoziente, verso il quale va la nostra preferenza, che può essere visto come una evoluzione dello splitting perché consente di tenere conto non solo dei due coniugi ma anche di altri componenti familiari. Con questo metodo si attribuisce ai vari componenti della famiglia un peso variabile. I valori della scala di riferimento nota come «scala Carbonaro», dal nome dello studioso che l’aveva proposta sono: 0,6 per un componente, 1 per due componenti, 1,33 per tre componenti, 1,63 per quattro componenti, 1,90 per cinque componenti, 2,16 per sei componenti, eccetera.
    Per quanto riguarda la scala di equivalenza della Organisation for economic co-operation anddevelopment (OECD/OCSE), per ogni famiglia il fattore di scala è pari alla somma di più parametri individuali così determinati:
    – Primo adulto: 1,0
    – ogni altro adulto: 0,5
    – ogni bambino di età inferiore a 14 anni: 0,3
    – ogni figlio superiore a 14 anni 0,5


(esempio: coppia con due figli di 10 e 4 anni = 1 + 0,5 + 0,3 + 0,3 = 2,1)


    L’ordinamento italiano conosce poi l’applicazione di una scala di equivalenza per la determinazione dell’indicatore della situazione economica equivalente che è così composta:
N. componenti della famiglia   fattore di equivalenza
        1   1,00        
        2   1,57        
        3   2,04        
        4   2,46        
        5   2,85        
        6   3,20        
        7   3,55        
        8   3,90        
        9   4,25        
        10   5,60        
    Non possiamo dimenticare cosa succede sul fronte del trattamento fiscale della famiglia nei principali paesi OCSE, al fine di delineare uno scenario internazionale che aiuti a capire quali sono le scelte migliori che possono essere in qualche modo utilizzate e mutuate per giungere ad una soluzione più soddisfacente e più correlata con i bisogni.
    Nei Paesi membri dell’OCSE esistono modalità molto diverse nell’entità delle agevolazioni fiscali accordate alle famiglie. In una minoranza di casi, l’unità impositiva è costituita dalla famiglia; nella maggior parte dei paesi si è preferito ricorrere a deduzioni dal reddito o a detrazioni dall’imposta individuale. Molti paesi utilizzano una combinazione di questi strumenti. Gli assegni sociali esistono da noi ma anche in Francia e nel Regno Unito.
    Sulla base dei dati relativi al 2003, dei 30 paesi dell’OCSE, 17 utilizzano il modello di tassazione su base individuale, quattro utilizzano la tassazione su base puramente familiare (l’esempio più eclatante è la Francia), e due paesi soltanto utilizzano la tassazione familiare riservata ai redditi di capitale. In sette paesi al contribuente viene lasciata la facoltà di scelta tra i due sistemi.
    Nell’ambito della tassazione su base individuale, le agevolazioni inversamente correlate al reddito sono relativamente poco diffuse, però si stanno estendendo. In Italia negli ultimi anni sono stati utilizzati metodi di questo tipo, per cui possiamo dire che il ricorso a questo tipo di strumento si va estendendo.
    Nella maggior parte dei paesi, alle detrazioni-deduzioni – nell’ambito sia della tassazione familiare sia di quella individuale – si affiancano prestazioni di natura assistenziale, in particolare sotto forma di trasferimenti (assegni familiari). Fanno eccezione alcuni paesi che non prevedono alcun beneficio di questo tipo. In Messico e in Turchia, invece, non è prevista alcuna forma di sostegno pubblico alla famiglia, nè sotto forma di agevolazioni fiscali nè di trasferimenti. Tra il 1970 e il 1990 diversi paesi sono passati dalla tassazione su base familiare a quella individuale. Ciò è avvenuto perchè ci si è mossi verso una graduale riduzione nelle aliquote nominali dell’imposta personale sul reddito, con una conseguente attenuazione della progressività, il che ha reso meno significativo il vantaggio associato ad una tassazione su base familiare. Tanto più la scala della progressività dell’aliquota è ripida, tanto maggiore è il vantaggio che se ne trae.
    Se ci si muove in direzione di una riduzione del numero delle aliquote e di un ampliamento degli scaglioni, il vantaggio di questo tipo di tassazione rispetto a quella individuale si attenua. E’ una tendenza abbastanza comune che si riscontra in tutti i paesi.
    Negli anni più recenti, agli obiettivi di redistribuzione del reddito se ne sono affiancati altri, più mirati, come quello di attenuare il disincentivo all’ingresso nel mercato del lavoro per il coniuge, ovvero quello di concentrare le agevolazioni sulle famiglie con redditi più bassi. Ci si sta muovendo in direzione di una concentrazione delle risorse finalizzate ad una tutela della povertà. In termini quantitativi, un possibile indicatore della portata delle politiche fiscali di sostegno alle famiglie è rappresentato dalla differenza tra le aliquote medie di tassazione dei contribuenti senza coniuge e senza figli rispetto a quelle delle famiglie monoreddito con due figli calcolate per un reddito pari a quello medio di un lavoratore del settore manifatturiero. È evidente il vantaggio fiscale della famiglia monoreddito con due figli rispetto al contribuente non coniugato senza figli in diversi Paesi.
    In Germania e Belgio si ha un differenziale di aliquota media superiore a 20 punti percentuali; l’Italia si colloca in una posizione intermedia. Nel 1996, il guadagno in termini di aliquota di imposta era del 10 per cento mentre nel 2003, seguendo un andamento dapprima crescente e poi leggermente decrescente, arriviamo ad un differenziale di aliquota compreso tra il 12 e il 13 per cento.
    Analizzando nel dettaglio la situazione italiana, vediamo che inizialmente il legislatore, in materia di imposizione diretta, aveva scelto la tassazione familiare, introducendo già nel 1923 l’istituto del cumulo dei redditi ai fini dell’imposta complementare. Dopo la riforma fiscale dei primi anni Settanta venne introdotto il cumulo anche per l’imposta personale sui redditi, la vecchia IRPEF. Questa scelta fu abbandonata dopo la sentenza n. 179 del 15 luglio 1976 della Corte costituzionale e attualmente il regime tributario è imperniato sul principio della tassazione personale. Nell’ambito della predetta sentenza – è utile ricordarlo perchè spiega i motivi della crescita del vantaggio accordato alle famiglie – la Corte costituzionale esortò il legislatore ad apprestare un differente sistema di tassazione che agevolasse la formazione e lo sviluppo della famiglia e considerasse la posizione della donna casalinga e lavoratrice. Questo monito rimase a lungo inascoltato e nella sentenza n. 83 del 7 aprile 1983 la Corte costituzionale tornò sulla materia lamentando il perdurare delle sperequazioni a carico dei nuclei monoreddito. Nel 1990 l’Esecutivo fu delegato ad adottare un sistema di tassazione familiare ispirato all’esperienza francese del «quoziente familiare».
    La delega decadde alla fine del 1992 senza avere alcun seguito. Essa non trovò applicazione principalmente a causa del consistente impatto negativo sul gettito (stimato in 7.000 miliardi di lire dell’epoca) e del concentrarsi del vantaggio che ne sarebbe derivato sulle classi più abbienti, con problemi di iniquità verticale.
    Da allora, sulla base degli impulsi della Corte costituzionale, ma anche di altri organismi, numerose innovazioni sono state apportate in materia al fine di facilitare la famiglia. Ne è scaturita un’opera di rafforzamento dell’impianto delle detrazioni e dei sussidi. Tra il 1989 e il 1995 le detrazioni erano rimaste invariate in termini reali grazie all’introduzione di un meccanismo di recupero automatico del drenaggio fiscale ai fini dell’IRPEF. A partire dal 1996 la leva fiscale è stata orientata verso i contribuenti con redditi bassi e familiari a carico: le detrazioni per carichi familiari sono state aumentate e correlate inversamente al reddito; se ne è differenziata l’entità in relazione alla numerosità del nucleo di appartenenza; sono state previste misure ad hoc per figli di età inferiore a tre anni o disabili. Nel 2003 la legge delega per la riforma fiscale ha previsto, tra l’altro, che le attuali detrazioni vengano sostituite da deduzioni, concentrate sui redditi medio-bassi. La famiglia è stata definita «soggetto centrale, anche nell’economia fiscale».
    Purtroppo quella delega, nonostante la esplicita indicazione del Parlamento, è rimasta inattuata.
    Vediamo ora l’istituto degli assegni familiari e la sua evoluzione nel corso del tempo.
    Gli assegni familiari sono stati introdotti in Italia negli anni Trenta, contestualmente alla riduzione dell’orario lavorativo (da 48 a 40 ore), decisa allo scopo di ridurre la disoccupazione. Gli assegni familiari avevano l’obiettivo di contenere i disagi connessi alle diminuzioni salariali, soprattutto per le famiglie numerose. Essi erano finanziati con i contributi sociali a carico dei datori di lavoro. Con la riforma sono stati inglobati nel contributo pensionistico. L’introduzione di questo strumento di sostegno alle famiglie avvenne in un contesto molto diverso da quello attuale: il reddito pro capite era notevolmente inferiore e la natalità molto superiore; la spesa sociale aveva dimensioni relativamente modeste; la tassazione dei redditi coinvolgeva un numero limitato di contribuenti. I cambiamenti avvenuti in seguito hanno radicalmente mutato sia le esigenze che gli assegni familiari sono chiamati a soddisfare, sia gli strumenti utilizzabili per sostenere i carichi familiari. La prima modifica avvenne nel 1983 con l’introduzione degli assegni integrativi. Nel successivo quinquennio, da una situazione in cui prevalevano i flussi redistributivi orizzontali fra individui con un numero diverso di carichi familiari (orizzontale significa che, a parità di reddito, si cerca di dare un sostegno alle famiglie più numerose, a prescindere se siano più bisognose o meno), si è passati ad un’altra in cui predominava la redistribuzione verticale in favore dei soggetti con redditi bassi o medio-bassi.
    Varie sono state le innovazioni e le modifiche apportate proprio per ampliare l’importo degli assegni e per correlarli al reddito dei beneficiari. Attualmente, però, il sistema presenta alcune criticità, tra cui la non universalità dell’azione di sostegno. Gli assegni sono riservati solo ai lavoratori dipendenti, in quanto per i lavoratori autonomi esistono alcune controindicazioni o, perlomeno, sono necessarie alcune azioni specifiche.
    L’altra criticità è la graduazione dell’assegno in base ai redditi dichiarati, trascurando fenomeni di erosione ed evasione (l’unico modo di applicarlo è quello di basarsi su una autodichiarazione che spesso è difficile da verificare perchè richiederebbe oneri notevoli). Infine, – punto su cui probabilmente si può facilmente agire – vi è la presenza di punti di discontinuità negli importi rispetto al reddito, che origina fenomeni di «trappola della povertà», vale a dire quella condizione nella quale, una integrazione del reddito, realizzata magari con un lavoro part-time o in altri modi, porta al risultato di un reddito netto inferiore a quello di partenza, per cui viene meno l’interesse a cercare un altro lavoro. Questo problema può essere risolto avendo come utile punto di riferimento il metodo usato in Germania. Fino alla prima metà degli anni Ottanta vi è una sostanziale stazionarietà o forse una leggera tendenza flettente; si nota poi che dal 1995 il vantaggio a favore delle famiglie, in particolare della coppia monoreddito con due figli, aumenta in modo significativo. Il punto di picco è nel 2001, in corrispondenza della riduzione del carico fiscale per la coppia monoreddito con due figli.
    L’utilizzo di uno strumento in luogo di un altro determina effetti assai diversi. Gli aspetti che maggiormente rilevano nel giudicare questa tipologia di interventi sono la neutralità, l’equità, l’efficienza e il sostegno della natalità.
    La neutralità del sistema implica che la variabile fiscale non influisca sulle scelte individuali. Il regime del cumulo è stato descritto come una sorta di «tassa sul matrimonio» per l’effetto disincentivante nei confronti del matrimonio o, di contro, incentivante delle separazioni ai soli fini fiscali, e pertanto non era certamente neutrale.
    I metodi di tassazione per parti, per converso, influenzano positivamente la costituzione di unioni legali o di fatto, nei limiti in cui queste siano ammesse a fruire del beneficio. Il vantaggio nel metodo di tassazione per parti è tanto maggiore quanto più ampia è la differenza tra i due redditi. Infatti, più i redditi sono sperequati più la tassazione separata li avvantaggia. La tassazione separata è invece neutrale rispetto alle scelte personali non essendoci, ad esempio, alcun disincentivo al lavoro della donna che di solito è il coniuge più debole e più soggetto a questo tipo di effetti.
    Il sistema di tassazione sulla base del reddito familiare influenza l’offerta di lavoro del coniuge con il reddito più basso, generalmente la moglie. Il disincentivo al lavoro è strettamente correlato al livello dell’aliquota marginale che grava sul soggetto. In un sistema integrato di sussidi e tassazione, l’aliquota marginale dipende tanto dalla struttura impositiva quanto dalla presenza di sussidi commisurati al reddito. Quindi contano entrambi, sia il regime di tassazione che il sistema di sostegno dei redditi dal lato della spesa. Il tasso di partecipazione femminile al lavoro risente fortemente del carattere progressivo dell’imposta. Il cumulo e la tassazione per parti tendono ad esercitare un disincentivo al lavoro femminile, che cresce all’aumentare delle disparità di guadagno. Relativamente ai problemi di equità, va rilevato che lo splitting e il cumulo consentono di parificare, a parità di reddito, il trattamento dei nuclei monoreddito e bireddito. Ciò è abbastanza evidente perchè, a parità di reddito, l’imposta pagata è la medesima e quindi il reddito netto è lo stesso. La tassazione separata, in genere, accorda un vantaggio alle coppie bireddito rispetto a quelle monoreddito: si configura una forma implicita di riconoscimento di maggiori costi di gestione familiare sostenuti dalle coppie bireddito. È vero infatti che vi è un secondo reddito, ma occorre considerare che in questo caso i nuclei familiari devono farsi carico di altri tipi di spesa come, ad esempio, quella per una collaboratrice domestica, altrimenti la donna è sottoposta ad un lavoro più pressante. Quindi, se il legislatore opera questa scelta, l’ipotesi implicita è il riconoscimento di questo aspetto. Con la tassazione separata, l’imposta complessiva a carico della coppia dipende dalla ripartizione del reddito tra i coniugi e cresce con l’aumentare del livello di concentrazione dei redditi in capo ad un coniuge. In termini di efficienza, il sistema di imposizione deve evitare fenomeni di «trappola della povertà», cioè di dare benefici che finiscono con il far venir meno l’incentivo ad impegnarsi a guadagnare redditi aggiuntivi per portarsi al di fuori dell’area di assistenza da parte dello Stato. Il sistema dovrebbe quindi essere rivolto alla generalità delle persone che si trovano in condizioni di effettivo bisogno e non deve comportare sprechi di risorse destinando benefici a coloro che non hanno i presupposti per averli. Si tratta pertanto di concentrare e migliorare l’intervento nei confronti di coloro che hanno un effettivo bisogno. Un sistema efficiente non deve poi discriminare tra tipologie di lavoratori ma tra condizioni economiche dei nuclei familiari; sempre che, con riferimento al lavoro autonomo, siano soddisfatte alcune condizioni.
    Relativamente al sostegno della natalità, un trattamento di favore delle famiglie parte dal presupposto della contrazione della capacità di spesa in presenza di componenti a carico. Nell’ambito dei metodi di tassazione per parti, il quoziente familiare consente di valorizzare (è il caso del sistema francese) la presenza di altri componenti diversi dai coniugi. In sostanza, si assume che i bisogni aumentino con l’ampliamento del nucleo, anche se in misura meno che proporzionale.
    In Francia, il sistema è stato introdotto nella seconda metà degli anni Quaranta ed è stato successivamente modificato. Nel 1982, per rafforzare gli incentivi in favore della natalità, il coefficiente previsto per i figli successivi al secondo è stato portato a 1, mentre per i primi due è rimasto dello 0,5. In sostanza, in una visione di economia di scala, se un coniuge vale 1, l’altro coniuge vale 1 e i primi due figli valgono 0,5 ai successivi dovrebbe essere riconosciuto un valore inferiore, magari pari a 0,25. Tuttavia, poiché la Francia ha un tasso di natalità prossimo a due ma comunque inferiore (1,76), lì l’obiettivo è di spingere verso il terzo figlio. L’Italia invece ha il problema di favorire la nascita del secondo figlio.
    Guardando all’andamento del tasso di natalità della Francia, si riscontra che, seppure in declino dalla seconda metà degli anni Sessanta come negli altri paesi europei, il tasso risulta leggermente superiore e in ripresa rispetto a quello medio europeo, con qualche cifra che farebbe addirittura sperare in un’inversione di tendenza. Inoltre, il divario rispetto alla media dei paesi in cui la tassazione della famiglia è meno favorevole, si sta ampliando.
    La Francia, che pure partiva da posizioni migliori grazie ad un più favorevole trattamento fiscale del nucleo familiare, pur registrando un declino nelle nascite ha visto aumentare il divario rispetto agli altri Paesi che non hanno un sistema fiscale altrettanto favorevole alla famiglia.
    Osservando i dati relativi agli ultimi tempi, che pure sono piuttosto oscillanti, si può sperare in un’inversione di tendenza, soprattutto se si considerano periodi abbastanza lunghi come un quinquennio, onde evitare problemi di carattere statistico. Ad esempio, nel quinquennio 1990-1995 il tasso di natalità era dell’1,71, nel quinquennio successivo è passato all’1,76. E’ un dato che, ripeto, fa sperare in un’inversione di tendenza. Certamente il trattamento fiscale della famiglia non è l’unico elemento che influisce sul tasso di natalità. I servizi sociali di certo sono importanti; anche nel Regno Unito e in Germania, paesi che presentano alcune similitudini sono stati avviati processi di riforma delle politiche fiscali e di sicurezza sociale mirati a promuovere una maggiore redistribuzione a favore delle fasce di reddito più basse, incentivando nel contempo l’offerta di lavoro. Per la realizzazione di questi obiettivi, apparentemente contrastanti, si è fatto ricorso ad un insieme di strumenti: da un lato, si è rafforzato il ricorso ai benefici mirati alle classi di reddito effettivamente bisognose (assegni familiari); dall’altro, per attenuare le distorsioni legate a questo tipo di agevolazioni (ad esempio, il disincentivo al lavoro), sono stati introdotti appositi correttivi alla detrazione per carichi familiari. La detrazione per carichi familiari è stata divisa in due parti: la prima riguarda specificamente i redditi da lavoro dipendente, la seconda è concessa in relazione al numero di figli a carico e riconosciuta a tutti i contribuenti, indipendentemente dal tipo di reddito percepito di lavoro dipendente o di altra natura).
    In Germania, dal 1996 vige un meccanismo di complementarietà tra le deduzioni fiscali e i trasferimenti per i figli. A tutte le famiglie viene erogato mensilmente un assegno per i figli, di ammontare più elevato a partire dal quarto figlio (non si tratta sicuramente di un incentivo alla natalità perchè la Germania, sebbene abbia un tasso di natalità – 1,34 nel quinquennio 1995-2000 – che è inferiore a quello della Francia ma superiore al nostro, ha più che altro un problema di povertà). I benefici non sono cumulabili: alla famiglia viene dato il maggiore tra l’importo dell’agevolazione derivante dalla deduzione e quello degli assegni. Il sistema è stato congegnato molto bene, perchè con esso gli assegni familiari tutelano le classi di reddito più basse, mentre le famiglie con reddito più elevato utilizzano le deduzioni fiscali.
    Per quanto riguarda l’Italia, l’idea di introdurre il quoziente familiare è tornata di attualità dopo l’avvio del primo modulo della riforma. Da più parti è stata invocata una tutela della famiglia più efficace, anche sotto il profilo fiscale: l’introduzione della no tax area infatti penalizza i nuclei monoreddito rispetto a quelli bireddito (i nuclei bireddito beneficiano due volte della no tax area).
    Va pure considerato, però, che la tendenza all’«appiattimento» della struttura dell’imposizione personale, derivante dalla riduzione del livello delle aliquote e del numero degli scaglioni, diminuisce i potenziali vantaggi dei sistemi di tassazione su base familiare.
    Nel contesto attuale, il sostegno fiscale alle famiglie può essere adeguatamente realizzato mediante un insieme di strumenti che faccia riferimento alla tassazione individuale.
    In linea con l’esperienza di altri Paesi, la modifica del trattamento fiscale della famiglia dovrebbe collocarsi nell’ambito di una revisione coordinata del sistema fiscale e delle politiche di sostegno alle fasce più deboli.
    Quindi, si deve collegare questa riforma a quella degli assegni familiari, cercando di superare le attuali criticità del sistema di protezione sociale laddove i benefici improvvisamente si perdono per un aumento del reddito magari di poco significato. Occorre dare priorità in modo innovativo al sostegno alla natalità perchè la nostra situazione è fortemente negativa, e lo è in misura superiore rispetto a quella di altri Paesi, che forse dovremmo privilegiare più di altri questo aspetto.
    Occorre ripensare alla qualità degli strumenti, cercando di adattarli il più possibile alla situazione, valutando anche il costo relativo di ciascuna misura.
    La prima misura che non costa è ripristinare il soggetto unico di imposta nella famiglia; misura che dovremmo attuare immediatamente superando l’attuale separazione che non aiuta certo l’effettuazione delle scelte. Una particolare attenzione va rivolta alle spese che la famiglia sostiene per la luce e l’assistenza di componenti disabili.
    È sulla famiglia infatti che grava, soprattutto in Italia, il maggior carico dell’assistenza del disabile ed è il nucleo familiare a fronteggiare quotidianamente le necessità e i bisogni che derivano dalle condizioni di non autosufficienza di un suo componente. Sono circa 2.400.000 le famiglie con almeno una persona disabile (pari all’11 per cento delle famiglie), oltre un quarto di esse è composto da una persona sola e un 10 per cento è composto da monogenitori.
    Non si può non partire da una comparazione tra le riforme varate nel 1997 e nel 2001 dal governo di centrosinistra e quella realizzata dal governo Berlusconi, con l’atuazione del primo e del secondo modulo della riforma fiscale voluta dal ministro Tremonti.
    Si è giunti a tale stato di cose anche per effetto della riforma fiscale proposta dall’ex ministro delle finanze Visco che, nella rimodulazione della curva delle imposte sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) come determinata dal decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, ha colpito pesantemente i redditi più bassi, portando l’aliquota dal 10 al 19 per cento per il primo scaglione di reddito, ha alzato le aliquote intermedie e ha innalzato dal 40 al 46 per cento l’aliquota per i redditi da oltre 135 milioni, colpendo pesantemente il ceto medio.
    Le aliquote IRPEF per scaglione di reddito in base al citato decreto legislativo n. 446 del 1997 risultavano infatti essere le seguenti:
        – fino a lire 15 milioni 18,5 per cento;
        – oltre lire 15 milioni e fino a lire 30 milioni 26,5 per cento;
        – oltre lire 30 milioni e fino a lire 60 milioni 33,5 per cento;
        – oltre lire 60 milioni e fino a lire 135 milioni 39,5 per cento;
        – oltre lire 135 milioni 45,5 per cento.
    Con la legge finanziaria, per il 2001 oltre alle modifiche apportate con il decreto-legge 30 settembre 2000, n. 268, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2000, n. 354, viene proposta una nuova struttura delle aliquote e degli scaglioni da applicare ai redditi del 2001, che risulta così configurata:
        – fino a lire 20 milioni 18 per cento;
        da lire 20 milioni a lire 30 milioni 24 per cento;
        – da lire 30 milioni a lire 60 milioni 32 per cento;
        – da lire 60 milioni a lire 135 milioni 39 per cento;
        – oltre lire 135 milioni 45 per cento.
    Tutto ciò rappresenta certo un’inversione di tendenza che riteniamo tuttavia insufficiente a ridurre significativamente la pressione fiscale sulle famiglie che hanno bisogno di interventi di ben altra portata.
    Con la legge finanziaria 2004 è stato realizzato il secondo modulo della riforma fiscale del governo Berlusconi, modificando ulteriormente gli scaglioni di imposta. La delega per la riforma del sistema fiscale statale definitivamente approvata dal Parlamento nel 2003 (legge 7 aprile 2003, n. 80) prevedeva in relazione alla riforma dell’imposta sul reddito:
    – la riduzione a due del numero delle aliquote, in prospettiva rispettivamente nella misura del 23 e del 33 per cento;
    – l’individuazione, in funzione della soglia di povertà, di un livello di reddito minimo personale escluso da imposizione, tenendo conto delle condizioni familiari (cosiddetta no tax area) del contribuente, al fine di garantire la progressività dell’imposta.
    – un nuovo sistema di determinazione dell’imponibile e di calcolo dell’imposta, caratterizzato dalla progressiva sostituzione delle detrazioni con deduzioni;
    – la concentrazione delle deduzioni sui redditi bassi e medi in modo da garantire la progressività dell’imposizione;
    – l’articolazione delle deduzioni in relazione a specifici valori e finalità (tra gli altri, presenza di un unico reddito nell’ambito del nucleo familiare, attività giovanili, casa, sanità e istruzione);
    – un nuovo regime fiscale per i redditi di natura finanziaria;
    – individuazione, in relazione alla previsione di un regime fiscale di favore da applicare sulla parte di retribuzione, o compenso, commisurata ai risultati dell’impresa, dell’obiettivo di favorire la diffusione di sistemi retributivi flessibili, finalizzati a rendere i lavoratori partecipi dell’andamento economico dell’impresa.
    In conclusione, sono interventi correttivi che hanno portato alla diminuzione delle aliquote intermedie e rappresentano misure assistenziali rispetto a un progetto strategico che – come noi riteniamo – debba essere in grado di favorire una autentica politica per la famiglia che non può essere affidata a misure estemporanee, confondendo le politiche assistenziali con le politiche familiari, ma richiede interventi seri, profondi, in grado di consentire la diffusione e la crescita della famiglia, così come afferma il dettato costituzionale. Uno degli interventi più urgenti per la piena applicazione dei principi costituzionali relativi alla tutela della famiglia riguarda il trattamento tributario. Infatti, l’articolo 31 della Carta costituzionale si pone come preciso indirizzo di politica legislativa per incoraggiare i cittadini nel momento in cui formano una famiglia.
    Rispetto a un sistema di tassazione che privilegia le spinte individualistiche preferiamo un sistema fiscale che tassi la famiglia nella sua entità. Ciò può essere agevolmente e concretamente realizzato attraverso il sistema del quoziente familiare, e dunque la divisione del reddito per il numero dei componenti della famiglia. Si prevede dunque l’applicazione al reddito complessivo del nucleo familiare di una aliquota ricavata sulla base di un sistema di «quoziente familiare»: il reddito complessivo è diviso per il numero di parti risultante dall’attribuzione a ciascun componente del nucleo di un coefficiente variabile da 1 a 0,3 a seconda del rapporto di coniugio, parentela, affinità e del numero totale dei componenti del nucleo familiare; ciò permette di ottenere un reddito figurativo medio di ciascun componente del nucleo familiare in rapporto al quale è determinata l’aliquota da applicare al reddito complessivo della famiglia. Tale meccanismo è ispirato al sistema francese in materia di tassazione del reddito familiare. È evidente che tale sistema non è obbligatorio per tutti, ma debba essere prevista la facoltà di optare per il nuovo sistema di tassazione su base familiare in alternativa all’attuale regime su base individuale.
    Nessuna coercizione, ma libertà di scelta. I due sistemi possono e devono coesistere e la convenienza dei contribuenti verso il nuovo regime si sarebbe realizzata solo in presenza di un risparmio di imposta rispetto alla tassazione su base individuale. Siamo dunque ben lontani dalla impostazione dell’ex ministro delle finanze Visco che, violando precise disposizioni di legge (legge 13 aprile 1977, n. 114), ha abolito pretestuosamente con il modello unico anche la possibilità di presentare la dichiarazione congiunta dei coniugi. È stato cancellato il principio della tassazione congiunta nel quale la famiglia veniva riconosciuta come entità economica fondamentale. Nè abbiamo avuto fiducia sulla possibilità che l’ultimo Ministro dell’economia e delle finanze potesse ripristinare tale facoltà.
    Il regime della tassazione separata, introdotto a decorrere dalla dichiarazione dei redditi presentata nel 1998 con il modello UNICO, sancisce di fatto la irrilevanza fiscale dell’istituto familiare, in quanto soggetto passivo di imposta è soltanto colui il quale ha la titolarità giuridica del reddito prodotto.
    Conseguentemente, a parità di reddito complessivo del nucleo familiare e in particolare dei due coniugi, la diversa distribuzione dei redditi in capo ai vari titolari comporta una differente onerosità del tributo a causa del meccanismo della progressività delle aliquote. Il massimo grado dell’onere fiscale si verifica nel caso della famiglia monoreddito, mentre tende a ridursi progressivamente quanto più il reddito è ripartito tra i diversi componenti il nucleo familiare; si verifica un sensibile temperamento della progressività dell’imposta e, in particolare, tale attenuazione è più accentuata per i redditi medio-alti. In definitiva si privilegia la famiglia già formata piuttosto che quella da formare. Tale situazione si è aggravata con la nuova curva delle aliquote operata dall’ex ministro delle finanze Visco.
    La legge finanziaria per il 2001 con le risorse finanziarie disponibili poteva certamente affrontare il problema del trattamento fiscale della famiglia in termini nuovi e diversi e comunque tali da determinare orizzonti di crescita e non di impoverimento demografico.
    La questione del costo dei figli è affrontata in modo residuale, destinando a tale obiettivo solo «briciole» e non le risorse indispensabili per fare crescere la società. La variazione di gettito prodotta dal passaggio da una tassazione IRPEF individuale a una tassazione di tipo splitting familiare, intendendosi come famiglia fiscale il nucleo composto dal percettore di reddito, dai figli e da altri familiari fiscalmente a carico, presuppone l’eliminazione delle detrazioni del coniuge a carico e, secondo una simulazione della Società generale d’informatica (SOGEI), interesserebbe 11 milioni di famiglie fiscali con un vantaggio medio di 1,2 milioni di lire per famiglia, naturalmente con differenziazioni rispetto agli scaglioni di reddito.
    Un’altra questione che merita la necessaria attenzione è il contrasto di interesse: questione che è stata sottovalutata in questi cinque anni di politica tributaria. Certo diviene difficile avere risultati nella lotta all’evasione fiscale se la misura percentuale degli interessi detraibili viene ridotta dal 27 per cento degli anni scorsi fino all’attuale 19 per cento, in misura inferiore all’imposta sul valore aggiunto (IVA) che il cittadino dovrebbe pagare a fronte di operazioni fiscali. Se si vuole percorrere tale indirizzo è necessario riportare le detrazioni fiscali in misura conveniente all’emersione di operazioni che in caso contrario rimarrebbero nascoste al fisco.
    L’articolo 1 contiene le norme più significative, recando disposizioni sul quoziente familiare di diretta derivazione dalla vigente disciplina del Code général des impôts francese. Con tale articolo sono dettate disposizioni intese alla determinazione del reddito di ciascun nucleo familiare attraverso il sistema del quoziente familiare, che è adottato in molte legislazioni europee particolarmente sensibili all’istituto familiare e, quindi, a un sistema tributario che privilegia e agevola i coniugi ai fini della determinazione del reddito. In particolare il reddito complessivo viene diviso per un coefficiente prestabilito, consentendo l’applicazione di una aliquota fiscale più favorevole, rispetto alla vigente normativa. L’introduzione di tale metodologia, inoltre, impone il superamento del sistema di deduzioni per carichi di famiglia previsti dalla vigente disciplina.
    L’articolo 2 contiene una serie di modifiche al sistema delle detrazioni per oneri di cui all’articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni. In particolare l’innovazione legislativa prevede l’elevazione dal 19 al 27 per cento della percentuale dell’imposta lorda detraibile. Tale elevazione si rende necessaria oltre che per ripristinare il livello della detrazione prima della manovra fiscale di questi ultimi anni, anche per consentire una più forte azione di contrasto di interessi che è oggi vanificata da una percentuale che è inferiore all’aliquota normale dell’IVA. Viene poi previsto l’incremento dell’attuale limite di 1.250 euro a 2.500 di detraibilità per i premi di assicurazione e quello previsto per gli interessi pagati sui mutui immobiliari per l’acquisto della casa destinata ad abitazione che viene raddoppiato passando da 7 milioni di lire a 7.000 euro; sono previste inoltre norme per la detassazione delle spese sostenute dalle famiglie per l’istruzione secondaria e universitaria al fine di favorire una più ampia libertà di scelta educativa. Viene poi introdotta una norma del tutto innovativa per le spese sostenute dai nubendi nel momento più impegnativo di costruzione della nuova famiglia. Si conferma inoltre la agevolazione fiscale per le spese sostenute per assistenza e cura attraverso l’impiego di personale specializzato.
    Con l’articolo 3 è confermata la facoltà dei coniugi non legalmente ed effettivamente separati di presentare su un unico modello la dichiarazione dei redditi, consentendo i versamenti e le compensazioni relativamente alle imposte sui redditi.
    L’articolo 4 prevede la disposizione di copertura degli oneri.
 

DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Determinazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche per nucleo familiare)


    1. All’articolo 12 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, i commi 1, 2, 3 e 4 sono abrogati.
    2. Ai fini del calcolo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) di ciascun nucleo familiare, la base imponibile è determinata sommando i rispettivi redditi, al netto degli oneri deducibili di cui agli articoli 10 e 12, comma 4-bis, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n.  917 del 1986, e successive modificazioni, divisi per:
        a) 1, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe, divorziato o vedovo, senza figli;
        b) 2, qualora il nucleo familiare sia composto dai coniugi, senza figli;
        c) 1,5, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe o divorziato, con un figlio;
        d) 2,5, qualora il nucleo familiare sia composto dai coniugi, ovvero da un solo coniuge vedovo, con un figlio a carico;
        e) 2, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe o divorziato, con due figli a carico;
        f) 3, qualora il nucleo familiare sia composto dai coniugi, ovvero da un coniuge vedovo, con due figli a carico;
        g) 3, qualora il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe o divorziato, con tre figli a carico;
        h) 4, qualora il nucleo familiare sia composto dai coniugi, ovvero da un coniuge vedovo, con tre figli a carico;
        i) il coefficiente previsto alla lettera g) cui va aggiunta un’unità per ogni figlio a carico successivo al quarto qualora il nucleo familiare sia composto da un solo individuo, celibe o divorziato, e da un numero di figli a carico superiore a quattro;
        l) il coefficiente previsto alla lettera h) cui va aggiunta un’unità per ogni figlio a carico successivo al terzo qualora il nucleo familiare sia composto dai coniugi, ovvero da un coniuge vedovo, e da un numero di figli a carico superiore al tre.
    3. Ai fini del calcolo della base imponibile di cui al comma 2, i valori dei coefficienti individuati nel medesimo comma sono aumentati:
        a) di 0,5 per ciascun figlio portatore di handicap ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104;
        b) di 0,2 per ciascun figlio di età inferiore a tre anni;
        c) di 0,5 per ogni altra persona a carico, diversa dai figli, indicata all’articolo 433 del codice civile che conviva con il contribuente o percepisca assegni alimentari non risultanti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
    4. Alla base imponibile determinata ai sensi dei commi 2 e 3, al netto della deduzione di cui all’articolo 11 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n.  917 del 1986, e successive modificazioni, sono applicate le aliquote di cui all’articolo 13 del medesimo. L’imposta lorda sul reddito complessivo del nucleo familiare è ottenuta moltiplicando il valore determinato ai sensi del primo periodo del presente comma per il medesimo coefficiente utilizzato per determinare la base imponibile ai sensi dei commi 2 e 3 del presente articolo.


Art. 2.
(Modifiche alla disciplina delle detrazioni
di cui all’articolo 5 del testo unico
delle imposte sui redditi)


    1. All’articolo 15, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
        a) all’alinea, le parole: «un importo pari al 19 per cento» sono sostituite dalle seguenti: «un importo pari al 27 per cento»;
        b) alla lettera a), primo periodo, le parole: «non superiori a 7 milioni di lire» sono sostituite dalle seguenti: «non superiore a 7.000 euro»;
        c) la lettera e) è sostituita dalla seguente:
        «e) le spese per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, comprese quelle relative all’acquisto dei testi scolastici, per un importo complessivamente non superiore a 5.160 euro;»;
        d) alla lettera f), le parole: «non superiori a lire 2 milioni e 500 mila» sono sostituite con le seguenti: «non superiore a 2.500 euro»;
        e) dopo la lettera i-quater, è aggiunta la seguente:
    «i-quinquies) le spese sostenute in occasione del matrimonio nel semestre antecedente e nel semestre successivo alla data di celebrazione del medesimo per un importo complessivamente non superiore a 30 mila euro. Tra tali spese rientrano, oltre a quelle relative all’organizzazione della cerimonia nuziale, secondo gli usi prevalenti, anche quelle sostenute per la predisposizione e l’arredamento della abitazione in cui i nubendi hanno fissato la propria residenza. Detta detrazione è ripartita in quote costanti nell’anno in cui sono state sostenute le spese e nei quattro periodi d’imposta successivi.».
    2. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabilite le modalità di attuazione delle disposizioni recate all’articolo 15, comma 1, lettera i-quinquies), del citato testo unico, introdotta dal comma 1, lettera e), del presente articolo.


Art. 3.
(Presentazione della dichiarazione
dei redditi)


    1. All’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, dopo il terzo comma, è inserito il seguente:
    «È in facoltà dei coniugi non legalmente ed effettivamente separati presentare su unico modello la dichiarazione unica dei redditi di ciascuno di essi, compresi quelli di cui all’articolo 4, primo comma, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597, e successive modificazioni. Ai fini del presente comma si applicano le disposizioni di cui all’articolo 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, e successive modificazioni. Nel caso di cui al presente comma, i versamenti unitari e le compensazioni di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, si riferiscono esclusivamente alle imposte sui redditi».


Art. 4.
(Copertura finanziaria)


    1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, valutato in 7 miliardi di euro, si provvede ai sensi dell’articolo 1, comma 4, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, con le maggiori entrate contabilizzate e derivanti dalla lotta all’evasione fiscale.

32 28/04/06 Sen EUFEMI Maurizio

Disposizioni in materia di polizia locale

———–

 

 Il presente progetto di legge recupera il testo unificato delle proposte di legge n.2, di iniziativa popolare e abbinate, licenziato dalla Commissione permanente Affari Costituzionali della Camera dei deputati.

Rappresenta l'esito di un lungo lavoro volto dalla stessa commissione avviato fin dal luglio 2002 e finalizzato essenzialmente ad individuare gli ambiti di competenza legislativa statale in materia, come definiti a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione.

Si tratta ora di riprendere il lavoro già svolto dando le indispensabili risposte alle attese, che non possono andare deluse, di questo importante comparto.

Va ricordato in proposito che, prima della riforma costituzionale del 2001, la « polizia locale, urbana e rurale » costituiva materia di competenza legislativa regionale concorrente per le regioni a statuto ordinario. Nel vigente testo dell’articolo 117, l’espressione « polizia locale, urbana e rurale » non e` piu` presente e si fa invece riferimento – al secondo comma della lettera h) – alla « polizia amministrativa locale », per sottrarla alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza. Conseguentemente, e` da ritenersi che la « polizia amministrativa locale » rientri tra le materie di competenza regionale, dato che l’articolo 117, quarto comma, nel testo vigente, assegna « alle Regioni la potesta` legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato ».

Va ricordato, in proposito, che il testo di riforma costituzionale approvato definitivamente dai due rami del Parlamento riserva espressamente alla potesta` legislativa esclusiva delle regioni la disciplina della « polizia amministrativa regionale e locale ». La riforma costituzionale ha, quindi, determinato un netto restringimento dell’ambito di intervento del legislatore statale che, tuttavia, pur non potendo piu` dettare norme di principio in materia di polizia amministrativa locale, conserva la possibilita` di intervenire sulle funzioni di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza che – attualmente in via ausiliaria e non istituzionale – sono attribuite al personale appartenente alla polizia locale. Cio` in forza della potesta` legislativa esclusiva di cui lo Stato gode in materia di « giurisdizione, norme processuali e ordinamento penale », ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, oltre che – come si e` detto – in materia di ordine pubblico e sicurezza.

Spetta, inoltre, al legislatore statale la disciplina dell’uso delle armi, attesa la competenza esclusiva allo stesso riconosciuta in materia di « armi, munizioni ed esplosivi » dalla lettera d) del citato secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione. E`, dunque, in questo ambito di competenza del legislatore statale che si inserisce la proposta di legge elaborata dalla Commissione Affari costituzionali, la quale si compone di soli quattro articoli. L’articolo 1 modifica l’articolo 57, comma 1, del codice di procedura penale al fine di includere tra gli ufficiali di polizia giudiziaria, oltre ai soggetti ivi gia` previsti, anche gli ufficiali ed i sottufficiali di polizia locale. Inoltre, modificando la lettera b) del comma 2 del medesimo articolo 57, si stabilisce che siano agenti di polizia giudiziaria gli agenti di polizia locale.

Si ricorda in proposito che la vigente disposizione attribuisce tale qualifica, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza, alle guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio. L’articolo 2 reca alcune modifiche alla legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale (legge 7 marzo 1986 n. 65). In primo luogo viene modificato il comma 5 dell’articolo 5, che reca disposizioni in materia di porto delle armi da parte degli addetti al servizio di polizia municipale. La normativa vigente prevede che gli addetti al servizio di polizia municipale possono portare le armi solamente previa deliberazione del consiglio comunale e limita tale possibilita` di portare le armi all’ambito territoriale dell’ente di appartenenza ed ai casi previsti dall’articolo 4 della medesima legge.

Con le modifiche proposte si prevede, invece, che gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali, e` conferita la qualita` di agente di pubblica sicurezza portino, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio, nei termini e nelle modalita` previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio. In secondo luogo si propone di inserire un nuovo articolo 5-bis, che disciplina la dotazione delle armi agli addetti alla polizia locale ai quali e` conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza, prevedendo che tale arma sia la pistola semiautomatica o la pistola a rotazione, i cui modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui all’articolo 7 della legge 18 aprile 1975, n. 110.

Si prevede, inoltre, che il modello, il tipo ed il calibro di queste armi siano determinati con regolamento dell’ente di appartenenza, e che gli addetti alla polizia locale possano comunque essere dotati di una serie di armi, tipizzate al comma 3. L’articolo in esame aggiunge inoltre alla legge n. 65 del 1986 un nuovo articolo 7-bis, relativo all’area di contrattazione collettiva per il personale dei corpi di polizia locale. In particolare, si prevede che il contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dei corpi di polizia locale e` stipulato nell’ambito di un’apposita area di contrattazione, alla quale sono ammesse le organizzazioni sindacali del medesimo personale aventi una rappresentativita` non inferiore al 5 per cento, considerando a tale fine il dato associativo espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito del personale considerato. L’articolo 3 apporta modifiche alla legge 1o aprile 1981, n. 121 (nuovo ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza). Viene innanzitutto esteso agli ufficiali di polizia giudiziaria l’accesso ai dati ed alle informazioni conservati negli archivi automatizzati del Centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’interno e la loro utilizzazione, previsto dall’articolo 9 della predetta legge. In secondo luogo, si propone di modificare l’articolo 16 della medesima legge nel senso di prevedere che siano forze di polizia, fermi restando i rispettivi ordinamenti locali e dipendenze locali, anche le forze di polizia locale. Da ultimo, a seguito del parere favorevole espresso dalla V Commissione (Bilancio), la Commissione ha introdotto l’articolo 4 che, recependo un’apposita condizione posta dalla stessa Commissione Bilancio ai sensi dell’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ha inteso specificare che all’attuazione della legge in esame si provvede nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio dello Stato e degli enti interessati e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

DISEGNO DI LEGGE

ART. 1.

(Modifiche all’articolo 57 del codice di procedura penale).

 

1. All’articolo 57 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, dopo la lettera b), e` inserita la seguente: « b-bis) gli ufficiali e i sottufficiali di polizia locale »;

b) al comma 2, lettera b), le parole: « , nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza, le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio » sono sostituite dalle seguenti: « gli agenti di polizia locale ».

ART. 2.

(Modifiche alla legge 7 marzo 1986, n. 65).

 

1. Alla legge 7 marzo 1986, n. 65, sono apportate le seguenti modificazioni:

 a) all’articolo 5, comma 5, primo periodo, le parole: « possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalita` previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio, purche´ nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei casi di cui all’articolo 4 » sono sostituite dalle seguenti: « portano, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e con le modalita` previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio »;

 

 b) all’articolo 5, comma 5, terzo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole « , fermo restando quanto disposto dall’articolo 5-bis »;

 

 c) dopo l’articolo 5 e` inserito il seguente: « ART. 5-bis. – (Armi in dotazione agli addetti alla polizia locale ai quali e` conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza).

1. L’arma in dotazione agli addetti alla polizia locale ai quali e` conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza e` la pistola semi-automatica o la pistola a rotazione, i cui modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui all’articolo 7 della legge 18 aprile 1975, n. 110.

2. Il modello, il tipo ed il calibro delle armi di cui al comma 1 sono determinati con regolamento dell’ente di appartenenza, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.

3. Gli addetti alla polizia locale possono comunque essere dotati:

a) della sciabola per i soli servizi di guardia d’onore in occasione di feste o di funzioni pubbliche;

b) di un’arma lunga comune da sparo;

c) di ausili tattico difensivi a basso deterrente visivo; d) del bastone estensibile; e) dello spray antiaggressione a base di peperoncino naturale »;

 

d) dopo l’articolo 7 e` inserito il seguente: « ART. 7-bis. – (Area di contrattazione collettiva per il personale dei corpi di polizia locale). – 1. Il contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale dei corpi di polizia locale e` stipulato nell’ambito di un’apposita area di contrattazione, alla quale sono ammesse le organizzazioni sindacali del medesimo personale aventi una rappresentativita` non inferiore al 5 per cento, considerando a tale fine il dato associativo espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito del personale considerato ».

 

ART. 3.

(Modifiche alla legge 1o aprile 1981, n. 121).

 

 

1. Alla legge 1o aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

 

a) all’articolo 9, primo comma, dopo le parole: « agli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti alle forze di polizia, » sono inserite le seguenti: « agli ufficiali di polizia locale, »;

 

b) all’articolo 16, al primo comma, sono apportate le seguenti modificazioni:

1) all’alinea, le parole: « i rispettivi ordinamenti e dipendenze » sono sostituite dalle seguenti: « i rispettivi ordinamenti statali o locali e dipendenze statali o locali »;

2) alla lettera b), dopo le parole: « guardia di finanza » sono inserite le seguenti: « e la polizia locale ».

 

ART. 4.

(Disposizioni finanziarie).

 

1. All’attuazione della presente legge si provvede nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio dello Stato e degli enti interessati e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

  28/04/06 Sen EUFEMI Maurizio

 

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